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Friday, March 13, 2009

Un Papa ferito e tradito che dimentica Tocqueville

Oggi facciamo un po' di ingerenza, perché c'è questa lettera del Papa davvero notevole. Una lettera in cui in qualche modo ammette i suoi errori ma appare come un agnellino in mezzo a un branco di lupi («ci si morde e divora», nella Chiesa), situazione nella quale rivela tutta la sua angoscia, l'amarezza e lo sconforto.

«Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica». Il Papa riconosce che bastava consultare internet per chiarirsi le idee («seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l'internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema») e aggiunge «ne traggo la lezione che in futuro nella Santa sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie». Non c'è motivo di non credere alla sua buona fede, sul caso Williamson, visto che anche il mondo ebraico sembra aver creduto alle sue spiegazioni.

Chissà, davvero in fondo questo Papa non è che un ingenuo agnellino in mezzo ai lupi. Di certo le contestazioni per la remissione della scomunica ai lefebvriani e per il caso Williamson devono essere state durissime per indurre il Pontefice ad aprire in questo modo il suo cuore. Non credo che nella Curia sia sempre rose e fiori. Anzi, forse il clima di scontro e veleni è più frequente di quanto possiamo immaginare. Ma proprio per questo ha più valore la lettera del Papa, il candore con il quale mette a nudo i suoi sentimenti, sebbene non si possa certo definirli arrendevoli.

Ma Ratzinger parla come colui che si sente tradito. Sembra essere conscio del fatto che il caso Williamson rivela «ferite risalenti al di là del momento»; che quei cattolici che hanno protestato «con un'ostilità pronta all'attacco» si muovono contro di lui animati da un rancore e una disapprovazione generale. Che sia in corso un lavoro di delegittimazione del Papa dall'interno della Chiesa? Può darsi, ma diciamo che il Papa riesce benissimo da sé a delegittimarsi.

Le ragioni della protesta sembra esserci tutte. Il punto è semplice: possibile che un pugno di integralisti sia per lui più importante di milioni di fedeli che si allontanano da una Chiesa rigida, che demonizza la cultura e gli stili di vita moderni, e sempre più incapace di comprensione?

E così torniamo alla missione in cui questo Papa crede di doversi impegnare, che dall'inizio del suo pontificato mi sembra essere quella di preservare intatta la purezza di una dottrina morale e sociale, costi quel che costi in termini di popolarità e di numeri. In un mondo che si allontana da Dio, Ratzinger non crede che compito della Chiesa sia quello di trovare Dio in quel mondo, ma di erigere una fortezza ben difesa dagli attacchi della modernità: meglio un manipolo di duri e puri che un gran numero di credenti dalla fede debole e squassata dai venti delle nuove dottrine. Dai pochi ma buoni si può ripartire per riconquistare il mondo, non da una massa di smidollati. In fondo, è un'ammissione di sconfitta, una ritirata tattica rancorosa che spiega in parte la virulenza degli attacchi e dell'ingerenza politica su quasi tutti i temi, quelli etici come quelli economico-sociali.

Piazza San Pietro ogni domenica appare sempre più vuota rispetto ai tempi di Papa Wojtyla. E non è solo questione di abilità comunicativa. Secondo alcuni calcoli negli ultimi due anni gli incontri pubblici del Papa hanno visto partecipare due milioni di fedeli in meno. Per il secondo anno consecutivo il Vaticano ha chiuso i suoi conti in rosso. Certo che il Papa, la Chiesa ufficiale, non devono piegare i loro valori ai gusti del pubblico del momento; ma neanche possono sottrarsi del tutto dal misurarsi con il sentire della gente comune, della Chiesa comunità.

Non è solo una crisi di immagine, è una crisi di messaggio. Papa Ratzinger sente il dovere di tracciare dei confini di appartenenza al "popolo di Dio" tanto più efficaci, per preservare la Chiesa e le sue verità, quanto più stretti e stringenti. Ma anche i fedeli più umili ormai stanno intuendo che dietro alcune prese di posizione soprendentemente nette, veri e propri anatemi al limite del cinismo, su temi controversi per le coscienze di tutti non c'è alcuna verità di fede o valore "irrinunciabile" da difendere, ma solo l'ostinata difesa di sovrastrutture culturali, se non di vere e proprie rendite di potere.

Se la totale chiusura nell'ambito della morale sessuale e familiare era la cifra anche del pontificato di Wojtyla, la vera differenza è che dai piani alti dei principi oggi si rasentano i bassifondi della politica. Il sempre più accentuato attivismo politico per vedere quei principi trasformati in obblighi e divieti dello stato cui tutti, anche i non credenti, sono chiamati a uniformarsi è fonte di discredito per la Chiesa e confusione tra gli stessi fedeli.

Soprattutto in Italia, Ratzinger rischia di dimenticare la lezione di Tocqueville: legando la propria autorevolezza alle leggi che regolano la convivenza civile, la Chiesa «sacrifica l'avvenire in vista del presente e, ottenendo un potere che non le spetta, mette a repentaglio il suo potere legittimo» sulle anime; «aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti», di «aspirare all'universalità» e di poter «sfidare il tempo». Quando la religione «vuole appoggiarsi agli interessi mondani, essa diviene fragile come tutte le potenze terrene. Legata a poteri effimeri, segue la loro sorte e cade spesso insieme alle passioni passeggere che li sostengono».

«Una religione che si prende cura dell'anima degli uomini può conquistare i loro cuori, quella che urta le idee generalmente condivise e gli interessi permanenti nella massa si farà molti nemici». La Chiesa cattolica rischia così di dissipare il vantaggio che lo stesso Tocqueville gli ha attribuito nei confronti, per esempio, dell'Islam.
«In questi secoli le religioni devono mantenersi più discretamente nei loro limiti senza cercare di uscirne poiché volendo estendere il loro potere al di fuori del campo strettamente religioso, rischiano di non essere credute in alcun campo. (...) Maometto ha fatto discendere dal cielo e ha messo nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e penali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri».
E' ancora così, o la seconda si avvia a commettere gli stessi errori della prima?

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