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Tuesday, December 15, 2009

Teheran-Caracas, nuove prove della relazione "radioattiva"

Su il Velino

La cooperazione nel campo nucleare tra Iran e Venezuela non è un mistero, tanto da essere stata rivendicata dai due Paesi nei recenti incontri ufficiali. Ma il puzzle di questa cooperazione si arricchisce di un nuovo tassello con il memorandum d'intesa di cui è entrato in possesso - da una «credibile fonte di intelligence straniera» - l'editorialista del Wall Street Journal Bret Stephens. Le basi ufficiali della cooperazione nucleare tra Teheran e Caracas sembrano gettate in un «memorandum d'intesa» datato 14 novembre 2008 e firmato dai ministri della Scienza e della Tecnologia dei due Paesi. «Le due parti concordano di cooperare nel campo della tecnologia nucleare», si legge nella versione in lingua spagnola del documento, in cui si menziona anche «l'uso pacifico delle energie alternative». Alcuni giorni dopo, il governo venezuelano ha consegnato all'Agenzia internazionale per l'energia atomica un documento riguardante l'"Introduzione di un Programma per l'Energia nucleare"...

Nel suo articolo l'editorialista del WSJ ricorda gli altri "indizi" della cooperazione nucleare tra Iran e Venezuela. I 22 container etichettati come "parti di trattori" scoperti dalle autorità turche...
(...)
L'Iran, inoltre, secondo quanto riporta oggi il Washington Post, è ormai virtualmente in grado di costruire una testata nucleare. Nonostante le sanzioni e l'isolamento, Teheran avrebbe infatti da tempo intrapreso con successo uno sforzo per sostituire le capacità e i materiali acquisiti dall'estero con "know how" proprio. E' la conclusione cui sarebbero giunti analisti dell'intelligence Usa e di altri Paesi occidentali, così come di quelli dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica. «L'Iran ha informazioni sufficienti per essere in grado di progettare e produrre un ordigno nucleare in grado di funzionare», si legge nel memorandum firmato dagli esperti dell'Aiea citato dal quotidiano Usa. I progressi tecnici iraniani riguarderebbero la metallurgia dell'uranio, la produzione di acqua pesante e gli esplosivi di alta precisione necessari per innescare un'esplosione nucleare. I timori sullo stato di avanzamento del programma nucleare iraniano sono avvalorati dalla recente scoperta, da parte degli ispettori dell'Aiea, di 600 barili di acqua pesante nel sito di Khonab, vicino a Isfahan, una quantità incompatibile con le capacità dell'impianto denunciato dagli iraniani.
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«Piano piano stanno emancipandosi dalla dipendenza dalle importazioni di tecnologie critiche che invece stanno riuscendo a produrre da soli», ha spiegato Rolf Mowatt-Larssen, un ex funzionario della Cia ed ex direttore dell'intelligence del dipartimento dell'Energia, sentito dal Washington Post. «Stanno eliminando i colli di bottiglia del processo di costruzione di un ordigno nucleare. Non ho prove di una decisione iraniana di costruirli, ma d'altra parte, svolgere attività come quelle descritte nel memorandum è ben lungi dall'idea che l'Iran abbia completamente cessato il suo impegno nello sviluppo di testate nucleari nel 2003 e non l'abbia più ripreso», spiega David Albright, ex ispettore Aiea e ora analista dell'Isis.
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Wednesday, September 09, 2009

Se i missili iraniani finiscono in Venezuela

Su il Velino

Nei recenti colloqui a Teheran tra il presidente venezuelano Hugo Chavez e quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad si sarebbe discussa - come riportato lunedì scorso da il Velino - anche l'ipotesi di un "backup" del programma nucleare iraniano, cioè di trasferire o replicare in Venezuela gli impianti e le strutture chiave del programma, per salvaguardarlo da eventuali attacchi americani o israeliani. Una sorta di copia di "backup", appunto. La prospettiva di missili iraniani installati in Sud America non dovrebbe essere esclusa a cuor leggero. Lo scrive oggi il Wall Street Journal, ospitando nelle sue pagine ampi stralci di un intervento sull'"asse" Iran-Venezuela pronunciato dal procuratore distrettuale della contea di New York (Manhattan), Robert M. Morgenthau, alla Brookings Institution, think tank progressista vicino ai Democratici. Il procuratore Morgenthau è un profondo conoscitore delle attività iraniane all'estero.

Sotto le lenti attente del suo ufficio passano infatti i movimenti finanziari sospettati di riciclaggio di denaro iraniano e di violazione delle sanzioni finanziarie americane e internazionali nei confronti di Teheran. Nel maggio scorso è stato ascoltato sulla minaccia iraniana dalla Commissione Affari esteri del Senato Usa, alla quale ha riferito che il suo ufficio ha scoperto un «diffuso sistema di pratiche illegali e fraudolente impiegate da enti iraniani per muovere denaro in tutto il mondo senza essere scoperti, anche attraverso banche che operano nella mia giurisdizione - Manhattan». Quella tra Iran e Venezuela, ha spiegato Morgenthau alla Brookings, è una «cordiale partnership finanziaria, politica e militare», che si basa su di un «comune sentimento antiamericano». «E' giunto il momento di elaborare politiche per assicurare che questa partnership non produca frutti avvelenati». Le prove raccolte dal suo ufficio sui movimenti iraniani in America Latina lo inducono a lanciare l'allarme.
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A preoccupare Morgenthau sono le notizie giunte al suo ufficio secondo cui «negli ultimi tre anni un certo numero di fabbriche di proprietà e controllo iraniani sono spuntate in zone remote e non sviluppate del Venezuela, ideali per ubicarvi una produzione illecita di armi». Ancora non si hanno prove precise dell'attività effettivamente condotta in queste fabbriche, ma c'è di che esserne allarmati se nel dicembre del 2008, ha aggiunto ancora Morgenthau, «autorità turche hanno trattenuto una nave iraniana diretta in Venezuela dopo aver scoperto attrezzatura da laboratorio per la produzione di esplosivi in 22 container contrassegnati come parti di trattori».
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Sulla base delle informazioni in possesso del suo ufficio, il procuratore Morgenthau ritiene che gli iraniani, con l'aiuto del governo di Chavez e attraverso il sistema finanziario venezuelano, possano riuscire ad aggirare le sanzioni economiche... Secondo Morgenthau, Stati Uniti e comunità internazionale "devono considerare molto attentamente i modi per monitorare e sanzionare il sistema bancario del Venezuela", attraverso il quale l'Iran riuscirebbe a effettuare i pagamenti necessari per il suo "shopping" nucleare.
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Monday, September 07, 2009

Chavez-Ahmadinejad, spunta l'ipotesi di un "backup" del programma nucleare

Su il Velino

Molto si è parlato, in occasione del vertice dello scorso weekend tra il presidente venezuelano Hugo Chavez e quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad, del "patto d'acciaio" che lega i due leader in funzione antiamericana. Particolarmente significativo, tra gli accordi firmati il 5 e il 6 settembre a Teheran, quello che impegna il Venezuela a fornire all'Iran 20mila barili di benzina al giorno. Anche se l'Iran è un paese ricco di petrolio e gas, la sua industria della raffinazione è molto debole, ma l'accordo è significativo soprattutto perché tra le nuove sanzioni che l'amministrazione Usa potrebbe prendere in considerazione se Teheran non dovesse rispondere, o dovesse rispondere negativamente, all'offerta di dialogo sul nucleare, c'è anche un possibile embargo sull'esportazione in Iran di prodotti petroliferi raffinati, inclusi carburanti come benzina e gasolio. In quel caso i 20 mila barili di Chavez tornerebbero davvero molto utili a Teheran. Ma oltre agli investimenti reciproci per lo sviluppo dei propri giacimenti di gas e petrolio, per un volume d'affari di oltre 1,5 miliardi di dollari, Iran e Venezuela starebbero rafforzando anche la loro collaborazione sul nucleare.
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Thursday, July 02, 2009

Re: Honduras, esercito e democrazia

Tanto siamo d'accordo sul fatto che parlare di "golpe democratico" è un ossimoro, che nel post di ieri ho premesso «per quanto può esserlo un golpe militare», ho messo tra virgolette l'attributo "democratico", osservato che ovviamente «la via più appropriata era quella legale dell'impeachment» e che dalla mossa dei militari l'unico che ha tratto vantaggio alla fine è stato proprio Chavez. Intendevo far notare però che con troppa facilità i governi europei e quello americano si sono espressi, e con quale nettezza, per nulla turbati dal trovarsi al fianco di Castro e Chavez. Il caso iraniano ha dimostrato che sono capaci di ben altre sottigliezze.

E' anche perfettamente chiaro che il modello honduregno non è il modello Westminster, e in alcuni (sia pure pochi) paesi in cui le istituzioni democratiche sono ancora fragili, storicamente l'esercito ha avuto un ruolo importante nella difesa della democrazia. Solo recentemente la Turchia sta diventando un paese più europeo per quanto riguarda il rapporto tra autorità civili e militari, ma l'esercito è stato per decenni un baluardo a difesa delle istituzioni secolari dello stato, ha impedito l'islamizzazione del paese non con la dittatura, come in Egitto, ma favorendo la democratizzazione. Ha difeso con la forza quel fragile processo democratico dai suoi nemici interni. Un intervento dell'esercito che in democrazie avanzate come le nostre non potrebbe mai essere autorizzato o tollerato, in democrazie più fragili sono le stesse costituzioni che lo prevedono per tutelare il sistema da attori - partiti islamici o caudillo - che operano al suo interno ma per scardinarlo.

Se poi, nel caso di Zelaya, si prendessero sul serio le voci secondo cui sarebbe stato lui stesso a preferire l'esilio all'impeachment e all'arresto, ciò non farebbe altro che dimostrare ulteriormente l'ingenuità e la goffaggine dei militari. I governi occidentali avrebbero dovuto sì condannare il golpe, ma anche pretendere da Zelaya l'abbandono di tutte le ambizioni plebiscitarie. Sono d'accordo che per promuovere la democrazia «la prima cosa da fare sia escludere dall'orizzonte tutto ciò che non lo è», e non vuole esserlo, ma non che dovremmo escludere dal nostro orizzonte anche ciò che le somiglia e che vorrebbe esserlo, come l'Honduras o l'Iraq.

Wednesday, July 01, 2009

Obama consegna a Chavez le chiavi dell'America Latina

La condanna della comunità internazionale è stata forte e unanime, ma è consentito far notare sommessamente che per quanto può esserlo un golpe militare, quello dello scorso weekend in Honduras è stato un golpe "democratico"? L'esercito non ha rimosso il presidente Manuel Zelaya di sua iniziativa, ma eseguendo un ordine della Corte Suprema. Il Congresso si è riunito in sessione straordinaria e ha nominato il presidente dell'assemblea (appartenente allo stesso partito di Zelaya), come prevede la costituzione honduregna, a capo dell'esecutivo, confermando le nuove elezioni presidenziali già previste per novembre. Il Parlamento e le altre istituzioni quindi non sono state liquidate, ma sono nel pieno dei loro poteri. Purtroppo è da un po' che il mondo va alla rovescia, perché il vero golpe l'hanno tentato il presidente Zelaya e Chavez, mentre in questo caso l'esercito è intervenuto a difesa dello stato di diritto e della costituzione.

Si tratta di «dettagli» di non poco conto, soprattutto mentre il mondo e il presidente Obama, osserva il Wall Street Journal, denunciano il piccolo Honduras in termini che non hanno mai usato, per esempio, nei confronti dell'Iran. Possibile che ritrovarsi sulle stesse posizioni di Castro e Chavez non susciti alcun sospetto, e neanche il minimo disagio, nell'amministrazione Usa? Obama con eccesso di zelo tenta in ogni occasione di dimostrare al mondo e ai suoi vicini di aver impresso una svolta radicale alla politica estera americana, e che è finita l'epoca dell'ingerenza Usa negli affari interni dei paesi latinoamericani, ma stavolta ha combinato forse il suo pasticcio peggiore. Peccato infatti che la non-ingerenza degli Stati Uniti non rende automaticamente il mondo più buono, e di certo non più padroni del loro destino i piccoli paesi come l'Honduras. L'influenza degli Stati Uniti sui paesi del Centro e del Sud America viene anzi sostituita da influenze non meno invasive, e certamente non più benevole, come quelle del Venezuela di Chavez, ma anche dell'Iran di Ahmadinejad e della Cina.

Il presidente Zelaya voleva indire un referendum per forzare il Congresso a modificare la Costituzione in modo da potersi candidare per un secondo mandato consecutivo di quattro anni. Simili «intimidazioni populiste» hanno funzionato ovunque nel continente. E' attraverso questi plebisciti che in America Latina i presidenti diventano dittatori, come insegna il caso venezuelano. Zelaya non faceva altro che emulare la "carriera" del suo maggiore sponsor, Hugo Chavez. Per questo è scattata la legittima difesa dei contrappesi costituzionali honduregni: la Corte suprema ha dichiarato illegale il voto (solo il Congresso ha il potere di indire quel tipo di referendum), avvertendo il presidente che sarebbe stato perseguito se avesse insistito.

Per tutta risposta, Zelaya si è messo alla testa di una folla di suoi sostenitori per impossessarsi delle schede elettorali, fatte arrivare - guarda il caso - dal Venezuela, e distribuirle. Certo, la via più appropriata era quella legale dell'impeachment, ma il golpe in Honduras va compreso nel contesto dello chavismo. Chavez, democraticamente eletto nel 1998 in Venezuela, ha usato da allora tutti i mezzi a sua disposizione, legali ed illegali, per rimanere al potere, soffocando le opposizioni e sovvertendo di fatto l'ordine democratico. Ed è Chavez che con i suoi agenti e i suoi soldi sostiene Zelaya per portare l'Honduras nel proprio asse di alleanze. Mentre Obama è bloccato dal "complesso" dell'ingerenza Usa, Chavez ha reso suoi vassalli uno dopo l'altro la Bolivia, l'Ecuador, il Nicaragua, e ora ci prova con l'Honduras.

Quanto all'amministrazione Obama - conclude il WSJ - «sembra ansiosa di intromettersi in Honduras in un modo che aveva definito controproducente nel caso dell'Iran», nonostante la rielezione di Ahmadinejad fosse molto più anti-democratica del golpe in Honduras.

Chavez è il vero «vincitore» in Hounduras, ha scritto oggi sul New York Times Álvaro Vargas Llosa, non certo un "falco" della CIA. Cercando di forzare la costituzione per aprirsi la strada verso la rielezione, il presidente Zelaya ha teso una trappola in cui i militari sono caduti. Sebbene infatti il golpe sia "popolare" in Honduras, i militari hanno regalato a Chavez una vittoria morale e politica, e nel tentativo di impedirgli di portare l'Honduras dalla sua parte, di fatto hanno rafforzato la sua influenza nella regione e l'Alternativa bolivariana.

Thursday, May 28, 2009

Venezuela e Iran, le relazioni pericolose

L'Iran si sta facendo aiutare dai suoi alleati in Sud America per aggirare le sanzioni economiche del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. E' quanto emerge da un rapporto ufficiale del Ministero degli Esteri israeliano - di cui Ynetnews ha ottenuto una copia - secondo cui Venezuela e Bolivia forniscono uranio a Teheran per il suo programma nucleare. Si sospetta anche che Hezbollah stia fondando cellule terroristiche nel nord del paese di Chavez e sull'isola Margarita, anch'essa territorio venezuelano. Si tratta di un «dettagliato dossier sulle attività iraniane in Sud America», spiega il sito del quotidiano israeliano in un articolo del 25 maggio. E' stato preparato in vista della visita del ministro degli Esteri Lieberman nella regione e si basa su informazioni provenienti da fonti di intelligence e diplomatiche israeliane e straniere.

L'Iran ha iniziato la sua «infiltrazione» dell'America Latina nel 1982, stringendo legami con Cuba. Poi, negli anni, ha aperto ambasciate in Messico, Brasile, Colombia, Argentina, Cile, Venezuela e Uruguay. Nel rapporto si ricorda il coinvolgimento dell'Iran negli attacchi terroristici all'ambasciata israeliana a Buenos Aires nel 1992 e all'AMIA Jewish Community Center nel 1994, sempre nella capitale argentina.

«Da quando il presidente iraniano Ahmadinejad è arrivato al potere - si legge nel dossier - Teheran ha cominciato a promuovere una politica aggressiva mirata a rafforzare i suoi legami con i paesi dell'America Latina, con lo scopo dichiarato di mettere l'America in ginocchio» e comunque di allentare il suo isolamento internazionale. Ahmadinejad e Chavez hanno in comune la volontà di sfidare gli Stati Uniti. I due paesi hanno già siglato oltre 200 accordi, istituito un volo diretto che serve regolarmente i «tecnici iraniani» e un fondo di 200 miliardi di dollari per guadagnare il sostegno di altri paesi dell'America Latina alla causa della «liberazione dall'imperialismo Usa». Il presidente Chavez in persona, secondo il dossier, ha contribuito a rafforzare i legami tra l'Iran e la Bolivia, l'Ecuador e il Nicaragua, invitando Ahmadinejad alle cerimonie di insediamento dei presidenti tenute in quei paesi.

Il dossier riporta anche lo stato dei rapporti commerciali tra l'Iran e i paesi del Sud America. Il commercio con il Brasile equivale a un miliardo di dollari; l'Uruguay vende riso a Teheran per 100 milioni di dollari; mentre il Cile acquista petrolio iraniano. Anche paesi filo-americani come Honduras, Repubblica Domenicana e Guatemala, che ricevono aiuti dal Venezuela, possono essere soggetti all'influenza iraniana, e persino l'Argentina sta costantemente accrescendo le sue relazioni commerciali con Teheran. Durante la sua prossima visita nel continente, il ministro degli Esteri israeliano intende informare i paesi dell'America Latina delle violazioni dei diritti umani di cui è responsabile il regime iraniano.

Anche l'Associated Press ha ottenuto una copia del dossier israeliano che «per la prima volta accusa Venezuela e Boliva di essere coinvolti nello sviluppo dell'atomica iraniana». Mentre la Bolivia ha depositi di uranio, a quanto risulta il Venezuela non sta estraendo uranio dalle sue riserve, che vengono stimate in 50 mila tonnellate da un'analisi pubblicata nel dicembre scorso dal Carnegie Endowment for International Peace. Secondo il rapporto del Carnegie, tuttavia, la recente collaborazione con l'Iran sui «minerali strategici» ha sollevato sospetti. In effetti, il Venezuela potrebbe estrarre uranio per l'Iran.

L'agenzia di stampa ricorda anche che il Venezuela ha espulso l'ambasciatore israeliano durante l'ultima offensiva a Gaza e Israele ha risposto espellendo a sua volta l'incaricato venezuelano. Anche la Bolivia ha tagliato i suoi legami con Israele dopo l'offensiva contro Hamas.

Il ruolo dell'Iran in America Latina è ben noto anche agli Stati Uniti. Il segretario alla Difesa, Robert Gates, nel gennaio scorso ha espresso le sue preoccupazioni circa le attività iraniane nella regione: «Sono preoccupato per il livello di un'attività francamente sovversiva che gli iraniani stanno conducendo in molti luoghi dell'America Latina. Stanno aprendo molti uffici e molte attività di facciata dietro cui interferiscono negli affari di alcuni di questi paesi», ha dichiarato Gates al Senato.

In "Iran Global Ambition", un paper del marzo 2008, Michael Rubin, dell'American Enterprise Institute, metteva in guardia l'amministrazione Usa sull'influenza iraniana in America Latina e in Africa, ravvisando un'«ambizione globale» da parte dell'Iran. «Mentre gli Stati Uniti hanno concentrato la loro attenzione sulle attività iraniane nel Grande Medio Oriente, l'Iran ha lavorato assiduamente per espandere la sua influenza in America Latina e in Africa». Solo con il presidente Ahmadinejad ha fatto significativi passi avanti nel tentativo di rafforzare il blocco anti-americano costituito da Venezuela, Bolivia e Nicaragua. E anche in Africa sta stringendo forti legami. Questi sforzi, secondo Rubin, suggeriscono che la Repubblica Islamica «sta cercando di divenire una potenza globale» e di mettere un piede sulla «soglia di casa» degli Stati Uniti.

Per espandere l'influenza iraniana in quei continenti, Ahmadinejad ha dato impulso a una «coordinata strategia diplomatica, economica e militare, che ha avuto successo non solo in Venezuela, Nicaragua, e Bolivia, ma anche in Senegal, Zimbabwe, e Sud Africa». Queste nuove alleanze sono in grado di «sfidare gli interessi americani in questi paesi e nelle rispettive regioni». La pietra angolare della politica latinoamericana di Ahmadinejad è la formazione di un asse anti-americano con il Venezuela. Mentre i rapporti con gli altri paesi poveri si basano su aiuti economici più che su una comune visione strategica, Iran e Venezuela sono ricchi di petrolio e la loro relazione è più cooperativa e strategica, e insieme hanno usato i loro petroldollari per coinvolgere altre nazioni latinoamericane e africane in iniziative contro gli interessi degli Stati Uniti.

Mentre Stati Uniti ed Europa per lo più ignorano l'Africa, l'Iran è interessato ad ogni stato africano – musulmano o no – in rotta con l'Occidente in generale e con gli Stati Uniti in particolare. Appena Sudan e Zimbabwe sono stati isolati, Teheran ha subito cercato di riempire il vuoto. L'Iran, conclude Rubin, ha una «strategia globale che Washington è stata incapace di fronteggiare: per ogni tre viaggi di Ahmadinejad in America Latina, Bush ne ha compiuto uno». Le possibilità di un successo iraniano di lunga durata sono poche, essendo i rapporti con i paesi latinoamericani e africani basati per la maggior parte su aiuti economici e non su una «solidarietà ideologica».

Tuttavia, come minimo, i nuovi alleati consentono a Teheran di mitigare l'isolamento in cui si trova e potrebbero ospitare programmi militari segreti. Nella peggiore delle ipotesi, Teheran potrebbe cooperare con Caracas per destabilizzare la Colombia di Uribe o lanciare attacchi terroristici contro gli interessi americani. Il Pentagono può aver rafforzato le difese nel Golfo Persico, ma l'Iran e i suoi alleati potrebbero colpire nel centroamerica, è lo scenario evocato da Rubin. Nel frattempo, è spuntato questo dossier israeliano secondo cui Venezuela e Bolivia forniscono all'Iran l'uranio necessario per dotarsi di armi nucleari.

Vargas Llosa non gradito da Chavez

Mario Vargas Llosa, romanziere di successo noto anche per essere stato candidato alla presidenza del Perù, e da anni appassionato liberale, è stato fermato dalle autorità venezuelane al suo arrivo a Caracas per un convegno. Bloccato per due ore in aeroporto, gli è stato intimato di evitare qualsiasi riferimento al governo di Chavez o alla situazione politica del paese, pena l'espulsione. Pochi giorni prima la stessa intimidazione a suo figlio, scrittore e giornalista. Il governo ha preferito la pressione "diretta" al rischio di provocare un caso diplomatico rifiutandogli il visto d'ingresso.

I due Vargas Llosa, è stata la spiegazione, a dire il vero ben poco convincente, del ministro degli Esteri Maduro, sono arrivati in Venezuela per «prendere parte a un piano permanente della destra internazionale per dimostrare che il nostro Paese vive in un modello di dittatura», mentre «semplicemente si trovano di fronte a una democrazia che non hanno mai visto prima».

Wednesday, April 22, 2009

A forza di stringere mani rischia di scottarsi

Mentre Obama va in giro per il mondo a stringere mani e a sorridere, il ruolo del "poliziotto cattivo" sembra affidato a H. Clinton, che oggi avverte così la leadership iraniana:
«Siamo più che pronti a tendere la mano all'Iran per discutere diversi problemi. Ma stiamo preparando tutto per sanzioni molto dure, che potrebbero essere necessarie se le nostre offerte fossero respinte o se il processo dovesse fallire. Sviluppiamo nuovi approcci alla minaccia iraniana, e lo facciamo con gli occhi ben aperti e senza illusioni».
Un sollievo le parole della Clinton, ma le foto della calorosa stretta di mano e dei sorrisi tra il presidente Obama e il caudillo venezuelano Chavez, il leader sudamericano in assoluto più ostile agli Stati Uniti, hanno fatto il giro del mondo, rafforzando la percezione di una svolta nella politica estera americana e l'immagine di un'America ora pronta a mostrare il suo volto più disponibile al dialogo e accomodante.

Ai nostri occhi quella che è stata già ribattezzata da qualche commentatore Usa "politica delle strette di mano" dovrebbe ricordare qualcosa: la politica delle "pacche sulle spalle" del nostro Berlusconi. Nasce spontaneo l'interrogativo: dove ci porterà questa diplomazia delle strette di mano di Obama? Quanto vale una stretta di mano a Chavez, o la mano tesa all'Iran? Prima o poi Obama si scotterà la mano, a forza di tenderla verso i nemici?

La sensazione è che una stretta di mano possa voler dire tutto o niente. Bisognerà vedere se stringendo mani e sorridendo sarà Obama a metterlo amabilmente in quel posto a Chavez e ad Ahmadinejad; o se saranno questi ultimi ad approfittare dello sprovveduto mentre fa il "piacione" con le opinioni pubbliche mondiali.

Alla Casa Bianca ripetono che una stretta di mano è una stretta di mano. «Niente di più», riporta Politico.com. Per molti repubblicani invece, il caloroso saluto di Obama al presidente venezuelano è stato molto di più. Un'altra dimostrazione di come Obama sia troppo amichevole con i nemici degli Stati Uniti. In ogni caso, anche in questo suo secondo viaggio Obama si è rivelato coerente con quanto promesso durante la campagna presidenziale, cioè di mostrare al mondo un volto più amichevole rispetto al suo predecessore, e di tendere la mano alle altre nazioni, sia alleate che rivali.

Se il Vertice delle Americhe di Trinidad e Tobago rappresentava una sorta di prova del fuoco per la politica estera di Obama, il bilancio non sembra entusiasmante. Gli analisti hanno rimproverato all'amministrazione precedente di aver perso progressivamente influenza in America Latina, e di essersi concentrata troppo sul Medio Oriente. Ora si aspettano che Obama riguadagni il terreno perduto, anche se nel frattempo nel continente si sono affermati e rafforzati regimi molto ostili agli Stati Uniti. Ma al di là di sorrisi e strette di mano, e tra un "mea culpa" e l'altro per le "cattive" azioni compiute in passato da Washington negli affari dei paesi latinoamericani, il vertice si è chiuso senza l'attesa dichiarazione finale, per l'opposizione dei leader della cosiddetta "ala bolivariana". La stretta di mano di Obama non è valsa nemmeno una firmetta su un pezzo di carta poco più che retorico.

Wednesday, December 24, 2008

La storia riserverà a Bush un trattamento migliore

E' tempo di bilanci per l'amministrazione Bush e David Frum elenca 8 fatti per i quali Bush a suo avviso verrà giudicato dalla storia in modo meno severo di quanto stanno facendo oggi i suoi contemporanei, sotto i colpi della crisi economica e con in mano gli indici di popolarità al minimo.
1) Una crescente partnership per la sicurezza tra Stati Uniti e India, uno dei maggiori successi di politica estera di Bush. La sua intesa strategica con l'India potrebbe rivelarsi «il più importante fatto geopolitico del 21esimo secolo»;
2) La guerra in Iraq si sta concludendo con una riconciliazione politica all'interno dell'Iraq e una durevole alleanza tra Iraq e Stati Uniti. Bush lascia la Casa Bianca con un Iraq «pronto a diventare per lo meno un paese normale, in pace con se stesso e i suoi vicini»;
3) Le speranze di Bush per un Medio Oriente democratico non sono divenute realtà. Ma la Libia ha abbandonato il programma nucleare, l'Arabia Saudita è meno ambigua con al Qaeda, Hamas è isolata e la seconda Intifada palestinese è stata sconfitta;
4) Non ci sono stati più attacchi terroristici su territorio americano dopo l'11 settembre;
5) In Sud America il "piano Colombia" ha funzionato, il Messico ha completato la sua seconda elezione presidenziale democratica e il regime di Chávez va verso il collasso a causa della sua incompetenza economica;
6) Il programma nazionale di prescrizione dei farmaci voluto da Bush solleva gli ultra-sessantacinquenni dalla paura di non potersi permettere le medicine di cui hanno bisogno;
7) Bush ha incoraggiato l'industria del nucleare;
8) Dopo l'11 settembre Bush è stato un appassionato difensore della vasta maggioranza di musulmani rispettosi della legge e forse anche per questo la temuta ondata di odio razziale non si è verificata.

«Questa eredità candida Bush per un posto sul Monte Rushmore?» si chiede Frum. «Probabilmente no. Ma forse gli garantirà un trattamento migliore dalla storia di quello ricevuto dai suoi contemporanei».

Monday, December 03, 2007

Chavez inciampa nel suo popolo

Adesso salterà fuori qualcuno che ci spiegherà come in fondo la bocciatura (51 a 49%) del referendum costituzionale voluto da Chavez dimostri che in Venezuela la democrazia c'è ancora e Chavez non è un dittatore.

Castro cattivo insegnante o Chavez cattivo allievo? Il totale controllo dei media, la propaganda, la repressione delle opposizioni, le nazionalizzazioni, gli imbrogli non gli sono bastati. Tutto questo però basta a noi per ritenerlo un dittatore. Anche perché spesso un regime non nasce dall'oggi al domani, ma si consolida nel tempo, spesso suggellato dal voto popolare. A volte questo cammino verso la dittatura fa registrare battute d'arresto, si scontra con degli atti di resistenza, ma è senz'altro il caso di Chavez, le cui proposte di riforma costituzionale erano proprio volte a rendere questo referendum di fatto un plebiscito, spalancandogli le porte del potere a vita.

L'aumento a dismisura dei poteri presidenziali, l'allungamento del mandato da 6 a 7 anni, l'abolizione di qualsiasi limite al numero dei mandati presidenziali. Ma anche il controllo sulla Banca centrale e sulle riserve di valuta estera, nonché il rafforzamento dei poteri di esproprio della proprietà privata. Una copia della Costituzione cubana.

L'opposizione festeggia per le strade di Caracas, ma non finisce qui, perché c'è da aspettarsi che Chavez riproponga molto presto il referendum. Dopo aver ammesso la sconfitta, il lider maximo venezuelano, che resterà al potere fino al 2013 e ha già trasformato il Congresso in una camera di ratifica, ha ribadito che insisterà comunque «nella battaglia per costruire il socialismo», aggiungendo che le riforme sono fallite «per ora» ma che restano ancora «vive».

L'aspetto del voto di ieri che giustifica qualche speranza per il futuro del Venezuela è forse l'alto livello di astensionismo, che potrebbe stare a indicare un forte calo di consenso di Chavez tra i suoi stessi sostenitori. In ogni caso, si è trattato di un gesto di grande maturità da parte del popolo venezuelano, e degli studenti alla guida del movimento di opposizione, che non si sono lasciati ingannare e hanno percepito di essere chiamati a decretare la morte della democrazia.

Di solito in un regime autoritario ciò che più disarma gli oppositori e inibisce l'opinione pubblica al dissenso è la percezione di invincibilità del dittatore, sapere che la maggioranza del popolo è con lui, senza possibilità di ribaltare la situazione. Da domani in Venezuela non è più così scontato nella testa della gente. L'opposizione a Chavez non è più una minoranza clandestina, ma una maggioranza consapevole. C'è da augurarselo.

Friday, November 02, 2007

Nascita di una dittatura

Distratti dal chiacchiericcio del nostro backyard, già ci sono passati di mente i monaci buddisti birmani, che l'altro ieri sono tornati a manifestare, per la liberazione della leader democratica Aung San Suu Kyi, e neanche ci siamo accorti delle decine di migliaia di venezuelani scesi in piazza a Caracas per protestare contro la nuova costituzione voluta da Chavez, che prevede, tra le altre cose, la possibilità di rielezione indefinita del presidente.

Ecco come nasce una dittatura, nell'indifferenza generale. Ricordatevene, quando tra qualche anno sentirete parlare del Venezuela come se fosse da sempre una dittatura. Oggi c'è qualcuno che sta rischiando la vita per impedirla e che, prima o poi, un domani, dovremo sostenere. Non sarebbe stato meglio farlo prima?

Monday, August 20, 2007

Nascita di una dittatura annunciata

A chi ha imparato qualche lezione dalla storia del secolo scorso - il secolo delle ideologie - sono bastate le sue prime misure, i primi vertici con altri capi di Stato (da Ahmadinejad a Fidel Castro), ed è stato sufficiente udirne la retorica, per capire che quella che si andava scrivendo in Venezuela era la storia dell'ennesimo dispotismo rivoluzionario «animato da propositi palingenetici di giustizia sociale», come lo ha descritto qualche giorno fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera.

Ogni cosa faceva presagire che sarebbe andata a finire così, con la nascita di una nuova dittatura, la «nuova bandiera di una mitologia rivoluzionaria», un nuovo castrismo che già «elettrizza i cuori dei sempre inappagati turisti della rivoluzione mondiale».

Una modifica alla Costituzione e Chavez si garantirà l'"elezione" a vita, dopo le nazionalizzazioni e l'abrogazione della proprietà privata, dopo aver schiacciato le opposizioni accentrando su di sé potere politico, economico e mediatico.

Ma ovviamente, com'era prevedibile, nessuno sdegno, né nazionale né internazionale, per il golpe di Chavez. Come al solito - come i cubani, per esempio - saranno i venezuelani, consapevoli o meno, le prime vittime delle politiche di Chavez, mentre in Occidente l'immagine di «agitatore antimperialista» gli garantirà «un'atmosfera di indulgenza, di bonaria accondiscendenza, quando non addirittura di adesione alle sue invettive antiamericane».

Ignorati gli allarmi di un intellettuale scomodo, perché liberale, come Mario Vargas Llosa, una mosca bianca tra gli intellettuali anti-imperialisti latino-americani, sempre molto ascoltati. Nessuno che abbia voglia di indagare il perché di questa «maledizione» che condanna l'America Latina a una sorta di eterno ritorno dell'autoritarismo rivoluzionario.