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Thursday, March 06, 2008

Non è un Paese per liberali/1

Da Ugo Arrigo (Liberalizzazioni.it), una lezione a Berlusconi, che paga pesanti tributi statalisti agli alleati: alla Lega e a Formigoni su Malpensa e ad An su Alitalia.

Da Stefano Magni (Oggettivista), un grido di dolore da sottoscrivere da cima a fondo, quasi disgustato dai programmi di Pd e PdL, che esamina rigorosamente punto per punto, scoprendo, ahinoi, che questo proprio "Non è un paese per uomini liberi".

«Perché siamo arrivati fino a questo punto? Perché non esiste più un'alternativa liberale nel nostro Paese?». Nessun alibi, né nella "casta", né nel sistema elettorale («qualsiasi sistema si adotti, le idee che prevalgono in entrambi gli schieramenti sono destinate a schiacciare numericamente le alternative più liberali»).

No, conclude, «il problema è proprio nella cultura dominante nel Paese e nel modo in cui noi italiani stiamo reagendo alla crisi dell'economia internazionale. Se c'è un indebolimento del dollaro, non diamo la colpa alla banca federale americana e alla sua politica sbagliata. Non chiediamo (come dovremmo fare) di tornare a un'economia monetaria fondata sulla legge della domanda e offerta, non puntiamo alla privatizzazione delle banche per ripararci dagli errori dei burocrati pubblici. Diamo la colpa al mercato e di conseguenza chiediamo la protezione dello Stato, da cui vogliamo essere "rassicurati" con misure protezioniste. Se scoppia una crisi dei mutui, con la gente che non riesce più a pagarli, non chiediamo maggior libertà di scelta, ma case assegnate dallo Stato e prezzi politici. Senza accorgerci che, più lo Stato interviene, più la concorrenza si riduce e di conseguenza i prezzi si alzano. Mentre se lo Stato abbassa i prezzi con la forza, si riduce la disponibilità delle case: è una legge a cui non si sfugge... Se ci sono aziende, nel mondo meno sviluppato, che producono di più a costi minori, non ci diamo da fare per migliorare la qualità dei nostri prodotti. Piuttosto chiediamo i dazi, a costo di far pagare a tutti il doppio di quello che paghiamo adesso per ogni tipo di bene. Noi italiani, in tempi di crisi, vogliamo essere "rassicurati". E i programmi dei due partiti principali sono fatti apposta per "rassicurarci", a colpi di statalismo. Il che non è affatto rassicurante, ma noi vogliamo credere che lo sia. In queste elezioni non ci sarà molta scelta. Perché questo non è un paese per uomini liberi. E in tempi di crisi economica lo è ancora meno».

Domani, o lunedì, il mio sfogo.

Friday, January 18, 2008

Lo Stato al massimo della sua espansione

"Cercasi radiologo targato Ds". "AAA. Cercasi pediatra vicino An". "AAA. Cercasi neurochirurgo convintamente Udc". «Dovrebbero avere l'onestà di pubblicare annunci così, i partiti: sarebbero più trasparenti. Perché questo emerge dalle intercettazioni della "Mastella Dynasty": la conferma che la politica ha allungato le mani sulla sanità. Padiglione per padiglione, reparto per reparto, corsia per corsia... è in corso da anni, ma diventa sempre più combattuto e feroce, un vero e proprio assalto dei segretari, dei padroni delle tessere, dei capicorrente al mondo della sanità. Visto come un territorio dove distribuire piaceri per raccogliere consensi».

Scopre l'acqua calda Gian Antonio Stella. E davvero serviva un caso Mastella per far rimanere sbigottito Francesco Merlo. La mala-politica delle clientele e delle raccomandazioni portata alla luce in queste ore non è forse già da tempo, molto tempo, una realtà sotto gli occhi dei cittadini, che semmai i grandi giornalisti hanno avuto qualche "pudore" di troppo nel raccontare?

«Ad ogni intercettazione, ad ogni retroscena, ad ogni rivelazione non viene fuori il reato della politica, ma la mancanza di dignità della politica. E la dignità, almeno per noi, vale più del Diritto», ma la mancanza di dignità non è penalmente perseguibile.

Dunque, Merlo si pone finalmente la domanda giusta su tutta questa vicenda: «Può un giudice dar corpo giudiziario all'umore popolare - e qualunquista - contro lo strapotere della politica?» Si risponde che «da quel che sinora è venuto fuori, quest'inchiesta sembra appartenere alla famiglia delle inchieste di Potenza, a quelle indagini italiane, sempre più frequenti, che non al codice penale rimandano ma al moralismo ideologico e alla giustizia spettacolo, alla ruota del pavone. Perciò, come dicevamo, in questa vicenda giudice e imputato finiscono con il somigliarsi».

Purtroppo, ecco come conclude il suo articolo, mancando l'ultimo miglio, Francesco Merlo: «Oggi contro il familismo di Stato, contro i cugini delle mogli, contro gli oncologi di partito, sembra che il qualunquismo abbia scelto le procure. Alle fine tutti pensano di essere lo Stato. Dobbiamo rassegnarci che non ci sia lo Stato, ma un affollamento di surrogati di Stato?»

Non si tratta di «surrogati di Stato», non è che «non ci sia lo Stato», è proprio questo che abbiamo davanti lo Stato all'ennesima potenza. Ma sarebbe più corretto dire, per non confondere potenza con efficienza, lo Stato al massimo della sua espansione.

Ciò che davvero ci acceca, ci impedisce di cogliere le radici del problema, è l'idealizzazione dello Stato, come se davvero fosse un ente dotato di moralità e imparzialità proprie. A gestirlo sono pur sempre, e saranno sempre, gruppi di privati. Abolirlo, dunque? Certamente no, perché certe sue funzioni sono insostituibili. Ma cominciare ad avere consapevolezza di ciò che realmente lo Stato è: un male necessario, sopportabile a piccole dosi, purché i gruppi di privati chiamato a gestirlo siano eletti democraticamente e sostituibili; purché le risorse della collettività e gli ambiti di intervento a loro affidati siano ridotti allo strettamente necessario.

A chiarire alla perfezione il concetto è Stefano Magni:

«Dove è tutto lo scandalo per Mastella? E' vero che la sua famiglia usava la burocrazia statale come casa propria? E' vero che nominava i suoi amici e i suoi fidi a capo di enti pubblici e ospedali? Non è detto che queste cose su cui si sta indagando siano vere. Ma se lo fossero? Sarebbe ordinaria amministrazione: si chiama Stato. Lo Stato è l'insieme dei politici, ciascuno con i propri interessi privati, più o meno pericolosi per gli altri. Se affidi un'attività importante come la sanità allo Stato, non puoi aspettarti di meglio: saranno i politici a scegliere i dirigenti e anche i medici, in base a criteri che decidono loro (magari il merito, magari l'amicizia o la parentela). Se affidi la scelta delle aziende che devono fornire un servizio allo Stato e non ai consumatori, avrai per forza le tangenti sugli appalti. E vince l'azienda che paga di più il politico che deve scegliere».
Così i politici tutelano i propri interessi: «Posti di lavoro, anche importanti, in cambio di voti. Voti che gli servono per avere più potere, distribuire posti di lavoro e benefici a un maggior numero di persone che, in cambio, gli daranno ancora più voti». E il circolo si chiude.

Ed è comprensibile che la gente sia indignata, ma gli esiti possibili di questa indignazione diffusa e dello scollamento tra politica e cittadini sono due, «uno estremamente negativo, l'altro estremamente positivo». Quello negativo sarebbe «la pretesa di moralizzare la politica». Ma «chi opta per questa soluzione invoca a gran voce la dittatura militare o un maggior potere epuratore dei giudici». In entrambi i casi, meno democrazia e un regime, che gli stessi moralizzatori avranno contribuito a creare, «molto più facilmente corrompibile, proprio perché ha la facoltà di controllare gli altri, ma non si autocontrolla».

L'esito «estremamente positivo, invece, è la richiesta di liberarci dallo Stato e dalle sue pratiche. Perché lo Stato ci succhia risorse e ci restituisce inefficienza, quindi meglio fare da soli. Una tendenza di questo tipo potrebbe concretizzarsi con una forte richiesta di autonomia locale, di meno tasse e di molte meno regole, in modo da limitare i danni che i politici possono farci».

Bisogna intraprendere presto questa via, «prima che monti l'ondata di antipolitica autoritaria».

Saturday, February 17, 2007

Il vestito a taglia unica di Stato sta sempre più stretto

Che splendidi liberal-conservatori Ostellino e Martino. Nel senso migliore del termine, non come quel reazionario di Pera.

«Che cosa sono i Dico?». Se lo chiede Piero Ostellino oggi nella sua column sul Corriere.
«Per un liberale, sono un'intrusione dello Stato negli affari privati degli Individui. Sono un'ulteriore manifestazione della vocazione collettivista, comunitaria, antindividualista della cultura politica nazionale che ha le sue radici nella stessa Costituzione della Repubblica. Sono la prova che i cittadini sono sempre percepiti come "comunità" invece che come singoli Individui. Sono la testimonianza dell'incapacità di una parte della classe politica di riconoscere il pluralismo, la soggettività, la diversità dei casi della vita. Sono la sua inclinazione a ridurre pluralismo, soggettività, diversità a omogeneità e a omologazione. I Dico non sono un allargamento degli ambiti di libertà. Sono piuttosto il misconoscimento dell'autonoma libertà di scelta individuale in nome del populismo e del paternalismo di Stato».
E così Antonio Martino, su Libero, al quale si associa Ostellino:
«Non vedo proprio perché tutti i casi possibili di non matrimonio debbano essere regolamentati per legge... Ritengo che queste situazioni, tutte quelle possibili e che non ricadono certo sotto un'unica fattispecie, debbano essere affidate a quello che è uno dei principi fondamentali del liberalismo, la libertà di contratto... Se si seguisse questo elementare principio di civiltà liberale, sono certo che le regole adottate dai conviventi sarebbero molto diverse a seconda dei casi. Perché, invece, abbiamo la luciferina presunzione di imporre a tutti un vestito della stessa taglia? Perché non lasciamo che a decidere in base a quali regole convivere siano gli stessi interessati, che conoscono meglio di chiunque altro cosa sia meglio adottare nel loro interesse? (...) Se due adulti consenzienti vogliono stipulare un contratto su qualcosa che riguarda soltanto loro, che diritto ha lo Stato di impedirglielo? Solo nel caso in cui un accordo ha implicazioni per soggetti terzi esiste, in generale, lo spazio per una disciplina legislativa».
«Così parla un liberale», conclude Ostellino: «... la moltiplicazione dei diritti si risolve, sul lato dell'autonomia individuale, nell'arbitraria estensione del potere regolatore dello Stato e, su quello sociale, in un costoso allargamento del welfare a nuovi soggetti, con aggravio per la finanza pubblica».

Direi ineccepibili parole, ma a parlare sono liberal-conservatori. Sarei pronto a sottoscriverle, ma come si fa - chiedo - a non vedere che prim'ancora che nei Dico sta nell'istituto del matrimonio civile la «luciferina presunzione di imporre a tutti un vestito della stessa taglia»? E a non vedere che è quella "taglia unica" che oggi sta stretta sempre a più cittadini? Perché Ostellino e Martino non chiedono che lo Stato faccia un passo indietro dagli affari di famiglia e lasci agli interessati piena libertà contrattuale anche nel matrimonio?

In che misura il loro - nell'escludere il matrimonio, come istituto riconosciuto e regolato dallo Stato, dal loro ragionamento - può essere definito un riflesso conservatore? Come risolverebbero, da liberali, il problema delle coppie omosessuali, che a differenza di quelle etero non potrebbero neanche contrarre matrimonio? Non vedono alcuna discriminazione in questo?

Se i matrimoni sono in calo e le coppie che scelgono la convivenza aumentano esponenzialmente, forse l'istituto giuridico "matrimonio", con il progressivo mutare della società, è divenuto troppo rigido, o comunque è percepito come tale. Il problema sorge proprio dal fatto che già oggi viene imposto a tutti «un vestito della stessa taglia»! Non i Dico, ma il matrimonio tradizionale. Ed è comprensibile che le nuove coppie di conviventi si sentano discriminate e reclamino di essere riconosciute. Esercitano la libertà contrattuale invocata da Ostellino e Martino, rinnovandola quotidianamente, ma per lo Stato quei contratti non valgono nulla rispetto al "vestito a taglia unica" del matrimonio civile. Dunque, con quell'istituto «l'intrusione dello Stato negli affari privati degli Individui» è già una realtà. E' quell'intervento il "peccato originale", la fonte delle discriminazioni a cui oggi si chiede di porre rimedio.

Ed è la concezione assistenziale di un welfare rivolto alle categorie e non ai singoli individui in difficoltà che come discriminazione "in positivo" finisce per creare conflitti anziché risolverli.

Quel vestito sta stretto a sempre più cittadini nella nostra società di oggi. Dunque, o se ne creano di taglie diverse, o si permette a ciascuno di farselo su misura, senza una taglia unica di Stato. Si tratterebbe di "privatizzare" il matrimonio e ogni forma di convivenza, come sostengo nel mio articolo «Pacs, un approccio libertario», pubblicato su LibMagazine, e come spiegava Stefano Magni alcune settimane fa su L'Opinione.