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Monday, August 18, 2008

La zampata russa coglie l'Occidente in letargo

Sconfitta che sfiora l'umiliazione per la Nato e gli Stati Uniti, mentre l'Europa ha ancora una volta dimostrato al suo vicino gigante russo di non esistere, di non saper nemmeno alzare la voce in difesa di suoi evidenti interessi.

Vedremo se, come promesso, i russi cominceranno oggi a ritirarsi dalla Georgia. Ieri il ministro della Difesa rendeva noto che la questione doveva essere ancora valutata e la decisione sarebbe stata presa solo «quando la situazione nella regione si sarà stabilizzata». Ma il presidente Medvedev, nel corso di un colloquio telefonico con Sarkozy, presidente di turno della Ue, aveva assicurato che il ritiro sarebbe iniziato oggi a mezzogiorno. Sarkozy non poteva far altro che prenderne atto chiarendo che in caso contrario la Russia sarebbe andata incontro a «gravi conseguenze»: «Questo ritiro deve essere messo in atto senza rinvii. A mio parere ciò non è negoziabile... Riguarda tutte le forze entrate dal 7 agosto scorso. Se questa clausola dell'accordo non sarà applicata rapidamente e totalmente, convocherò un Consiglio Europeo straordinario per decidere le conseguenze da trarre».

Per oltre una settimana i russi hanno fatto il bello e il cattivo tempo in Georgia, prendendosi gioco del piano Ue fatto sottoscrivere dal presidente Sarkozy ad entrambe le parti. Truppe e blindati russi sono rimasti posizionati ben oltre i tempi previsti dall'accordo a circa 45 chilometri da Tbilisi e nella città di Gori, tagliando in due il Paese e impedendo l'accesso ai porti del Mar Nero.

Ha quindi ragione Angelo Panebianco a parlare di Europa «irrisa e sbeffeggiata», «complice, più o meno riluttante», del «disegno russo». Ciò che i russi chiamano «misure aggiuntive di sicurezza» non è che la distruzione delle strutture militari georgiane, e qualche volta delle infrastrutture civili, così da rendere la Georgia ancor più indifesa e soggetta alla prepotenza russa. E oggi leggendo il New York Times si apprende che i russi, un giorno prima che il presidente Medvedev firmasse l'accordo di tregua proposto da Sarkozy, di fatto carta straccia, hanno schierato in Ossezia del Sud basi di lancio per missili a corto raggio SS-21, in grado di raggiungere la maggior parte del territorio georgiano, compresa la capitale Tbilisi.

Ciò che gli europei hanno definito «mediazione» e ruolo dell'Europa è in realtà una presa di distanze dagli Stati Uniti che ha indebolito la risposta dell'Occidente, confermando ai russi di poter sfruttare le divisioni occidentali. Inoltre, come osserva oggi Panebianco, l'Unione europea ha dimostrato di ignorare i fondati motivi di preoccupazione per la loro sicurezza dei suoi membri dell'Est.

Si dice che «non possiamo isolare la Russia». Una ovvietà. «Ci serve il suo gas, ci serve il suo appoggio nella crisi iraniana, ci serve che essa svolga un ruolo internazionale di cooperazione. Ma non possiamo permettere che essa usi il bastone e la carota con noi senza fare la stessa cosa nei suoi confronti». Tener conto sì delle "ragioni" della Russia, «ma non al punto di andare contro i nostri interessi vitali».

Dagli Stati Uniti invece sono giunti severi moniti nei confronti di Mosca ma a Washington i tempi di reazione sono apparsi comunque troppo lenti e timidi. E, soprattutto, l'amministrazione Bush si è fatta cogliere di sorpresa e nei mesi e anni scorsi ha sottovalutato i piani di Mosca.

La reputazione della Russia «è a brandelli» e pagherà le conseguenze delle sue azioni, avverte ora il segretario di Stato Condoleeza Rice. Azioni che «sollevano seri interrogativi sul suo ruolo e le sue intenzioni in Europa nel ventunesimo secolo», dichiara il presidente Bush: «Negli ultimi anni la Russia ha cercato di integrarsi nelle strutture diplomatiche, politiche, economiche e di sicurezza dell'occidente e gli Stati Uniti hanno appoggiato questi sforzi. Ora la Russia ha messo le sue aspirazioni a rischio intraprendendo azioni che fanno a pugni con i principi di queste istituzioni».

Un'altra risposta all'imperialismo russo è giunta da Varsavia. Il premier polacco Donald Tusk ha annunciato che Polonia e Stati Uniti hanno raggiunto un accordo preliminare per l'installazione dello scudo antimissile. Pronta la reazione da parte russa, per voce del generale Nogovizin, numero due dello Stato maggiore di Mosca. L'accordo non resterà «impunito», ha minacciato: «La Polonia si espone a un attacco, al cento per cento». Solo nelle dittature i generali si prendono la libertà di rilasciare dichiarazioni di tale gravità. Nell'offensiva in Georgia c'è di mezzo anche l'onore e l'orgoglio ferito delle forze armate russe. Sarà fantapolitica, ma quando al Cremlino i vertici politici danno il via a un'operazione militare, l'impressione è che non sappiano esattamente quando riusciranno a fermarla e fino a che punto i generali si spingeranno.

Che sia stato o no il presidente georgiano Saakashvili a sparare il primo colpo è a questo punto irrilevante, perché questa è una guerra che Mosca sta cercando di provocare da parecchio tempo, con forme di embargo e ripetute provocazioni militari. Se Saakashvili è caduto nella trappola russa, offrendo a Putin l'occasione che stava da tempo aspettando per dare una lezione alla piccola e filo-occidentale Georgia, l'Occidente sta perdendo la sua occasione per dare una lezione all'ambiziosa e ancora relativamente debole Russia. E gli iraniani, in silenzio, osservano...

«The man who once called the collapse of the Soviet Union "the greatest geopolitical catastrophe of the [20th] century" has reestablished a virtual czarist rule in Russia and is trying to restore the country to its once-dominant role in Eurasia and the world. Armed with wealth from oil and gas; holding a near-monopoly over the energy supply to Europe; with a million soldiers, thousands of nuclear warheads and the world's third-largest military budget... His war against Georgia is part of this grand strategy. Putin cares no more about a few thousand South Ossetians than he does about Kosovo's Serbs. Claims of pan-Slavic sympathy are pretexts designed to fan Russian great-power nationalism at home and to expand Russia's power abroad», ha scritto Robert Kagan sul Washington Post.

Il conflitto georgiano e la prepotenza russa confermano la tesi del suo ultimo libro, come lui stesso osserva in un recente articolo sul Weekly Standard. «La Storia è tornata», le autocrazie sono «ambiziose» e le democrazie «esitanti». Con l'invasione della Georgia cadono le illusioni coltivate con la fine della Guerra Fredda. L'imperialismo anima la politica estera russa fin dai tempi dello Zar, è stato carattere costitutivo della politica estera sovietica e non c'è ragione perché nella Russia autocratica di Putin venga abbandonato.

I conflitti tra grandi potenze e i nazionalismi ritornano, mentre il commercio internazionale e la crescita economica non hanno condotto al liberalismo politico in Cina e in Russia. Lo faranno nel lungo periodo? Ma quanto è lungo questo "lungo periodo", si chiede Kagan. La crescita economica e l'autocrazia si sono dimostrate compatibili, come lo furono in Germania e in Giappone tra la fine dell'800 e l'inizio del '900. Anzi, gli autocrati stanno imparando sempre di più come aprire alle attività economiche continuando a sopprimere le attività politiche. L'interdipendenza economica non ha sostituito il confronto geopolitico né ha diminuito l'importanza della forza militare.

L'Occidente è diviso e lento nel reagire ma ha ancora delle «carte da giocare» e Charles Krauthammer ha indicato quattro mosse per fermare Putin, o quanto meno per fargli capire che le sue azioni possono provocare gravi conseguenze per la Russia nei rapporti con l'Occidente. Neocon, si dirà, ma non differisce di molto l'analisi di un "realista" come Zbigniev Brzezinski, che paragona l'attacco alla Georgia a quanto fece l'Unione sovietica di Stalin alla Finlandia nel 1939.

Friday, July 18, 2008

Niente paura, la Cina è ancora lontana

Alla presentazione del nuovo numero di Limes interamente dedicato alla Cina, "Il marchio giallo", oltre al direttore Lucio Caracciolo e al Card. Silvestrini, Prefetto Emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, ha partecipato il ministro degli Esteri Franco Frattini. La tesi esposta nell'editoriale di Caracciolo è che la Cina è sì un colosso del commercio mondiale che invade i mercati esportando merci, ma non è ancora una vera superpotenza, perché non esporta il «marchio giallo», cioè un brand «proprio e universale», che «la distingua e la faccia apprezzare». Il made in China di oggi è altro, tutto quantità senza qualità.

Pechino è lontana, scrive Caracciolo, dallo «stigma delle superpotenze al loro acme», il soft power inteso come potere della seduzione. Ad oggi «spaventa più che attrarre», come quando cade nel «disastro mediatico» della rivolta tibetana nel marzo scorso, dimostrando l'«insicurezza» e il volto violento del suo regime. E' bastato un «pugno di monaci» a rafforzare la sua «cattiva immagine».

L'economia non basta per diventare egemoni, spiega il direttore di Limes. Tra l'altro, Pil e reddito pro capite sono ancora troppo bassi per «aspirare al rango di supergrande». Il «cocktail di autocrazia e capitalismo» porta risultati e conviene a molti leader africani, ma la Cina non offre modelli culturali «appetibili». In America e in Europa «i pregiudizi negativi sul made in China crescono con progressione geometrica rispetto alla penetrazione di merci cinesi». Quanto alla way of life, «il giovane cinese scimmiotta i tic occidentali» e il sistema politico cinese in Occidente è «anatema».

Quindi, quanti prevedono «l'inevitabile sorpasso del Pil cinese ai danni di quello americano entro dieci o vent'anni, dovrebbero tenerne conto»: questa Cina non ha ancora prodotto il suo marchio di successo. L'«irradiamento» del regime di Pechino è «modestissimo». «Su queste basi pretendere al primato mondiale – anche solo alla cogestione sino-americana – è alquanto fantasioso», conclude Caracciolo.

Nel suo intervento il ministro Frattini non si è sottratto a dare almeno una risposta alle tante domande aperte dal nuovo numero di Limes: è la Cina ad essere divenuta «più globale», non il mondo «più cinese». Non c'è area del mondo in cui però non giochi un ruolo forte, ha osservato. In molti casi positivo: dal contributo alla stabilizzazione in Libano ai negoziati sul nucleare con la Corea del Nord; dai rapporti con il Giappone agli sforzi per una zona di libero scambio tra i Paesi dell'Asean. «Bisognerà tener conto della Cina anche per stabilizzare Afghanistan e Pakistan», ha suggerito Frattini.

L'Occidente ha il «dovere di rafforzare il proprio incoraggiamento alla Cina perché sia un attore globale responsabile». Ma su alcuni grandi temi, in particolare, va «stimolata» a fare di più. Il ministro ha auspicato che siano sciolti i dubbi sul rispetto delle regole del WTO e ambientali, e che Pechino intraprenda il «percorso verso standard occidentali sui diritti umani» in modo «risoluto». Del tema dei diritti fanno parte la libertà religiosa e la pena di morte, ha ricordato, così come il dialogo con le minoranze. «Vogliamo che la Cina continui il dialogo con il Dalai Lama». Non per l'indipendenza del Tibet, che è lo stesso Dalai Lama a escludere, come sanno tutti, ma nel rispetto del principio del dialogo.

Riguardo la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, sarà il sottosegretario allo Sport, Rocco Crimi, a rappresentare l'Italia, ha anticipato il ministro, che invece sarà in vacanza. «Altre presenze – ha precisato – saranno valutate individualmente». Sentiti i capi di Stato e di governo europei, Sarkozy ha detto che andrà. «E a noi questo basta. Non c'è una linea di governo in un senso o in un altro, come non c'è una linea dell'Ue».

«Gestire» la Cina è «un'illusione», ha sottolineato Frattini. Occorre «un'agenda comune» su temi come l'ambiente, l'energia, la salute, la cultura, la riforma dell'Onu, il programma nucleare iraniano. E sulla crisi del Darfur Pechino «avrebbe una parola in più da dire». Ma «dalla paura, dal dubbio e dalla diffidenza», dobbiamo passare alla «fiducia» nei rapporti con la Cina; dalla tentazione di difenderci soltanto «al coinvolgimento e alla partnership strategica». Chissà cosa ne penserà il ministro Tremoni.

Per tutto questo, ha concluso il ministro, «ci vuole l'Europa, che ancora non è un attore globale». Rispetto alla promozione dei diritti umani, per esempio, «vorremmo vedere l'Ue impegnata senza se e senza ma». Un G-2 sino-americano, tagliando fuori l'Ue, non avrebbe grande futuro, ma potrebbe un giorno essere una realtà se l'Ue si suicidasse, ha avvertito.

Sunday, December 02, 2007

Russia. Un grande passo verso l'autocrazia

Chissà quanto reversibile...

Il cesarismo e l'imperialismo hanno sempre contraddistinto il potere e la forma di governo in Russia. Connotati che hanno resistito a quasi un secolo di ideologia comunista e che, anzi, hanno caratterizzato pure quella. Efficace l'immagine proposta da Enzo Bettiza, sabato scorso su La Stampa: «senza corona, mezzo martello, mezzo crocifisso», ma sempre zar. Questo è Putin, che sembra avviarsi a ricevere un consenso plebiscitario nelle elezioni parlamentari che si sono tenute domenica. Oltre il 63% dei voti sarebbe andato al suo partito, Russia Unita. Una percentuale che gli permette di avere un numero di seggi sufficiente a modificare la Costituzione. Dopo la riparitizione della percentuale di voti raccolta dai partiti che non hanno raggiunto lo sbarramento del 7%, i seggi di Russia Unita supereranno infatti i due terzi della Duma necessari.

La stabilità interna, il totale controllo dei media e la chiusura degli spazi di dissenso, la Duma ridotta a camera di ratifica, il monopolio energetico statale, l'orgoglio russo di poter tenere di nuovo testa all'Occidente (seppure molti gesti di sfida siano solo bluff ad uso interno).

I russi credono che Putin abbia salvato la Russia, e sia l'unico a poterla salvare in futuro, «dall'umiliazione, dalla dipendenza e dalla disintegrazione». E che abbia eliminato gli oligarchi, mentre ne ha semplicemente creati di nuovi, a lui fedeli, che per ora sembra in grado di controllare. Ha messo nei posti chiave del potere uomini, i cosiddetti "siloviki", che provengono dalle uniche strutture statali rimaste in piedi, e forti, dopo lo scioglimento dell'Urss: i servizi segreti e i "ministeri della forza". Nel caos post-sovietico i peggiori uomini di potere hanno pian piano ripreso il controllo. Piccoli difetti collaterali delle "rivoluzioni di velluto".

Eppure, nonostante Putin goda obiettivamente di un ampio consenso tra i russi, probabilmente davvero maggioritario - seppure "drogato" dai suoi metodi e dal suo sistema di potere - il presidente russo sente il bisogno di «drammatizzare» le minacce esterne, reprimere brutalmente persino i dissidenti dal più scarso seguito, truccare le elezioni (sia pure intervenendo più sul contesto di regole generali che nelle urne).

E' obbligato a stravincere, non solo a vincere. A marzo si terranno le elezioni presidenziali e solo stravincendo oggi riuscirà a controllare le lotte intestine all'interno del suo sistema di potere e a piazzare al Cremlino una figura di secondo piano a lui fedele, disposta a farsi da parte al momento opportuno, per poter restare - vedremo in che forma - egli stesso al comando.

L'Occidente democratico deve al più presto rivedere la propria politica nei confronti di questa involuzione della Russia in senso autocratico: condannare con forza le violazioni dei diritti e delle libertà dei cittadini; mettere in discussione la presenza e il ruolo della Russia nei consessi internazionali; elaborare una nuova politica energetica. Ricordando che se l'Europa è così bisognosa delle risorse energetiche russe, è anche vero che la Russia per farle fruttare ha bisogno degli investimenti e delle tecnologie occidentali. E' una questione non solo di principi, che non riguarda solo la democrazia in Europa e la sorte dei russi, ma anche la nostra sicurezza.

Saturday, November 17, 2007

Per debellare l'autocrazia, l'economia globalizzata non basta

Nel suo articolo per il New York Times, tradotto ieri dal Corriere della Sera, a mio avviso Robert Kagan coglie l'essenziale dell'odierna lotta tra il liberalismo e le autocrazie dei nostri giorni.

Non si vuole negare che l'inclusione in un'economia globalizzata e il commercio internazionale non producano una «liberalizzazione economica» che per molti versi favorisce e crea alcune precondizioni (maggiore reddito pro-capite e sviluppo di una classe media) importanti per una «liberalizzazione anche in campo politico», ma che questo esito non è affatto scontato, che non è un processo irreversibile, naturalmente destinato a compiersi. Viceversa, pare che la democrazia liberale non sia una forma di governo «semplicemente destinata alla vittoria». Forse nel lungo periodo, ma non inevitabilmente.

Alimentato dalla fiducia «nell'inevitabilità del progresso umano», dalla «convinzione che la storia avanza in una sola direzione», questo approccio deterministico, constata Kagan, è oggi fortemente messo in discussione dalla realtà di paesi come Cina, Russia, Venezuela e molti altri. Piuttosto, sembra che le autocrazie abbiano saputo «adattarsi» ai nuovi contesti economici e politici internazionali.

Nel caso di Russia e Cina, i governi autoritari si arricchiscono e si rafforzano grazie allo sviluppo economico e usano a proprio vantaggio il consolidamento dei poteri statali. Che il rispetto della legalità, una classe media e salde istituzioni statali debbano precedere lo svolgimento di libere elezioni è uno dei principali argomenti di quanti ci dicono che basta lasciare che le cose seguano il loro corso secondo le specificità di ciascun paese.

Ma spesso la legalità e le istituzioni che si formano sotto governi autoritari e sembrano rafforzarsi grazie ad essi possono trarre inganno: sono tutt'altro che imparziali - condizione essenziale per lo sviluppo della democrazia - più spesso sono ridotte a strumenti di potere nelle mani degli autocrati. Inoltre, «anziché rafforzare lo Stato, gli autocrati di solito sfruttano lo Stato, mantenendo le istituzioni deboli, poco efficaci e sotto il loro totale controllo».

Nelle conclusioni di Thomas Carothers, studioso del Carnegie Endowment, «l'idea che lo sviluppo della legalità sotto il totalitarismo sia un precursore naturale della democrazia è completamente sbagliata». È appunto «la mancanza di democrazia» in molti paesi ad impedire alla legalità di radicarsi. «L'autocrazia liberale» resta un mito.

Secondo Marc F. Plattner, «le libere elezioni non garantiscono forse il liberalismo, ma il liberalismo non può esistere senza elezioni libere». Sia gli esperti che la realtà mettono a dura prova la credibilità di quanti credono che «i totalitarismi spariranno da soli e senza grandi sforzi da parte delle democrazie». «Davanti alla tirannia, la passività non basta», conclude Kagan.

Friday, August 24, 2007

Democrazie si organizzano

Per Robert Kagan la lotta tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire

Le speranze degli anni '90, di un sicuro sviluppo delle nazioni del mondo in senso democratico, si sono rivelate pie illusioni. Robert Kagan, sul New York Times, ha di recente spiegato che «il mondo è ridiventato normale», che «è riaffiorata l'antica concorrenza tra liberalismo e assolutismo», che la lotta tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire, se due tra le più grandi potenze mondiali, come Russia e Cina, disattendendo le aspettative di democratizzazione, scelgono l'autocrazia come forma di governo e virano verso il nazionalismo e il militarismo.

La strategia per affrontare dal punto di vista ideologico e culturale, politico e diplomatico, questo secolare conflitto passa per «politiche mirate sia a promuovere la democrazia, sia a rafforzare la cooperazione tra le democrazie». Occorre superare il mito della "comunità internazionale". Non esiste: per parlare di "comunità" dovrebbe innanzitutto essere condiviso da tutti i membri un universo di principi e di regole di convivenza, sia interna agli Stati, sia tra gli Stati. Ad oggi invece, nonostante il progressivo ma lento avanzamento della democrazia, la maggior parte dei membri dell'Onu, alcuni dei quali siedono addirittura nel Consiglio di Sicurezza, ignorano e, in modo conclamato, calpestano i principi della Carta costitutiva delle Nazioni Unite.

Le democrazie dovrebbero quindi unirsi tra di loro «per dar vita a nuove istituzioni internazionali che sappiano riflettere e valorizzare principi e obiettivi comuni, forse una nuova lega di Stati democratici, che si riunisca regolarmente per consultarsi sui temi del giorno» e, per esempio, per «dare legittimità ad azioni che i governi liberali ritengono necessarie ma che sono avversate dai Paesi autocratici».

Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, sembra intenzionato a percorrere questa strada almeno in Asia. Parlando mercoledì al Parlamento indiano, ha invitato l'India a formare una partnership tra democrazie. A partire dal Giappone e dall'India, «questa "Grande Asia" evolverebbe in un immenso network fino ad abbracciare interamente l'Oceano Pacifico, comprendendo gli Stati Uniti e l'Australia». Questa partnership, ha spiegato Abe, sarebbe «un'associazione nella quale noi condividiamo valori fondamentali come la libertà, la democrazia, e il rispetto dei diritti umani fondamentali, così come interessi strategici».

La Cina non è stata nominata dal primo ministro giapponese. Non potrebbe far parte di questo "club", non essendo una democrazia. L'iniziativa giapponese è una risposta alla Shanghai Cooperation Organization (di cui fanno parte Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrghizistan, Tajikistan e Uzbekistan). Tuttavia, non sarebbe un'organizzazione anti-Cina, ma volta a promuovere principi e obiettivi comuni alle democrazie del continente, quindi, a esercitare anche sulla Cina, come sugli altri paesi asiatici non democratici, pressione politica ed economica.

Senza dimenticare però di dare precisi segnali in ambito militare. In risposta all'esercitazione militare congiunta Russia-Cina, che se la memoria non c'inganna mancava dagli anni '50, il prossimo mese è in programma nel Golfo del Bengala la prima esercitazione della storia che vedrà impegnate le marine militari di Giappone, India e Stati Uniti. Se la sfida tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire a livello globale, è bene che le democrazie si organizzino.

Tuesday, August 21, 2007

Cosa succede a Mosca?

La lotta tra liberalismo e autocrazia prosegue. Kagan rilancia l'idea di una Lega delle Democrazie

Il capo di Stato maggiore russo è arrivato a minacciare velatamente la Repubblica Ceca: «Commetterà un grave errore se deciderà di piazzare elementi dello scudo antimissile Usa sul proprio territorio». E' solo l'ultimo dei gesti ostili della Russia nei confronti dell'Occidente. Tra i più recenti ricordiamo l'intervista in cui il presidente Putin evocava la possibilità che i missili nucleari russi tornassero a essere puntati contro città e obiettivi militari europei; il giallo in Georgia, dove un aereo russo avrebbe sganciato una bomba poi rimasta inesplosa; le manovre militari coordinate con la Cina; la rivendicazione del fondale marino del Polo Nord; i due nuovi missili a lunga gittata "Bulava M" testati dalla flotta russa all'inizio del mese; l'intenzione di dispiegare una presenza permanente della marina militare nel Mar Mediterraneo; la ripresa delle ricognizioni permanenti a lungo raggio dei bombardieri strategici, che furono sospese nel 1992. Per non parlare del sistematico uso dell'arma energetica, dell'assistenza e le forniture di tecnologie nucleari all'Iran, e degli oscuri e inquietanti casi Politovskaja e Litvinenko.

Questi gesti di per sé non costituiscono un pericolo imminente per la nostra sicurezza. Sono più che altro simbolici. I bombardieri russi, per esempio, sono così antiquati che alla notizia della ripresa dei loro voli da Washington si è levato solo un commento sarcastico. Certo, si tratta di segnali, seppure dimostrativi, che messi in fila uno dietro l'altro delineano una politica di sfida della Russia nei confronti dell'Europa e degli Stati Uniti. A cosa sia dovuto questo atteggiamento aggressivo è l'interrogativo che sempre più nei prossimi mesi occuperà i pensieri degli uomini di governo e degli analisti occidentali.

Si tratta del progetto americano di dislocare tra la Polonia e la Repubblica Ceca le basi per lo "scudo antimissile"? Certamente la realizzazione dello scudo è vissuta come uno smacco a Mosca. Nonostante le rassicurazioni da parte americana ed europea circa la natura difensiva del progetto, comunque non rivolto alla Russia, bensì a Stati "canaglia" come l'Iran, lo scudo anti-missile modifica l'equilibrio strategico tra Russia e Stati Uniti. Un equilibrio che in realtà, almeno dalla fine degli anni '80, è tale solo sulla carta, è fasullo, ma con lo scudo verrebbero meno anche le ultime apparenze. Gli americani d'altra parte non hanno potuto far altro che respingere la proposta russa di installarne elementi in Azerbaigian, anziché in Polonia o nella Repubblica Ceca, perché quel territorio si trova «troppo vicino all'Iran» per garantire tempi di reazione sufficienti a un ipotetico attacco.

Cos'ha in mente Putin? Lo storico Richard Pipes non crede che si tratti solo dall'installazione dei sistemi radar e antimissilistici americani in Europa. Ci dev'essere dell'altro sotto. L'avvicinarsi delle elezioni presidenziali, per esempio:

«Non sono così sicuro che voglia ritirarsi l'anno venturo. Una situazione di emergenza potrebbe consentirgli di dire al Parlamento che deve restare al comando del Paese per risolverla, e di ottenere un emendamento costituzionale al riguardo. Non penso che la Duma glielo negherebbe e che i russi protesterebbero, anzi».
Dunque, Putin starebbe alzando il livello dello scontro con l'Occidente per convincere l'opinione pubblica russa dell'esistenza di un nemico esterno. L'ostentazione di potenza cui stiamo assistendo in queste settimane servirebbe a dimostrare che solo lui è in grado di fronteggiarlo, nonché a risollevare il frustrato sentimento della "Grande Russia".

Un altro aspetto di solito trascurato riguarda le reali dinamiche di potere all'interno del Cremlino. Possiamo essere davvero così sicuri che Putin abbia il totale controllo delle forze armate russe e che non subisca, invece, pesanti pressioni e ricatti dai vertici militari in grado di influenzarne la politica estera? Siamo soliti mettere sotto accusa il complesso militare-industriale americano, a vivisezionare le decisioni della Casa Bianca per scovare il minimo indizio della sua influenza, mentre non ci preoccupiamo neanche di cosa possa accadere a Mosca.

Robert Kagan, invece, offre una lettura più generale dell'atteggiamento aggressivo della Russia. Le speranze degli anni '90, di un mondo unipolare, di un nuovo ordine internazionale in cui le nazioni «potessero svilupparsi di comune accordo col venir meno dei conflitti ideologici e un maggior interscambio tra le culture», si sono rivelate pie illusioni.

«Il mondo è ridiventato normale». Le nazioni restano forti e non hanno abbandonato le politiche di potenza. «La nostra è un'epoca che non favorisce la convergenza, ma la divergenza, di idee e di ideologie... è riaffiorata l'antica concorrenza tra liberalismo e assolutismo» e le nazioni del mondo «si schierano sempre di più da una parte o dall'altra, oppure lungo la linea di frattura tra modernità e tradizione, come il fondamentalismo islamico in contrapposizione all'Occidente».

Il conflitto ideologico più duraturo che dall'Illuminismo vede contrapposti liberalismo e autocrazia prosegue. Con la fine della Guerra fredda e la «morte del comunismo» abbiamo creduto che fosse acquisito quale sia «la forma ideale di governo e società». E invece è ancora in discussione.

In particolare Russia e Cina hanno disatteso le aspettative: «La Cina non ha liberalizzato il suo governo autocratico, l'ha blindato. La Russia si è allontanata da un liberalismo imperfetto con una virata decisa verso l'autocrazia. Due delle massime potenze mondiali, con oltre un miliardo e mezzo di abitanti, si sono dotate di governi autocratici, che sembrano capaci di restare al potere anche negli anni a venire».

Non è vero che i loro leader «non credono in niente e pertanto non rappresentano alcuna ideologia... fondano il loro potere su un insieme di credenze che li guidano sia in politica interna che estera», sulla convinzione che l'autocrazia funzioni meglio della democrazia, perché assicura «ordine, stabilità e la possibilità di sviluppo economico» in territori «vastissimi ed eterogenei», impedendo «caos e disintegrazione».

Non si direbbe affatto che l'autocrazia non abbia un futuro, se due tra le più grandi potenze mondiali la scelgono come forma di governo. Dobbiamo quindi abituarci a «crescenti tensioni tra l'alleanza democratica transatlantica e la Russia» e studiare risposte strategiche efficaci.

Inutile appellarsi alla «comunità internazionale», che semplicemente non esiste (vedi Kosovo e Darfur), perché non c'è accordo sui principi fondamentali del convivere civile negli e tra gli Stati. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu su ogni decisione importante resta «nettamente diviso tra le autocrazie e le democrazie».

La tendenza è verso «una maggiore solidarietà tra le autocrazie mondiali, come pure tra le democrazie». Per questo Robert Kagan, neocon, rilancia l'idea di due studiosi, Lindsay e Daalder, della clintoniana Brookings Institution, di una Alleanza delle Democrazie: «Gli Stati Uniti dovrebbero perseguire politiche mirate sia a promuovere la democrazia, sia a rafforzare la cooperazione tra le democrazie. Gli Usa dovrebbero unirsi alle altre democrazie per dar vita a nuove istituzioni internazionali che sappiano riflettere e valorizzare principi e obiettivi comuni, forse una nuova lega di Stati democratici, che si riunisca regolarmente per consultarsi sui temi del giorno» e, per esempio, per «dare legittimità ad azioni che i governi liberali ritengono necessarie ma che sono avversate dai Paesi autocratici».