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Sunday, March 29, 2009

Oggi al PdL basta l'attore, domani ci vorrà anche il copione

La nascita ufficiale del PdL è stato un evento di per sé importante e positivo, sia per il centrodestra che per il sistema politico. E' innegabile. Dico "ufficiale", perché bisogna riconoscere che il PdL è nato già da molto tempo nelle urne. Gli apparati di FI e An non hanno fatto altro che registrare una situazione in cui distinguere i loro elettorati stava diventando sempre più difficile. E' anche per questo, e per la presenza di un leader indiscusso, che la fusione è riuscita meglio ai partiti del centrodestra che al Pd. Perché prima del partito era già nato, forse già dal 1994, un "popolo" di elettori che avevano in comune più denominatori.

Ma onestamente, al di là di questo, che noia, ragazzi! Capisco l'entusiasmo dei presenti alla Fiera di Roma per la "storicità" del momento, in questo nostro paese politicamente così avaro di emozioni. Però, chi ha potuto ascoltare i discorsi di Berlusconi a mente fredda, non può non aver percepito un qualcosa di inevitabilmente stantio e persino una minore verve retorica. E' ovvio che molti giovani non se ne sono potuti accorgere, ma molti dei concetti espressi, delle formule usate, a volte addirittura intere frasi - sono sicuro che lo riconosceranno anche i più entusiasti - sono sempre gli stessi da anni. Nei suoi due interventi Berlusconi si è sforzato di inquadrare una prospettiva di lungo periodo, ma senza riuscirvi. Nessuna filosofia politica dominante (ma una spolverata di tutto purché non riconducibile alla sinistra ex Pci), nessuna originale idea di partito, nessuna nuova visione a guidare l'azione di governo. Solo vecchi slogan e tanta, troppa, contingenza governativa. Al di là del ricorso a parole fin troppo abusate come "futuro" e "giovani", hanno prevalso le preoccupazioni del giorno per giorno. Insomma, i due discorsi di Berlusconi sono stati nel complesso deludenti e ripetitivi.

Rimane il fatto che Berlusconi ha innovato la politica, il linguaggio e il sistema politico, e io credo in senso positivo. Questo non potrà mai toglierlelo nessuno. Ma non ha saputo cambiare lo stato e l'Italia. E dubito che riuscirà a farlo ora, anche se non solo per colpa sua. Poteva esserci risparmiata, per esempio, la parola d'ordine - riesumata solo per questi megalo-eventi - della "rivoluzione liberale". Un abito che, come ha osservato Alberto Mingardi, su il Riformista, Berlusconi non ha mai davvero indossato.

Liberale un cazzo! Lo ha praticamente scritto un insospettabile come Vittorio Feltri, su Libero, riferendosi al «superilliberale Testamento biologico in cui è condensato il pensiero cupo dei cattolici d'ala fondamentalista; una straordinaria dimostrazione di intolleranza verso le opinioni dei laici sul cosiddetto fine-vita; un capolavoro di arroganza confessionale che si regge su questo concetto: noi credenti vogliamo morire fra atroci tormenti e pretendiamo che voi non credenti facciate altrettanto. Se il provvedimento, dopo l'esame della Camera, diventerà legge, l'Italia potrà vantare uno Stato etico più rigido di quelli islamici. Bella rivoluzione liberale». Ma il discorso si potrebbe allargare alle questioni di politica economica.

In Italia sono urgenti una riforma del governo e una della rappresentanza. Berlusconi ha sostenuto con forza la necessità di rafforzare i poteri del premier ma è stato vago sulla strada da intraprendere per rendere politicamente fattibile questo auspicabile risultato. Su questo è stato più concreto Fini, richiamando il premier alle sue responsabilità, cioè a percorrere la via delle riforme costituzionali anziché la scorciatoia dello scontro con le altre istituzioni, come la presidenza della Repubblica e il Parlamento. Ma nessuno è stato chiaro abbastanza nel merito. Per rafforzare sia il governo che il Parlamento, serve una vera separazione dei poteri, bisogna abbandonare l'istituto della fiducia e passare all'elezione diretta del premier o del presidente; per quanto riguarda la rappresentanza, però - tema che neanche Fini ha toccato - è urgente una legge elettorale al 100% uninominale. Ormai deputati e senatori riconoscono come unico loro referente colui, il partito o il leader, che li ha candidati e non coloro - i cittadini - che li hanno eletti. Siamo in una situazione di totale vincolo di mandato partitico e il referendum di giugno, sul quale Fini ha invitato il PdL a esprimersi, non risolverebbe questo specifico problema.

Fini ha lanciato la sua sfida anche sulla laicità, sostenendo la necessità di modificare alla Camera la legge sul testamento biologico appena passata al Senato. E dalle cronache pare che Berlusconi si sia espresso pubblicamente, dicendosi persino su questo tema d'accordo con Fini. Come già al Congresso di scioglimento di An, Fini ha pronunciato un discorso da leader di una destra moderna ed europea, pragmatica, sicuramente post-ideologica, per forza di cose moderata. Privo di populismi, il suo è stato un discorso da popolare e non da conservatore. Come spiegavo la settimana scorsa, ha finalmente capito che il PdL è per lui una grande, irripetibile, opportunità per emanciparsi da una storia politica troppo minoritaria per permettergli di puntare in alto. Nonostante divergenze politiche, di carattere, e vecchie ruggini, non remerà contro Berlusconi e lavorerà per il successo di questo partito così importante per le sue ambizioni. E questa è una grossa differenza rispetto al Pd, dove le seconde file lavorano costantemente contro il leader del momento.

Eppure, nemmeno Fini ha offerto nulla di particolarmente nuovo sul piano delle idee. Sì, certo, da liberale mi ha fatto piacere la sua presa di posizione sul testamento biologico e la laicità; così come la sua spinta per le riforme istituzionali. Ma c'è da stendere un velo pietoso, per esempio, sul consenso che è emerso un po' da tutti gli oratori - anche e soprattutto da Fini - sulla cosiddetta "economia sociale di mercato". Un concetto francamente troppo ambiguo, dove colpi di liberismo e colpi di dirigismo si alternano e si intrecciano, non si sa quanto per pragmatismo e quanto per opportunismo, per non dispiacere alle proprie clientele e, quando è il caso, colpire quelle degli avversari politici, o per nascondere le proprie debolezze e incompetenze. Fini è già proiettato nella lunghissima rincorsa alla leadership post-berlusconiana, ma francamente non è detto che gli basteranno questi suoi bei discorsi moderati e di buon senso, perché l'impressione - o la speranza - è che nella successione si possa saltare una generazione.

Oggi è inutile cercare di capire quale sia la cultura politica del PdL: è Berlusconi. Lui fa e disfa e in un certo senso è logico che sia così, perché bisogna riconoscere che giusto o sbagliato, i voti li ha sempre presi lui per tutti. Credo che nonostante la natura carismatica della sua leadership, il PdL ha buone possibilità di sopravvivergli. Ma dopo Berlusconi, il PdL dovrà camminare con le sue idee. E allora sì, avrà più importanza di quanta ne ha oggi la cultura politica con la quale si presenterà agli elettori. Nel frattempo, sono questi gli anni in cui i giovani leader dovranno seminare, perché tra qualche anno il nuovo non sia il già vecchio dei Bersani e dei Franceschini del PdL.

Ad oggi, però, ha ragione Luca Ricolfi: Pd e PdL «sono entrambi partiti conservatori di massa, che si differenziano fra loro essenzialmente per gli interessi verso cui hanno un occhio di riguardo».
Possiamo pensare che sia un male, perché l'Italia avrebbe bisogno d'innovazione più che di conservazione dell'esistente. Si può pensare anche, tuttavia, che la comune ispirazione conservatrice della destra e della sinistra non sia altro, in fondo, che l'espressione politica di quel che noi stessi siamo. Un popolo in cui l'aspirazione al cambiamento si manifesta a ondate improvvise, come ribellismo anarcoide, su un sottofondo costante, duraturo, pietroso fatto di particolarismo, di tenace attaccamento ai nostri interessi immediati, individuali e di gruppo. Se questo è ciò che siamo, non deve stupire che da noi le forze del cambiamento siano minoranza sia a destra sia a sinistra, e che alla fine della storia, dopo un quindicennio di seconda Repubblica, la competizione politica fondamentale sia diventata una sfida fra due conservatorismi. Diversi soltanto per le cose che vogliono conservare. Così, chi vuole un vero cambiamento non sa chi votare, e chi vuole votare non può aspettarsi un vero cambiamento.
Nella morsa di due statalismi, scrivevo qualche settimana fa. Berlusconi almeno parla di cambiamento, anche se non lo pratica, ma la sua fortuna è che non conta se e quanto lo pratichi davvero, perché tanto gli altri si arroccano a difesa dell'esistente. Oggi ci tiriamo su il morale dicendoci che tutto sommato l'Italia sta meno peggio di altri. Magra consolazione, e soprattutto tesi discutibile, ma quando la crisi finirà e gli altri ricominceranno a correre e a superarci, rimpiangeremo il tempo e le occasioni perdute oggi.
La nostra cultura politica resta, nonostante ogni velleità modernizzatrice, fondamentalmente figlia delle tre grandi ideologie del secolo scorso, il comunismo, il fascismo, il cattolicesimo. Oggi la patina ideologica si è ritirata quasi completamente, come un ghiacciaio sciolto dall'effetto serra, ma la scorza più dura - fatta di statalismo, dirigismo, paternalismo è ben in vista, e si sta anzi irrobustendo: la crisi economica aumenta la domanda di protezione e di tutela, mentre la libertà individuale sta diventando una sorta di bene di lusso, che viene dopo la sicurezza economica e personale.
Ebbene, chi rinuncia alla libertà economica e individuale per la sicurezza e la protezione sociale, non avrà né la prima né le seconde.

1 comment:

andrea mollica said...

Noto che insisti spesso sui collegi uninominali. In astratto potrei darti ragione, ma in concreto non cambierebbe nulla. Ciò che è accaduto in Italia tra il 1994 e il 2001, candidature paradutate sul territorio in base al voto statico dell'elettorato di quel determinato collegio, dimostra come anche l'uninominale non cambierebbe nulla. Il problema è l'assetto verticale e gerarchico della politica italiana, ipercentralista al di là della fuffa sul federalismo. Il problema sono i partiti plebiscitari nati a partire dal crollo della prima repubblica.