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Tuesday, March 24, 2009

Piano Geithner: c'è solo da incrociare le dita

Ieri è intervenuto sul Wall Street Journal il ministro del Tesoro Usa Geithner a spiegare il piano dell'amministrazione per riportare la fiducia tra le banche e gli istituti finanziari americani. Ovviamente è troppo presto per dire se funzionerà o no, anche perché dipenderà dal reale stato di salute delle banche stesse, cioè da quanto gravemente i loro bilanci sono infetti di "asset tossici". E non è nemmeno facile dire se i recuperi di ieri e oggi indicano che il piano è stato "promosso" dalle Borse, o se invece si tratta solo di prevedibili rimbalzi dettati dal fatto che almeno un piano adesso c'è.

Il piano ha ricevuto però una stroncatura autorevole, di quelle di cui è capace il Premio Nobel Paul Krugman, tra i più accaniti critici di Bush e sostenitori della prima ora di Obama. Krugman accusa Geithner di aver «riciclato» le scelte dell'amministrazione Bush, in particolare il piano ribattezzato "cash for trash". «Più che deprimente. Mi riempie di disperazione».

Il problema del piano, secondo Krugman, è che «dà per certo che le banche siano stabili e che i banchieri sappiano quello che stanno facendo». Krugman è per la nazionalizzazione delle banche. Da un certo punto di vista non ha tutti i torti. Una volta che si è deciso di investire ingenti somme di denaro pubblico, solo in questo modo il governo avrebbe il pieno controllo su come vengono risanati i bilanci delle banche, quindi su come vengono spesi i soldi dei contribuenti. Secondo Krugman bisognerebbe agire in questo modo:
«Il governo ripristina la fiducia nel sistema facendosi garante di molti (non necessariamente tutti) i debiti delle banche. Al contempo, assume un controllo temporaneo delle banche effettivamente insolventi, allo scopo di metterne a posto i bilanci. Così fece la Svezia all'inizio degli anni '90, e noi stessi dopo la débacle dei risparmi e dei prestiti in epoca reaganiana».
Peccato che secondo Paulson prima, e Geithner oggi, gli "asset tossici" sui libri contabili delle banche valgono molto più di quanto chiunque sia attualmente disposto a pagare per essi. Quindi per loro il problema non è una vera e propria insolvenza, ma si tratta di fornire alle banche la liquidità che oggi quei titoli non possono garantire. Paulson aveva proposto che il governo acquistasse direttamente i "titoli tossici", ma c'era il problema di indovinare il "prezzo giusto": fosse stato troppo basso, le banche non avrebbero venduto; troppo alto, ci avrebbero guadagnato troppo. Quello di Geithner è un complicatissimo schema di prestiti per superare questo problema: fa in modo che siano investitori privati a fissare il "prezzo giusto". Poi il governo presta loro i soldi per acquistare i "titoli tossici". Ma l'idea di fondo è la stessa: la sostanziale stabilità e la capacità di giudizio delle banche stesse, cose a cui Krugman ha smesso di credere.

Il problema più grave per Krugman è politico: «Se questo piano dovesse fallire - come quasi sicuramente fallirà - è improbabile che il presidente sarà in grado di convincere il Congresso ad approvare un ulteriore stanziamento di fondi per fare ciò che avrebbe dovuto fare sin dall'inizio». Quando Obama si renderà conto dell'errore, e «di dover necessariamente cambiare rotta», potrebbe essere troppo tardi, nel senso che «il suo capitale politico potrebbe essere ormai dilapidato».

Più cauto, ma anche disilluso, il giudizio del Wall Street Journal: «Almeno è un tentativo». Poi c'è la proposta di Peter Wallison su come stabilire il prezzo degli asset "tossici".

Wednesday, October 01, 2008

Fannie Mae e Freddie Mac, fallimenti della politica

E' vero, fu l'amministrazione Clinton, nel 1999, a fare pressioni sui giganti dei prestiti Fannie Mae e Freddie Mac affinché incrementassero la concessione dei mutui agevolati e acquistassero dalle banche i subprime, ampliando enormemente il ruolo delle agenzie para-statali nel mercato immobiliare americano con l'effetto di indurre gli operatori a confidare nella implicita garanzia pubblica su tutti quei mutui. All'epoca le responsabilità dell'amministrazione Clinton furono annotate su questo articolo del New York Times.

Ma da allora all'inizio della crisi, ampiamente aggravata dal gigantismo di Fannie Mae e Freddie Mac, sono trascorsi 8 anni, durante i quali l'amministrazione Bush e il Congresso, prima a maggioranza repubblicana poi democratica, non sono riusciti a invertire la tendenza.

Per la verità ci fu un tentativo di regolare diversamente i due colossi semi-pubblici dei mutui e di limitare la loro spregiudicatezza finanziaria, come hanno ricordato Peter Wallison e Charles Calomiris, due economisti dell'American Enterprise Institute, sulle pagine del Wall Street Journal. Allo scopo di accattivarsi l'appoggio del Congresso, dopo gli scandali dei loro bilanci nel 2003 e nel 2004, Fannie Mae e Freddie Mac si impegnarono ad accrescere l'erogazione di mutui "facili". Alle cattive scelte di queste due imprese sponsorizzate dal governo – e dei loro sponsor a Washington – vanno attribuite le colpe del disastro attuale, secondo i due economisti dell'AEI. Fannie e Freddie furono viste sui mercati finanziari come operatori i cui bilanci erano garantiti dal governo federale.

Ecco cosa accadde. Quando gli economisti della Fed e dell'Ufficio Bilancio del Congresso cominciarono a studiarle nel dettaglio, si accorsero che – nonostante i loro vantaggiosi tassi di prestito – non avevano significativamente ridotto i tassi d'interesse sui mutui. Sulla scia dello scandalo di bilancio di Freddie, nel 2003, il presidente della Fed Alan Greenspan divenne un loro fermo oppositore, e cominciò a suggerire una regolamentazione più stringente e limitazioni alla crescita dei loro redditizi ma rischiosi portafogli. Se non stavano concedendo mutui più economici e stavano solo creando rischi per i contribuenti e l'economia, a cosa servivano?

La strategia di presentarsi di fronte al Congresso come i campioni dell'housing accessibile funzionò. Fannie e Freddie conservarono l'appoggio di molti al Congresso, soprattutto dei Democratici, e gli fu permesso di continuare senza restrizioni. Nel 2005 Alan Greenspan spiegò nei termini più chiari possibili al Congresso quanto fosse urgente agire: se Fannie e Freddie «continuano a crescere, con un basso livello di capitale, e continuano ad estendere i loro portafogli, possono rappresentare un potenziale rischio di sistema sempre crescente. Stiamo mettendo a rischio in modo sostanziale l'intero sistema finanziario».

Nel 2005 – raccontano Wallison e Calomiris – la Commissione bancaria del Senato, controllata dai Repubblicani, elaborò un valido disegno di legge di riforma, che avrebbe proibito alle imprese sostenute dal governo di detenere portafogli e attribuito al loro regolatore poteri simili a quelli del regolatore del sistema bancario, così come simili requisiti minimi di capitale. Alla luce dell'attuale crisi probabilmente questo progetto di legge sarebbe stato il pilastro di un efficace sistema di regole. Tutti i Democratici e i pochi Repubblicani che votarono contro il progetto, non avrebbero potuto opporsi a queste limitazioni se i loro elettori avessero saputo cosa stavano facendo. E ora i Democratici se la prendono con la deregulation, che negli ultimi 30 anni ha permesso alle banche di diversificare i loro rischi geograficamente e su diversi prodotti, cosa che ha mantenuto le banche commerciali relativamente stabili in questa tempesta.

Se i Democratici avessero lasciato passare quella legge nel 2005, l'enorme crescita di mutui subprime e Alt-A nei portafogli di Fannie e Freddie non si sarebbe potuta verificare, e la crisi finanziaria avrebbe avuto una portata molto minore. Gli stessi politici che oggi stigmatizzano la mancanza di intervento per fermare gli eccessi, sono gli stessi che nel 2005-2006 bloccarono l'unico tentativo legislativo che poteva fermarli.

La storia di Fannie e Freddie sta lì a dimostrare quanto gravi siano le responsabilità della politica, piuttosto che del libero mercato, nella crisi di oggi. Errori commessi, e non corretti, nonostante fosse possibile correggerli per tempo, sia dai democratici che dai repubblicani più statalisti. Come Bush, che liberista non è mai stato e che ha pesanti responsabilità, per aver recepito solo una parte delle politiche liberiste, il taglio delle tasse, e non anche il taglio della spesa pubblica e della invadenza dello Stato.

Lo sottolinea con forza Jeffrey Miron, uno dei 166 economisti che hanno firmato la lettera al Congresso contro il piano Paulson, intervistato sul Corriere di oggi: «È lo statalismo che ha causato la crisi. È inaccettabile che la debbano pagare i contribuenti...». La realtà, avverte, è che «altri dissesti sono inevitabili», che anche «una recessione, non depressione, è inevitabile», ma «se permetteremo al mercato di fare il mercato» la crisi verrà superata entro un anno o poco più.
«È comodo salvarsi a spese altrui. Ma la verità è che il boom dei mutui subprime, il cui crollo ha provocato la stretta creditizia, è colpa dello Stato. Lo Stato ha creato le due agenzie semigovernative Fannie Mae e Freddie Mac che li hanno finanziati e ne ha garantito il debito. Le due agenzie non avrebbero rischiato se non fossero state certe della protezione pubblica, e non avrebbero rischiato nemmeno le banche. I mutui subprime sarebbero stati pochissimi».