Il nuovo numero di LibMagazine è on line. Si tratta di una "Summer Edition". Un numero ricco prima della sospensione delle pubblicazioni per l'intero mese di agosto. In apertura l'importante contributo di Emanuele Ottolenghi sul Medio Oriente (in lingua inglese): "Arab freedom can be delayed, not denied".
Irriverente la letterina di Carlo Menegante: «Caro Direttore, il sito dei Radicali Italiani riportava la seguente nota: "La Bonino ha spiegato che renderà note domani le motivazione della sua discesa in campo: il ministro non vuol sentire parlare di ticket o di tandem e ha chiesto ai radicali di trovare una formula innovativa". Io la vedrei bene nel ruolo di badante».
Di seguito, invece, il mio articolo:
Francesco Rutelli, sulle pagine del Corriere della Sera, si chiede se la sinistra massimalista voglia «concorrere a governare il Paese», oppure preferisca «sventolare le sue bandiere». La domanda è mal posta, perché i massimalisti hanno già risposto: vogliono concorrere a governare, ovviamente, ma deviando l'azione di governo nel loro solco ideologico. A questo punto spetta ai cosiddetti "riformisti", ai promotori del Partito democratico, dare una risposta e agire di conseguenza: quale modello di società hanno in mente per il futuro del nostro Paese? E' il medesimo al quale si rifanno i massimalisti? Le divergenze riguardano solo il gradualismo, i tempi e i modi di realizzazione, oppure la meta, e quindi la direzione di marcia, sono diverse, alternative incompatibili?
Consapevole che «la rendita anti-Berlusconi è finita», Rutelli avverte che il Pd «non può essere una sorta di "piccola Unione", né un campionario delle culture "ex"» (Dc e Pci). E «che facciamo a fare il Partito democratico», si chiede, se dovrà subire i «ricatti delle minoranze»? Il vicepremier parla quindi di «alleanze di nuovo conio»: alleati e alleanze d'ora in poi «li scegliamo noi». Rutelli sembra intenzionato a voler mettere finalmente in discussione il tabù del patto politico-elettorale con l'estrema sinistra (Rifondazione, Pdci, forse Verdi), delineando la prospettiva di un Partito democratico che si presenti davanti agli elettori come forza capace di assumere autonomamente le responsabilità del governo.
Chissà cosa ne pensa Walter Veltroni, che lo stesso Rutelli appoggia come candidato leader del Pd. Nel suo discorso di candidatura il sindaco di Roma aveva attribuito al nascente partito «un'ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria». Non autosufficiente e maggioritario, all'interno del centrosinistra, è già l'Ulivo e ne sperimentiamo giorno dopo giorno i disastrosi risultati.
Su LibMagazine lo avevamo scritto (3 luglio 2007): a due condizioni il Partito democratico può rappresentare davvero una novità nel sistema politico italiano. Innanzitutto, serve una legge elettorale che assecondi la naturale «vocazione maggioritaria» del Pd. Tuttavia, né la candidatura di Veltroni, con la sua «democrazia che decide», né il rutelliano "manifesto dei coraggiosi", né i buoni propositi, e gli echi blairiani, al di là di concretezze e vaghezze programmatiche, saranno credibili se nessuno annuncerà l'essenziale, quella "rottura" senza la quale non ci può essere vero Partito democratico: che non farà alleanze elettorali con la sinistra comunista e massimalista. Che fine faranno le migliori, più moderne e liberali idee per il Paese – che pure stentano, se non latitano – se ai propri peggiori "alleati" e ai sindacati si concederà di nuovo di esercitare un potere di veto sull'azione di governo? Si tratterebbe della riesumazione, con diverso nome, dell'Ulivo, con tutti i suoi problemi di ingovernabilità.
Il Partito democratico, ha osservato Stefano Folli, «ha bisogno di presentarsi all'opinione pubblica libero da ipoteche». Data per scontata in ossequio al mito dell'unità della sinistra, l'alleanza con le forze comuniste e massimaliste non solo svolge una funzione di blocco conservatore, ma fornisce anche un comodo alibi ai riformisti, che dietro le intransigenze degli alleati nascondono all'opinione pubblica anche le proprie inadeguatezze e la loro cronica incapacità di decidere.
Un partito «disposto ad attraversare il deserto», come l'ha definito Bersani, è un partito disposto a perdere le elezioni e a stare all'opposizione pur di presentare agli elettori un progetto di governo credibile, non alterato dalle tinte ideologiche della sinistra comunista.
L'idea di una politica «ad alta velocità» al posto di una politica che non decide è alla base del network Decidere.net, nato su iniziativa di Daniele Capezzone e altri promotori per sollecitare la politica a decidere su alcune riforme che vanno nella direzione della società della scelta, del superamento dell'obsoleto, anacronistico spartiacque ideologico tra destra e sinistra, di una maggiore equità nell'unico modo in cui oggi essa è realizzabile: con maggiore libertà.
Credendo nel bipolarismo, i promotori di Decidere.net sceglieranno da che parte stare, ma lo faranno sulla base delle risposte che riceveranno dal centrodestra e dal centrosinistra sui 13 "cantieri" che hanno aperto. Immaginata da Rutelli con il riferimento ad «alleanze di nuovo conio», la "rottura" strategica del Pd con i partiti comunisti e massimalisti, in quanto condizione necessaria per una sinistra di governo capace di "decidere", sarebbe anche il presupposto per un eventuale "contratto" del network Decidere.net con essa.
Quelle proposte da Decidere.net sono riforme radicali, perché puntano a una profonda trasformazione; ma moderate, perché praticabili e ragionevoli. Per esempio, portare gradualmente l'età pensionabile a 65 anni per uomini e donne, e con le risorse risparmiate realizzare una vera rete di ammortizzatori sociali, sostituendo i miseri strumenti esistenti (che tutelano 17 lavoratori licenziati su 100) con un ammortizzatore universale di un anno secondo la logica del welfare-to-work; abolire il sostituto d'imposta per i lavoratori dipendenti; superare gli ordini professionali, per rendere più aperto l'accesso alle professioni; ridurre il tragico deficit di meritocrazia, vissuto oggi sulla propria pelle da coloro che fanno tutti i giorni il proprio dovere, ma non hanno una rete di relazioni che li sostiene e li protegge (dal lavoratore flessibile che produce dieci volte il nullafacente inamovibile, agli studenti che pagano per un'istruzione scadente mentre i figli dei ricchi vengono spediti negli Stati Uniti o sistemati nelle aziende di famiglia).
Si tratta di riforme che rispondono a grandi questioni sociali, che investono milioni di persone, da affrontare nell'unico modo possibile per una sinistra moderna e liberale: convincendosi sinceramente che il capitalismo non è un male necessario da sopportare e da correggere, ma una forza positiva senza la quale non sono realizzabili benessere e giustizia sociale; colpendo la società corporativa e di casta a vantaggio della mobilità sociale; guardando ai veri deboli della nostra società, quelli che pagano i costi di mantenimento dei privilegiati, protetti da partiti e sindacati che frustrano il merito, deprimono l'impresa, bloccano l'accesso al lavoro più qualificato e professionale; rivolgendosi al ceto produttivo, fatto di imprenditori e lavoratori, per liberarlo dalle catene dei burocrati e dei parassiti, e agli outsider, gli esclusi e i non garantiti, per farli rientrare in gioco, con merito e responsabilità.
Se a determinare le differenze sociali, il successo o l'insuccesso dei singoli e delle imprese, non è il merito – il più democratico, il più liberale, e il più rispettoso dell'individuo tra i fattori di disuguaglianza, posto che la disuguaglianza è un dato ineliminabile nelle società umane – saranno in modo più odioso il censo, le clientele, le amicizie politiche, i privilegi corporativi. I mercati hanno bisogno di concorrenza e di regole che li facciano funzionare secondo le dinamiche del profitto; hanno bisogno di espandersi, di liberalizzazioni del mercato del lavoro, le cui bardature corporative e stataliste sono d'ostacolo alla causa dell'equità.
In un'epoca di consapevolezza e di aspirazioni di libertà individuali sempre maggiori, e di competizione globale, occorre investire nelle persone per "aiutarle ad aiutarsi da sé". Gli obiettivi di crescita economica, mobilità sociale, e servizi di qualità, richiedono il concetto blairiano dell'"Enabling State". Lo Stato che abilita, accresce le facoltà e le opportunità degli individui secondo l'inscindibile binomio libertà/responsabilità e rende i cittadini capaci di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori. "Possiamo creare delle opportunità, ma non possiamo gestire le vite o gli affari delle persone", è la chiave con cui Tony Blair ha aperto alla sinistra le porte del XXI secolo.
Riconoscere il valore sociale della responsabilità individuale e della ricerca del successo personale come migliori strumenti del successo collettivo della nazione, e rispondere alle esigenze dei ceti medi e produttivi, a quel centro pragmatico dell'elettorato per il quale non importa definire se una politica sia "di destra" o "di sinistra", basta che funzioni, che generi benessere e dinamismo, sono due delle lezioni più importanti del blairismo, sulle quali Decidere.net, con i suoi 13 "cantieri" aperti, invita Rutelli, i "coraggiosi", e quanti nel Pd sono alla ricerca di «alleanze di nuovo conio», a riflettere.
Tuesday, July 31, 2007
Si rappresentano così i trentenni?
Su Il Foglio:
Al direttore - Enrico Letta continua a essere il giovane già vecchio della politica italiana. Con che faccia si candida alla guida del Partito democratico dicendo di voler rappresentare anche i trentenni e i quarantenni, fiero di una controriforma che fa pagare ai lavoratori parasubordinati – giovani alla prima esperienza lavorativa, basso reddito – le pensioni ai 58enni? La riforma degli ammortizzatori sociali sbandierata da Letta riguarda quelli già esistenti, come la Cassa integrazione, che coprono appena 17 lavoratori su 100, e va nella direzione esattamente opposta all'approccio blairiano del welfare-to-work, la rete di ammortizzatori universali a cui pensava Marco Biagi. Letta crede di rappresentare così i trentenni, addebitando sui loro conti corrente i costi salati dell'irresponsabilità del governo Prodi?
Al direttore - Enrico Letta continua a essere il giovane già vecchio della politica italiana. Con che faccia si candida alla guida del Partito democratico dicendo di voler rappresentare anche i trentenni e i quarantenni, fiero di una controriforma che fa pagare ai lavoratori parasubordinati – giovani alla prima esperienza lavorativa, basso reddito – le pensioni ai 58enni? La riforma degli ammortizzatori sociali sbandierata da Letta riguarda quelli già esistenti, come la Cassa integrazione, che coprono appena 17 lavoratori su 100, e va nella direzione esattamente opposta all'approccio blairiano del welfare-to-work, la rete di ammortizzatori universali a cui pensava Marco Biagi. Letta crede di rappresentare così i trentenni, addebitando sui loro conti corrente i costi salati dell'irresponsabilità del governo Prodi?
Monday, July 30, 2007
United We Stand
Nel giorno in cui lo spirito del nuovo Iraq si manifesta nella straordinaria vittoria della coppa d'Asia da parte della nazionale di calcio, e in cui il presidente Bush incassa il rinnovato appoggio della Gran Bretagna di Gordon Brown in Iraq, in Afghanistan e per nuove sanzioni contro l'Iran, da alcuni esperti del think-tank clintoniano Brookings Institution ci giungono (grazie a The Right Nation) analisi confortanti sulla situazione nel paese: pare che la nuova strategia dell'amministrazione Bush in Iraq stia finalmente ottenendo risultati.
Michael E. O'Hanlon e Kenneth M. Pollack, sul New York Times, definiscono «surreale» il dibattito politico a Washington visto dall'Iraq: «Stiamo finalmente ottenendo qualcosa in Iraq, almeno in termini militari».
Michael E. O'Hanlon e Kenneth M. Pollack, sul New York Times, definiscono «surreale» il dibattito politico a Washington visto dall'Iraq: «Stiamo finalmente ottenendo qualcosa in Iraq, almeno in termini militari».
As two analysts who have harshly criticized the Bush administration's miserable handling of Iraq, we were surprised by the gains we saw and the potential to produce not necessarily "victory" but a sustainable stability that both we and the Iraqis could live with.Peter W. Rodman, sul Washington Post, avverte che potrebbe non essere il presidente Bush ad aver bisogno di una «copertura politica», ma i sostenitori del disimpegno, il Congresso e gli autori dell'Iraq Study Group.
The huge strategic stakes in the Middle East argue for resisting calls for any U.S. withdrawal not warranted by conditions in Iraq. The irony is that whoever is elected president next year - from whichever party - will come to understand this better than anyone... Those running for president, especially, would be well advised, amid the excitement of the campaign, to reflect on what will be required of the winner. Potentially the most destabilizing new factor in the world in the coming period is the fear of American weakness. All the hyperventilation about American hubris and unilateralism is a tired cliche; it never had much validity anyway. The real problem is that the pressures pushing us to accept defeat in Iraq are already profoundly unnerving to allies in the Middle East, and elsewhere, who rely on the United States to help ensure their security in the face of continuing dangers.Giorni fa, il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo in cui Christopher Hitchens si scaglia contro i «cari» amici di Saddam, «la banda che ha cercato di impedire che le Nazioni Unite approvassero le risoluzioni su Saddam Hussein» e, naturalmente, l'attacco anglo-americano che ha scritto la parola fine sul suo regime. «Dov'è ora» quella banda?
«Gerhard Schroeder, ex cancelliere della Germania, è andato a lavorare per il consorzio russo del petrolio e del gas. Vladimir Putin, maestro di simili consorzi e delle loro manipolazioni, ha manifestato la sua ambizione di ristabilire uno Stato governato da un unico partito. Jacques Chirac, che ha evitato di essere processato per corruzione solo facendosi rieleggere (e che mentre era in carica ha ospitato i figli di Saddam e ha costruito per lui un reattore nucleare, ben sapendo per quali motivi lo voleva), si vede ora rivolgere domande poco piacevoli da parte della polizia parigina. Che squadra! Galloway è il più sordido del gruppo, perché è riuscito a essere ruffiano, oltre che prostituta, di una delle dittature più ripugnanti dei tempi moderni».
I riformisti difendono lo 0-1
Non si pretende da Veltroni che si dissoci dall'operato del Governo Prodi, ma quanto meno che si astenga dal lodarlo, se ci tiene a presentare come innovativa la sua candidatura a leader del Pd.
«Dobbiamo sostenere il governo, che ha fatto molte cose buone». Sta tutto qui il richiamo di Veltroni all'ala massimalista della coalizione. Senza neanche i più espliciti riferimenti di Rutelli a una possibile rottura dell'alleanza. Se la prende genericamente con «l'instabilità politica», che «rischia di gettare ombre negative anche sulle cose buone che questo governo ha fatto e fa».
Tra queste, Veltroni mette l'accordo sulle pensioni: una controriforma che - unica in Europa - abbassa l'età di pensionamento (da 60 a 58 anni nel 2008) e i cui costi (10 miliardi di euro) sono a carico dei giovani, che pagano un quarto del loro stipendio in contributi e rischiano di non avere alcuna pensione.
E ci mette anche il protocollo sul welfare, che definisce «un punto di equilibrio importante», nonché «un punto di riferimento, un primo passo verso la lotta al precariato del lavoro e, soprattutto, al precariato della vita». Per questo, il sindaco di Roma si dice contrario ad «apportare cambiamenti al protocollo che ne minino la struttura e la sostanza», come invece vorrebbero i massimalisti.
Peccato che il protocollo non sia affatto «un punto di equilibrio importante». Va nella direzione esattamente opposta all'approccio blariano del welfare-to-work. Prevede sì il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, ma di quelli già esistenti, che coprono appena 17 lavoratori licenziati su 100, come la Cassa integrazione, che serve a mascherare, e a mettere sul conto della fiscalità generale, i licenziamenti inevitabili delle grandi industrie (vedi Fiat).
Nell'ottica del completamento della riforma Biagi, la lotta al precariato andava condotta attraverso una rete di ammortizzatori universali secondo la logica del welfare-to-work, mentre il Governo Prodi combatte la precarietà mettendo fuori legge le forme di lavoro flessibile e aumentando la contribuzione dei parasubordinati. Ma in questo modo gli unici effetti saranno l'aumento del sommerso, a danno anche delle casse dell'Inps, e redditi ancora minori per i giovani, senza alcuna garanzia di ricevere in futuro una pensione dignitosa.
Il paradosso è che mentre le forze massimaliste e comuniste continuano ad attaccare e a mettere in discussione i punti di equilibrio appena segnati a loro vantaggio, i riformisti difendono lo 0-1 subìto in casa. Il dibattito su pensioni e welfare verte solo ed esclusivamente su modifiche peggiorative e la linea del Piave è la mera difesa di accordi già inaccettabili.
«Dobbiamo sostenere il governo, che ha fatto molte cose buone». Sta tutto qui il richiamo di Veltroni all'ala massimalista della coalizione. Senza neanche i più espliciti riferimenti di Rutelli a una possibile rottura dell'alleanza. Se la prende genericamente con «l'instabilità politica», che «rischia di gettare ombre negative anche sulle cose buone che questo governo ha fatto e fa».
Tra queste, Veltroni mette l'accordo sulle pensioni: una controriforma che - unica in Europa - abbassa l'età di pensionamento (da 60 a 58 anni nel 2008) e i cui costi (10 miliardi di euro) sono a carico dei giovani, che pagano un quarto del loro stipendio in contributi e rischiano di non avere alcuna pensione.
E ci mette anche il protocollo sul welfare, che definisce «un punto di equilibrio importante», nonché «un punto di riferimento, un primo passo verso la lotta al precariato del lavoro e, soprattutto, al precariato della vita». Per questo, il sindaco di Roma si dice contrario ad «apportare cambiamenti al protocollo che ne minino la struttura e la sostanza», come invece vorrebbero i massimalisti.
Peccato che il protocollo non sia affatto «un punto di equilibrio importante». Va nella direzione esattamente opposta all'approccio blariano del welfare-to-work. Prevede sì il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, ma di quelli già esistenti, che coprono appena 17 lavoratori licenziati su 100, come la Cassa integrazione, che serve a mascherare, e a mettere sul conto della fiscalità generale, i licenziamenti inevitabili delle grandi industrie (vedi Fiat).
Nell'ottica del completamento della riforma Biagi, la lotta al precariato andava condotta attraverso una rete di ammortizzatori universali secondo la logica del welfare-to-work, mentre il Governo Prodi combatte la precarietà mettendo fuori legge le forme di lavoro flessibile e aumentando la contribuzione dei parasubordinati. Ma in questo modo gli unici effetti saranno l'aumento del sommerso, a danno anche delle casse dell'Inps, e redditi ancora minori per i giovani, senza alcuna garanzia di ricevere in futuro una pensione dignitosa.
Il paradosso è che mentre le forze massimaliste e comuniste continuano ad attaccare e a mettere in discussione i punti di equilibrio appena segnati a loro vantaggio, i riformisti difendono lo 0-1 subìto in casa. Il dibattito su pensioni e welfare verte solo ed esclusivamente su modifiche peggiorative e la linea del Piave è la mera difesa di accordi già inaccettabili.
Il partito del merito
«In entrambe [le coalizioni] - destra e sinistra - è fortissimo il partito della spesa, per entrambe il merito conta pochissimo, per entrambe la manutenzione del consenso delle famiglie viene prima della crescita delle imprese...». Luca Ricolfi cerca il «partito del merito», «una forza politica radicalmente riformista e modernizzatrice». Chissà che qualcosa di simile - se non un partito, magari una "forza" - abbia già preso vita...
In difesa della concorrenza
Mario Monti, oggi sul Corriere, inquadra luci e ombre dei primi due mesi della presidenza Sarkozy, in Francia e all'estero, riconoscendo meriti e "rotture", ma rispondendo punto su punto, colpo su colpo, agli attacchi lanciati in sede europea dal presidente francese contro la concorrenza.
Friday, July 27, 2007
Niente di buono sul fronte romano
Una controriforma e le solite chiacchiere.
E' tempo di riprendere confidenza con le tristezze della politica nostrana. Perché sono tornato dal Giappone e da Hong Kong? Be', diciamo che si è trattato di un sopralluogo, con esito più che positivo. In queste settimane pare che siano accadute molte cose, ma come ormai ci ha abituati la politica italiana, stringi-stringi e ti accorgi con una punta di amarezza e rassegnazione che non è accaduto nulla.
Ricapitolando. Ci siamo persi la "mastellata" della Bonino. Giova ricordare che a quanti per un anno hanno chiesto all'esponente radicale al governo un atteggiamento più duro e critico è sempre stato risposto in modo un po' stizzito che no, la "scuola radicale" era ben diversa dai metodi ricattatori di un Mastella qualsiasi. Torni dopo qualche giorno di assenza e scopri che la Bonino si è prodigata in un bel balletto "Ceppaloni style".
«Senza minacciare alcunché, dimissioni o altro», ha usato parole durissime nei confronti del Governo a proposito dell'accordo che si andava prefigurando sullo "scalone" e ha rimesso (solo virtualmente) nelle mani di Prodi il suo mandato, «perché sia il presidente a decidere se il mio permanere al governo sia opportuno o comunque compatibile con le ragioni stesse per le quali abbiamo fin qui sostenuto e speriamo di continuare a fare il suo compito e il suo mandato, o se invece lo siano le posizioni conservatrici, quando non reazionarie della sinistra comunista e sindacale».
Solo la "mossa", hai visto mai che dimissioni vere venissero accettate? A fare il Mastella, però, è più bravo Mastella, di gran lunga più credibile: avrebbe almeno ottenuto il suo contentino. Possibile che la Bonino non sia ancora riuscita a trovare un proprio ruolo politico nella compagine governativa, un equilibrio tra senso di lealtà all'Esecutivo di cui fa parte e adeguato senso critico - della decenza, direi - rispetto a un operato disastroso? Passa dalla totale e silenziosa subalternità alla brutta copia di Mastella. Vedremo più avanti, comunque, l'esito di questo giorno da leonessa.
Enrico Letta ha lanciato la sua sfida a Walter Veltroni, candidandosi alla guida del Partito democratico. Alcuni giorni fa, sul Corriere, una frase in particolare ci aveva impressionato positivamente: «C'è una generazione tra i trenta e i quarant'anni che nella politica è poco rappresentata... Certo non mi rivolgo soltanto ai miei coetanei. Ma non mi chiamo fuori: di quella generazione faccio parte; e credo che abbia molto da dare, soprattutto al partito democratico. Perché il Pd è il primo partito postideologico. E noi siamo la prima generazione postideologica. Ci siamo formati negli anni Ottanta; anni bistrattati, che in realtà sono stati straordinari. E non soltanto per la musica, la tv, il cinema, il design. Non è vero che siano stati soltanto gli anni del riflusso; la formazione di chi era ragazzo allora è stata forse più equilibrata di quella della generazione precedente. Questo ci rende per certi aspetti più liberi».
La prima generazione post-ideologica; gli anni '80 «bistrattati», dal moralismo catto-comunista, ma in realtà «straordinari». Gli anni '80 si sono ripresi da sé la rivincita sul coattume intellettuale e politico che li ha bistrattati, seppellendo insieme al Muro di Berlino le macerie ideologiche di cui quegli intellettuali e politici hanno nutrito il proprio ego e la propria pretesa superiorità antropologica. Ha fatto comunque bene Letta a ricordarlo e a rivendicare la formazione politica di una generazione educata dagli anni '80 alla libertà e alla democrazia molto più di quanto Dc e Pci avessero saputo fare fino ad allora.
Peccato, però, che poche righe più in basso Letta abbia anche rivendicato con orgoglio di essere tra gli artefici dell'accordo tra Governo e Sindacati sulle pensioni. Una controriforma che - unica in Europa - abbassa l'età di pensionamento: dal prossimo gennaio si potrà andare in pensione con 35 anni di contributi e a soli 58 anni di età, due in meno di quanto prevedeva la legge Maroni. L'entrata in vigore dell'età pensionabile a 60 anni slitta dal 2008 al 2011. Costo: dieci miliardi di euro correnti di maggiori spese, 3,5 dei quali verranno fatti sborsare ai lavoratori atipici, nei confronti dei quali il cuneo contributivo aumenterà di un punto l'anno fino a tre punti.
Un intervento che non garantirà ai giovani parasubordinati una pensione dignitosa, ma darà nell'immediato solo una spinta ulteriore al lavoro giovanile sommerso, a tutto danno anche delle casse dell'Inps. Dunque, per prolungare di qualche anno a 130 mila lavoratori di 57 anni il privilegio della pensione a 58 anni, Letta ha già rubato (e ne va fiero) dalle tasche dei giovani che ora si candida a rappresentare, quelli più in difficoltà a entrare nel mondo del lavoro.
«Ancora una volta i sindacati sono riusciti a far prevalere l'interesse di una piccola minoranza – i lavoratori vicini alla pensione – sugli interessi generali, in primis dei giovani, i quali dovranno continuare a pagare contributi salati per consentire all'Inps di erogare pensioni a una minoranza di fortunati». Così Francesco Giavazzi.
«Detto in breve: siamo di fronte ad un aumento della spesa previdenziale finanziato attraverso un aumento delle entrate contributive, con buona pace di chi aveva invocato il superamento della sinistra "tassa e spendi"», ha osservato Nicola Rossi.
Per Oscar Giannino, non è altro che il proseguimento dell'«odiosa guerra sociale portata ai lavoratori più disagiati, ma naturalmente meno sindacalizzati e dunque per questo da sempre più bastonati»: i parasubordinati. Questo aumento dell'aliquota contributiva si aggiunge all'aggravio per loro già disposto dalla sinistra nell'ultima finanziaria, «uno spaventoso aumento di nove punti di aliquota nell'arco di un decennio, per lavoratori dai redditi più che bassi. Come fa la sinistra a vantarne il merito? E' una carognata, una vera e propria guerra sociale contro chi già se la passa male», e la sinistra proclama di voler strappare alla precarietà.
Il 35% (3,5 miliardi di euro) di copertura finanziaria della controriforma dovrebbe essere coperto dal «riordino» e dalla «razionalizzazione» degli enti previdenziali, che dovrebbero portare a circa 7000 licenziamenti. Licenziamenti nel pubblico impiego? Pura utopia. E infatti è già prevista un'ipocrita «clausola di salvaguardia»: in caso di mancato conseguimento dei risparmi da riordino e razionalizzazione degli enti previdenziali, aumento generalizzato della pressione contributiva.
A ciò si accompagna la riforma del welfare, nella direzione esattamente opposta all'approccio blariano del welfare to work. Nell'impianto legislativo di Marco Biagi la lotta al precariato andava condotta proprio attraverso una rete di ammortizzatori universali secondo la logica del welfare to work, mentre il Governo Prodi ha deciso di combattere la precarietà mettendo fuori legge le forme di lavoro flessibile e aumentando la contribuzione dei parasubordinati. Ma in questo modo gli unici effetti saranno l'aumento del sommerso, a danno anche delle casse dell'Inps, e dei lavoratori senza più alcuna garanzia.
Il rafforzamento degli ammortizzatori sociali sbandierato dal Governo riguarda quelli già esistenti, che coprono appena 17 lavoratori su 100, cioè la Cassa integrazione, che serve a mascherare, e a mettere sul conto della fiscalità generale, i licenziamenti inevitabili delle grandi industrie (vedi Fiat).
Ma la controriforma delle pensioni ha fatto strage della credibilità di due altre iniziative. Del «manifesto dei coraggiosi», lanciato proprio in quei giorni da Rutelli «per il coraggio delle riforme», in appoggio alla candidatura di Veltroni; e della "mastellata" Bonino, che da virtualmente dimissionaria non ha avuto ciglio da battere quando in Consiglio dei ministri l'accordo con i Sindacati è stato politicamente ratificato: sinistra sconfitta, ma ci voleva più coraggio, è tutto ciò che è riuscita a dire. A tutto danno dei giovani e delle generazioni di baby boomers che andranno in pensione dal 2030, l'accordo non è riuscito nemmeno a placare gli appetiti dell'estrema sinistra (altro che sconfitta), che ritornerà alla carica a settembre, quando dovrà essere formalmente varato nella Finanziaria.
E la candidatura di Pannella alla segreteria del Partito democratico? La situazione dei radicali continua a essere grave ma non seria, con il leader storico che salta di palo in frasca non sapendo più come uscire dal vicolo cieco strategico in cui si è cacciato: come rimanere attaccati alle poltrone di un governo fallimentare senza perdere la faccia? Alla lunga serie di manovre diversive si aggiunge anche questa candidatura. Se invece di salvare il Partito democratico Pannella riflettesse su come salvarsi da se stesso sarebbe appprezzato da tutti i militanti radicali.
E' sotto gli occhi di tutti che le regole cervellotiche di queste primarie nulla hanno a che vedere con le primarie americane, infarcite come sono di espedienti per riprodurre nel nuovo partito più o meno i rapporti di forza esistenti tra le due oligarchie della Margherita e dei Ds. Non è ancora "partito", ma già non è democratico. Ma in tutto questo, il no alla candidatura di Pannella sembra la cosa più ragionevole: o Pannella abbandona i soggetti radicali, o questi partecipano al processo costituente come Ds e Margherita, cioè prevedendo lo scioglimento. Sembra ragionevole, altrimenti potrebbero candidarsi anche Berlusconi e Bertinotti.
Ad oggi nessuno saprebbe dire due o tre cose che il Pd vorrà fare sicuramente per il Paese, né tantomeno si può affermare che la cultura liberale gli appartenga, ma non perché viene respinta la candidatura di Pannella. Pannella e i radicali non sarebbero incompatibili con l'ispirazione ideale del Pd, ma tutti coloro che si sono impegnati nella fase costituente hanno accettato di prevedere lo scioglimento dei loro partiti di origine. Non si può pretendere di tenere il piede in due staffe. Solo se annunciasse lo scioglimento del suo partito in Italia, allora un eventuale "no" a Pannella si aggiungerebbe ai tanti altri aspetti che già connotano il nascente Pd in senso anti-democratico e anti-liberale.
E' tempo di riprendere confidenza con le tristezze della politica nostrana. Perché sono tornato dal Giappone e da Hong Kong? Be', diciamo che si è trattato di un sopralluogo, con esito più che positivo. In queste settimane pare che siano accadute molte cose, ma come ormai ci ha abituati la politica italiana, stringi-stringi e ti accorgi con una punta di amarezza e rassegnazione che non è accaduto nulla.
Ricapitolando. Ci siamo persi la "mastellata" della Bonino. Giova ricordare che a quanti per un anno hanno chiesto all'esponente radicale al governo un atteggiamento più duro e critico è sempre stato risposto in modo un po' stizzito che no, la "scuola radicale" era ben diversa dai metodi ricattatori di un Mastella qualsiasi. Torni dopo qualche giorno di assenza e scopri che la Bonino si è prodigata in un bel balletto "Ceppaloni style".
«Senza minacciare alcunché, dimissioni o altro», ha usato parole durissime nei confronti del Governo a proposito dell'accordo che si andava prefigurando sullo "scalone" e ha rimesso (solo virtualmente) nelle mani di Prodi il suo mandato, «perché sia il presidente a decidere se il mio permanere al governo sia opportuno o comunque compatibile con le ragioni stesse per le quali abbiamo fin qui sostenuto e speriamo di continuare a fare il suo compito e il suo mandato, o se invece lo siano le posizioni conservatrici, quando non reazionarie della sinistra comunista e sindacale».
Solo la "mossa", hai visto mai che dimissioni vere venissero accettate? A fare il Mastella, però, è più bravo Mastella, di gran lunga più credibile: avrebbe almeno ottenuto il suo contentino. Possibile che la Bonino non sia ancora riuscita a trovare un proprio ruolo politico nella compagine governativa, un equilibrio tra senso di lealtà all'Esecutivo di cui fa parte e adeguato senso critico - della decenza, direi - rispetto a un operato disastroso? Passa dalla totale e silenziosa subalternità alla brutta copia di Mastella. Vedremo più avanti, comunque, l'esito di questo giorno da leonessa.
Enrico Letta ha lanciato la sua sfida a Walter Veltroni, candidandosi alla guida del Partito democratico. Alcuni giorni fa, sul Corriere, una frase in particolare ci aveva impressionato positivamente: «C'è una generazione tra i trenta e i quarant'anni che nella politica è poco rappresentata... Certo non mi rivolgo soltanto ai miei coetanei. Ma non mi chiamo fuori: di quella generazione faccio parte; e credo che abbia molto da dare, soprattutto al partito democratico. Perché il Pd è il primo partito postideologico. E noi siamo la prima generazione postideologica. Ci siamo formati negli anni Ottanta; anni bistrattati, che in realtà sono stati straordinari. E non soltanto per la musica, la tv, il cinema, il design. Non è vero che siano stati soltanto gli anni del riflusso; la formazione di chi era ragazzo allora è stata forse più equilibrata di quella della generazione precedente. Questo ci rende per certi aspetti più liberi».
La prima generazione post-ideologica; gli anni '80 «bistrattati», dal moralismo catto-comunista, ma in realtà «straordinari». Gli anni '80 si sono ripresi da sé la rivincita sul coattume intellettuale e politico che li ha bistrattati, seppellendo insieme al Muro di Berlino le macerie ideologiche di cui quegli intellettuali e politici hanno nutrito il proprio ego e la propria pretesa superiorità antropologica. Ha fatto comunque bene Letta a ricordarlo e a rivendicare la formazione politica di una generazione educata dagli anni '80 alla libertà e alla democrazia molto più di quanto Dc e Pci avessero saputo fare fino ad allora.
Peccato, però, che poche righe più in basso Letta abbia anche rivendicato con orgoglio di essere tra gli artefici dell'accordo tra Governo e Sindacati sulle pensioni. Una controriforma che - unica in Europa - abbassa l'età di pensionamento: dal prossimo gennaio si potrà andare in pensione con 35 anni di contributi e a soli 58 anni di età, due in meno di quanto prevedeva la legge Maroni. L'entrata in vigore dell'età pensionabile a 60 anni slitta dal 2008 al 2011. Costo: dieci miliardi di euro correnti di maggiori spese, 3,5 dei quali verranno fatti sborsare ai lavoratori atipici, nei confronti dei quali il cuneo contributivo aumenterà di un punto l'anno fino a tre punti.
Un intervento che non garantirà ai giovani parasubordinati una pensione dignitosa, ma darà nell'immediato solo una spinta ulteriore al lavoro giovanile sommerso, a tutto danno anche delle casse dell'Inps. Dunque, per prolungare di qualche anno a 130 mila lavoratori di 57 anni il privilegio della pensione a 58 anni, Letta ha già rubato (e ne va fiero) dalle tasche dei giovani che ora si candida a rappresentare, quelli più in difficoltà a entrare nel mondo del lavoro.
«Ancora una volta i sindacati sono riusciti a far prevalere l'interesse di una piccola minoranza – i lavoratori vicini alla pensione – sugli interessi generali, in primis dei giovani, i quali dovranno continuare a pagare contributi salati per consentire all'Inps di erogare pensioni a una minoranza di fortunati». Così Francesco Giavazzi.
«Detto in breve: siamo di fronte ad un aumento della spesa previdenziale finanziato attraverso un aumento delle entrate contributive, con buona pace di chi aveva invocato il superamento della sinistra "tassa e spendi"», ha osservato Nicola Rossi.
Per Oscar Giannino, non è altro che il proseguimento dell'«odiosa guerra sociale portata ai lavoratori più disagiati, ma naturalmente meno sindacalizzati e dunque per questo da sempre più bastonati»: i parasubordinati. Questo aumento dell'aliquota contributiva si aggiunge all'aggravio per loro già disposto dalla sinistra nell'ultima finanziaria, «uno spaventoso aumento di nove punti di aliquota nell'arco di un decennio, per lavoratori dai redditi più che bassi. Come fa la sinistra a vantarne il merito? E' una carognata, una vera e propria guerra sociale contro chi già se la passa male», e la sinistra proclama di voler strappare alla precarietà.
Il 35% (3,5 miliardi di euro) di copertura finanziaria della controriforma dovrebbe essere coperto dal «riordino» e dalla «razionalizzazione» degli enti previdenziali, che dovrebbero portare a circa 7000 licenziamenti. Licenziamenti nel pubblico impiego? Pura utopia. E infatti è già prevista un'ipocrita «clausola di salvaguardia»: in caso di mancato conseguimento dei risparmi da riordino e razionalizzazione degli enti previdenziali, aumento generalizzato della pressione contributiva.
A ciò si accompagna la riforma del welfare, nella direzione esattamente opposta all'approccio blariano del welfare to work. Nell'impianto legislativo di Marco Biagi la lotta al precariato andava condotta proprio attraverso una rete di ammortizzatori universali secondo la logica del welfare to work, mentre il Governo Prodi ha deciso di combattere la precarietà mettendo fuori legge le forme di lavoro flessibile e aumentando la contribuzione dei parasubordinati. Ma in questo modo gli unici effetti saranno l'aumento del sommerso, a danno anche delle casse dell'Inps, e dei lavoratori senza più alcuna garanzia.
Il rafforzamento degli ammortizzatori sociali sbandierato dal Governo riguarda quelli già esistenti, che coprono appena 17 lavoratori su 100, cioè la Cassa integrazione, che serve a mascherare, e a mettere sul conto della fiscalità generale, i licenziamenti inevitabili delle grandi industrie (vedi Fiat).
Ma la controriforma delle pensioni ha fatto strage della credibilità di due altre iniziative. Del «manifesto dei coraggiosi», lanciato proprio in quei giorni da Rutelli «per il coraggio delle riforme», in appoggio alla candidatura di Veltroni; e della "mastellata" Bonino, che da virtualmente dimissionaria non ha avuto ciglio da battere quando in Consiglio dei ministri l'accordo con i Sindacati è stato politicamente ratificato: sinistra sconfitta, ma ci voleva più coraggio, è tutto ciò che è riuscita a dire. A tutto danno dei giovani e delle generazioni di baby boomers che andranno in pensione dal 2030, l'accordo non è riuscito nemmeno a placare gli appetiti dell'estrema sinistra (altro che sconfitta), che ritornerà alla carica a settembre, quando dovrà essere formalmente varato nella Finanziaria.
E la candidatura di Pannella alla segreteria del Partito democratico? La situazione dei radicali continua a essere grave ma non seria, con il leader storico che salta di palo in frasca non sapendo più come uscire dal vicolo cieco strategico in cui si è cacciato: come rimanere attaccati alle poltrone di un governo fallimentare senza perdere la faccia? Alla lunga serie di manovre diversive si aggiunge anche questa candidatura. Se invece di salvare il Partito democratico Pannella riflettesse su come salvarsi da se stesso sarebbe appprezzato da tutti i militanti radicali.
E' sotto gli occhi di tutti che le regole cervellotiche di queste primarie nulla hanno a che vedere con le primarie americane, infarcite come sono di espedienti per riprodurre nel nuovo partito più o meno i rapporti di forza esistenti tra le due oligarchie della Margherita e dei Ds. Non è ancora "partito", ma già non è democratico. Ma in tutto questo, il no alla candidatura di Pannella sembra la cosa più ragionevole: o Pannella abbandona i soggetti radicali, o questi partecipano al processo costituente come Ds e Margherita, cioè prevedendo lo scioglimento. Sembra ragionevole, altrimenti potrebbero candidarsi anche Berlusconi e Bertinotti.
Ad oggi nessuno saprebbe dire due o tre cose che il Pd vorrà fare sicuramente per il Paese, né tantomeno si può affermare che la cultura liberale gli appartenga, ma non perché viene respinta la candidatura di Pannella. Pannella e i radicali non sarebbero incompatibili con l'ispirazione ideale del Pd, ma tutti coloro che si sono impegnati nella fase costituente hanno accettato di prevedere lo scioglimento dei loro partiti di origine. Non si può pretendere di tenere il piede in due staffe. Solo se annunciasse lo scioglimento del suo partito in Italia, allora un eventuale "no" a Pannella si aggiungerebbe ai tanti altri aspetti che già connotano il nascente Pd in senso anti-democratico e anti-liberale.
Sunday, July 22, 2007
Il doppio motore di Hong Kong
Oltre all'umidita', alle polveri sottili, agli scroscioni che durano neanche un minuto, come docce, c'e' un'energia speciale che pervade l'aria di Hong Kong e che la rende citta' unica, affascinante e respingente al tempo stesso. Per quello che ho potuto vedere, lontana dallo stereotipo "Blade Runner".
L'energia degli occidentali che la abitano per lo piu' temporaneamente, per lavoro o per business. Inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli, italiani, americani, israeliani, messicani (solo quelli che ho incontrato) non sono qui per la citta'. E' Hong Kong ad essere li' per loro, per le loro ambizioni. Culla cosmopolita di opportunita' e divertimenti, tutto e' in movimento, disposto al cambiamento e al meticciato, come ogni luogo di confine. Quella degli occidentali e' l'energia di chi vuole ottenere il massimo dalla sua permanenza in Hong Kong, spremendo i giorni (e le notti) come limoni e bevendone avidamente il succo.
C'e' poi l'energia dei cittadini di Hong Kong, i "locali". Non provate a chiamarli cinesi, che' si arrabbiano. Spirito di rivalsa, tanta voglia di dimostrare di non essere da meno degli occidentali - che guardano con diffidenza, come colonizzatori - e di molto superiori ai cinesi della "main land". Consapevoli di aver ereditato gli strumenti culturali, politici e materiali del loro successo, come individui e comunita', ne sono gelosi. Lavorano lavorano lavorano, comprano in lussuosi centri commerciali, costruiscono, ostentano i frutti del benessere, dalla moda alla tecnologia. Soprattutto le ragazze e le donne piu' giovani, tutte le mattine negli uffici, o la sera nei locali, sfoggiano un'eleganza ormai per nulla seconda a quella degli europei.
Se salite su al Peak e percorrete le due strade che vi girano tutto intorno, potrete udire anche a 500 metri di altezza il rombo di questo motore doppio che spinge Hong Kong alla testa delle citta' del mondo.
L'energia degli occidentali che la abitano per lo piu' temporaneamente, per lavoro o per business. Inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli, italiani, americani, israeliani, messicani (solo quelli che ho incontrato) non sono qui per la citta'. E' Hong Kong ad essere li' per loro, per le loro ambizioni. Culla cosmopolita di opportunita' e divertimenti, tutto e' in movimento, disposto al cambiamento e al meticciato, come ogni luogo di confine. Quella degli occidentali e' l'energia di chi vuole ottenere il massimo dalla sua permanenza in Hong Kong, spremendo i giorni (e le notti) come limoni e bevendone avidamente il succo.
C'e' poi l'energia dei cittadini di Hong Kong, i "locali". Non provate a chiamarli cinesi, che' si arrabbiano. Spirito di rivalsa, tanta voglia di dimostrare di non essere da meno degli occidentali - che guardano con diffidenza, come colonizzatori - e di molto superiori ai cinesi della "main land". Consapevoli di aver ereditato gli strumenti culturali, politici e materiali del loro successo, come individui e comunita', ne sono gelosi. Lavorano lavorano lavorano, comprano in lussuosi centri commerciali, costruiscono, ostentano i frutti del benessere, dalla moda alla tecnologia. Soprattutto le ragazze e le donne piu' giovani, tutte le mattine negli uffici, o la sera nei locali, sfoggiano un'eleganza ormai per nulla seconda a quella degli europei.
Se salite su al Peak e percorrete le due strade che vi girano tutto intorno, potrete udire anche a 500 metri di altezza il rombo di questo motore doppio che spinge Hong Kong alla testa delle citta' del mondo.
Thursday, July 19, 2007
Hong Kong e dintorni
Appena in tempo per sfuggire all'uragano che si e' abbattutto su Kyoto e al terremoto che ha provocato l'interruzione di una centrale nucleare, da qualche giorno siamo gia' a Hong Kong. Un enorme centro commerciale all'aperto, una metropoli letteralmente strappata alle acque del mar cinese e alla giungla, trionfo dell'ingegneria civile.
Un saluto, ai prossimi giorni
Un saluto, ai prossimi giorni
Tuesday, July 10, 2007
Lost in Tokyo
A Tokyo ci si perde, felici di perdersi. Non nel senso che non ritrovi la strada. Tutto e` complicato, decine di subway, ciascuna stazione un labirinto di uscite, linee che si incrociano, negozi, interi centri commerciali, le vie senza nome e civici. Al tempo stesso tutto e` facile, organizzato. La tecnologia ti aiuta, ma anche i giapponesi, seppure siano timidissimi e qui la barriera linguistica sia qualcosa di molto concreto... un po` "lost in translation". Anche con l`inglese: non tutti lo parlano, ma anche quando incroci qualcuno che lo parla le pronunce sono cosi` diverse...
Giapponesi che lavorano, lavorano, lavorano. Ma sanno divertirsi, eccome. Li vedi uscire dall`ufficio anche alle 10 di sera e andarsi a prendere la loro birra e i soba. La mattina tutti eleganti e profumati. Tutti in camicia bianca, cravatta, giacca. Anche i ragazzi dalle acconciature ricercate e le ragazze... le ragazze - molte bellissime - dal look sobrio o stravagante, delicato o "ribelle", ma non ti lasciano mai indifferente.
Ti ci perdi, ti lasci abbracciare da questi milioni di essere umani che ti scorrono intorno e ti senti come la carpa che risale la corrente del fiume. Come formiche invadono strade, metropolitane, centri commerciali, mercati, attraversano gli incroci in tutte le direzioni. Lavorano, mangiano, consumano a ogni ora. Sonnecchiano in metro, li vedi ridere di cuore nei locali sempre pieni. Umanita` travolgente, innanzitutto se stessa, caotica ma con il culto della precisione, della pulizia e della gentilezza.
E` tardi. Scrivo dalla postazione dell`hotel, al 25mo piano, con vista sulla torre di Tokyo. I treni della Yurikamone che scivolano via snodandosi tra i grattacieli illuminati e una pioggerellina fina come un velo si posa delicatamente sulle membra di una citta` che sembra avere sempre fame di futuro. Giusto qualche ora per riprendere fiato e poi di nuovo Tokyo, ovvero ad attraversare incroci.
Giapponesi che lavorano, lavorano, lavorano. Ma sanno divertirsi, eccome. Li vedi uscire dall`ufficio anche alle 10 di sera e andarsi a prendere la loro birra e i soba. La mattina tutti eleganti e profumati. Tutti in camicia bianca, cravatta, giacca. Anche i ragazzi dalle acconciature ricercate e le ragazze... le ragazze - molte bellissime - dal look sobrio o stravagante, delicato o "ribelle", ma non ti lasciano mai indifferente.
Ti ci perdi, ti lasci abbracciare da questi milioni di essere umani che ti scorrono intorno e ti senti come la carpa che risale la corrente del fiume. Come formiche invadono strade, metropolitane, centri commerciali, mercati, attraversano gli incroci in tutte le direzioni. Lavorano, mangiano, consumano a ogni ora. Sonnecchiano in metro, li vedi ridere di cuore nei locali sempre pieni. Umanita` travolgente, innanzitutto se stessa, caotica ma con il culto della precisione, della pulizia e della gentilezza.
E` tardi. Scrivo dalla postazione dell`hotel, al 25mo piano, con vista sulla torre di Tokyo. I treni della Yurikamone che scivolano via snodandosi tra i grattacieli illuminati e una pioggerellina fina come un velo si posa delicatamente sulle membra di una citta` che sembra avere sempre fame di futuro. Giusto qualche ora per riprendere fiato e poi di nuovo Tokyo, ovvero ad attraversare incroci.
Thursday, July 05, 2007
Decidere.net è on line, ma il network siamo noi: muoviamoci!
Una politica «ad alta velocità» al posto di una politica che non decide. Le decisioni scontentano sempre qualcuno, ma fanno crescere. Comportano delle rinunce, lasciarsi indietro qualcosa, svoltare per una strada abbandonando le altre possibili, far decadere un'opzione a favore di un'altra. Senza la decisione non c'è il rischio, ma neanche l'opportunità; senza correre rischi non ci sono meriti. La vita è rischio. Quando la politica promette di eliminare tutti i rischi, allora state pur certi che vi sta fottendo delle opportunità.
Decidere.net è un network messo a disposizione di chiunque sia disposto a correre dei rischi per vedere la politica finalmente decidere su alcune riforme che vanno nella direzione della società della scelta, del superamento dell'obsoleto, anacronistico spartiacque tra destra e sinistra, di una maggiore equità nell'unico modo in cui oggi essa è realizzabile: con maggiore libertà.
I 13 "cantieri" aperti da Daniele Capezzone insieme agli altri promotori (tra cui il sottoscritto) sono di quelli che fanno tremare i polsi. Sono radicali, perché puntano a una profonda trasformazione; ma moderati, perché praticabili e ragionevoli, volti cioè all'utile per il maggior numero di cittadini senza danno per altri. Perché posso affermare questo? Semplice, perché sono tutti fondati sul principio che nessuno meglio di ciascuno di noi è in grado di avvicinarsi a comprendere e a realizzare il proprio utile e che il ruolo dello Stato, semmai, è quello di creare un contesto di regole e di strumenti favorevole. Compito dello Stato non è fabbricare pezzi di una felicità ideologicamente predefinita e così etichettata dal ceto politico, ma di consentire a ciascuno la ricerca della propria felicità.
Certo, queste 13 proposte urtano posizioni di rendita e corporazioni, ma anche diffusi pregiudizi nella nostra società. Si rivolgono al ceto produttivo, fatto di imprenditori e lavoratori, per liberarlo dalle catene dei burocrati e dei parassiti; e agli outsider, gli esclusi e i non garantiti, per farli rientrare in gioco, con merito e responsabilità.
Qualcuno ha osservato l'assenza dei diritti civili dai "cantieri" aperti. Manca del tutto anche la politica estera, e sapete quanto mi interessi. Innanzitutto, bisogna ricordare che non si tratta del manifesto fondativo di un partito, per cui tutti i campi della decisione pubblica devono essere coperti in modo sistematico, quanto piuttosto, nella felice immagine usata da Malvino, «una stretta di mano» tra gentiluomini: tanto più credibile quanto più "stretta" sopra un foglio che vincola gli aderenti su un campo ristretto e verificabile di soluzioni «precise e praticabili».
Anzi, proprio l'idea che il discrimine destra/sinistra sia sempre più inefficace, poco significativo, nel descrivere la realtà sociale e politica contemporanea ci porta a ritenere che nelle società in cui viviamo sia sempre più difficile trovarsi d'accordo su tutto, su un unico pacchetto preconfezionato, che finirebbe per divenire dottrinario.
Inoltre, non credete che non passino anche per questi 13 "cantieri" altrettante battaglie di laicità, se la si intende nel senso che abbiamo provato a spiegare "noi" di LibMagazine: «Laicità come estraneità dalla logica delle costruzioni ideologiche. Non solo anticlericalismo, dunque... laicità come sinonimo di anticlericalismo, ma chiarendo: contro ogni chiesa, cioè contro ogni costruzione ideologica».
Contro quelle chiese cattocomuniste, quindi, che usano i poteri pubblici per gestire le vite dei cittadini gestendone i denari, presupponendo che l'individuo non sia di per sé in grado di distinguere il bene, neanche il suo, e il giusto, ma abbia bisogno della guida di costruzioni ideologiche veicolate attraverso lo Stato. Da una parte chi crede che nello Stato vi sia una moralità superiore e disinteressata, che sia capace di produrre per voi il miglior film sulla vostra vita, invitandovi magari ad esserne spettatori; dall'altra chi è convinto che lo Stato debba fornirvi gli strumenti per girarvelo da voi, il vostro film.
Secondo la mia analisi sono fondamentalmente due gli shock che potrebbero spazzare via la partitocrazia e liberare il nostro paese dall'immobilismo. Tra questi non ci sono i diritti civili, ma l'elezione diretta del capo del Governo e un sistema elettorale maggioritario, in modo che gli occhi degli elettori siano puntati sulle persone candidate e non sui partiti, e che anche i politici siano valutati secondo merito: chi perde a casa, senza ripescaggi; spezzare il binomio tasse-spesa pubblica, fattore di blocco del sistema e linfa vitale del regime partitocratico. Che la spesa pubblica abbia ormai superato la metà del Pil significa che c'è una catena di interdipendenza spessissima tra chi amministra questa spesa – la classe politica di centrosinistra e di centrodestra – e le clientele che ne beneficiano in termini di privilegi, sprechi e posizioni di rendita.
Istituzioni maggiormente rappresentative - in cui il ricambio sia più frequente, veloce, consistente e, quindi, il potere mai per troppi anni "occupato" (e i soldi gestiti) dai soliti - potrebbero essere meno subalterne ai magisteri morali e sociali, all'autorità religiosa, che impediscono l'allargamento della sfera delle libertà personali, e più citizen-oriented, attente a registrare i cambiamenti culturali e di stili di vita che avvengono nella società.
Nessuno pensi che non ci sia da combattere e da incassare delusioni.
Chi pensa che l'ex segretario radicale avrà la strada spianata da poteri (e soldi) occulti, o che sia il prescelto dal "regime" ovunque accolto con tappeti rossi, si sbaglia di grosso. E' una strada tutta in salita quella che lo aspetta, e che aspetta coloro che lo seguiranno, come tutte le strade liberali (e radicali) in questo paese, con una differenza, si spera: che la forma, e la sostanza, di questo network, siano capaci di esercitare una forza di attrazione che i vecchi contenitori, liberali e radicali, sembrano aver perduto.
Ho sempre pensato, e avvertito quando e come potevo, che la demonizzazione di Capezzone da parte di Pannella e delle sue "guardie svizzere" avrebbe danneggiato seriamente ciò che rimane del soggetto politico radicale - in grave crisi finanziaria, strategica (dopo il fallimento della Rosa nel Pugno e l'irrilevanza in uno dei peggiori governi di sempre), ma anche umana - privandolo ulteriormente di un valore certo dal punto di vista culturale, politico e comunicativo.
Ma ho anche sempre pensato che a uscirne indebolito sarebbe stato anche il reprobo costretto, se non altro per non uscirne pazzo, a sperimentare altre vie. Insomma, non mi sembra che lanciando questa nuova sfida Capezzone scelga la via più comoda. Salpa da un porto, malmesso e ostile, ma in fin dei conti sicuro nella sua inerzia, a volerci rimanere da spettatore, per veleggiare in un oceano impervio, esposto alle insidie, entrambe potenzialmente letali, della bonaccia e della tempesta.
Non pensate che una volta avviato il network proceda da sé, con il vento in poppa di chissà quali poteri "forti". Non pensate che ci sarà comunque qualcuno a "spingere", cominciate a spingere voi. Questa è davvero una iniziativa che avrà tanta forza quanta tutti noi decideremo di dargli. Aderite! Ma non limitatevi a quello. Animate il sito con vostri contributi, ma soprattutto fate crescere il network, ciascuno dal suo punto di osservazione, con gli strumenti che ha a disposizione. Parlatene a lavoro, all'università, in famiglia, con gli amici, sui vostri blog. Discutete i 13 "cantieri", approfondite, ricercate, osservate le reazioni della politica, chi si muove contro e chi a favore.
JimMomo, intanto, torna tra qualche giorno.
Decidere.net è un network messo a disposizione di chiunque sia disposto a correre dei rischi per vedere la politica finalmente decidere su alcune riforme che vanno nella direzione della società della scelta, del superamento dell'obsoleto, anacronistico spartiacque tra destra e sinistra, di una maggiore equità nell'unico modo in cui oggi essa è realizzabile: con maggiore libertà.
I 13 "cantieri" aperti da Daniele Capezzone insieme agli altri promotori (tra cui il sottoscritto) sono di quelli che fanno tremare i polsi. Sono radicali, perché puntano a una profonda trasformazione; ma moderati, perché praticabili e ragionevoli, volti cioè all'utile per il maggior numero di cittadini senza danno per altri. Perché posso affermare questo? Semplice, perché sono tutti fondati sul principio che nessuno meglio di ciascuno di noi è in grado di avvicinarsi a comprendere e a realizzare il proprio utile e che il ruolo dello Stato, semmai, è quello di creare un contesto di regole e di strumenti favorevole. Compito dello Stato non è fabbricare pezzi di una felicità ideologicamente predefinita e così etichettata dal ceto politico, ma di consentire a ciascuno la ricerca della propria felicità.
Certo, queste 13 proposte urtano posizioni di rendita e corporazioni, ma anche diffusi pregiudizi nella nostra società. Si rivolgono al ceto produttivo, fatto di imprenditori e lavoratori, per liberarlo dalle catene dei burocrati e dei parassiti; e agli outsider, gli esclusi e i non garantiti, per farli rientrare in gioco, con merito e responsabilità.
Qualcuno ha osservato l'assenza dei diritti civili dai "cantieri" aperti. Manca del tutto anche la politica estera, e sapete quanto mi interessi. Innanzitutto, bisogna ricordare che non si tratta del manifesto fondativo di un partito, per cui tutti i campi della decisione pubblica devono essere coperti in modo sistematico, quanto piuttosto, nella felice immagine usata da Malvino, «una stretta di mano» tra gentiluomini: tanto più credibile quanto più "stretta" sopra un foglio che vincola gli aderenti su un campo ristretto e verificabile di soluzioni «precise e praticabili».
Anzi, proprio l'idea che il discrimine destra/sinistra sia sempre più inefficace, poco significativo, nel descrivere la realtà sociale e politica contemporanea ci porta a ritenere che nelle società in cui viviamo sia sempre più difficile trovarsi d'accordo su tutto, su un unico pacchetto preconfezionato, che finirebbe per divenire dottrinario.
Inoltre, non credete che non passino anche per questi 13 "cantieri" altrettante battaglie di laicità, se la si intende nel senso che abbiamo provato a spiegare "noi" di LibMagazine: «Laicità come estraneità dalla logica delle costruzioni ideologiche. Non solo anticlericalismo, dunque... laicità come sinonimo di anticlericalismo, ma chiarendo: contro ogni chiesa, cioè contro ogni costruzione ideologica».
Contro quelle chiese cattocomuniste, quindi, che usano i poteri pubblici per gestire le vite dei cittadini gestendone i denari, presupponendo che l'individuo non sia di per sé in grado di distinguere il bene, neanche il suo, e il giusto, ma abbia bisogno della guida di costruzioni ideologiche veicolate attraverso lo Stato. Da una parte chi crede che nello Stato vi sia una moralità superiore e disinteressata, che sia capace di produrre per voi il miglior film sulla vostra vita, invitandovi magari ad esserne spettatori; dall'altra chi è convinto che lo Stato debba fornirvi gli strumenti per girarvelo da voi, il vostro film.
Secondo la mia analisi sono fondamentalmente due gli shock che potrebbero spazzare via la partitocrazia e liberare il nostro paese dall'immobilismo. Tra questi non ci sono i diritti civili, ma l'elezione diretta del capo del Governo e un sistema elettorale maggioritario, in modo che gli occhi degli elettori siano puntati sulle persone candidate e non sui partiti, e che anche i politici siano valutati secondo merito: chi perde a casa, senza ripescaggi; spezzare il binomio tasse-spesa pubblica, fattore di blocco del sistema e linfa vitale del regime partitocratico. Che la spesa pubblica abbia ormai superato la metà del Pil significa che c'è una catena di interdipendenza spessissima tra chi amministra questa spesa – la classe politica di centrosinistra e di centrodestra – e le clientele che ne beneficiano in termini di privilegi, sprechi e posizioni di rendita.
Istituzioni maggiormente rappresentative - in cui il ricambio sia più frequente, veloce, consistente e, quindi, il potere mai per troppi anni "occupato" (e i soldi gestiti) dai soliti - potrebbero essere meno subalterne ai magisteri morali e sociali, all'autorità religiosa, che impediscono l'allargamento della sfera delle libertà personali, e più citizen-oriented, attente a registrare i cambiamenti culturali e di stili di vita che avvengono nella società.
Nessuno pensi che non ci sia da combattere e da incassare delusioni.
Chi pensa che l'ex segretario radicale avrà la strada spianata da poteri (e soldi) occulti, o che sia il prescelto dal "regime" ovunque accolto con tappeti rossi, si sbaglia di grosso. E' una strada tutta in salita quella che lo aspetta, e che aspetta coloro che lo seguiranno, come tutte le strade liberali (e radicali) in questo paese, con una differenza, si spera: che la forma, e la sostanza, di questo network, siano capaci di esercitare una forza di attrazione che i vecchi contenitori, liberali e radicali, sembrano aver perduto.
Ho sempre pensato, e avvertito quando e come potevo, che la demonizzazione di Capezzone da parte di Pannella e delle sue "guardie svizzere" avrebbe danneggiato seriamente ciò che rimane del soggetto politico radicale - in grave crisi finanziaria, strategica (dopo il fallimento della Rosa nel Pugno e l'irrilevanza in uno dei peggiori governi di sempre), ma anche umana - privandolo ulteriormente di un valore certo dal punto di vista culturale, politico e comunicativo.
Ma ho anche sempre pensato che a uscirne indebolito sarebbe stato anche il reprobo costretto, se non altro per non uscirne pazzo, a sperimentare altre vie. Insomma, non mi sembra che lanciando questa nuova sfida Capezzone scelga la via più comoda. Salpa da un porto, malmesso e ostile, ma in fin dei conti sicuro nella sua inerzia, a volerci rimanere da spettatore, per veleggiare in un oceano impervio, esposto alle insidie, entrambe potenzialmente letali, della bonaccia e della tempesta.
Non pensate che una volta avviato il network proceda da sé, con il vento in poppa di chissà quali poteri "forti". Non pensate che ci sarà comunque qualcuno a "spingere", cominciate a spingere voi. Questa è davvero una iniziativa che avrà tanta forza quanta tutti noi decideremo di dargli. Aderite! Ma non limitatevi a quello. Animate il sito con vostri contributi, ma soprattutto fate crescere il network, ciascuno dal suo punto di osservazione, con gli strumenti che ha a disposizione. Parlatene a lavoro, all'università, in famiglia, con gli amici, sui vostri blog. Discutete i 13 "cantieri", approfondite, ricercate, osservate le reazioni della politica, chi si muove contro e chi a favore.
JimMomo, intanto, torna tra qualche giorno.
Tuesday, July 03, 2007
Il momento di decidere(.net)
Si accende domani il network di Capezzone, che speriamo possa dotare questo sfortunato paese di un server liberale. Lo annuncia lui stesso in un comunicato.
Alle 16.45 sarà messo online www.decidere.net; e alla stessa ora avverrà la presentazione aperta al pubblico, a Roma, in piazza, in Largo Goldoni. La data di nascita - il 4 luglio - è la stessa di un progetto piuttosto ben riuscito, c'è da sperare che sia bene augurante anche per questa sfida, che non sarà affatto facile.
Alle 16.45 sarà messo online www.decidere.net; e alla stessa ora avverrà la presentazione aperta al pubblico, a Roma, in piazza, in Largo Goldoni. La data di nascita - il 4 luglio - è la stessa di un progetto piuttosto ben riuscito, c'è da sperare che sia bene augurante anche per questa sfida, che non sarà affatto facile.
Per la società della scelta
Promuovere «la società della scelta», provare «ad allargare la sfera della decisione individuale e privata e a diminuire la sfera della decisione pubblica e collettiva»; «a superare la frontiera tra destra e sinistra, sostituendola con quella tra innovazione e conservazione».
(Il Foglio, 30 giugno 2007)
«Un'esperienza che può dare speranza a tanti, al mondo produttivo ma anche agli outsider, a chi è fuori dai fortini del privilegio. Il nostro sarà un percorso radicale e moderato, nel quale non è importante chi ci sta ma dove si va e cosa si fa. Per questo presenteremo dieci temi chiave proponendo soluzioni precise. E vedremo quali forze politiche sono disposte ad appoggiarci».
«... permettere a singoli, associazioni e movimenti di mettersi in moto sul piano territoriale e telematico. Poi, entro l'anno, organizzare una marcia dei 40mila che dia voce al popolo degli outsider e dei non garantiti».
(il Giornale, 1 luglio 2007)
(Il Foglio, 30 giugno 2007)
«Un'esperienza che può dare speranza a tanti, al mondo produttivo ma anche agli outsider, a chi è fuori dai fortini del privilegio. Il nostro sarà un percorso radicale e moderato, nel quale non è importante chi ci sta ma dove si va e cosa si fa. Per questo presenteremo dieci temi chiave proponendo soluzioni precise. E vedremo quali forze politiche sono disposte ad appoggiarci».
«... permettere a singoli, associazioni e movimenti di mettersi in moto sul piano territoriale e telematico. Poi, entro l'anno, organizzare una marcia dei 40mila che dia voce al popolo degli outsider e dei non garantiti».
(il Giornale, 1 luglio 2007)
Niente Partito democratico senza "rotture"
Su LibMagazine di questa settimana:
Niente Partito democratico senza "rotture". Bersani e Letta che si fanno avanti con suggestive parole d'ordine; Mario Monti che chiede due svolte: un «limitato consenso con l'opposizione su poche riforme essenziali» e il superamento della «concertazione»; il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino: qualcosa di buono, echi blairiani, la denuncia di un modo di essere conservatore della sinistra che va superato. Ma al di là di concretezze e vaghezze, nessuno annuncia l'essenziale, quella "rottura" senza la quale non ci può essere vero Partito democratico: che non farà alleanze elettorali con la sinistra comunista e massimalista.
Contro le tasse: interessante recensione del libro di Oscar Giannino.
Luigi Castaldi questa settimana va giù duro: ha calcolato gli interventi (due) di Pannella al Comitato, la mezza dozzina di telefonate in diretta e la consueta conversazione domenicale – «il tutto replicato da un minimo di due a un massimo di quattro volte, per almeno un quarto delle 72 ore di programmazione dalle 15.00 di venerdì alle 15.00 di lunedì». Sul suo «taccuino» ha annotato il turpiloquio del leader radicale: "stronzo", "cazzo", "merda" e "vaffanculo"; altri insulti «laterali alla sfera gastroenterica e a quella urogenitale»; «allusioni, alcune grevi, altre vaporose, fin'anche evanescenti come innocue scoreggine»; due o tre "cretino!"; accuse varie di «fascismo strisciante, criptogesuitismo, alto tradimento, complicità al regime, truffa aggravata».
Tutto questo «contro una persona sola – il nostro direttore politico, il direttore politico di LibMagazine – lasciato infine trafitto da un'accusa tremenda, forse la più grave di tutte: "Daniele Capezzone fa il vittimista". Insuperabile Pannella! Parte, si gasa, va in orbita e tanto accelera che si tampona da solo. Chi è quel tizio sotto una tonnellata di insulti, minacce e parolacce? Un "vittimista". Marco, giusto per esprimerci col tuo lessico: ma va' a cagare, va'!»
In nome di Blair: l'influenza dell'eredità politica dell'ex premier britannico sul superamento delle tradizionali linee di demarcazione della politica destra/sinistra.
Niente Partito democratico senza "rotture". Bersani e Letta che si fanno avanti con suggestive parole d'ordine; Mario Monti che chiede due svolte: un «limitato consenso con l'opposizione su poche riforme essenziali» e il superamento della «concertazione»; il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino: qualcosa di buono, echi blairiani, la denuncia di un modo di essere conservatore della sinistra che va superato. Ma al di là di concretezze e vaghezze, nessuno annuncia l'essenziale, quella "rottura" senza la quale non ci può essere vero Partito democratico: che non farà alleanze elettorali con la sinistra comunista e massimalista.
Contro le tasse: interessante recensione del libro di Oscar Giannino.
Luigi Castaldi questa settimana va giù duro: ha calcolato gli interventi (due) di Pannella al Comitato, la mezza dozzina di telefonate in diretta e la consueta conversazione domenicale – «il tutto replicato da un minimo di due a un massimo di quattro volte, per almeno un quarto delle 72 ore di programmazione dalle 15.00 di venerdì alle 15.00 di lunedì». Sul suo «taccuino» ha annotato il turpiloquio del leader radicale: "stronzo", "cazzo", "merda" e "vaffanculo"; altri insulti «laterali alla sfera gastroenterica e a quella urogenitale»; «allusioni, alcune grevi, altre vaporose, fin'anche evanescenti come innocue scoreggine»; due o tre "cretino!"; accuse varie di «fascismo strisciante, criptogesuitismo, alto tradimento, complicità al regime, truffa aggravata».
Tutto questo «contro una persona sola – il nostro direttore politico, il direttore politico di LibMagazine – lasciato infine trafitto da un'accusa tremenda, forse la più grave di tutte: "Daniele Capezzone fa il vittimista". Insuperabile Pannella! Parte, si gasa, va in orbita e tanto accelera che si tampona da solo. Chi è quel tizio sotto una tonnellata di insulti, minacce e parolacce? Un "vittimista". Marco, giusto per esprimerci col tuo lessico: ma va' a cagare, va'!»
In nome di Blair: l'influenza dell'eredità politica dell'ex premier britannico sul superamento delle tradizionali linee di demarcazione della politica destra/sinistra.
Monday, July 02, 2007
Quelli che l'archivio non lo ignorano
Uno che l'archivio di Radio Radicale non lo ignora, proprio perché sa bene che di temi come le pensioni, le tasse e la spesa pubblica i radicali si occupano da anni, e in senso liberale - anzi, come ho ricordato nel mio intervento all'ultimo Comitato, «il problema non è mai stato il "cosa", non è mai stato quello di inventarsi temi nuovi, in un partito che le riforme di cui il paese ha bisogno ce le ha scritte nella sua storia da decenni», ma il *come* si sta nella maggioranza - ebbene, uno che tutto questo non lo ignora pretende anche che tali temi siano qualificanti il profilo dei radicali adesso che sono al governo, assunti come priorità della loro azione e discriminanti nei rapporti con Prodi. Nell'ultimo anno non lo sono stati, nonostante a tutti quei fronti - pensioni, tasse, spesa pubblica - l'Esecutivo abbia imposto un pericoloso arretramento.
Un altro che l'archivio evidentemente non lo ignora, ha tirato fuori, mettendola a disposizione del forum di Radicali.it, una versione di Rita Bernardini di non molto tempo fa: Guardare (e ascoltare) per credere.
Un altro che l'archivio evidentemente non lo ignora, ha tirato fuori, mettendola a disposizione del forum di Radicali.it, una versione di Rita Bernardini di non molto tempo fa: Guardare (e ascoltare) per credere.
«Un senso di saturazione» (e di nausea)
Come si può pretendere dai giornali che riferiscano dei lavori dell'ultimo Comitato di Radicali italiani prestando attenzione anche ai contenuti e alle proposte politiche, quando Marco Pannella ha dedicato due interventi in tre giorni, ciascuno di oltre un'ora, ad attaccare Capezzone, trasformando il processo a Capezzone nell'evento politico del Comitato? Come poteva un cronista non imperniare il suo pezzo sul "caso Capezzone" o, piuttosto, sul "caso Pannella"?
Uno dei momenti più squallidi e umilianti è stata la fase di votazione della mozione-gogna a firma Pannella e altri contro Capezzone. La mozione è passata a maggioranza (28 contro 7, e 3 astenuti) nel tardo pomeriggio, quando ormai l'assemblea si era svuotata a causa dei rientri: assente oltre la metà dei membri. Il livore e il linguaggio scurrile di Pannella all'indirizzo di chiunque sollevasse obiezioni e preoccupazioni la dice lunga di uno stato d'animo, una sorta di trance, di ossessione paranoica, che nel bunker romano di Torre Argentina coinvolge - e non poteva essere altrimenti - il corpo mistico e antropologico in comunione e in con-passione con il leader carismatico.
E' quindi la carenza di laicità interna a inquinare le dinamiche interne ai radicali, a impedire al partito come collettivo di discutere e decidere la linea politica razionalmente e lucidamente. In una parola: laicamente.
Oltre al deputato Bruno Mellano, tra i pochi a votare contro la mozione, Silvio Viale, non certo tra i simpatizzanti di Capezzone, ha espresso in un comunicato il suo dissenso, definendola «mozione della vergogna, che avrebbe meritato il miglior ostruzionismo dei tempi d'oro dei radicali».
Uno dei momenti più squallidi e umilianti è stata la fase di votazione della mozione-gogna a firma Pannella e altri contro Capezzone. La mozione è passata a maggioranza (28 contro 7, e 3 astenuti) nel tardo pomeriggio, quando ormai l'assemblea si era svuotata a causa dei rientri: assente oltre la metà dei membri. Il livore e il linguaggio scurrile di Pannella all'indirizzo di chiunque sollevasse obiezioni e preoccupazioni la dice lunga di uno stato d'animo, una sorta di trance, di ossessione paranoica, che nel bunker romano di Torre Argentina coinvolge - e non poteva essere altrimenti - il corpo mistico e antropologico in comunione e in con-passione con il leader carismatico.
«... il carisma è sempre indiscutibile, nel senso che chi ne discute non lo accetta come tale: i radicali fedeli a Marco Pannella, al massimo, sono disposti ad ammettere che di carisma si tratti; ma ad invitarli a discutere se questo carisma si sia sempre tradotto, o attualmente si traduca, in una linea politica decente equivale ad un insulto, come la peggiore blasfemia, contro il loro leader carismatico e – soprattutto – contro la loro intera storia.(Luigi Castaldi, 29 giugno 2007)
E grazie al cazzo, mi permetterei di dire. Se, infatti, la storia di un partito politico si incolla al pensiero, alla vita, alle azioni e perfino agli umori di un leader carismatico che le infonde carisma dalla fondazione ad oggi, è ovvio che la storia di quel partito, ed il partito stesso, si identifichino con quel leader. E non parliamo della situazione finanziaria del partito, in questi casi: materialmente, dalla macchina minuta a quella grossa, il partito appartiene al leader. E' quindi "naturale"... che... sia... di fattuale proprietà di Marco Pannella. Questo tessuto relazionale fa di ogni radicale un utente della macchina grossa e minuta; utente nella fattispecie di militante... nella piena disposizione della macchina grossa e minuta, se soldato obbediente e fedele al capo o, sennò, no.
... se la linea politica di un partito del genere deve essere giocoforza coincidente con pensiero, vita, azioni e perfino umori del capo militare, la milizia potrà essere solo del genere che prende forza dal carisma; chiunque discuta il carisma diventa automaticamente un soldato infedele, un traditore; tollerarne la presenza diventa insopportabile, come un'offesa nella carne viva del leader, cioè, dell'intero partito; le membra non potranno che obbedire a ciò che il capo dice, o si intuisce pensi (non è difficile intuirlo, quando si è nel flusso di una potente empatia); si farà a gara per assecondarne il riflesso autoritativo... discutere su una linea politica voluta e decisa dal leader carismatico, e automaticamente empatizzata dai militanti, farà di chi ne discute uno che la mette in discussione; e che, dunque, mette in discussione il carisma del leader; che è leader in virtù del suo carisma; insomma, vorrà dire che mette in discussione la persona stessa del leader.
Si badi bene: si tratta del leader di un partito che ha messo a disposizione la sua macchina grossa e minuta a disposizione di colui che ora si rivela, con ciò, un traditore. Scatta un altro riflesso: la grazia amministrata dal carisma, nel punto in cui essa non restituita come gratitudine (che può essere restituita solo come obbedienza, meglio se sentita), non è solo tradimento, è tradimento sommamente infame, perché tradimento di un soldato ingrato. Questo uso della grazia, che è concessa al radicale (o gli è ritirata) per mezzo del carisma del leader, è quanto mi ha consentito di chiudere la mia personale esperienza tra i radicali... Uso della grazia che è (se latamente inteso) clericale».
E' quindi la carenza di laicità interna a inquinare le dinamiche interne ai radicali, a impedire al partito come collettivo di discutere e decidere la linea politica razionalmente e lucidamente. In una parola: laicamente.
Oltre al deputato Bruno Mellano, tra i pochi a votare contro la mozione, Silvio Viale, non certo tra i simpatizzanti di Capezzone, ha espresso in un comunicato il suo dissenso, definendola «mozione della vergogna, che avrebbe meritato il miglior ostruzionismo dei tempi d'oro dei radicali».
«Siamo nel campo della psicologia della parapolitica. Chiedere la gogna, dietro il paravento della "casta" o della disciplina nella critica ai radicali ed al governo, oltre che essere illiberale, totalitario e giustizialista, non fa onore ai valori del partito radicale... La mozione anti-Capezzone evidenzia l'insofferenza di molti dirigenti radicali verso ogni dissidenza interna, che non si configuri come pura testimonianza formale... ha il sapore di una rappresaglia preparata con cura da quel briccone di D'Elia.Pacato ma tagliente, ed emblematico, anche il dissenso espresso da Maria Gigliola Toniollo, sindacalista della Cgil (esattamente non il massimo dell'affinità con l'ex segretario radicale) che un secondo dopo l'approvazione della mozione si è autosospesa dalla Direzione, non tanto in solidarietà con Capezzone, ma non riconoscendo più «questo partito». Eppure, la sua dichiarazione, resa al termine della votazione, non risulta dalla registrazione video disponibile su RadioRadicale.it.
Nel merito, voglio solo ricordare a D'Elia e soci che la qualità di un politico è giudicata da molte cose e non solo dalle presenze in aula. Su questo avevo anch'io criticato Capezzone, ma non mi sognerei mai di sostenere che Marco Pannella non sia un grande eurodeputato solo perché è, probabilmente, poco presente alle commissioni. Sta a Marco, come a Daniele, decidere le priorità. Sta a noi criticare eventualmente le priorità, ma nessuna critica può cancellare i 28 voti che hanno scritto una delle pagine più vergognose della storia radicale».
Battesimo del fuoco per Gordon Brown
Potevano essere altre stragi, come quelle del luglio 2005, su autobus e convogli della metropolitana londinese, in cui rimasero uccise 52 persone e ferite oltre 700. Due anni dopo, a pochi giorni dall'insediamento a Downing Street del successore di Tony Blair, la Gran Bretagna è di nuovo sotto attacco terroristico, presumibilmente da parte di al-Qaeda. Due attentati sventati a Londra venerdì; sabato colpito l'aeroporto di Glasgow. Due uomini a bordo di un Suv hanno tentato di schiantarsi contro il terminal delle partenze, in una corsa che si è conclusa contro un ostacolo fisico, con la vettura in fiamme e, fortunatamente, nessuna vittima, anche se uno dei due uomini al momento dell'arresto indossava un congegno esplosivo. Due gli ordigni ritrovati e disinnescati all'interno di altrettante auto parcheggiate nel centro di Londra: ad Haymarket, a pochi passi da Piccadilly Circus, e a Park Lane.
Per Scotland Yard, i tre attacchi facevano parte di un unico disegno, ma erano diverse i piani degli esecutori: le bombe di Londra dovevano essere innescate dallo squillo di telefonini nelle auto, mentre i terroristi di Glasgow erano disposti a morire.
Tra gli arrestati, nei giorni scorsi – sette in tutto, di origine mediorientale – anche un chirurgo palestinese con passaporto giordano, Mohammed Jamil Abdelkader Asha, laureato ad Amman e dipendente presso un ospedale di Glasgow. Sarebbe lui "Mr. Big", la mente del gruppo. Un altro medico arrestato, iracheno, sarebbe il secondo attentatore del fallito attacco all'aeroporto di Glasgow, ma prosegue la caccia ad altri terroristi.
Le reazioni contraddittorie dell'anti-terrorismo britannico dimostrano che il paese non è del tutto preparato ad affrontare la minaccia, osserva la rivista conservatrice americana Frontpage. Dagli attacchi di due anni fa le autorità sembrano ancora non aver individuato con precisione il nemico. La classe politica preferisce evitare di stabilire qualsiasi riferimento alle motivazioni ideologiche e religiose dei terroristi, per non esacerbare le tensioni con le comunità islamiche. I falliti attentati rappresentano quindi una prova del fuoco anche per Brown, la cui prima reazione è stata di fermezza: «L'Inghilterra non cederà al male». Nel paese permane lo stato di massima allerta. Tuttavia, il nuovo premier laburista dovrà dimostrare personalità e doti di leadership all'altezza del suo predecessore per confermare che cultura della sicurezza, della difesa, e dell'uso della forza sono ormai assimilate nella sinistra di governo britannica e non solo caratteri effimeri.
Il fatto che due medici siano coinvolti negli attentati fa tornare la paura per i "terroristi della porta accanto": difficile individuarli, ma anche meno preparati militarmente e quindi spesso approssimativi nelle loro azioni. Una nuova conferma alle conclusioni degli studi più dettagliati, che indicano tra i sostenitori e gli appartenenti alla rete di al-Qaeda una maggioranza di musulmani all'apparenza perfettamente integrati, di istruzione universitaria occidentale e status socio-economico medio-alto. Altro che scuole coraniche e madrasse, che solo successivamente diventano mete di indottrinamento. Smentito ancora una volta, quindi, il pregiudizio secondo cui il terrorismo islamista troverebbe nei diseredati e negli emarginati del pianeta la propria manovalanza.
Dai primi identikit dei terroristi arrestati traspare l'immagine di quell'integrazione fiore all'occhiello della british way of life. Il multiculturalismo britannico, ma non solo, rischia di finire di nuovo sotto processo.
L'idea che avremmo dovuto aspirare a un'identità comune e a una serie di valori condivisa è stata erosa in nome di una visione ideologica del multiculturalismo. Un problema di cittadinanza, non strettamente di integrazione. Una cittadinanza britannica, ma ciò vale anche per altri paesi europei, della quale non sembrano far parte, non vengono percepiti, accettati, assimilati, i valori politici su cui essa si fonda.
Questo fraintendimento sul significato dell'integrazione fra culture e comunità religiose diverse viene aggravato dallo spirito "concordatario" che anima i nostri Stati. Anziché integrare individui, cerchiamo di integrare comunità; invece di assicurare l'esercizio di libertà e diritti a quei singoli individui, all'interno delle nostre città concediamo autonomie etnico-confessionali, se non veri e propri rapporti privilegiati con lo Stato, a etnie e gruppi religiosi in quanto comunità. Esse, e non il singolo individuo, divengono così i naturali soggetti di diritto, portatrici di istanze meritevoli di attenzione e destinatarie dei benefici.
Occorre recuperare la dimensione dell'individuo come soggetto di diritti, dando minore spazio a politiche pubbliche incentrate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo. Altrimenti il rischio è quello di trovarci di fronte a società apparentemente integrate ma tribalizzate, frammentate, prive di centro politico, dove molti gruppi culturali affermano la propria identità attraverso il vittimismo, il risentimento, l'ideologia politica.
Per Scotland Yard, i tre attacchi facevano parte di un unico disegno, ma erano diverse i piani degli esecutori: le bombe di Londra dovevano essere innescate dallo squillo di telefonini nelle auto, mentre i terroristi di Glasgow erano disposti a morire.
Tra gli arrestati, nei giorni scorsi – sette in tutto, di origine mediorientale – anche un chirurgo palestinese con passaporto giordano, Mohammed Jamil Abdelkader Asha, laureato ad Amman e dipendente presso un ospedale di Glasgow. Sarebbe lui "Mr. Big", la mente del gruppo. Un altro medico arrestato, iracheno, sarebbe il secondo attentatore del fallito attacco all'aeroporto di Glasgow, ma prosegue la caccia ad altri terroristi.
Le reazioni contraddittorie dell'anti-terrorismo britannico dimostrano che il paese non è del tutto preparato ad affrontare la minaccia, osserva la rivista conservatrice americana Frontpage. Dagli attacchi di due anni fa le autorità sembrano ancora non aver individuato con precisione il nemico. La classe politica preferisce evitare di stabilire qualsiasi riferimento alle motivazioni ideologiche e religiose dei terroristi, per non esacerbare le tensioni con le comunità islamiche. I falliti attentati rappresentano quindi una prova del fuoco anche per Brown, la cui prima reazione è stata di fermezza: «L'Inghilterra non cederà al male». Nel paese permane lo stato di massima allerta. Tuttavia, il nuovo premier laburista dovrà dimostrare personalità e doti di leadership all'altezza del suo predecessore per confermare che cultura della sicurezza, della difesa, e dell'uso della forza sono ormai assimilate nella sinistra di governo britannica e non solo caratteri effimeri.
Il fatto che due medici siano coinvolti negli attentati fa tornare la paura per i "terroristi della porta accanto": difficile individuarli, ma anche meno preparati militarmente e quindi spesso approssimativi nelle loro azioni. Una nuova conferma alle conclusioni degli studi più dettagliati, che indicano tra i sostenitori e gli appartenenti alla rete di al-Qaeda una maggioranza di musulmani all'apparenza perfettamente integrati, di istruzione universitaria occidentale e status socio-economico medio-alto. Altro che scuole coraniche e madrasse, che solo successivamente diventano mete di indottrinamento. Smentito ancora una volta, quindi, il pregiudizio secondo cui il terrorismo islamista troverebbe nei diseredati e negli emarginati del pianeta la propria manovalanza.
Dai primi identikit dei terroristi arrestati traspare l'immagine di quell'integrazione fiore all'occhiello della british way of life. Il multiculturalismo britannico, ma non solo, rischia di finire di nuovo sotto processo.
L'idea che avremmo dovuto aspirare a un'identità comune e a una serie di valori condivisa è stata erosa in nome di una visione ideologica del multiculturalismo. Un problema di cittadinanza, non strettamente di integrazione. Una cittadinanza britannica, ma ciò vale anche per altri paesi europei, della quale non sembrano far parte, non vengono percepiti, accettati, assimilati, i valori politici su cui essa si fonda.
Questo fraintendimento sul significato dell'integrazione fra culture e comunità religiose diverse viene aggravato dallo spirito "concordatario" che anima i nostri Stati. Anziché integrare individui, cerchiamo di integrare comunità; invece di assicurare l'esercizio di libertà e diritti a quei singoli individui, all'interno delle nostre città concediamo autonomie etnico-confessionali, se non veri e propri rapporti privilegiati con lo Stato, a etnie e gruppi religiosi in quanto comunità. Esse, e non il singolo individuo, divengono così i naturali soggetti di diritto, portatrici di istanze meritevoli di attenzione e destinatarie dei benefici.
Occorre recuperare la dimensione dell'individuo come soggetto di diritti, dando minore spazio a politiche pubbliche incentrate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo. Altrimenti il rischio è quello di trovarci di fronte a società apparentemente integrate ma tribalizzate, frammentate, prive di centro politico, dove molti gruppi culturali affermano la propria identità attraverso il vittimismo, il risentimento, l'ideologia politica.
Sunday, July 01, 2007
Meglio tardi che mai
In questi giorni, finalmente, dopo sei mesi passati ad occuparsi unicamente di moratoria Onu della pena di morte, e un anno senza alcuna iniziativa critica nei confronti dell'operato del Governo Prodi - ciechi, sordi e muti sulla Finanziaria, sulle pensioni, sulle tasse, sulla spesa pubblica - anzi, trascorso a civettare sulla laicità con Boselli, Mussi e i comunisti, Pannella e Bonino si accorgono, quando forse è troppo tardi, del tema delle pensioni e che il governo sta per accontentare sindacati e sinistra conservatrice. Si sono forse accorti di avere sbagliato linea in tutti questi mesi, ignorando i danni dell'attività del governo di cui fanno parte?
Convocano alla Camera una conferenza stampa per dire che lo "scalone" non va abolito. Si rivolgono a Prodi, senza accorgersi che Prodi è il responsabile più che la vittima, che per difendersi da Ds e Margherita governa appoggiandosi alla sinistra massimalista. E vivono un giorno da opportunisti, dopo 400 da "ultimi giapponesi", inseguendo frettolosi quella linea di scontro con la sinistra conservatrice e i sindacati che Capezzone sta tentando di perseguire da mesi e che doveva rappresentare il ruolo dei radicali nella maggioranza, per la riforma della sinistra.
Durante la conferenza stampa non può non venire fuori che la proposta di legge radicale sulle pensioni è quella che reca come prima firma quella di Capezzone: «C'è una proposta di legge che ha naturalmente come primo firmatario Capezzone, poi l'intero gruppo di radicali della Rosa nel Pugno, Benedetto Della Vedova e altri, Tabacci, e su quella si lotterà, come siamo abituati a lottare», dice Pannella. Una proposta di legge bipartisan che prevede il pensionamento a 65 anni per tutti dal 2018. E Capezzone? No, Capezzone non c'era, il reprobo. Al suo posto Pannella, Emma Bonino e Rita Bernardini erano accompagnati da Roberto Cicciomessere, animatore del think tank Welfare to work, arruolato in fretta e furia dopo che per un anno e mezzo non l'hanno degnato nemmeno di uno sguardo.
Convocano alla Camera una conferenza stampa per dire che lo "scalone" non va abolito. Si rivolgono a Prodi, senza accorgersi che Prodi è il responsabile più che la vittima, che per difendersi da Ds e Margherita governa appoggiandosi alla sinistra massimalista. E vivono un giorno da opportunisti, dopo 400 da "ultimi giapponesi", inseguendo frettolosi quella linea di scontro con la sinistra conservatrice e i sindacati che Capezzone sta tentando di perseguire da mesi e che doveva rappresentare il ruolo dei radicali nella maggioranza, per la riforma della sinistra.
Durante la conferenza stampa non può non venire fuori che la proposta di legge radicale sulle pensioni è quella che reca come prima firma quella di Capezzone: «C'è una proposta di legge che ha naturalmente come primo firmatario Capezzone, poi l'intero gruppo di radicali della Rosa nel Pugno, Benedetto Della Vedova e altri, Tabacci, e su quella si lotterà, come siamo abituati a lottare», dice Pannella. Una proposta di legge bipartisan che prevede il pensionamento a 65 anni per tutti dal 2018. E Capezzone? No, Capezzone non c'era, il reprobo. Al suo posto Pannella, Emma Bonino e Rita Bernardini erano accompagnati da Roberto Cicciomessere, animatore del think tank Welfare to work, arruolato in fretta e furia dopo che per un anno e mezzo non l'hanno degnato nemmeno di uno sguardo.
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