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Thursday, May 19, 2005

Difesa liberale del referendum

A chiudere la partita della polemica sulla campagna astensionista è, con un secco 3 a 0, lo studioso liberale (non certo pericoloso radicale, o comunista, o relativista) Dino Cofrancesco, con un articolo oggi su il Riformista. L'astensione è scelta legittima, giuridicamente e politicamente, «la società liberale non costringe nessuno a prendere partito», ma il punto è un altro, osserva, ed è la domanda decisiva: «E' giusto che quanti si astengono decidano anche per quanti partecipano?». Certo che no: «Si può avere persino simpatia per chi resta a casa o se ne va al mare, ritenendo, e non del tutto a torto, che la classe politica, di destra o di sinistra, sia costituita di persone che pensano solo ai propri affari», ma la simpatia viene meno se «concorrono alla vittoria di uno dei due contendenti».

La norma sul quorum era (ed è), nelle intenzioni del legislatore, una norma salva-partitocrazia, «sortiva l'effetto di non consentire alla gente di manifestare le proprie opinioni indipendentemente dai partiti, gli unici in grado di portare alle urne una massa elettorale superiore al 50 per cento. In tal modo il referendum, nato per dare la possibilità di ascoltare anche la voce dell'uomo della strada ha finito per rafforzare la partitocrazia». Il prof. Cofrancesco propone una soluzione fin troppo ovvia: «Abolire il quorum e, semmai, a evitare tentazioni di ricorrere continuamente all'istituto referendario, elevare il numero delle firme richieste per attivarlo».

I contrari a tale riforma non lo sarebbero certo per senso delle istituzioni o per difendere il referendum dal suo abuso... «i timori sono altri e riguardano soprattutto eventuali misure impopolari prese congiuntamente dalle due sezioni della classe politica, di governo e di opposizione – ad esempio il finanziamento pubblico dei partiti, la responsabilità dei giudici... affiora la vecchia intramontabile paura del popolo quando non è guidato e disciplinato dai partiti, dai gruppi di pressione rispettabili, dalle agenzie spirituali riconosciute». Insomma, i nostri governanti mantengono su di noi cittadini il pregiudizio del "popolo bue" che va guidato, perché (e attenzione perché all'Avvenire e al Foglio lo scrivono esplicitamente), i cittadini non sanno giudicare ciò che è bene o male per loro.

«L'essenza della democrazia liberale - continua il prof. Cofrancesco - sta nel "tenere aperti i giochi". Anche se il 20 per cento dei cittadini si pronunciasse per l'abrogazione di una legge e il 10 per cento contro, il restante 70 per cento astensionista non avrebbe il diritto di far valere la sua (presunta, n.d.r.) contrarietà». A forza di referendum falliti per le campagne astensioniste, l'estinzione dello strumento referendario sarà cosa certa e «sarà un altro grosso passo indietro per la formazione di un'autentica coscienza civile europea e oc-ci-den-ta-le (trattini miei, n.d.r.)».

Nel frattempo, un nutrito gruppo di parlamentari forzisti presenterà un appello contro l'astensione, senza indicazioni di voto.
Un invito «alla massima partecipazione, per consentire a tutti di esprimersi attraverso il voto... Condividiamo la decisione di Forza Italia di lasciare libertà di coscienza. Ma proprio in nome di questa libertà riteniamo necessaria un'assunzione piena di responsabilità, senza ipocrisie e fughe di sorta».
(Alfredo Biondi, Stefania Prestigiacomo, Lino Iannuzzi, Renato Brunetta, Paolo Romani, Margherita Boniver, Paolo Guzzanti, Carlo Vizzini, Dario Rivolta, Egidio Sterpa, Domenico Contestabile e Raffaele Costa, Gaetano Pecorella, Niccolò Ghedini, Fabrizio Cicchitto).
Sulla vita non si vota. In particolare, Dario Rivolta ha voluto rispondere, su L'opinione, a Sandro Biondi:
«Può, caro Sandro, un legislatore liberale negare una manifestazione di volontà individuale di un cittadino per tutelare, in base al proprio diverso pensiero, un non cittadino? Sono sicuro che tu converrai con me che non "sia da farsi". Ecco perché ritengo che le tue opinioni siano ben esposte e legittime, ma solo se estranee all'atto del legiferare». Leggi tutto
Già, perché mi pare che qui si trovi l'abbaglio in cui incorre Giuliano Ferrara. Vorrebbe importare qui in Italia le armi vincenti della destra americana coalizzata intorno alla leadership di George W. Bush, armi come la moral clarity e il richiamo forte ai "valori". Tuttavia, non è per distrazione o per ipocrisia che non troviamo negli Usa un "legiferare" pur lontanamente simile alla legge 40. Una cosa infatti è una battaglia culturale, delle idee, dei "valori", altra cosa è "legiferare" per imporre un'etica, in dispregio dell'autonomia dell'individuo. D'altra parte ricordo bene come proprio agli inizi della campagna referendaria sulla fecondazione assistita, Ferrara stesso scrisse (cosa ormai smentita da fiumi di inchiostro e dai fatti) che non gli interessava la difesa della legge 40, ma la "battaglia culturale".

Mi trovo a condividere pienamente lo slogan "Sulla vita non si vota", ma non nel senso degli anti-referendari. Per me sulla vita non doveva votare un Parlamento di mille persone andando in questo modo a ledere la sfera personale dei cittadini; ma visto che ormai ha votato, trovo che sia disdicevole, poco democratico, ora sostenere che sull'esito di quella prima votazione non si debbano esprimere direttamente i cittadini. Questo argomento risponde a una logica di totale sottomissione del cittadino ad autorità superiori che decidono per lui ritenendolo povero incapace di distinguere il bene dal male, concetto che troviamo espresso tutti i giorni ultimamente sulle pagine dell'Avvenire e del Foglio.

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