«Come se il dollaro non avesse già abbastanza problemi», ha commentato il Wall Street Journal, Geithner ieri «ha abboccato» e ha risposto che è «abbastanza aperto» a considerare la cosa. Immediatamente il dollaro è andato giù portandosi dietro i mercati azionari, prima che il segretario al Tesoro «si riprendesse» dicendo che «il dollaro rimane la valuta di riserva dominante nel mondo. E penso che continuerà ad esserlo a lungo». «Lo status del dollaro come valuta di riserva dà agli Stati Uniti enormi vantaggi - osserva il WSJ - e dovrebbe essere difeso strenuamente. Significa che non dobbiamo ripagare i nostri debiti in valuta straniera e che il nostro costo del denaro è più a buon mercato».
Tuttavia, avverte il quotidiano Usa, «significa anche che gli Stati Uniti non conducono la politica monetaria solo per se stessi, ma anche per molta parte del mondo» e che «quando gli Stati Uniti cadono nella tentazione di svalutare la loro moneta, procurano degli shock all'intero sistema economico globale». Il Tesoro e la Federal Reserve, spiega il WSJ, stanno «inondando» il mondo di dollari per interrompere la recessione. E' ovvio quindi che «il mondo si stia giustamente innervosendo», per il rischio che il dollaro perda troppo valore, impoverendo le riserve soprattutto di chi, come la Cina, ha investito in asset e titoli di Stato americani. La Banca centrale cinese è il primo detentore di T-Bills, i Bot americani, per 750 miliardi di dollari. A settembre, la Cina ha scalzato il Giappone come primo creditore di Washington. Inevitabile quindi che la questione del rifinanziamento del debito pubblico Usa sia stata al centro della missione di H. Clinton, che ha portato a Pechino un messaggio chiaro:
«Apprezziamo molto la costante fiducia del governo cinese verso i titoli del Tesoro americano. Sono certa che sia una fiducia ben riposta. America e Cina si riprenderanno dalla crisi economica e insieme guideremo la crescita mondiale».Ma i cinesi temono che l'esplosione del debito pubblico Usa possa provocare una caduta del dollaro, il che decurterebbe il valore delle loro riserve. Tuttavia, se non comprano i Buoni del Tesoro Usa emessi per pagare il piano anti-crisi e i salvataggi bancari, il mercato americano, sbocco principale delle esportazioni cinesi, non sarà più in grado di sostenere l'economia del gigante asiatico. La crisi infatti spaventa anche Pechino. Di recente la Banca mondiale ha ancora una volta ritoccato al ribasso le sue previsioni sulla crescita cinese nel 2009, fissandole a +6,5 per cento, molto meno dell'obiettivo (+8 per cento) che la leadership di Pechino si è prefissata per prevenire tensioni sociali e disoccupazione. Se quindi gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per i loro debiti, la Cina dipende dai mercati americani, e mondiali, per le sue esportazioni e la sua crescita.
La Cina continuerà a finanziare il debito Usa? Tutto sembra indicare di sì, ma quale sarà il prezzo politico che chiederà all'America? Innanzitutto, dobbiamo aspettarci che non voglia subire passivamente la politica economica del suo principale debitore e che voglia contare di più nella governance globale. Per questo molti analisti e commentatori negli Stati Uniti chiedono al governo di affrontare con urgenza il problema del debito pubblico, riducendo la dipendenza dai creditori (e rivali) esteri e recuperando così spazi di manovra nella politica estera e di sicurezza.
Un'analisi dell'istituto di geopolitica e intelligence Stratfor spiega che in realtà la Cina non ha altre possibilità che investire il proprio surplus commerciale «in asset americani in generale, e nel debito Usa in particolare». La tanto temuta «opzione nucleare» - la possibilità cioè che la Cina schianti l'America abbandonando all'improvviso tutti gli asset - «non è un'opzione». Vendere tutti i Bot americani in massa non è possibile. Il volume è tale che non possono essere scambiati velocemente e, quindi, solo iniziare a farlo comporterebbe il crollo dei titoli in questione, e di conseguenza la distruzione di tutti i risparmi accumulati dai cinesi in questi anni.
Harold James, su Foreign Policy, azzarda invece un suggestivo parallelo tra la Grande Depressione degli anni '30 e la crisi attuale. La Gran Bretagna era la potenza finanziaria dominante nel XIX secolo, ma uscì finanziariamente stremata dalla Prima guerra mondiale e piena di debiti proprio nei confronti degli Stati Uniti. Oggi, gli Stati Uniti sembrano giocare il ruolo della Gran Bretagna degli anni '30 - un'economia altamente indebitata - e la Cina il ruolo di principale creditore come gli Stati Uniti di allora. Nel mezzo dell'attuale crisi finanziaria, la Cina ha di fronte lo stesso «dilemma» americano degli anni '30 nei confronti dell'Europa: «Ingoiare il rospo e aiutare a salvare gli stessi paesi che ci hanno condotti in questa situazione, o guardare ai suoi interessi di breve termine?».
La Cina avrebbe fondati motivi per prendere sia l'una che l'altra strada. Per ora sembra non volersi tirare indietro, anche se chiederà certamente di contare di più nelle istituzioni economiche internazionali, ma secondo Harold James potrebbe anche chiedere al «vecchio mondo» qualcosa di difficile da accettare: «La transizione da un modello americano a un modello cinese di capitalismo, che - come negli anni '30 - non sarebbe un cambiamento facile per noi».
3 comments:
Alcuni mi sembrano scenari da fantaeconomia. L'ultimo poi non si capisce bene come si potrebbe realizzare. Ma Foreign Policy a volte ci gioca un po'. Secondo me dovremmo avere un po' più di fiducia nelle nostre potenzialità, anche nella crisi. Credo che il ruolo della Cina si molto sopravvalutato, ancora. Ma è solo un'opinione da non-economista.
Saluti.
Enzo
Sono d'accordo. Tendo più verso l'analisi della Stratfor, ma FP l'ho segnalata perché è una suggestione diffusa. Anzi, si legge di molto peggio.
ciao
La grossa differenza tra UK e USA è che nel 1924 il governo Churchill cercò di risolvere la situazione ritornando al gold standard, contro il parere di Keynes (che proprio scemo non era), infilandosi nella crisi del decennio successivo. Gli USA oggi hanno tutta l'intenzione di far salire di qualche punto l'inflazione e abbattere il costo reale del debito. Una via rischiosa, ma non stupida.
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