Oggi su Il Foglio, rubrica delle lettere
Al direttore - Chiamare le cose con il loro nome è il primo passo verso la consapevolezza. Poi bisogna decidere come si risponde all'orrore. L'unica risposta è "una violenza incomparabilmente superiore"? Viene in mente il monologo del colonnello Kurtz in "Apocalypse Now": "Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei, ma non ha il diritto di chiamarmi assassino. Ha il diritto di uccidermi, ha il diritto di fare questo, ma non ha il diritto di giudicarmi. E' impossibile trovare le parole... per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l'orrore. L'orrore ha un volto, e bisogna farsi amico l'orrore. Orrore e terrore morale sono i tuoi amici, ma se non lo sono, essi sono dei nemici da temere, sono dei veri nemici". La decapitazione nel deserto in mondovisione è una brutalità, ma purtroppo né cieca, né folle, né disumana. E' un atto chiaro, cristallino, definitivo, che terrorizza per la volontà che in esso si esprime alla perfezione. Come i vietcong che nel racconto di Kurtz mozzano le piccole braccia di tutti i bambini appena vaccinati contro la polio dai soldati americani. "L'orrore. L'orrore...". E' questo il dilemma: bisogna farsi amici dell'orrore per sconfiggere l'orrore del nemico? Tagliare tutti i ponti con la civiltà e tornare ai primordiali istinti dell'uomo? Abbiamo bisogno di un colonnello Kurtz per esercitare una "violenza incomparabilmente superiore"? Forse sì, ma nel caso speriamo che abbia successo anche la missione di rimozione e di ritorno alla civiltà del capitano Willard.
Wednesday, September 10, 2014
Monday, September 08, 2014
I post della ragione
Se non vi sembra affatto "normale" l'impotenza, anzi l'ignavia con cui l'Occidente, da anni in totale assenza di guida americana, assiste alle teste mozzate, allo sfascio di un Medio Oriente e di un'Europa ormai teatri di conquista da parte degli jihadisti - territoriale del primo, culturale della seconda - e alle guerre espansionistiche russe alle porte dell'Europa... Se vi scandalizza la sensazione di "ordinaria amministrazione" con cui fingono di occuparsene da una parte i governi, nel susseguirsi di vertici inutili, riunioni fumose, comunicati copia-incolla, e dall'altra i mainstream media, con la loro fredda contabilità delle vittime tra un servizio sul gelato di Renzi e un altro sulla sinistra in camicia bianca... Se volete capire come siamo arrivati a questo punto, e soprattutto perché... E se vi sembra di essere rimasti i soli a porvi certe domande e ad esigere risposte e strategie vere, non equilibrismi e toppe mediatiche per passare la giornata, allora spulciate le oltre 700 pagine in cui Enzo Reale, ormai un anno fa, ha raccolto i post scritti per il suo blog (1972) nell'ultimo decennio.
L'ho acquistato su Amazon poche settimane dopo la sua uscita, poi l'ho lasciato lì, nella memoria del mio tablet (come faccio con molti libri), in attesa di un periodo di relativa calma per dedicargli il tempo che merita. Errore. L'ho sfogliato sull'onda dei terribili eventi degli ultimi mesi. Ma sarebbe più esatto dire che l'ho "riletto", perché dei suoi post sono stato un avido lettore fin dall'inizio, da quel lontano 2002 in cui il futuro dell'informazione sembrava ormai appartenere ai blog. Poi quella potenziale rivoluzione nel modo di "informare" sarebbe stata assorbita - almeno in Italia - dall'informazione tradizionale, con risultati spesso deludenti. Ma questa è un'altra storia...
In quei post ho ritrovato anche un pezzo della mia storia personale, sia da lettore che da osservatore, e senz'altro tutte le "nostre" ragioni. Sì, perché le mie e quelle di Enzo al 99% coincidevano/coincidono alla perfezione, oserei dire quasi telepaticamente, vista la distanza geografica. E' un libro che può essere aperto a caso e offrire commenti, analisi, punti e spunti di vista della realtà che sembrano scritti per essere letti oggi ma che non leggerete su nessun altro giornale o sito, almeno non con la stessa nitidezza e risoluzione. Che guarda dritto negli occhi, senza indulgenze, ipocrisie o compromessi, la crisi d'identità, il sonno della ragione, la coscienza sporca dell'Occidente. Resterete sorpresi dalla "banalità" della ragione, così la chiamerei, ossia da "verità" talmente evidenti da risultare scomode e, forse per questo, con troppa leggerezza ignorate.
Il mio consiglio è: acquistatelo, tenetelo lì, pronto all'uso. Leggetene qualche pagina ogni volta che avete la sensazione che l'Occidente si sia dimesso da se stesso. Vi sentirete meno soli. Se i «posti della ragione», quella "ufficiale", «erano tutti occupati» dal politicamente corretto, i post della ragione potete trovarli qui.
L'ho acquistato su Amazon poche settimane dopo la sua uscita, poi l'ho lasciato lì, nella memoria del mio tablet (come faccio con molti libri), in attesa di un periodo di relativa calma per dedicargli il tempo che merita. Errore. L'ho sfogliato sull'onda dei terribili eventi degli ultimi mesi. Ma sarebbe più esatto dire che l'ho "riletto", perché dei suoi post sono stato un avido lettore fin dall'inizio, da quel lontano 2002 in cui il futuro dell'informazione sembrava ormai appartenere ai blog. Poi quella potenziale rivoluzione nel modo di "informare" sarebbe stata assorbita - almeno in Italia - dall'informazione tradizionale, con risultati spesso deludenti. Ma questa è un'altra storia...
In quei post ho ritrovato anche un pezzo della mia storia personale, sia da lettore che da osservatore, e senz'altro tutte le "nostre" ragioni. Sì, perché le mie e quelle di Enzo al 99% coincidevano/coincidono alla perfezione, oserei dire quasi telepaticamente, vista la distanza geografica. E' un libro che può essere aperto a caso e offrire commenti, analisi, punti e spunti di vista della realtà che sembrano scritti per essere letti oggi ma che non leggerete su nessun altro giornale o sito, almeno non con la stessa nitidezza e risoluzione. Che guarda dritto negli occhi, senza indulgenze, ipocrisie o compromessi, la crisi d'identità, il sonno della ragione, la coscienza sporca dell'Occidente. Resterete sorpresi dalla "banalità" della ragione, così la chiamerei, ossia da "verità" talmente evidenti da risultare scomode e, forse per questo, con troppa leggerezza ignorate.
Il mio consiglio è: acquistatelo, tenetelo lì, pronto all'uso. Leggetene qualche pagina ogni volta che avete la sensazione che l'Occidente si sia dimesso da se stesso. Vi sentirete meno soli. Se i «posti della ragione», quella "ufficiale", «erano tutti occupati» dal politicamente corretto, i post della ragione potete trovarli qui.
«Il problema che abbiamo oggi, in occidente, è che abbiamo perso la capacità di dare i nomi alle cose, di esprimere giudizi, di assegnare le colpe. Per paura, per viltà, per comodità. Ci siamo dimenticati che nonostante tutto siamo i buoni, e che esistono i cattivi. Non vediamo i nazionalismi di ritorno, ci crediamo immuni alle schermaglie che precedono i conflitti, non partecipiamo più a nessuna battaglia ideale».PS. Ne è valsa e ne vale la pena Enzo, altroché!
Friday, July 18, 2014
Niente da festeggiare: giustizia usata a fini politici, un Paese intero destabilizzato pur di abbattere Berlusconi
Anche su Notapolitica
L'assoluzione in appello di Berlusconi per il caso Ruby non dovrebbe indurre a tanti festeggiamenti per la giustizia italiana. Anzi, è la dimostrazione che proprio la giustizia è stata usata politicamente nel modo più spregiudicato, cinico, senza riguardo per il destino di un Paese intero. La demolizione di Berlusconi valeva una destabilizzazione che se non è stata una delle cause della crisi finanziaria, quanto meno ci ha indeboliti nell'affrontarla? Oggi questa sentenza conferma non che in Italia, in fondo, una giustizia c'è, ma che non c'è democrazia. Che la giustizia è stata usata da un gruppo di magistrati per demolire l'immagine interna e internazionale di Berlusconi, abbattere il suo Governo, destabilizzando il Paese intero. Pazienza, si sono presi questo rischio, hanno valutato che valeva la pena correrlo pur di eliminare Berlusconi.
Ora, è legittimo in democrazia che si possa mettere sotto processo un premier democraticamente eletto? Certo che sì, essendo un cittadino come gli altri e con maggiori responsabilità degli altri. Ma che succede se i procuratori che mettono sotto processo un premier si sbagliano, se i giudici danno loro torto? Se mettono sotto processo un premier, contribuendo in larga misura alla caduta del governo, alla fine di una legislatura, e alla destabilizzazione di un Paese sull'orlo della crisi finanziaria, e poi il premier viene assolto perché 1) "il fatto non sussiste" e 2) "il fatto non costituisce reato", quei procuratori dovrebbero pagarne le conseguenze perché il danno che hanno causato al sistema è enorme. Non si inizia un'azione giudiziaria del genere da totali irresponsabili.
L'assoluzione in appello di Berlusconi per il caso Ruby non dovrebbe indurre a tanti festeggiamenti per la giustizia italiana. Anzi, è la dimostrazione che proprio la giustizia è stata usata politicamente nel modo più spregiudicato, cinico, senza riguardo per il destino di un Paese intero. La demolizione di Berlusconi valeva una destabilizzazione che se non è stata una delle cause della crisi finanziaria, quanto meno ci ha indeboliti nell'affrontarla? Oggi questa sentenza conferma non che in Italia, in fondo, una giustizia c'è, ma che non c'è democrazia. Che la giustizia è stata usata da un gruppo di magistrati per demolire l'immagine interna e internazionale di Berlusconi, abbattere il suo Governo, destabilizzando il Paese intero. Pazienza, si sono presi questo rischio, hanno valutato che valeva la pena correrlo pur di eliminare Berlusconi.
Ora, è legittimo in democrazia che si possa mettere sotto processo un premier democraticamente eletto? Certo che sì, essendo un cittadino come gli altri e con maggiori responsabilità degli altri. Ma che succede se i procuratori che mettono sotto processo un premier si sbagliano, se i giudici danno loro torto? Se mettono sotto processo un premier, contribuendo in larga misura alla caduta del governo, alla fine di una legislatura, e alla destabilizzazione di un Paese sull'orlo della crisi finanziaria, e poi il premier viene assolto perché 1) "il fatto non sussiste" e 2) "il fatto non costituisce reato", quei procuratori dovrebbero pagarne le conseguenze perché il danno che hanno causato al sistema è enorme. Non si inizia un'azione giudiziaria del genere da totali irresponsabili.
Monday, May 26, 2014
L'anno zero del Pd e del centrodestra
Anche su Notapolitica
IL PD - Le Europee del 2014 rappresentano probabilmente un anno zero sia per il Pd che per il centrodestra, ovviamente per motivi diversi. Grazie a Renzi il Pd diventa finalmente un partito a vocazione maggioritaria e post-ideologico, ciò che avrebbe dovuto essere fin dalla sua nascita ma che fino ad oggi non era mai stato. In attesa delle più autorevoli analisi dei flussi elettorali, azzardiamo che Renzi non solo riporta a casa molti dei suoi dopo la sbandata grillina del 2013, ma attrae voto moderato cannabilizzando l'ex "Scelta cinica" (2,8 milioni di voti nel 2013) e, cosa più importante, convincendo quel nord parte più dinamica e produttiva del paese che sembrava tabù per la sinistra e territorio del centrodestra.
Il Pd (soprattutto il vecchio Pd) dovrà capire quanto prima che i voti della straordinaria vittoria di oggi li ha presi Renzi, non il Pd. Renzi ha conquistato voti di altre persone, 2,5 milioni, che senza di lui non avrebbero mai votato Pd. Voti che senza Renzi sarebbero rimasti dov'erano, cioè a Grillo o a casa. Se Letta fosse rimasto ancora al governo, forse avrebbe preso ancora meno voti di Bersani l'anno scorso. E il risultato di oggi autorizza a ritenere che se all'ex sindaco di Firenze non fosse stata sbarrata la strada alle primarie contro Bersani, forse questo successo il Pd l'avrebbe ottenuto alle politiche del 2013 e avremmo tutti risparmiato un anno di risse e immobilismo.
Attenzione però ai facili entusiasmi: non sono elezioni politiche e la percentuale del 41% è gonfiata dalla ridotta affluenza alle urne (solo il 58%). In termini di voti reali Renzi ha riportato il Pd su livelli vicini ma ancora leggermente al di sotto (di 1 milione circa) delle sue migliori performance (circa 12 milioni di voti alle politiche del 2008 e del 2006). Tuttavia, ciò che rende il suo un risultato epocale, al contrario dei precedenti, è che per la prima volta il Pd riesce a vincere non facendo il pieno a sinistra ma conquistando il centro politico dell'elettorato, insomma c'è stato uno "shift" verso il centro: se i numeri somigliano a quelli del 2008, l'elettorato in realtà è molto diverso, e in un certo senso ha un peso specifico maggiore. E' un elettorato che ti permette di vincere e di governare da solo o quasi.
Certo, Renzi è stato anche favorito da alcune circostanze molto contingenti: sia Grillo con i suoi toni aggressivi e minacciosi, il suo "vinceremonoi", sia i sondaggi che stavolta per non sbagliare hanno sovrastimato il M5S, hanno posto l'elettorato di fronte all'eventualità di una vera e propria vittoria di Grillo, del sorpasso finale ai danni del Pd, e non solo di un forte vento di protesta. Molti elettori si sono mobilitati per scongiurare tale scenario. Urlatori e odiatori seriali ma inconcludenti hanno evidentemente cominciato a infastidire: soffiando sulla rabbia si possono prendere molti voti, ma suscitando paure e non speranze, presagendo sventure, non si vince.
Renzi da parte sua non ha sbagliato nemmeno un colpo: più che il gap tra annunci e fatti, più che gli 80 euro, hanno contato la sua energia, la sua voglia e il suo senso si urgenza nel cercare di cominciare subito a "cambiare verso" al paese. Finalmente qualcuno che ci prova sul serio, che vuole procedere a passo di carica e non felpato. E' bastato questo filo di speranza a convincere l'elettorato che valesse la pena mobilitarsi per impedire che venisse spezzato sul nascere dalla furia distruttiva del M5S. Dunque, davvero, si è votato non tanto sull'Europa, quanto sull'Italia: un referendum tra rabbia e speranza rispetto al nostro futuro, esattamente i termini in cui abilmente Renzi ha saputo, con l'aiuto di Grillo, impostare l'intera narrazione della campagna. La mia personale impressione è che la ciliegina sulla torta, il momento decisivo, sia stato lo scontro con Floris a Ballarò sui 150 milioni di tagli alla Rai. In quel momento più di qualche elettore moderato ma anche di sinistra deve aver pensato: oh, finalmente qualcuno fa sul serio. Gasparri e Romani che nel frattempo si esprimevano in difesa della tv pubblica davano la misura del suicidio in atto da anni nel centrodestra.
Adesso però si presenta a Renzi un'occasione storica: la vecchia sinistra è alle corde, è chiaro a tutti che è lui l'unico futuro del Pd, o capitalizza la vittoria e riforma il paese davvero, sfidando fino in fondo la Cgil e tutte le altre realtà più retrograde della sinistra e dell'establishment, senza guardare in faccia nessuno, o perde tutto con la stessa velocità con cui l'ha conquistato. Anche perché la prossima volta probabilmente non ci sarà il pericolo Grillo a mobilitare l'elettorato in suo favore.
IL CENTRODESTRA - Ma si tratta di un anno zero anche per il centrodestra, sia pure per motivi opposti. Frantumato, litigioso e senza leadership sembra aver toccato il fondo. E sembra un suicidio collettivo meticolosamente preparato dagli ex Pdl (al netto degli inevitabili esiti delle manovre interne ed esterne del 2011): allarmanti non sono tanto le percentuali, quanto la tipologia dell'elettorato perduto dopo due decenni, la parte più dinamica e produttiva del paese.
Sembra prefigurarsi un sistema tripolare ma di fatto bloccato, con un partito di centrosinistra e di governo pienamente legittimato, com'era la Dc (oggi il Pd), un partito anti-sistema (Grillo), che raccoglie frustrazioni e residui ideologici di sinistra e destra, e una galassia litigiosa e rancorosa di resti del centrodestra berlusconiano, in cui Forza Italia rappresenta un perno ancora rilevante elettoralmente ma sul filo della marginalità politica. In questo schema, avvantaggiandosi della frantumazione del centrodestra e del "pericolo Grillo", il Pd potrebbe ritrovarsi sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo agli spezzoni del centro "presentabili").
Esiste ancora un centrodestra italiano? Se non esiste più elettoralmente, ma solo come una pluralità di realtà sociali e culturali nel paese, allora non avrebbe senso esercitarsi nella somma delle cifre elettorali dei partiti rimasti. Quella somma, il 31%, è il segno di una sconfitta netta ed inequivocabile, ma bisogna chiedersi se può essere o meno una base da cui ripartire. Di cosa è fatta? Di un generoso voto di testimonianza confermato a Silvio Berlusconi (quasi il 17%); di un voto altrettanto generoso, ma identitario, per Fratelli d'Italia; e di un progetto presuntuoso e velleitario, Ncd, che pur potendo contare su 4 ministeri pesanti non è riuscito ad andare oltre il 2,5% (l'1,8 almeno bisognerà riconoscerglielo a Casini!), e si avvia verso la stessa mesta sorte dei finiani.
Ci sono, d'altra parte, 7 milioni di astenuti in più rispetto alle politiche del 2013, 10 milioni rispetto a quelle del 2008, e quasi 4 milioni rispetto alle europee del 2009. Insomma, sembra esserci un popolo di centrodestra che aspetta una nuova offerta e una nuova leadership. Il centrodestra italiano esiste proprio perché non è una somma di percentuali elettorali. Il *nuovo centrodestra*, tutto da costruire elettoralmente, sta nelle ragioni di chi è rimasto a casa, non nelle frattaglie di ceto politico da 3/4%. E il fusionismo va senz'altro coltivato, ma non tra quelle frattaglie che non rappresentano più nessuno. Sarebbe un errore reagire demonizzando Renzi come per due decenni la sinistra ha demonizzato Berlusconi, e sarebbe un errore anche tentare di rimettere insieme le frattaglie di un ceto politico dal 3/4%, come per troppo tempo ha fatto anche l'Ulivo/Pd anziché cercare una vocazione maggioritaria.
Ci sono alcune condizioni, riguardanti sia l'assetto del sistema politico sia l'identità, alle quali può ancora esistere un centrodestra in Italia: bipolarismo/presidenzialismo, approccio fusionista, centralità di temi come tasse e giustizia, europeismo critico. Oltre che di contenuti, ovviamente il problema è di credibilità e ricambio di leadership, se si vuole recuperare la parte economicamente e socialmente più dinamica del paese. Puoi pure dire le cose più giuste, ma sei sempre quello che soprattutto durante l'esperienza di governo 2008-2011, con la politica economico-sociale affidata al duo Tremonti-Sacconi, ha tradito le promesse di rivoluzione liberale. Primo passo, quindi, riconoscere l'errore, segnare una cesura netta con quell'esperienza e rinnovare in modo aperto la leadership.
GRILLO - Quanto a Grillo, non c'era migliore occasione per fare il pieno di voti di un'elezione in cui non era in gioco la guida del governo e che si presentava come un enorme sfogatoio collettivo contro l'Europa. Ma l'ha mancata. Il popolo di Grillo è in gran parte il popolo di moralizzatori e odiatori seriali allevato da Repubblica/Unità/Fatto quotidiano/Santoro. Solo che questi sapevano di dire un sacco di cazzate pur di abbattere l'avversario del momento, invece i loro lettori/spettatori ci sono cresciuti e ora ci credono. Chi ha seminato per decenni (dalle monetine a Craxi) tutto questo odio, disprezzo per l'avversario, questo analfabetismo economico e complottismo, ora ne ha perso il controllo: in certi attacchi grillini al Pd sembra di risentire quelli della schiera Pd/Repubblica/Travaglio a Berlusconi. Il giustizialismo, la questione morale, il mito della decrescita, del "tutto pubblico", le bufale ambientaliste e complottiste, l'antimilitarismo, arrivano tutti da sinistra. In misura minore il popolo di Grillo è anche di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti arrabbiati e delusi da centrodestra e Lega.
La principale contraddizione del M5S però è che da una parte scagliano il loro "vaffa" alla casta, ai politici, dall'altra vogliono il "tutto pubblico". Ma quando tutto è pubblico si allargano, non si riducono gli spazi di influenza, il potere della casta. Non serve a nulla sostenere che i politici devono essere onesti: è persino ovvio, ma l'esperienza ci insegna che più ampio è il controllo pubblico, più margini ci sono per disonesti e corrotti. E' una legge fisica, e statistica.
NO-EURO - Uscita molto ridimensionata da queste elezioni è anche la posizione no-euro. L'occasione era propizia, il vento antieuropeista soffiava forte, le schede elettorali erano piene di offerte politiche no-euro, ce n'erano per tutti i gusti, dalle più hard alle più soft... In altri paesi hanno fatto il pieno di voti, in Italia no. Renzi non ha dovuto mettere sul piatto l'uscita dall'euro per raggiungere il 40%, e ben il 42% degli elettori ha preferito astenersi piuttosto che aderire in massa alle proposte no-euro. Ovvio, non è che l'euro vada bene così com'è, ma gli italiani devono aver percepito puzza di sòla all'idea di uscire dalla moneta unica.
In generale, la critica all'Europa andrebbe mossa a partire da quel pensiero unico economico – che sembra accomunare PSE e PPE – secondo cui la crescita si fa con gli investimenti pubblici e i fondi europei, cioè con la spesa, e il rigore si fa con le tasse. A cui si aggiunge quella logica contabile delle coperture, per cui non viene nemmeno ipotizzato come credibile l'effetto espansivo di un taglio fiscale, mentre sono accettate come moneta corrente le supposte nuove entrate derivanti da un aumento di tasse. Anche se poi, alla prova dei fatti, quell'aumento avrà un effetto recessivo, e quindi avrà generato un gettito inferiore alle attese.
IL PD - Le Europee del 2014 rappresentano probabilmente un anno zero sia per il Pd che per il centrodestra, ovviamente per motivi diversi. Grazie a Renzi il Pd diventa finalmente un partito a vocazione maggioritaria e post-ideologico, ciò che avrebbe dovuto essere fin dalla sua nascita ma che fino ad oggi non era mai stato. In attesa delle più autorevoli analisi dei flussi elettorali, azzardiamo che Renzi non solo riporta a casa molti dei suoi dopo la sbandata grillina del 2013, ma attrae voto moderato cannabilizzando l'ex "Scelta cinica" (2,8 milioni di voti nel 2013) e, cosa più importante, convincendo quel nord parte più dinamica e produttiva del paese che sembrava tabù per la sinistra e territorio del centrodestra.
Il Pd (soprattutto il vecchio Pd) dovrà capire quanto prima che i voti della straordinaria vittoria di oggi li ha presi Renzi, non il Pd. Renzi ha conquistato voti di altre persone, 2,5 milioni, che senza di lui non avrebbero mai votato Pd. Voti che senza Renzi sarebbero rimasti dov'erano, cioè a Grillo o a casa. Se Letta fosse rimasto ancora al governo, forse avrebbe preso ancora meno voti di Bersani l'anno scorso. E il risultato di oggi autorizza a ritenere che se all'ex sindaco di Firenze non fosse stata sbarrata la strada alle primarie contro Bersani, forse questo successo il Pd l'avrebbe ottenuto alle politiche del 2013 e avremmo tutti risparmiato un anno di risse e immobilismo.
Attenzione però ai facili entusiasmi: non sono elezioni politiche e la percentuale del 41% è gonfiata dalla ridotta affluenza alle urne (solo il 58%). In termini di voti reali Renzi ha riportato il Pd su livelli vicini ma ancora leggermente al di sotto (di 1 milione circa) delle sue migliori performance (circa 12 milioni di voti alle politiche del 2008 e del 2006). Tuttavia, ciò che rende il suo un risultato epocale, al contrario dei precedenti, è che per la prima volta il Pd riesce a vincere non facendo il pieno a sinistra ma conquistando il centro politico dell'elettorato, insomma c'è stato uno "shift" verso il centro: se i numeri somigliano a quelli del 2008, l'elettorato in realtà è molto diverso, e in un certo senso ha un peso specifico maggiore. E' un elettorato che ti permette di vincere e di governare da solo o quasi.
Certo, Renzi è stato anche favorito da alcune circostanze molto contingenti: sia Grillo con i suoi toni aggressivi e minacciosi, il suo "vinceremonoi", sia i sondaggi che stavolta per non sbagliare hanno sovrastimato il M5S, hanno posto l'elettorato di fronte all'eventualità di una vera e propria vittoria di Grillo, del sorpasso finale ai danni del Pd, e non solo di un forte vento di protesta. Molti elettori si sono mobilitati per scongiurare tale scenario. Urlatori e odiatori seriali ma inconcludenti hanno evidentemente cominciato a infastidire: soffiando sulla rabbia si possono prendere molti voti, ma suscitando paure e non speranze, presagendo sventure, non si vince.
Renzi da parte sua non ha sbagliato nemmeno un colpo: più che il gap tra annunci e fatti, più che gli 80 euro, hanno contato la sua energia, la sua voglia e il suo senso si urgenza nel cercare di cominciare subito a "cambiare verso" al paese. Finalmente qualcuno che ci prova sul serio, che vuole procedere a passo di carica e non felpato. E' bastato questo filo di speranza a convincere l'elettorato che valesse la pena mobilitarsi per impedire che venisse spezzato sul nascere dalla furia distruttiva del M5S. Dunque, davvero, si è votato non tanto sull'Europa, quanto sull'Italia: un referendum tra rabbia e speranza rispetto al nostro futuro, esattamente i termini in cui abilmente Renzi ha saputo, con l'aiuto di Grillo, impostare l'intera narrazione della campagna. La mia personale impressione è che la ciliegina sulla torta, il momento decisivo, sia stato lo scontro con Floris a Ballarò sui 150 milioni di tagli alla Rai. In quel momento più di qualche elettore moderato ma anche di sinistra deve aver pensato: oh, finalmente qualcuno fa sul serio. Gasparri e Romani che nel frattempo si esprimevano in difesa della tv pubblica davano la misura del suicidio in atto da anni nel centrodestra.
Adesso però si presenta a Renzi un'occasione storica: la vecchia sinistra è alle corde, è chiaro a tutti che è lui l'unico futuro del Pd, o capitalizza la vittoria e riforma il paese davvero, sfidando fino in fondo la Cgil e tutte le altre realtà più retrograde della sinistra e dell'establishment, senza guardare in faccia nessuno, o perde tutto con la stessa velocità con cui l'ha conquistato. Anche perché la prossima volta probabilmente non ci sarà il pericolo Grillo a mobilitare l'elettorato in suo favore.
IL CENTRODESTRA - Ma si tratta di un anno zero anche per il centrodestra, sia pure per motivi opposti. Frantumato, litigioso e senza leadership sembra aver toccato il fondo. E sembra un suicidio collettivo meticolosamente preparato dagli ex Pdl (al netto degli inevitabili esiti delle manovre interne ed esterne del 2011): allarmanti non sono tanto le percentuali, quanto la tipologia dell'elettorato perduto dopo due decenni, la parte più dinamica e produttiva del paese.
Sembra prefigurarsi un sistema tripolare ma di fatto bloccato, con un partito di centrosinistra e di governo pienamente legittimato, com'era la Dc (oggi il Pd), un partito anti-sistema (Grillo), che raccoglie frustrazioni e residui ideologici di sinistra e destra, e una galassia litigiosa e rancorosa di resti del centrodestra berlusconiano, in cui Forza Italia rappresenta un perno ancora rilevante elettoralmente ma sul filo della marginalità politica. In questo schema, avvantaggiandosi della frantumazione del centrodestra e del "pericolo Grillo", il Pd potrebbe ritrovarsi sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo agli spezzoni del centro "presentabili").
Esiste ancora un centrodestra italiano? Se non esiste più elettoralmente, ma solo come una pluralità di realtà sociali e culturali nel paese, allora non avrebbe senso esercitarsi nella somma delle cifre elettorali dei partiti rimasti. Quella somma, il 31%, è il segno di una sconfitta netta ed inequivocabile, ma bisogna chiedersi se può essere o meno una base da cui ripartire. Di cosa è fatta? Di un generoso voto di testimonianza confermato a Silvio Berlusconi (quasi il 17%); di un voto altrettanto generoso, ma identitario, per Fratelli d'Italia; e di un progetto presuntuoso e velleitario, Ncd, che pur potendo contare su 4 ministeri pesanti non è riuscito ad andare oltre il 2,5% (l'1,8 almeno bisognerà riconoscerglielo a Casini!), e si avvia verso la stessa mesta sorte dei finiani.
Ci sono, d'altra parte, 7 milioni di astenuti in più rispetto alle politiche del 2013, 10 milioni rispetto a quelle del 2008, e quasi 4 milioni rispetto alle europee del 2009. Insomma, sembra esserci un popolo di centrodestra che aspetta una nuova offerta e una nuova leadership. Il centrodestra italiano esiste proprio perché non è una somma di percentuali elettorali. Il *nuovo centrodestra*, tutto da costruire elettoralmente, sta nelle ragioni di chi è rimasto a casa, non nelle frattaglie di ceto politico da 3/4%. E il fusionismo va senz'altro coltivato, ma non tra quelle frattaglie che non rappresentano più nessuno. Sarebbe un errore reagire demonizzando Renzi come per due decenni la sinistra ha demonizzato Berlusconi, e sarebbe un errore anche tentare di rimettere insieme le frattaglie di un ceto politico dal 3/4%, come per troppo tempo ha fatto anche l'Ulivo/Pd anziché cercare una vocazione maggioritaria.
Ci sono alcune condizioni, riguardanti sia l'assetto del sistema politico sia l'identità, alle quali può ancora esistere un centrodestra in Italia: bipolarismo/presidenzialismo, approccio fusionista, centralità di temi come tasse e giustizia, europeismo critico. Oltre che di contenuti, ovviamente il problema è di credibilità e ricambio di leadership, se si vuole recuperare la parte economicamente e socialmente più dinamica del paese. Puoi pure dire le cose più giuste, ma sei sempre quello che soprattutto durante l'esperienza di governo 2008-2011, con la politica economico-sociale affidata al duo Tremonti-Sacconi, ha tradito le promesse di rivoluzione liberale. Primo passo, quindi, riconoscere l'errore, segnare una cesura netta con quell'esperienza e rinnovare in modo aperto la leadership.
GRILLO - Quanto a Grillo, non c'era migliore occasione per fare il pieno di voti di un'elezione in cui non era in gioco la guida del governo e che si presentava come un enorme sfogatoio collettivo contro l'Europa. Ma l'ha mancata. Il popolo di Grillo è in gran parte il popolo di moralizzatori e odiatori seriali allevato da Repubblica/Unità/Fatto quotidiano/Santoro. Solo che questi sapevano di dire un sacco di cazzate pur di abbattere l'avversario del momento, invece i loro lettori/spettatori ci sono cresciuti e ora ci credono. Chi ha seminato per decenni (dalle monetine a Craxi) tutto questo odio, disprezzo per l'avversario, questo analfabetismo economico e complottismo, ora ne ha perso il controllo: in certi attacchi grillini al Pd sembra di risentire quelli della schiera Pd/Repubblica/Travaglio a Berlusconi. Il giustizialismo, la questione morale, il mito della decrescita, del "tutto pubblico", le bufale ambientaliste e complottiste, l'antimilitarismo, arrivano tutti da sinistra. In misura minore il popolo di Grillo è anche di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti arrabbiati e delusi da centrodestra e Lega.
La principale contraddizione del M5S però è che da una parte scagliano il loro "vaffa" alla casta, ai politici, dall'altra vogliono il "tutto pubblico". Ma quando tutto è pubblico si allargano, non si riducono gli spazi di influenza, il potere della casta. Non serve a nulla sostenere che i politici devono essere onesti: è persino ovvio, ma l'esperienza ci insegna che più ampio è il controllo pubblico, più margini ci sono per disonesti e corrotti. E' una legge fisica, e statistica.
NO-EURO - Uscita molto ridimensionata da queste elezioni è anche la posizione no-euro. L'occasione era propizia, il vento antieuropeista soffiava forte, le schede elettorali erano piene di offerte politiche no-euro, ce n'erano per tutti i gusti, dalle più hard alle più soft... In altri paesi hanno fatto il pieno di voti, in Italia no. Renzi non ha dovuto mettere sul piatto l'uscita dall'euro per raggiungere il 40%, e ben il 42% degli elettori ha preferito astenersi piuttosto che aderire in massa alle proposte no-euro. Ovvio, non è che l'euro vada bene così com'è, ma gli italiani devono aver percepito puzza di sòla all'idea di uscire dalla moneta unica.
In generale, la critica all'Europa andrebbe mossa a partire da quel pensiero unico economico – che sembra accomunare PSE e PPE – secondo cui la crescita si fa con gli investimenti pubblici e i fondi europei, cioè con la spesa, e il rigore si fa con le tasse. A cui si aggiunge quella logica contabile delle coperture, per cui non viene nemmeno ipotizzato come credibile l'effetto espansivo di un taglio fiscale, mentre sono accettate come moneta corrente le supposte nuove entrate derivanti da un aumento di tasse. Anche se poi, alla prova dei fatti, quell'aumento avrà un effetto recessivo, e quindi avrà generato un gettito inferiore alle attese.
Tuesday, January 21, 2014
Ma l'anima nera del porcellum sopravvive
L'anima nera del porcellum non è mai stata, al contrario di quanto credono i più, nel premio di maggioranza troppo generoso o nelle liste bloccate. Certo, anche questi aspetti, appena dichiarati incostituzionali dalla Consulta, erano all'origine di pesanti disfunzioni: il rischio che una coalizione si ritrovasse con una forza parlamentare più che doppia rispetto ai voti presi; o il rischio di pareggio e, quindi, di ingovernabilità; e le liste dei "nominati", incomprensibili per gli elettori, che lungi dal determinare totale obbedienza degli eletti ai capi partito, non sono state nemmeno in grado di impedire clamorosi "ribaltoni" e trasformismi. Per non parlare, poi, delle candidature plurime.
Ma l'anima nera, quella che ha arrecato i danni più gravi alla governabilità e alla nostra democrazia, rendendo incapaci di decidere e di governare anche maggioranze molto ampie, è l'incentivo implicito nel porcellum a dar vita a coalizioni disomogenee pur di vincere il premio e, passate le elezioni, alla frammentazione partitica.
Un'anima nera che ritroviamo purtoppo anche nel nuovo sistema elettorale frutto dell'intesa tra Renzi e Berlusconi. Certo, è stata alzata l'asticella delle soglie di sbarramento anche per i partiti coalizzati, ma gli incentivi che in questi anni hanno alimentato il potere di ricatto/veto dei partitini e la frammentazione, a dispetto delle intenzioni proclamate da Renzi e Berlusconi, permangono, rischiando di trasformare questo accordo, pur così rilevante politicamente, nell'ennesima occasione perduta.
Il diavolo si nasconde nei dettagli. E in questo caso il dettaglio diabolico, il cavallo di troia che rischia di riprodurre le stesse dinamiche che hanno afflitto il nostro sistema partitico in questi vent'anni, è quello della ripartizione dei seggi su base nazionale anziché circoscrizionale. Come spiega Sofia Ventura in questo articolo per Strade, infatti, «quando le circoscrizioni esprimono un numero di seggi basso e i seggi medesimi vengono tutti assegnati a livello di circoscrizione (come in Spagna), il sistema, pur proporzionale, diventa fortemente disrappresentativo, premiando i partiti grandi e penalizzando fortemente quelli piccoli, a meno che questi ultimi non siano territorialmente concentrati». In pratica, in questo caso l'effetto del sistema proporzionale sul sistema partitico si avvicina molto a quello proprio dei sistemi maggioritari basati su collegi uninominali. «Se il calcolo, invece, viene fatto a livello nazionale, allora l'effetto sarà molto proporzionale e favorevole alle piccole formazioni». Nel primo caso, infatti, in una circoscrizione da 4-5-6 seggi la soglia di sbarramento implicita sarebbe molto più alta del 5 o 8% fissato a livello nazionale dalla proposta Renzi-Berlusconi.
Presentando l'accordo ieri Renzi ha confermato che la ripartizione dei seggi su base nazionale è una "concessione" ad Alfano (e a Letta). Per non rischiare di provocare una rottura nella maggioranza di governo. Ma se Forza Italia e Pd hanno i numeri per approvare la legge elettorale, li dovrebbero avere anche per sottrarsi all'eventuale ricatto di Alfano (e Letta). Nel caso, in realtà piuttosto inverosimile, in cui fossero proprio questi ultimi a provocare una crisi contro il "sistema spagnolo", Renzi e Berlusconi potrebbero sempre proporre al capo dello Stato un governo di scopo di poche settimane (per l'approvazione della nuova legge elettorale, appunto).
Ma almeno sia chiaro che chi ha voluto la ripartizione su base nazionale, e chi si batte per abbassare le soglie di sbarramento e introdurre le preferenze, pone la propria sopravvivenza al di sopra dell'interesse del Paese ad avere una legge elettorale che renda la nostra democrazia funzionante al pari delle grandi democrazie occidentali. La responsabilità, ovviamente, ricade anche su Renzi e Berlusconi che non hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo. Il primo, per non rischiare di provocare una crisi di governo e spaccare il suo partito. Il secondo, perché nonostante gli infiniti lutti (le dolorose rotture con Casini, Fini e Alfano), e i fallimenti delle sue coalizioni di governo, sembra ancora persuaso che il modo migliore di vincere sia la sommatoria dei partitini (il che presuppone quindi il ritorno a corte del figliol prodigo Alfano).
Berlusconi ricorrerebbe come sempre all'appello al "voto utile", cioè per i grandi partiti, ma con la soglia minima per il premio fissata al 35% e una di sbarramento al 5% per i partiti coalizzati (8% per quelli che corrono da soli), sarebbe il sistema elettorale stesso, incentivando grandi e piccoli a coalizzarsi, a rendere "utile" il voto per i partitini. A destra per la Lega, Ncd e la rifondata An. E a sinistra per Vendola e i profughi di Scelta civica. E saremmo al punto di partenza: un altro giro della solita giostra. Se poi, dietro la ripartizione nazionale, per accontentare Alfano e quindi salvaguardare la vita del governo, ci fosse il Quirinale, avremmo un altro presidente (dopo Ciampi con il porcellum) che ha contribuito attivamente a rovinare una legge elettorale.
Dunque, anche questo nuovo sistema rischia di incentivare da un lato la formazione di coalizioni troppo eterogenee, al fine di assicurarsi il premio di maggioranza anche a scapito della futura coesione di governo, e dall'altro la frammentazione del sistema partitico. Dopo il voto, infatti, i piccoli partiti o le correnti minoritarie nei partiti maggiori, persino piccolissimi gruppetti di parlamentari, avranno sempre la convenienza a distinguersi e a staccarsi, ben sapendo di poter tornare "utili" e coalizzabili con i loro nuovi simboli alle elezioni successive. Una dinamica che negli ultimi anni ha penalizzato soprattutto il centrodestra, spolpandolo: abbiamo assistito ad una sorta di "politica del carciofo", cioè una serie potenzialmente infinita di "foglie" che si staccano dal corpo centrale per lucrare una rendita di posizione. Fini e Casini ieri, Alfano oggi, domani chissà.
Ma l'anima nera, quella che ha arrecato i danni più gravi alla governabilità e alla nostra democrazia, rendendo incapaci di decidere e di governare anche maggioranze molto ampie, è l'incentivo implicito nel porcellum a dar vita a coalizioni disomogenee pur di vincere il premio e, passate le elezioni, alla frammentazione partitica.
Un'anima nera che ritroviamo purtoppo anche nel nuovo sistema elettorale frutto dell'intesa tra Renzi e Berlusconi. Certo, è stata alzata l'asticella delle soglie di sbarramento anche per i partiti coalizzati, ma gli incentivi che in questi anni hanno alimentato il potere di ricatto/veto dei partitini e la frammentazione, a dispetto delle intenzioni proclamate da Renzi e Berlusconi, permangono, rischiando di trasformare questo accordo, pur così rilevante politicamente, nell'ennesima occasione perduta.
Il diavolo si nasconde nei dettagli. E in questo caso il dettaglio diabolico, il cavallo di troia che rischia di riprodurre le stesse dinamiche che hanno afflitto il nostro sistema partitico in questi vent'anni, è quello della ripartizione dei seggi su base nazionale anziché circoscrizionale. Come spiega Sofia Ventura in questo articolo per Strade, infatti, «quando le circoscrizioni esprimono un numero di seggi basso e i seggi medesimi vengono tutti assegnati a livello di circoscrizione (come in Spagna), il sistema, pur proporzionale, diventa fortemente disrappresentativo, premiando i partiti grandi e penalizzando fortemente quelli piccoli, a meno che questi ultimi non siano territorialmente concentrati». In pratica, in questo caso l'effetto del sistema proporzionale sul sistema partitico si avvicina molto a quello proprio dei sistemi maggioritari basati su collegi uninominali. «Se il calcolo, invece, viene fatto a livello nazionale, allora l'effetto sarà molto proporzionale e favorevole alle piccole formazioni». Nel primo caso, infatti, in una circoscrizione da 4-5-6 seggi la soglia di sbarramento implicita sarebbe molto più alta del 5 o 8% fissato a livello nazionale dalla proposta Renzi-Berlusconi.
Presentando l'accordo ieri Renzi ha confermato che la ripartizione dei seggi su base nazionale è una "concessione" ad Alfano (e a Letta). Per non rischiare di provocare una rottura nella maggioranza di governo. Ma se Forza Italia e Pd hanno i numeri per approvare la legge elettorale, li dovrebbero avere anche per sottrarsi all'eventuale ricatto di Alfano (e Letta). Nel caso, in realtà piuttosto inverosimile, in cui fossero proprio questi ultimi a provocare una crisi contro il "sistema spagnolo", Renzi e Berlusconi potrebbero sempre proporre al capo dello Stato un governo di scopo di poche settimane (per l'approvazione della nuova legge elettorale, appunto).
Ma almeno sia chiaro che chi ha voluto la ripartizione su base nazionale, e chi si batte per abbassare le soglie di sbarramento e introdurre le preferenze, pone la propria sopravvivenza al di sopra dell'interesse del Paese ad avere una legge elettorale che renda la nostra democrazia funzionante al pari delle grandi democrazie occidentali. La responsabilità, ovviamente, ricade anche su Renzi e Berlusconi che non hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo. Il primo, per non rischiare di provocare una crisi di governo e spaccare il suo partito. Il secondo, perché nonostante gli infiniti lutti (le dolorose rotture con Casini, Fini e Alfano), e i fallimenti delle sue coalizioni di governo, sembra ancora persuaso che il modo migliore di vincere sia la sommatoria dei partitini (il che presuppone quindi il ritorno a corte del figliol prodigo Alfano).
Berlusconi ricorrerebbe come sempre all'appello al "voto utile", cioè per i grandi partiti, ma con la soglia minima per il premio fissata al 35% e una di sbarramento al 5% per i partiti coalizzati (8% per quelli che corrono da soli), sarebbe il sistema elettorale stesso, incentivando grandi e piccoli a coalizzarsi, a rendere "utile" il voto per i partitini. A destra per la Lega, Ncd e la rifondata An. E a sinistra per Vendola e i profughi di Scelta civica. E saremmo al punto di partenza: un altro giro della solita giostra. Se poi, dietro la ripartizione nazionale, per accontentare Alfano e quindi salvaguardare la vita del governo, ci fosse il Quirinale, avremmo un altro presidente (dopo Ciampi con il porcellum) che ha contribuito attivamente a rovinare una legge elettorale.
Dunque, anche questo nuovo sistema rischia di incentivare da un lato la formazione di coalizioni troppo eterogenee, al fine di assicurarsi il premio di maggioranza anche a scapito della futura coesione di governo, e dall'altro la frammentazione del sistema partitico. Dopo il voto, infatti, i piccoli partiti o le correnti minoritarie nei partiti maggiori, persino piccolissimi gruppetti di parlamentari, avranno sempre la convenienza a distinguersi e a staccarsi, ben sapendo di poter tornare "utili" e coalizzabili con i loro nuovi simboli alle elezioni successive. Una dinamica che negli ultimi anni ha penalizzato soprattutto il centrodestra, spolpandolo: abbiamo assistito ad una sorta di "politica del carciofo", cioè una serie potenzialmente infinita di "foglie" che si staccano dal corpo centrale per lucrare una rendita di posizione. Fini e Casini ieri, Alfano oggi, domani chissà.
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