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Monday, October 19, 2009

Obama apre anche al Sudan

Ma tra gli obiettivi della nuova strategia americana non viene esclusa l'ipotesi di una divisione del Sudan in due stati.

Su il Velino

Dopo Iran, Corea del Nord e Birmania, gli Stati Uniti cambiano politica anche nei confronti del Sudan. Dall'isolamento al dialogo, come aveva anticipato sabato scorso il New York Times. «Incentivi e pressioni» sulla leadership sudanese sarebbero il modo migliore per tutelare i diritti umani e far cessare le violenze nel Paese. Questa mattina, ad annunciare ufficialmente il cambio di rotta il presidente Obama e il segretario di Stato, Hillary Clinton: gli Stati Uniti si impegnano in un «ampio dialogo» con il governo del Sudan. «Abbiamo un menù di incentivi e disincentivi», ha spiegato la Clinton, non specificando quale tipo di misure punitive possano essere prese, visto che il governo sudanese è già soggetto a sanzioni da parte americana.

Il Sudan, ha esordito il segretario di Stato, «è a un importante crocevia, che può sia condurre a sensibili miglioramenti nelle condizioni di vita del popolo sudanese, sia degenerare in un conflitto più violento e nel fallimento statuale. È giunto il momento per gli Stati Uniti di agire con urgenza allo scopo di proteggere i civili e lavorare per una pace definitiva. Un'implosione del Sudan potrebbe provocare la diffusione dell'instabilità regionale e offrire nuovi rifugi per i terroristi internazionali, minacciando in modo significativo gli interessi americani. Gli Stati Uniti hanno un obbligo evidente nei confronti del popolo sudanese - sia nel nostro ruolo di osservatori dell'Accordo di pace complessivo tra Nord e Sud, sia come come primo Paese che ha inequivocabilmente definito gli eventi nel Darfur un genocidio».
(...) «Se il governo del Sudan agirà per migliorare la situazione sul terreno e promuovere la pace, ci saranno incentivi; altrimenti, una crescente pressione verrà imposta dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale», ha spiegato Obama.
(...)
La valutazione dei progressi e le decisioni riguardanti gli incentivi e i disincentivi, si precisa nel nuovo documento strategico, non saranno basati sui risultati conseguiti «nel processo» - come la firma di un memorandum d'intesa o la concessione di visti - bensì su «cambiamenti verificabili sul terreno». Dev'essere chiaro a tutte le parti, inoltre, che il contributo controterrorismo del Sudan viene apprezzato, ma «non può essere usato come moneta di scambio per eludere le responsabilità in Darfur o nell'attuazione dell'accordo di pace».

La nuova politica di Washington definisce chiaramente tre obiettivi strategici degli Usa riguardo il Sudan, non escludendo che si renda necessario puntare ad una divisione del Paese in due stati: 1) la definitiva cessazione del conflitto, delle violazioni dei diritti umani e del genocidio in Darfur; 2) l'attuazione dell'Accordo di pace complessivo tra Nord e Sud che porti a un Sudan pacifico dal 2011, oppure un ordinato percorso verso due stati separati e autosufficienti in pace l'uno con l'altro; 3) evitare che il Sudan diventi di nuovo un rifugio sicuro per i terroristi internazionali.

Thursday, March 05, 2009

Cosa ce ne facciamo di una sentenza inapplicata?

Purtroppo si tratta di un altro caso in cui balzano agli occhi i limiti e le contraddizioni della Corte penale internazionale dell'Aja e in generale della nobile idea di una giurisdizione sovranazionale. Un potere giudiziario senza potere esecutivo e soprattutto senza una cittadinanza e un territorio di cui sia emanazione rischia di emettere petizioni di principio più che sentenze. I giudici della Cpi hanno accolto la richiesta dell'accusa ed emesso il mandato di arresto nei confronti del dittatore sudanese Omar al-Bashir, accusato di crimini di guerra e contro l'umanità (anche se ancora non di genocidio).

Cina e Russia auspicano che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu chieda alla Corte internazionale di «sospendere il processo». Avvertono che il mandato d'arresto rischia di vanificare gli sforzi diplomatici, i negoziati per la pace in Darfur e nel Sudan. Motivazione curiosa, visto che soprattutto da parte di Pechino di sforzi in questo senso non se ne vede nemmeno l'ombra. Ma quali negoziati!? La loro reale preoccupazione è che si costituisca «un precedente pericoloso per il sistema delle relazioni internazionali», è l'attacco al principio della sovranità statuale, la legittimazione dell'ingerenza negli affari interni degli stati.

Anche se le loro obiezioni sono tutte strumentali e pretestuose, su una cosa non si può dar torto a Cina e Russia. Mentre in occidente gli attivisti per i diritti umani gonfiano il petto, in Darfur la situazione peggiora e a rimetterci sono le vittime. La prima reazione di al-Bashir è stata di bandire dal paese 10 ong. Per esempio, l'espulsione della sola sezione olandese di Medici Senza Frontiere «lascia oltre 200 mila pazienti privi di assistenza medica essenziale», fa sapere la stessa Msf. E vi pare che in 50 anni di repressioni in Tibet il governo cinese non meriterebbe di essere accusato degli stessi crimini per i quali si chiede l'arresto di al-Bashir?

Non fraintendetemi. Lo so, questi sono gli stessi argomenti di chi vuole che resti tutto com'è. Al contrario di costoro non voglio certo dire che non bisogna perseguire i dittatori sanguinari come al-Bashir per i loro crimini. Ma penso che di sentenze inefficaci e ineseguibili non sappiamo come farcene, com'è vero che di buone intenzioni sono lastricate le vie per l'inferno. Sono solo demagogiche e spesso controproducenti. Ritengo che semplicemente si debba avere il coraggio e prendersi la responsabilità politica di andare lì e togliere di mezzo al-Bashir con la forza.

Bisogna ammettere che nel mondo i diritti umani e la democrazia non si difendono a colpi di sentenze, ma con la politica, di cui l'uso della forza fa parte. Certo, poi c'è la cattiva politica, che chiude gli occhi di fronte ai massacri in Darfur e che pensa che i diritti umani e la democrazia non abbiano nulla a che fare con lo sviluppo pacifico o aggressivo della Cina; e c'è la buona politica, che li ritiene condizioni di stabilità e sicurezza da promuovere con i mezzi più adeguati a ciascun contesto particolare. Sta a noi scegliere, ma senza l'alibi di una corte senza poteri reali. Tra una settimana il clamore sarà scemato e in Darfur sarà di nuovo "massacre as usual".

Condivisibili le parole di Michael Walzer, un liberal con i piedi per terra, per il quale la decisione della Cpi è «un gesto molto simbolico, senza precedenti... Ma un gesto che potrebbe essere sbagliato perché diretto contro un leader in carica capace di crudeli ritorsioni contro le sue vittime... La Corte non ha i mezzi per imporre l'osservanza della sua decisione, e chi ci dice che Bashir non attuerà rappresaglie?» Un caso molto diverso da quello di Milosevic (e comunque anche in quel caso la "storia" si dimostrò riluttante a farsi processare): «La soluzione della crisi del Darfur non può essere giuridica... La sicurezza e i diritti civili del Darfur devono avere la precedenza su tutto per noi, e la decisione della Corte non facilita questo nostro compito, semmai lo ostacola».