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Monday, March 23, 2009

Il dibattito dopo l'apertura di Obama all'Iran

Uno dei più critici dell'apertura di Obama all'Iran è il neoconservatore William Kristol, direttore del Weekly Standard. Se molte volte il presidente Bush ha manifestato il «rispetto» degli Stati Uniti per il popolo dell'Iran, anche in occasione del Nowruz (la festività iraniana per l'inizio del nuovo anno), Obama oggi si distingue per aver esteso quel rispetto alla dittatura clericale, agli aguzzini del giovane blogger iraniano, Omid Mir Sayafi, morto nella famigerata prigione di Evin. «Libertà» non è una parola che troverete nel videomessaggio del presidente, pieno di attenzioni verso i leader iraniani. Obama auspica «rispetto reciproco», ma gli iraniani «sentono odore di debolezza».

Ha abbandonato il regime change sia come obiettivo che come speranza di libertà per gli iraniani. Ha accantonato l'opzione militare. Ha seppellito la cosiddetta politica del bastone e della carota. Obama si è rivolto per ben due volte alla «Repubblica islamica dell'Iran», una formula a lungo evitata, auspicando che riprenda «il posto che merita nella comunità delle nazioni». L'America accetta quindi la rivoluzione islamica del 1979, si impegna a non minacciare l'esistenza del regime che ne è scaturito, e offre a quel regime un dialogo senza precondizioni, neanche la sospensione del programma nucleare, sulla «totalità dei problemi» tra Usa e Iran.

A festeggiare la svolta di Obama è Roger Cohen, secondo cui «la retorica provocatoria del regime di Teheran nasconde un sostanziale pragmatismo». Il «modo migliore» per aiutare la giovane popolazione iraniana, alla ricerca di stabilità e riforme, è proprio il «coinvolgimento», il dialogo. D'altra parte, con gli introiti del petrolio e del gas in calo, e l'economia in crisi, Khamenei – la cui missione è preservare la rivoluzione – «può essere radicale solo fino ad un certo punto». L'apertura all'Iran, secondo Cohen, determinerà un «doloroso, ma necessario», raffredamento dei rapporti tra Stati Uniti e Israele.

«Il presidente Obama ci presenta l'intenzione di sedere e parlare con i mullah come se fosse un drastico cambiamento rispetto al passato, ma l'amministrazione Bush – ricorda Michael Ledeen – ha negoziato ampiamente con Teheran», sebbene i suoi critici la accusassero di una totale chiusura al dialogo. Nell'autunno del 2006 a Washington si erano convinti che un accordo fosse stato raggiunto, e stavano preparando il testo per un annuncio pubblico, rivela Ledeen. «Si stavano illudendo, e chiunque pensi che l'Iran desideri davvero buone relazioni con gli Stati Uniti dovrebbe studiare attentamente come andarono le cose allora». L'annuncio pubblico avrebbe dovuto tenersi all'Assemblea generale dell'Onu di settembre. Larijani sarebbe venuto a New York e avrebbe annunciato la sospensione dell'arricchimento dell'uranio, e Condoleezza Rice che l'America avrebbe tolto le sanzioni all'Iran.

Ma il «lieto evento» non ebbe mai luogo. Larijani e la sua delegazione non vennero mai a New York e il presidente Ahmadinejad pronunciò il suo solito attacco contro gli Usa. Una replica del «grande accordo» fallito negli anni di Clinton. «Non c'è nulla di nuovo nella richiesta di Obama di negoziare con i mullah. Entrambi i suoi predecessori ci hanno provato, entrambi credevano di aver raggiunto un accordo, ed entrambi si accorsero del contrario. Che motivi ci sono per ritenere che oggi le cose andrebbero in modo diverso?»

Secondo John Bolton, dell'American Enterprise Institute, è possibile che l'Iran risponda positivamente. «E perché non dovrebbe? In fondo, il dialogo – avverte Bolton – permetterebbe all'Iran di nascondere le sue reali intenzioni e attività sotto la finzione dei negoziati. Inoltre, l'Iran avrebbe una conferma della debolezza americana e la prova che le sue politiche stanno dando dei frutti». In effetti l'Iran, come la Corea del Nord, sembra aver imparato che un finto interesse nella diplomazia è modo eccellente per guadagnare tempo e mietere concessioni senza concedere nulla di fondamentale.

Già prima dell'apertura di Obama, Michael Gerson, del Council on Foreign Relations, spiegava sul Washington Post come la politica dell'amministrazione nei confronti dell'Iran fosse un misto di cautela e confusione, non in grado né di persuadere, né di intimidire il regime iraniano. Nel frattempo, le forze al-Quds iraniane continuano a guidare, addestrare e armare i terroristi sciiti all'interno dell'Iraq. Non va dimenticato, ricorda Walid Phares, che il 31 agosto del 2010 è la data fissata per il piano di ritiro dall'Iraq e che Iran e Siria potrebbero decidere di approfittarne per destabilizzare la giovane democrazia irachena, trasformando il ritiro in sconfitta.

In una recente audizione, il direttore dell'Intelligence Dennis Blair ha informato la Commissione esteri del Senato che «alcuni funzionari iraniani, come il comandante in capo delle Guardie della Rivoluzione, hanno fatto capire che ci sarebbe la mano iraniana dietro attacchi contro gli interessi americani in luoghi anche molto distanti, suggerendo che l'Iran ha pronti piani terroristici e di guerra non convenzionale contro gli Usa e i loro alleati».

Amir Taheri, infine, osserva che l'incapacità dell'occidente di fermare i piani iraniani ha già innescato in Medio Oriente una corsa al nucleare. Negli ultimi cinque anni, 25 paesi – 10 arabi – hanno per la prima volta annunciato di voler avviare i loro programmi. Nel 2008 l'Arabia Saudita ha aperto negoziati con gli Stati Uniti per ottenere una «capacità nucleare», ufficialmente per «scopi pacifici». L'Egitto ha firmato un accordo di cooperazione con la Francia, così come gli Emirati Arabi Uniti. Non c'è dubbio che l'attuale corsa al nucleare in Medio Oriente sia dovuta al timore che l'Iran usi il suo arsenale nucleare per imporre la sua egemonia nella regione. Ma l'Iran stesso sta giocando un ruolo attivo nella proliferazione, fornendo aiuto a Siria e Sudan, ma anche ai regimi antiamericani del Sud America, come Venezuela, Bolivia, Nicaragua and Ecuador.

2 comments:

Anonymous said...

Da abituale lettore del tuo blog vorrei proporti un dubbio che da mesi e mesi ho e che dopo le prime (terribili) settimane di Presidenza Obama è diventato purtroppo verosimile: è possibile che Obama sia il più volte minacciato 2° grande attacco agli Stati Uniti dopo l'11 settembre? E' possibile che lui in persona sia il vero colpo da maestro di Osama Bin Laden? Dopotutto anche i terroristi dell'11/9 avevano studiato, lavorato, vissuto negli USA da perfetti musulmani adattati agli stili occidentali finanche a non destare alcun sospetto nemmeno frequentando i corsi guidare aerei di linea...

JimMomo said...

Mi sembra puro complottismo e fantapolitica.