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Thursday, March 26, 2009

La Cina spadroneggia e alza il tiro delle sue pretese/2

Il tema che da qualche mese più appassiona gli analisti è se, e in che misura, il mondo uscirà dalla crisi con un nuovo ordine economico internazionale; e se, e quanto, il potere si sposterà da occidente verso oriente, dagli Stati Uniti alla Cina. Ha fatto molto scalpore quindi la proposta "shock" - tra la boutade e la provocazione - lanciata due giorni fa dal presidente della Banca centrale cinese: sostituire in futuro il dollaro come valuta di riserva internazionale con una moneta unica mondiale gestita dal Fondo monetario internazionale. La relazione del governatore Zhou Xiaochuan, insolitamente pubblicata anche in inglese, dà il segno delle ambizioni di Pechino alla vigilia del G20 che si aprirà a Londra il prossimo 2 aprile. Una proposta ad oggi irrealistica, ma che indica la volontà della Cina di vedersi risconosciuto un peso maggiore all'interno delle istituzioni economiche internazionali come il Fondo monetario, la Banca mondiale e il WTO, oggi ancora troppo americano-centriche rispetto alla accresciuta influenza della Cina sull'economia globale.

«Come se il dollaro non avesse già abbastanza problemi», ha commentato il Wall Street Journal, Geithner ieri «ha abboccato» e ha risposto che è «abbastanza aperto» a considerare la cosa. Immediatamente il dollaro è andato giù portandosi dietro i mercati azionari, prima che il segretario al Tesoro «si riprendesse» dicendo che «il dollaro rimane la valuta di riserva dominante nel mondo. E penso che continuerà ad esserlo a lungo». «Lo status del dollaro come valuta di riserva dà agli Stati Uniti enormi vantaggi - osserva il WSJ - e dovrebbe essere difeso strenuamente. Significa che non dobbiamo ripagare i nostri debiti in valuta straniera e che il nostro costo del denaro è più a buon mercato».

Tuttavia, avverte il quotidiano Usa, «significa anche che gli Stati Uniti non conducono la politica monetaria solo per se stessi, ma anche per molta parte del mondo» e che «quando gli Stati Uniti cadono nella tentazione di svalutare la loro moneta, procurano degli shock all'intero sistema economico globale». Il Tesoro e la Federal Reserve, spiega il WSJ, stanno «inondando» il mondo di dollari per interrompere la recessione. E' ovvio quindi che «il mondo si stia giustamente innervosendo», per il rischio che il dollaro perda troppo valore, impoverendo le riserve soprattutto di chi, come la Cina, ha investito in asset e titoli di Stato americani. La Banca centrale cinese è il primo detentore di T-Bills, i Bot americani, per 750 miliardi di dollari. A settembre, la Cina ha scalzato il Giappone come primo creditore di Washington. Inevitabile quindi che la questione del rifinanziamento del debito pubblico Usa sia stata al centro della missione di H. Clinton, che ha portato a Pechino un messaggio chiaro:
«Apprezziamo molto la costante fiducia del governo cinese verso i titoli del Tesoro americano. Sono certa che sia una fiducia ben riposta. America e Cina si riprenderanno dalla crisi economica e insieme guideremo la crescita mondiale».
Ma i cinesi temono che l'esplosione del debito pubblico Usa possa provocare una caduta del dollaro, il che decurterebbe il valore delle loro riserve. Tuttavia, se non comprano i Buoni del Tesoro Usa emessi per pagare il piano anti-crisi e i salvataggi bancari, il mercato americano, sbocco principale delle esportazioni cinesi, non sarà più in grado di sostenere l'economia del gigante asiatico. La crisi infatti spaventa anche Pechino. Di recente la Banca mondiale ha ancora una volta ritoccato al ribasso le sue previsioni sulla crescita cinese nel 2009, fissandole a +6,5 per cento, molto meno dell'obiettivo (+8 per cento) che la leadership di Pechino si è prefissata per prevenire tensioni sociali e disoccupazione. Se quindi gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per i loro debiti, la Cina dipende dai mercati americani, e mondiali, per le sue esportazioni e la sua crescita.

La Cina continuerà a finanziare il debito Usa? Tutto sembra indicare di sì, ma quale sarà il prezzo politico che chiederà all'America? Innanzitutto, dobbiamo aspettarci che non voglia subire passivamente la politica economica del suo principale debitore e che voglia contare di più nella governance globale. Per questo molti analisti e commentatori negli Stati Uniti chiedono al governo di affrontare con urgenza il problema del debito pubblico, riducendo la dipendenza dai creditori (e rivali) esteri e recuperando così spazi di manovra nella politica estera e di sicurezza.

Un'analisi dell'istituto di geopolitica e intelligence Stratfor spiega che in realtà la Cina non ha altre possibilità che investire il proprio surplus commerciale «in asset americani in generale, e nel debito Usa in particolare». La tanto temuta «opzione nucleare» - la possibilità cioè che la Cina schianti l'America abbandonando all'improvviso tutti gli asset - «non è un'opzione». Vendere tutti i Bot americani in massa non è possibile. Il volume è tale che non possono essere scambiati velocemente e, quindi, solo iniziare a farlo comporterebbe il crollo dei titoli in questione, e di conseguenza la distruzione di tutti i risparmi accumulati dai cinesi in questi anni.

Harold James, su Foreign Policy, azzarda invece un suggestivo parallelo tra la Grande Depressione degli anni '30 e la crisi attuale. La Gran Bretagna era la potenza finanziaria dominante nel XIX secolo, ma uscì finanziariamente stremata dalla Prima guerra mondiale e piena di debiti proprio nei confronti degli Stati Uniti. Oggi, gli Stati Uniti sembrano giocare il ruolo della Gran Bretagna degli anni '30 - un'economia altamente indebitata - e la Cina il ruolo di principale creditore come gli Stati Uniti di allora. Nel mezzo dell'attuale crisi finanziaria, la Cina ha di fronte lo stesso «dilemma» americano degli anni '30 nei confronti dell'Europa: «Ingoiare il rospo e aiutare a salvare gli stessi paesi che ci hanno condotti in questa situazione, o guardare ai suoi interessi di breve termine?».

La Cina avrebbe fondati motivi per prendere sia l'una che l'altra strada. Per ora sembra non volersi tirare indietro, anche se chiederà certamente di contare di più nelle istituzioni economiche internazionali, ma secondo Harold James potrebbe anche chiedere al «vecchio mondo» qualcosa di difficile da accettare: «La transizione da un modello americano a un modello cinese di capitalismo, che - come negli anni '30 - non sarebbe un cambiamento facile per noi».

Tuesday, March 24, 2009

Piano Geithner: c'è solo da incrociare le dita

Ieri è intervenuto sul Wall Street Journal il ministro del Tesoro Usa Geithner a spiegare il piano dell'amministrazione per riportare la fiducia tra le banche e gli istituti finanziari americani. Ovviamente è troppo presto per dire se funzionerà o no, anche perché dipenderà dal reale stato di salute delle banche stesse, cioè da quanto gravemente i loro bilanci sono infetti di "asset tossici". E non è nemmeno facile dire se i recuperi di ieri e oggi indicano che il piano è stato "promosso" dalle Borse, o se invece si tratta solo di prevedibili rimbalzi dettati dal fatto che almeno un piano adesso c'è.

Il piano ha ricevuto però una stroncatura autorevole, di quelle di cui è capace il Premio Nobel Paul Krugman, tra i più accaniti critici di Bush e sostenitori della prima ora di Obama. Krugman accusa Geithner di aver «riciclato» le scelte dell'amministrazione Bush, in particolare il piano ribattezzato "cash for trash". «Più che deprimente. Mi riempie di disperazione».

Il problema del piano, secondo Krugman, è che «dà per certo che le banche siano stabili e che i banchieri sappiano quello che stanno facendo». Krugman è per la nazionalizzazione delle banche. Da un certo punto di vista non ha tutti i torti. Una volta che si è deciso di investire ingenti somme di denaro pubblico, solo in questo modo il governo avrebbe il pieno controllo su come vengono risanati i bilanci delle banche, quindi su come vengono spesi i soldi dei contribuenti. Secondo Krugman bisognerebbe agire in questo modo:
«Il governo ripristina la fiducia nel sistema facendosi garante di molti (non necessariamente tutti) i debiti delle banche. Al contempo, assume un controllo temporaneo delle banche effettivamente insolventi, allo scopo di metterne a posto i bilanci. Così fece la Svezia all'inizio degli anni '90, e noi stessi dopo la débacle dei risparmi e dei prestiti in epoca reaganiana».
Peccato che secondo Paulson prima, e Geithner oggi, gli "asset tossici" sui libri contabili delle banche valgono molto più di quanto chiunque sia attualmente disposto a pagare per essi. Quindi per loro il problema non è una vera e propria insolvenza, ma si tratta di fornire alle banche la liquidità che oggi quei titoli non possono garantire. Paulson aveva proposto che il governo acquistasse direttamente i "titoli tossici", ma c'era il problema di indovinare il "prezzo giusto": fosse stato troppo basso, le banche non avrebbero venduto; troppo alto, ci avrebbero guadagnato troppo. Quello di Geithner è un complicatissimo schema di prestiti per superare questo problema: fa in modo che siano investitori privati a fissare il "prezzo giusto". Poi il governo presta loro i soldi per acquistare i "titoli tossici". Ma l'idea di fondo è la stessa: la sostanziale stabilità e la capacità di giudizio delle banche stesse, cose a cui Krugman ha smesso di credere.

Il problema più grave per Krugman è politico: «Se questo piano dovesse fallire - come quasi sicuramente fallirà - è improbabile che il presidente sarà in grado di convincere il Congresso ad approvare un ulteriore stanziamento di fondi per fare ciò che avrebbe dovuto fare sin dall'inizio». Quando Obama si renderà conto dell'errore, e «di dover necessariamente cambiare rotta», potrebbe essere troppo tardi, nel senso che «il suo capitale politico potrebbe essere ormai dilapidato».

Più cauto, ma anche disilluso, il giudizio del Wall Street Journal: «Almeno è un tentativo». Poi c'è la proposta di Peter Wallison su come stabilire il prezzo degli asset "tossici".

Tuesday, November 25, 2008

Deficit sì, ma con giudizio

Al contrario di quanto si appresta a fare il governo italiano, e probabilmente farà anche la maggior parte dei governi della Vecchia Europa, il presidente neo-eletto Obama annuncia una politica anti-crisi fondata su due pilastri: investimenti in infrastrutture, come strade, ponti, reti, scuole, energia pulita; riduzione delle tasse per tutta la classe media americana (attenzione: la classe media per Obama non inizia dai 35 mila euro in giù, come per i politici italiani di destra e di sinistra, ma dai 250 mila dollari in giù).

Inoltre, pare che per il momento Obama non sia intenzionato a revocare i tagli fiscali voluti da Bush per i più ricchi, ma li lascerebbe arrivare alla scadenza prevista dalla legge, cioè fine del 2010. Insomma, la ricetta con cui l'amministrazione Obama vuole far uscire gli Stati Uniti dalla crisi è più spesa pubblica e meno tasse per tutti. Dunque, più deficit, ma con giudizio, visto che «la maggiore spesa dovrà essere destinata alle aree dove potrà avere l'impatto maggiore» (energia rinnovabile e infrastrutture, biotecnologie e banda larga), come ha di recente scritto Lawrence Summers, prossimo capo del National Economic Council, sul Financial Times. Grandi progetti e ampi tagli fiscali, non briciole.

E d'altra parte, l'orientamento centrista e moderato, si direbbe market-friendly, di Obama è confermato dalla squadra di politica economica che sta assemblando. Tutti uomini esperti e pragmatici, già al governo con Clinton. Il Wall Street Journal accoglie come una «buona notizia» l'arrivo di Larry Summers alla guida del team economico di Obama. Lo chiama il «nuovo deregolatore» alla Casa Bianca. E' di quei democratici cui piace «mungere la mucca», ma anche farla crescere.

Crede che le aliquote fiscali più alte possano crescere anche di molto prima di deprimere l'economia e provocare una riduzione delle entrate, e come Keynes che la spesa pubblica favorisca la crescita. Tuttavia, ammette il quotidiano, sulla regolazione finanziaria in particolare Summers ha svolto un «ruolo costruttivo», favorendo l'approvazione della deregulation Gramm-Leach-Bliley del 1999, e ha compreso cosa è andato storto in Fannie Mae e Freddie Mac.

Anche il Washington Post riconosce che il team economico che Obama sta mettendo su è market-oriented. Un team «molto esperto» di massimi consiglieri economici, «i cui membri chiave credono fermamente che una limitata spesa pubblica, insieme al libero mercato, possa creare una prosperità duratura».

Le prime scelte di Obama preoccupano invece i liberal del Partito democratico e non sembrano essere piaciute al New York Times, che parte subito lanciando accuse contro Summers e il prossimo ministro del Tesoro Geithner. Dovranno dimostrare non il loro induscusso talento, ma «quanto e cosa sono riusciti ad imparare dai loro stessi errori», si legge in un editoriale in cui si ricorda come il prossimo ministro del Tesoro e il prossimo consigliere economico della Casa Bianca abbiano, in modi e tempi diversi, avuto delle responsabilità nella crisi finanziaria.

Da presidente della Fed di New York Geithner «ha contribuito alla risposta contraddittoria, e a volte incomprensibile, dell'amministrazione Bush all'attuale crisi finanziaria, compreso il salvataggio multimiliardario di Citigroup». Il peccato originale che si rimprovera a Summers è ancora più grave, perché da segretario al Tesoro per un anno e mezzo durante la seconda presidenza Clinton, «sostenne la legge che deregolò il mercato dei derivati, gli strumenti finanziari ora diventati titoli tossici», nella «falsa convinzione che il mercato si sarebbe regolato da sé». «Non chiediamo loro un mea culpa [?], ma se non riconosceranno gli errori del passato c'è poca speranza che possano assicurare la valutazione lucida e la capacità di guida necessarie a tirare fuori il paese da questo disperato disastro», conclude il NYT.