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Tuesday, November 22, 2016

La "transizione" Trump: verso una presidenza pragmatica?

Pubblicato su Ofcs Report

I primi passi della "transizione" del presidente eletto suggeriscono determinazione e pragmatismo

La "transizione" del presidente eletto Donald Trump sarà anche nel caos, contraddistinta da scontri e tensioni, come è stato riportato anche in Italia, ma a due settimane dal voto cinque figure preminenti della nuova amministrazione sono già state scelte, mentre nel 2008, dopo lo stesso numero di giorni, Obama ne aveva annunciata una sola.

L'isteria dei media liberal americani (e non solo) per l'elezione di Trump si estende anche alla copertura della sua "transizione". E allora bastano dicerie e stereotipi per attribuire pesantissime etichette di razzismo e antisemitismo. Un anziano senatore bianco repubblicano dell'Alabama, Jeff Sessions, scelto come Attorney General (il ministro della giustizia), non può che essere razzista, anche se da procuratore ha portato avanti diversi casi per la "desegregazione" delle scuole, e ha chiesto e ottenuto la pena di morte per un leader del KKK. Da senatore Sessions ha votato per l'estensione del Civil Rights Act e per la conferma di Eric Holder come primo Attorney General di colore. E che dire delle foto che lo ritraggono mano nella mano con l'icona dei diritti civili John Lewis alla celebrazione del 50esimo anniversario della marcia di Selma?

Ma cerchiamo di capire quali indicazioni possiamo trarre sulle linee guida della presidenza Trump dai primi passi nella composizione della sua squadra di governo. Innanzitutto, la nomina a capo di gabinetto di Reince Priebus, presidente del Comitato nazionale repubblicano, quindi un uomo macchina del partito, e l'incontro con il candidato repubblicano alla Casa Bianca di quattro anni fa, Mitt Romney, nonostante prima e dopo le primarie avesse apertamente contrastato la sua candidatura, suggeriscono la volontà di Trump di lasciarsi alle spalle le vecchie ruggini, ricompattare il Partito repubblicano dopo le laceranti divisioni sul suo nome, nel superiore interesse di instaurare da subito se non un'amichevole almeno una leale collaborazione con i leader del partito che controlla entrambi i rami del Congresso. E' nell'interesse di tutti infatti che una tale "congiunzione astrale" (è molto raro negli Usa che la stessa parte politica abbia contemporaneamente il controllo di Casa Bianca, Camera e Senato) non venga sciupata. E Romney sarebbe addirittura tra i candidati in corsa per la poltrona di segretario di Stato, ovvero la più influente e prestigiosa, nonostante le sue posizioni sulla Russia non siano in sintonia con quelle di Trump. O forse proprio per questo, per avere con Putin un approccio "bastone e carota"?

Le scelte di Sessions, di cui abbiamo già parlato, come Attorney General, del deputato del Kansas Mike Pompeo come direttore della Cia e del generale Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale (l'unica nomina che non dovrà essere ratificata dal Senato) indicano la volontà di tirare dritto su due temi centrali in campagna elettorale: tolleranza zero verso l'immigrazione illegale e linea dura sulla sicurezza nazionale, in particolare sull'Islam radicale. In questi campi gli elettori avranno ciò per cui hanno votato. Non si tratta di tre outsider, di conigli estratti dal cilindro del tycoon newyorchese, ma di figure che vengono dal mondo della politica, che possono vantare eccellenti carriere professionali e politiche pre-Trump, e dal profilo ben preciso.

Pompeo è una figura di spicco della Commissione per l'intelligence della Camera dei deputati e protagonista della Commissione di inchiesta sulla gestione, da parte del Dipartimento di Stato allora guidato da Hillary Clinton, dell'attacco terroristico di Bengasi in cui perse la vita, tra gli altri, l'ambasciatore Stevens. Non vede l'ora di "smantellare" l'accordo sul nucleare iraniano e, come Flynn, è sostenitore della linea dura nei confronti dell'Islam radicale, dal quale chiede alla comunità musulmana americana di dissociarsi apertamente.

Il generale Flynn è stato il direttore della Defense Intelligence Agency di Obama, rimosso perché sosteneva che non si combattesse abbastanza il terrorismo islamico. Le sue tesi sono esposte in un libro scritto a quattro mani con lo storico Michael Ledeen ("Field of Fight)" e sollevano questioni che, a maggior ragione alla luce del nuovo inquilino alla Casa Bianca, noi europei non possiamo più ignorare. Innanzitutto, le premesse: un network di gruppi terroristici islamici è in ascesa, anche presso le comunità musulmane in Occidente. E gli Stati che in un modo o nell'altro li sostengono, o non li combattono, in funzione anti-occidentale, non sono pochi. Ma finora non siamo stati in grado né di contrastarli né di colpire chi li sostiene. Anche se i nostri leader dicono che stiamo vincendo, la verità è che stiamo perdendo. Per prima cosa, sostengono Flynn e Ledeen, bisogna riconoscere che siamo in guerra, una nuova guerra mondiale, e non continuare a negarla, chiudendo gli occhi dinanzi alla natura del nemico. Secondo: non basta "contenere" il nemico, dobbiamo avere un piano per vincere. E la vittoria passa tanto dalla distruzione militare dei gruppi terroristici quanto dallo sfidare i regimi che li supportano e dal contrastare culturalmente la loro ideologia (la "guerra delle idee"), abbandonando politically correct e complessi di islamofobia. E accusano Obama di aver fatto il contrario, lasciando un vuoto (fisico-militare e politico-ideologico) in cui il terrorismo ha potuto trovare spazi per crescere e rafforzarsi.

Con Pompeo alla guida della Cia e Flynn alla sicurezza nazionale temi quali il centro di detenzione di Guantanamo e le tecniche di interrogatorio "rafforzate" sembrano destinati a tornare d'attualità. Discutere di come ottenere il massimo di informazioni dai nemici catturati non può essere un tabù, nemmeno in Europa dopo la recente serie di attacchi subiti. E' politicamente "scomodo" e non privo di rischi avvicinarsi al confine con ciò che riteniamo tortura, ma la tesi di fondo è che bisogna abbandonare l'illusione di poter sconfiggere il nemico islamista "in punta di diritto", cioè con mezzi legali ordinari, gestendo terroristi disciplinati, indottrinati e addestrati militarmente con i guanti bianchi, le procedure e i tempi dei normali sistemi giudiziari. Quali informazioni stiamo ottenendo da Salah Abdeslam, che si sarebbe chiuso nel "mutismo", e da Moez Fezzani?

Nonostante Flynn sia dipinto come filorusso, nel libro scritto con Ledeen Iran e Russia compaiono in cima ai Paesi di cui non fidarsi: il primo come sponsor del terrorismo, il secondo come avversario strategico che vede nell'Occidente, nella Nato e negli Stati Uniti bersagli da colpire o comunque da indebolire.

E' ovviamente presto per parlare di una dottrina Trump in politica estera e per capire se i proclami della campagna elettorale si tradurranno in azioni conseguenti, ma forse possiamo almeno evitare di cadere nelle semplificazioni.

La posizione di Trump sulla Russia è stata banalizzata per attribuirgli un orientamento ideologicamente favorevole ai sistemi autoritari. In realtà, che si condivida o meno, una normalizzazione dei rapporti tra Washington e Mosca è auspicata da molti e autorevoli analisti americani e in molte capitali europee. Proposta persino da Barack Obama e Hillary Clinton all'inizio dei loro mandati (il pulsante di "reset"). Sulla base della considerazione che non c'è molto da guadagnare da uno scontro con Putin su fronti (come l'Ucraina) che i russi ritengono vitali e gli americani no. In Siria i danni provocati dalle incertezze e dal vuoto lasciato dall'amministrazione Obama, riempito dall'Isis e dalla Russia, sono ormai semplicemente irreparabili. Bisogna prenderne atto con pragmatismo e provare a trovare una soluzione riconoscendo il ruolo di Mosca.

Anche le etichette di isolazionista e protezionista attribuite a Trump potrebbero rivelarsi per lo meno esagerate. Giuste o sbagliate, Trump sembra indicare priorità di politica estera diverse e un cambio di approccio rispetto alla presidenza Obama. L'interesse americano in Medio Oriente non sta nelle primavere arabe e nel "nation-building", ma nel combattere l'Islam radicale. Aumentare la spesa militare, distruggere l'Isis, contenere l'Iran, contrastare la concorrenza sleale della Cina in campo commerciale e monetario, non sembrano propositi che implichino un disimpegno isolazionista, bensì un impegno e un "interventismo" su altri fronti e sulla base della realpolitik, quindi su presupposti molto lontani da quelli dell'interventismo liberal o della destra neocon.

Piuttosto che voler liquidare la Nato, sembra che dall'Alleanza atlantica Trump si aspetti una riconversione strategica sull'obiettivo di debellare la minaccia del terrorismo islamico. E le provocazioni sui contributi insufficienti in termini di spesa militare della maggior parte degli alleati riprende un tema reale (già sollevato tra l'altro anche dall'amministrazione Obama). La considerazione di Trump secondo cui per gli Stati Uniti sarebbe meglio se il Giappone potesse contare su propri armamenti nucleari anziché appaltare la sua sicurezza agli americani è stata letta come l'intenzione di abbandonare il principale alleato in Asia a se stesso di fronte a una Cina in ascesa, ma è lo stesso primo ministro giapponese Shinzo Abe (tra l'altro il primo leader straniero ad aver incontrato Trump) a voler rafforzare le capacità militari del suo Paese.

Piuttosto che mettere in discussione ideologicamente il libero commercio, Trump sembra convinto, a torto o a ragione lo vedremo, di poter negoziare accordi più vantaggiosi per gli americani, in termini di fabbriche e posti di lavoro. Riguardo il nuovo Nafta, i presidenti di Canada e Messico si sono già detti pronti a riaprire le trattative e potrebbe farne parte anche il Regno Unito post-Brexit, dando vita ad una grande area di libero scambio in quella che viene definita l'"Anglosfera". Si intravedono tra il neo presidente americano e la premier britannica Theresa May i presupposti e le circostanze "storiche" di un rapporto speciale, che nonostante le profonde differenze, non può non ricordare la sintonia ideale, strategica e umana tra Reagan e la Thatcher negli anni '80.

Saturday, November 12, 2016

C'è un po' di Reagan nella vittoria di Trump che ha riportato a casa i "Reagan Democrats"

Pubblicato su L'Intraprendente

Una delle certezze spacciate dai mainstream media americani (e copiate dai nostri anche al di qua dell'Atlantico) durante questa campagna per la Casa Bianca è che in ogni caso Trump avrebbe irrimediabilmente fatto a pezzi il Gop. Il suo populismo, le volgarità, l'impreparazione inconciliabili con la serietà e la rispettabilità dei candidati del partito. I suoi messaggi antitetici ai principi conservatori, e lui definito addirittura un pericoloso fascista. Molte le defezioni dell'establishment repubblicano, dai neoconservatori alla famiglia Bush. Tra gaffe e approssimazione, la sua campagna è stata ridicolizzata dai commentatori. Eppure, in poche ore quella che doveva essere una crisi esistenziale del Gop si è trasformata in una irresistibile ondata repubblicana.

Come è stato possibile? Innanzitutto, mettendo in secondo piano il problema del suo carattere, gli elettori repubblicani (al 90%) e la maggioranza del partito hanno riconosciuto che l'agenda Trump era essenzialmente conservatrice su quasi tutti i temi (immigrazione, tasse, law and order, aborto, secondo emendamento, Corte suprema, spesa militare, sanità, energia), discostandosi dalle posizioni tradizionali degli ultimi decenni solo su politica estera, commercio internazionale e Wall Street. I primi dati sui flussi elettorali mostrano che Trump ha conquistato una percentuale maggiore di voti rispetto a Romney nel 2012 tra gli elettori afroamericani, latini, asiatici, e anche tra le donne bianche, nonostante le sue uscite, bollate come razziste e sessiste, avrebbero dovuto danneggiarlo in modo irreparabile proprio presso questi gruppi di elettori. Dunque, si è rivelato "unamedicina piuttosto che un veleno" per il Gop.

Ma ciò che è stato più sottovalutato è lo straordinario valore aggiunto che Trump ha portato alla campagna con il suo appello ad un elettorato trasversale, in particolare alla working class bianca delusa, che ha gli ha permesso di strappare ai democratici gli stati della "Rust Belt", operazione non riuscita quattro anni prima a Mitt Romney e impensabile senza il coraggio di messaggi "eretici" rispetto alle tradizionali posizioni repubblicane sul commercio internazionale, sui posti di lavoro persi nell'industria e su Wall Street. Non si è verificato il pronosticato esodo di elettori repubblicani "never Trump" verso Hillary (solo il 7%). Al contrario, secondo gli exit poll della Cnn Trump ha conquistato il 9% del voto democratico.

E' così scandaloso alla luce di questi dati un paragone fra Donald Trump e Ronald Reagan? Anche Reagan nel 1980 ha vinto a sorpresa, ribaltando i pronostici della vigilia che vedevano favorito il democratico Carter. Anche Reagan era accusato dagli avversari e dai commentatori di essere rozzo, impreparato e pericoloso, nonostante fosse stato per due mandati governatore della California. Anche Reagan era un ex democratico ed era poco amato da importanti settori dell'establishment del partito che infatti contrastarono la sua candidatura. Sembrano fermarsi qui le analogie fra Trump e Reagan, ma in realtà ciò che più li avvicina, politicamente, è il voto dei "Reagan Democrats".

Grazie alla sua insistenza su un commercio internazionale che sia giusto oltre che libero, sul rispetto delle leggi sull'immigrazione, e alla promessa di riportare negli Usa i posti di lavoro persi a favore di Messico e Cina, Trump ha riportato a casa i "Reagan Democrats", vincendo i grandi stati (ex) industriali (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Ohio), che tutti insieme non votavano per un presidente repubblicano dal 1984, cioè proprio l'anno della rielezione "landslide" di Ronald Reagan.

Chi sono i "Reagan Democrats"? Sono elettori della working class, bianchi non laureati, si definiscono cristiani ma distanti dalla destra religiosa. Elettori che avevano abbandonato il Partito democratico per votare Reagan nel 1980, e ancora di più nel 1984. Oggi sono in gran parte elettori indipendenti, che si sentono liberal sui temi sociali e conservatori in campo economico e fiscale. Trump ha conquistato il 48% dei loro voti contro il 42% della Clinton, secondo gli exit poll della Cnn, mentre il sondaggio finale IBD/TIPP attribuiva a Trump un vantaggio addirittura di 10 punti (48% a 38%) sulla Clinton negli stati del Midwest. E il Washington Post ha calcolato che su 700 contee che hanno votato per due volte Obama, un terzo (molte delle quali proprio nel Midwest) è passato a Trump. Tra gli elettori bianchi non laureati Trump ha prevalso di 41 punti percentuali, contro i 26 di Romney quattro anni prima. Nel 2012 Obama aveva vinto la rurale Monroe County, nella "coal belt" dell'Ohio, con 8 punti di vantaggio, ha ricordato Laura Meckler del WSJ, mentre Trump quest'anno l'ha fatta sua per 47 punti. Nella Luzerne County delle "tute blu", in Pennsylvania, Obama aveva prevalso di 5 punti, Trump l'ha vinta con 19 punti di distacco.

Insomma, con le sue incursioni a sinistra su industria e commercio Trump potrebbe aver ricostituito (o almeno posto le basi per ricostituire) la "Reagan Majority", la coalizione che ha garantito a Ronald Reagan due mandati, seguiti dal mandato di Bush senior.

La somma di elettori repubblicani, working class bianca e indipendenti ha portato il Gop alla conquista della Casa Bianca e alla conferma delle maggioranze sia alla Camera che al Senato per la prima volta dagli anni '20 del secolo scorso. Lungi dall'affondare il Partito repubblicano, pare che Trump l'abbia salvato. Difficile immaginare come un diverso candidato, che sarebbe rimasto nella "comfort zone" del partito, probabilmente scontrandosi con il problema della coperta troppo corta come Mitt Romney quattro anni prima, avrebbe potuto battere la Clinton e garantire ai Repubblicani una posizione più forte. Posizione di forza che ora rappresenta una grande opportunità. Sarebbe un errore imperdonabile sprecarla in guerre intestine e incomprensioni tra la presidenza e la leadership del partito che controlla Camera e Senato. Alcune iniziative chiave, come sanità e riforma fiscale, in grado di rilanciare l'economia, potrebbero consolidare il consenso e porre le basi per una più solida maggioranza nel Paese. Come Reagan, Trump verrà giudicato non sulle pretestuose polemiche della sinistra, ma sulla capacità di rendere l'America di nuovo grande.

Lo sconfitto innominabile: Barack H. Obama

Pubblicato su L'Intraprendente

L'esito delle elezioni presidenziali americane sembra mettere in discussione una granitica certezza della "narrazione" elettorale dei mainstream media: che la presidenza Obama sia stata una specie di età dell'oro e che la sconfitta di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca sia imputabile esclusivamente alla sua debolezza. Anzi, i "sore losers", i rosikoni della sinistra sono già all'opera, accusando della sconfitta, nell'ordine, il direttore dell'FBI Comey, Putin, WikiLeaks, l'ignoranza e il sessismo degli elettori e persino Lisa Simpson...

I media hanno raccontato queste elezioni come un referendum su Trump, enfatizzando le divisioni all'interno del Gop sulla sua candidatura con l'intento di danneggiarlo. E se invece l'8 novembre un referendum si fosse tenuto, ma su Barack Obama? "L'arma segreta di Trump? Obama", ha scritto Kimberly Strassel sul WSJ, un presidente che "ha imposto una legislazione impopolare e governato attraverso ordini esecutivi e una regolazione extralegale". Non lo ammetteranno mai giornali e tv mainstream, non solo americani, che in questi otto anni hanno riposto in cantina il loro spirito critico pur di celebrare la presidenza Obama come una serie di successi indiscutibili, sia in campo economico che in politica estera, ma alla vittoria di Trump potrebbe aver contribuito il ripudio da parte degli elettori dell'operato e delle politiche del presidente uscente.

Sollevare un simile interrogativo equivale a una lesa maestà. Eppure, la sua eredità non era forse "nelle urne", come lo stesso Obama aveva detto a settembre? Alla luce dei risultati, la principale eredità di Obama sembra essere il "tracollo del Partito democratico", ha scritto Rich Lowry sul NYPost. Alcuni dati. Il suo partito è uscito devastato dai suoi due mandati. Nel 2009, primo anno della presidenza Obama, i Democratici controllavano entrambi i rami del Congresso (con una quasi-supermaggioranza al Senato), e nel 2010 60 assemblee legislative statali su 99. Ben 29 governatori (contro 22) erano democratici. Già nel 2010 comincia a cambiare il vento: perdono il controllo della Camera e nel 2014 del Senato. Oggi sono solo 15 i governatori democratici (contro 34) e controllano 30 assemblee legislative statali. Nel 2017 i repubblicani potrebbero raggiungere il record di 34 stati sotto il loro controllo. Non succede dal 1922, sotto la presidenza di Warren Harding il cui slogan, guarda caso, era "America First". Tutta colpa di Hillary Clinton? O magari c'entra qualcosa l'inquilino della Casa Bianca?

Dopo che i suoi eccessi legislativi sono costati al partito le maggioranze al Congresso, Obama non ha battuto ciglio, è andato avanti per la sua strada a colpi di ordini esecutivi, soprattutto nella regolazione ambientale e l'immigrazione. Anche i dati economici parlano di una crescita striminzita (l'unico presidente Usa che non ha mai centrato il 3% di crescita in almeno un anno di mandato), di posti di lavoro insufficienti, sia per quantità che per qualità. E ancora, il fallimento dell'ObamaCare, dai costi insostenibili, 20 trilioni di dollari di debito pubblico, caos in Medio Oriente, la Russia di Putin che spadroneggia in Siria e ai confini dell'Europa, il reset con Mosca fallito, il discorso del Cairo, le "linee rosse" non mantenute, l'accordo sul nucleare iraniano, il sostegno al movimento "Black Lives Matter movement"...

Secondo lo storico Victor Davis Hanson, il Partito democratico che lascia Obama non è né un partito centrista né di coalizione, ma un partito "di sinistra radicale ed elite progressista". Non solo Obama ha lasciato ai democratici "detriti ideologici e politici", ma anche una coalizione elettorale fondata sulla sua personale carta d'identità, "non trasferibile" ad altri candidati. Non appena, infatti, i Democratici hanno basato la campagna elettorale sull'"agenda Obama" senza Obama come candidato, hanno fallito. Senza il suo carisma, senza l'appeal del primo presidente di colore, le sue posizioni di estrema sinistra sui temi sociali, la redistribuzione, l'immigrazione, la spesa pubblica condannano alla sconfitta qualsiasi candidato diverso da lui. Ed è ciò che è accaduto a Hillary, che a causa della sua impopolarità non avrebbe potuto correre sulle posizioni centriste che fecero la fortuna di suo marito Bill - probabilmente non avrebbe nemmeno ottenuto la nomination, pur avendo chance maggiori di arrivare alla Casa Bianca. Non ha potuto far altro che offrire un "terzo mandato" di Obama, ovvero il mantenimento dello status quo.

Al suo primo test su un altro candidato, la "coalizione Obama" (minoranze, millennials, ceti istruiti) si è sfaldata. La politica identitaria su cui Obama ha costruito i suoi successi, che punta a mobilitare le minoranze sulla base dell'identità di ciascuna di esse, si è dimostrata inutilizzabile da altri candidati. Ed era forse prevedibile che gli elettori delle minoranze che si erano mobilitati per Obama per il colore della sua pelle non si sarebbero così facilmente mobilitati per un'anziana donna bianca multimilionaria. Erano così convinti i Democratici che le tendenze demografiche gli avrebbero comunque garantito la vittoria, che hanno ignorato, se non allontanato o addirittura "provocato" la working-class bianca, che quindi si è rivolta altrove. Quanto più la Clinton giocava la carta della politica identitaria, tanto più perdeva terreno e regalava elettori a Trump. Il multiculturalismo non è più in cima all'agenda degli americani.

Friday, November 11, 2016

L'America di "Gran Torino" porta Trump alla Casa Bianca

Pubblicato su The Right Nation

A poche ore dalla vittoria di Donald Trump qualche considerazione possiamo annotarla sul nostro taccuino, in attesa di dati e analisi più precise. Dopo l'esito del referendum sulla Brexit, un'altra sberla ha fatto girare la testa alle elites occidentali, sempre più cieche e sorde, ai mainstream media "militonti" e ai sedicenti "esperti".

Trump ha vinto soprattutto perché non era Hillary, ma l'impresa non sarebbe riuscita a chiunque. Ci voleva qualcuno che rappresentasse una diversità irriducibile rispetto alla candidata democratica. Gli altri candidati Gop erano privi di carisma e troppo interni al "sistema". Da totale outsider ha pagato in termini di voti la sua palese impreparazione e la sua rozzezza, ma contro Hillary ha potuto giocare fino in fondo, senza scrupoli, la carta dell'anti-establishment, dell'anti-sistema. E forse, considerando l'impopolarità e gli scheletri nell'armadio dell'ex segretario di Stato era la carta più importante da giocare per arrivare alla Casa Bianca. Gli altri candidati Gop ci sarebbero andati forse vicini, ma avrebbero condotto una campagna più "di testa" che "di pancia", sarebbero rimasti nella "comfort zone" del loro partito, probabilmente scontrandosi con il problema della coperta troppo corta come Mitt Romney quattro anni prima.

E' stato un voto non solo contro Hillary, ma contro il sistema mediatico, che agli occhi degli americani ha ormai raggiunto un grado di credibilità prossimo allo zero. I 57 endorsement per la Clinton contro i 3 di Trump non hanno spostato un voto. Anzi, la faziosità senza precedenti con cui giornali e tv hanno sostenuto la Clinton e demonizzato Trump ha semmai avvantaggiato quest'ultimo, secondo lo schema per cui se al centro della storia metti l'"eroe" aggredito da tutti, anche se "cattivo", alla fine i lettori simpatizzeranno per lui. I media (figuriamoci quelli italiani, desiderosi di guadagnare punti agli occhi di una probabile amministrazione Clinton...) non si sono minimamente sforzati di capire il fenomeno Trump, ma solo di tifare in modo sfrenato per Hillary. Non dimenticheremo i dibattiti tv vinti 3-0... Bias, wishful thinking e state of denial sono stati gli ingredienti di una catastrofe senza precedenti dei media. Mesi a cercare di incastrare Trump con questa o quella gaffe (vera o pretestuosa), mentre il tycoon faceva arrivare efficacemente i suoi messaggi a un elettorato trasversale. Tutti a fare da comparse del suo reality...

Altri due elementi chiave della sua vittoria, che in pochi ci eravamo permessi di evocare quasi clandestinamente mesi fa. La riconquista della "Rust Belt", che non votava repubblicano dal 1984: in stati dove la delocalizzazione ha fatto più strage di posti di lavoro e di "identità industriale" il suo appello alla working class bianca ha funzionato. Così come ha giocato un ruolo quella ribellione contro il politicamente corretto che aveva già caratterizzato il successo della Brexit.

Sfidando su ogni aspetto il complesso di superiorità antropologica della sinistra, Trump è riuscito a tenere insieme il blocco tradizionale delle roccaforti repubblicane del Sud e del Midwest. Ma allo stesso tempo è stato capace di andare oltre la "grande tenda" del Gop: non sarebbe bastato infatti strappare la Florida, già di per sé un'impresa. I suoi messaggi "eretici" rispetto alle tradizionali posizioni repubblicane su Wall Street, commercio internazionale, industria, posti di lavoro persi, gli hanno permesso di strappare ai democratici tutti i principali stati industriali (o quasi ex industriali): Ohio, Wisconsin, Pennsylvania e forse anche Michigan. Dunque, stati agricoli e stati industriali. A portare Trump alla Casa Bianca è stata insomma l'America del "fare", della (una volta grande) manifattura, di chi lavora (o lavorava) la terra (i "redneck") e nelle fabbriche (i "blue-collar"), la working class bianca del Paese, l'America lontana dalle metropoli glamour. L'America dei Walt Kowalski, il protagonista del fortunato film di Clint Eastwood che dopo una vita da operaio della Ford si è potuto permettere una Gran Torino del 1972, custodita gelosamente. Vedremo se un risveglio, o solo un colpo di coda della "vecchia America"...

Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth aveva ipotizzato l'esistenza di una "nuova maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media americana a cui Trump non piace ma pronta a votarlo lo stesso, perché "ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct". E' un bullo, un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump". E la via americana al benessere non prevede il doversi mettere in fila per ricevere dallo Stato qualche benefit di una sempre più misera redistribuzione della ricchezza, che è invece la via europea, ma la liberazione degli "animal spirits" affinché tutti abbiano almeno una chance per costruirsi da sé il proprio benessere.

L'altro fattore è la ribellione contro il politicamente corretto. La democrazia americana ha dato un segnale di straordinaria vitalità: milioni di elettori, quelli definiti "deplorables" (miserabili) dalla Clinton, hanno resistito alla pressione della condanna morale ("Trump e le cose che dice sono riprovevoli, quindi se lo appoggi non sei una persona degna, devi vergognarti") esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; la stampa americana e internazionale; Wall Street; gli opinion leader, il mondo accademico e lo star system; persino parte dell'establishment repubblicano. Al di là di qualsiasi giudizio di merito su Trump, una democrazia in salute, i cui elettori si sono mostrati in gran parte immuni al virus di quel "conformismo democratico" paventato da Alexis de Tocqueville.

Gli elettori non hanno dato peso alle sue gaffe, alcune vere altre preconfezionate dai suoi avversari. Anzi, proprio Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi avversari e dai media, ha rappresentato un riscatto per quanti non ne possono più di sentirsi istruiti su come "non sta bene" pensare, parlare o comportarsi (figuriamoci votare...). Il vendicatore di un elettorato bianco "nativo" (contrariamente alle aspettative anche femminile) per anni indicato come privilegiato e responsabile delle peggiori discriminazioni, passate e presenti, espulso dal discorso pubblico e da un'agenda politica ormai rivolta quasi esclusivamente all'integrazione di ogni genere di minoranza.

C'è una vera e propria ribellione nei confronti delle norme del politicamente corretto alla base del risentimento contro l'establishment che anima i sostenitori di Trump, ha scritto l'editorialista del New York Times Thomas B. Edsall. "L'avanzata del politicamente corretto è un grave rischio" per la civiltà occidentale, avverte lo storico Niall Ferguson, secondo cui l'"anti politicamente corretto" è il vero trait d'union tra l'insofferenza dei bianchi americani e la Brexit: "E' la reazione di una fetta importante della società - ha spiegato in una recente intervista al Foglio - che ha la sensazione che qualcuno abbia scelto di rivoltarle il mondo contro. D'altronde in cosa consiste all'ingrosso il progetto progressista se non nel fatto di rendere le nostre società un po' meno favorevoli all'uomo bianco medio che tanto se ne era avvantaggiato finora? Non ci possiamo sorprendere se oggi assistiamo al tentativo multiforme di combattere tale progetto".

Wednesday, November 09, 2016

L'America di "Gran Torino" porta Trump alla Casa Bianca

Pubblicato su Ofcs Report

Dopo la Brexit un'altra sberla a elites sorde, media militonti e sedicenti esperti

Nei mesi scorsi avevamo evidenziato gli elementi chiave di una possibile vittoria di Donald Trump: in stati dove la delocalizzazione ha fatto più strage di posti di lavoro e di "identità industriale" (citavamo proprio Pennsylvania, Ohio e Michigan) il suo appello alla working class bianca ha funzionato. Così come ha giocato un ruolo quella ribellione contro il politicamente corretto che aveva già caratterizzato il successo della Brexit.

Trump è riuscito a tenere insieme il blocco tradizionale delle roccaforti repubblicane del Sud e del Midwest e a costruire la sua vittoria riuscendo nel miracolo di conquistare la Florida e strappare ai democratici tutti i principali stati industriali (o quasi ex industriali): Ohio, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Dunque, stati agricoli e stati industriali, della (una volta grande) manifattura. A portare Trump alla Casa Bianca è stata insomma l'America del "fare", di chi lavora (o lavorava) la terra e nelle fabbriche, la working class bianca del Paese, l'America lontana dalle metropoli glamour. L'America dei Walt Kowalski, il protagonista del fortunato film di Clint Eastwood che dopo una vita da operaio della Ford si è potuto permettere una Gran Torino del 1972, custodita gelosamente. Vedremo se un risveglio, o solo un colpo di coda della "vecchia America"...

Quella delle grandi fabbriche sarà anche un'America destinata a non tornare, spazzata via per sempre dalla globalizzazione e dall'innovazione tecnologica, e in questo senso Trump avrebbe illuso gli elettori promettendo di riportare negli Usa posti di lavoro "delocalizzati" in Messico o in Cina. Tuttavia, si è fatto per lo meno portavoce, al contrario dei suoi avversari e dei media, dello smarrimento di molti elettori che nel corso di pochi anni hanno visto gli stati in cui vivono perdere la propria identità socio-economica.

I mainstream media e gli espertoni hanno sottovalutato questo malcontento ritenendo indiscutibili i successi dell'amministrazione Obama in campo economico. Eppure, nella sconfitta di Hillary non c'è solo la sua impopolarità, ci sono anche questi falsi successi che un sistema mediatico troppo compiacente ha preferito non vedere come tali. Nonostante il segno più del Pil, e un tasso di disoccupazione meno della metà del nostro, la realtà è che la crescita americana è rimasta anemica, non in grado di produrre una ripresa percepita come tale e posti di lavoro di qualità. Obama è l'unico presidente americano che non ha mai centrato il 3% di crescita in almeno un anno di mandato. E nella Clinton gli elettori hanno intravisto le stesse politiche che hanno prodotto crescita lenta, redditi stagnanti e un altissimo debito pubblico. Proprio la situazione che ha esasperato il ceto medio e le classi operaie che si sono rivolte a Trump.

Ma non si tratta solo di una questione di perdita di posti di lavoro né di numeri. Molti di questi elettori non hanno nemmeno perso il lavoro, né subito un drastico impoverimento, ma vivono un profondo senso di insicurezza per il futuro loro e dei propri figli. Aree enormi e persino interi stati (proprio quelli industriali conquistati da Trump) hanno già perso o stanno perdendo la propria identità manufatturiera. Qualcosa di più profondo che un semplice tasso di disoccupazione. La fabbrica volatilizzata altrove lascia un vuoto di identità. Ed è un tema anche sul piano geostrategico quello della perdita dell'identità manufatturiera, non solo negli Stati Uniti: il saper fare, non solo progettare, beni che si sono poi affermati a livello globale come oggetti del desiderio, quasi di culto, ha contribuito all'affermarsi del ruolo egemone dell'Occidente. Cosa succede se abdichiamo alla nostra vocazione manufatturiera?

Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth aveva ipotizzato l'esistenza di una "nuova maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media americana a cui Trump non piace ma pronta a votarlo lo stesso, perché "ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct". E' un bullo, un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump". E la via americana al benessere non prevede il doversi mettere in fila per ricevere dallo Stato qualche benefit di una sempre più misera redistribuzione della ricchezza, che è invece la via europea, ma la liberazione degli "animal spirits" affinché tutti abbiano almeno una chance per costruirsi il proprio benessere.

L'altro elemento chiave è stata la ribellione al politicamente corretto. Trump ha vinto da solo contro tutti, come il pistolero del West che da solo sgomina una dozzina di banditi. La democrazia americana ha dato un segnale di straordinaria vitalità laddove milioni di elettori, quelli definiti "deplorables" (miserabili) dalla Clinton, hanno resistito alla pressione della condanna morale ("Trump e le cose che dice sono riprovevoli, quindi se lo appoggi non sei una persona decente, devi vergognarti") esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; la stampa americana e internazionale; Wall Street; gli opinion leader, il mondo accademico e lo star system; persino parte dell'establishment repubblicano. Quella americana è quindi una democrazia in salute, immune persino al rischio di quel "conformismo democratico" paventato da Alexis de Tocqueville.

Gli elettori non hanno dato peso alle sue gaffe, alcune vere altre preconfezionate dai suoi avversari. Anzi, proprio Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi avversari e dai media, ha rappresentato un riscatto per quanti non ne possono più di sentirsi istruiti su come "non sta bene" pensare, parlare o comportarsi. Il vendicatore di un elettorato bianco "nativo" (contrariamente alle aspettative anche femminile) per anni indicato come privilegiato e responsabile delle peggiori discriminazioni, passate e presenti, espulso dal discorso pubblico e da un'agenda politica ormai rivolta quasi esclusivamente all'integrazione di ogni genere di minoranza.

C'è una vera e propria ribellione nei confronti delle norme del politicamente corretto alla base del risentimento contro l'establishment che anima i sostenitori di Trump, ha scritto l'editorialista del New York Times Thomas B. Edsall. "L'avanzata del politicamente corretto è un grave rischio" per la civiltà occidentale, avverte lo storico Niall Ferguson, secondo cui l'"anti politicamente corretto" è il vero trait d'union tra l'insofferenza dei bianchi americani e la Brexit: "E' la reazione di una fetta importante della società - ha spiegato in una recente intervista al Foglio - che ha la sensazione che qualcuno abbia scelto di rivoltarle il mondo contro. D'altronde in cosa consiste all'ingrosso il progetto progressista se non nel fatto di rendere le nostre società un po' meno favorevoli all'uomo bianco medio che tanto se ne era avvantaggiato finora? Non ci possiamo sorprendere se oggi assistiamo al tentativo multiforme di combattere tale progetto".

A uscire con le ossa rotte dal voto di martedì non è solo Hillary Clinton. E' stato un voto contro il sistema mediatico, che agli occhi degli americani ha ormai raggiunto un grado di credibilità prossimo allo zero. La faziosità senza precedenti con cui giornali e tv hanno sostenuto la Clinton e demonizzato Trump non ha influenzato le scelte degli elettori. I media, anche italiani, hanno rinunciato a capire, abbandonandosi ad un tifo sfrenato per la Clinton. Non dimenticheremo i dibattiti tv vinti da Hillary 3-0... Bias, wishful thinking e state of denial, mesi a cercare di incastrarlo con questa o quella gaffe (vera o pretestuosa), mentre Trump faceva arrivare efficacemente i suoi messaggi all'elettorato.

Thursday, November 03, 2016

Panico: Hillary può perdere

Pubblicato su Ofcs Report

E anche se ce la fa, rischia una presidenza azzoppata da scandali e inchieste

Che l'emailgate fosse un caso tutt'altro chiuso, e che avrebbe anzi tormentato Hillary Clinton fino all'8 novembre, i lettori di OfcsReport l'hanno potuto leggere più volte su queste pagine. E' successo che tra le email sequestrate all'ex congressman democratico Anthony D. Weiner (per un caso di molestie sessuali a una quindicenne), marito di Huma Abedin, braccio destro della Clinton, l'FBI ritenga che ci siano messaggi rilevanti proprio per il caso che riguarda l'ex segretario di Stato e che impongono di indagare a fondo e con urgenza. E in una lettera al Congresso ha quindi informato i parlamentari. L'annuncio della riapertura dell'indagine sull'emailgate, questa volta a tutti gli effetti un'indagine penale federale, non poteva che scatenare le polemiche. Si sono invertiti i ruoli: non è più Trump a parlare di elezioni truccate e a gettare fango sulle istituzioni, ora è la campagna Clinton a evocare complotti, ad accusare l'FBI, e in particolare il suo direttore Comey, di voler influenzare le elezioni, dopo averlo applaudito invece quando aveva chiuso la precedente indagine senza incriminare la ex first lady.

Il livello di allarme è talmente elevato nel campo democratico che anche il presidente Obama, che in un primo momento tramite il suo portavoce si era rifiutato di sconfessare l'operato dell'FBI, alla fine è sceso in campo, definendo "gonfiato" il caso e bacchettando indirettamente l'agenzia: "Quando ci sono indagini non operiamo su insinuazioni, informazioni incomplete e fughe di notizie".

In realtà, l'FBI non avrebbe potuto scegliere momento migliore per arrecare meno danni possibili alla candidata democratica, non potendo al tempo stesso tacere la nuova indagine. La notizia infatti arriva sì in prossimità del voto, ma con un margine sufficiente di giorni per essere "digerita" dall'opinione pubblica e dar modo alla campagna Clinton di reagire. Ma soprattutto arriva dopo che 26 milioni di americani (il doppio rispetto al 2012) hanno già votato e dopo i dibattiti tv, evitando così a Hillary l'imbarazzo di doverne rispondere in diretta televisiva davanti a 80 milioni di telespettatori. Ovviamente non è una buona notizia per lei, il danno incalcolabile, ma l'FBI non avrebbe potuto agire diversamente. Cosa sarebbe accaduto, infatti, se il direttore Comey avesse taciuto, e sulla stampa fosse trapelato un "leak" sulla nuova indagine in corso? O, peggio ancora, se si fosse saputo dopo l'8 novembre, ad elezione della Clinton avvenuta? Donald Trump avrebbe potuto con buone ragioni parlare di sistema corrotto ed elezioni truccate.

Senza contare che già la decisione dell'FBI di non incriminare la Clinton al termine della prima indagine è apparsa più che discutibile. Il 56% degli americani non l'ha condivisa e per il WSJ, che non sostiene certo Trump, puzza talmente di doppio standard da gettare un'ombra inquietante sulla tenuta dell'indipendenza e dell'imparzialità delle istituzioni e delle agenzie governative. A sollevare ulteriori dubbi di conflitti di interesse e favoritismi politici, ci sono i 675 mila dollari donati da un'organizzazione del governatore della Virginia, Terry McAuliffe, amico di vecchia data di Hillary e Bill, alla campagna per il Senato della moglie del vice direttore dell'FBI Andrew McCabe, che ha avuto un ruolo centrale nelle indagini sulla Clinton.

Insomma, il tema è terribilmente serio. Si tratta della sistematica violazione delle regole sulla segretezza da parte della Clinton e del suo staff. L'ipotesi è che questa violazione fosse deliberata, che addirittura siano stati cancellati messaggi classificati top secret, che sia stata deliberatamente ostacolata la giustizia, con false testimonianze all'FBI e occultando l'esistenza di altre e-mail. E nella migliore delle ipotesi, la candidata ritenuta più "affidabile" di queste elezioni ha usato un server privato di posta elettronica esponendo informazioni top secret per la sicurezza nazionale, ma anche solo intenzioni e politiche del governo Usa, a qualsiasi tipo di hackeraggio e azione di spionaggio di governi stranieri.

Timothy Naftali sul New York Times spiega perché le email della Clinton "importano": "Nessuno vuole doversi preoccupare che qualcuno dei suoi nastri alla Casa Bianca andrà perso", con evidente riferimento al caso Watergate che travolse Nixon. Per il Wall Street Journal a questo punto Hillary Clinton diventa "la mano non sicura", "ha preso il posto di Trump come candidato ad alto rischio". Il Washington Post spiega perché il caso rischia di travolgere anche una eventuale presidenza Clinton: "Pronti per altri quattro anni di 'Clinton scandals'". La parola mai pronunciata ma che risuona nella testa di tutti è una sola: impeachment. Insomma, anche se dovesse farcela, quella di Hillary Clinton potrebbe essere una presidenza azzoppata da scandali e inchieste, debole a Washington e sotto la pressione crescente della rabbia anti-establishment che monta nel Paese, sia da destra che da sinistra.

Come se non bastasse, l'FBI ha pubblicato nuovi documenti su un'indagine, che si chiuse senza incriminazioni, che coinvolse l'allora presidente Bill Clinton per la grazia concessa al finanziere Marc Rich, la cui moglie era donatrice del Partito democratico. E un'altra brutta notizia per Hillary è il netto calo di early voting (voto anticipato) tra gli afroamericani in stati cruciali come Nord Carolina e Florida, la chiave del successo di Obama nel 2008 e nel 2012. Segno che non sarebbe riuscita a conquistare la fiducia del "popolo di Obama".

Che impatto avrà tutto questo sulla corsa alla Casa Bianca? La riapertura di una partita che fino a pochi giorni fa per i sondaggi  sembrava chiusa potrebbe rimotivare i potenziali elettori di Trump, mentre le sempre più oscure zone d'ombra nell'operato della Clinton possono rendere più difficile l'impresa a quegli elettori disposti a votarla turandosi il naso. Ma nonostante tutto, Hillary resta favorita. Anche se con margini molto ridotti rispetto a pochi giorni fa, i sondaggi continuano a darla in vantaggio nei singoli stati. Non da oggi però ci si chiede, e se lo chiedono gli stessi sondaggisti, se siano davvero riusciti a intercettare l'elettorato potenziale di Donald Trump o se qualcuno (molti?) dei suoi elettori sia sfuggito alle rilevazioni.