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Thursday, April 29, 2010

Se questa non è una corrente (la sceneggiata di Bocchino)

Ieri sera a Porta a Porta Fini non ha certo contribuito a stemperare le tensioni. Da una parte continua con il suo ripiegamento tattico e la sua dissimulazione, sostiene di volere solo «dibattito», rispetto e diritto di cittadinanza per le sue opinioni (che nessuno gli nega), si mostra rassicurante («il logoramento non lo vuole nessuno») e ragionevole. Ma così non si capisce perché solo pochi giorni fa minacciava di costituire gruppi autonomi, quindi una scissione. E non si capisce nemmeno se su due cose concrete che ha posto si è scoperto d'accordo - come lui stesso ha riferito - con due importanti ministri (con Brunetta sui tagli alla spesa non lineari ma selettivi e con Sacconi sulla riforma della previdenza), segno che spazi per discutere di contenuti, se è questo che interessa, ce ne sono eccome. Dall'altra, non rinuncia a nessuno degli spunti polemici di questi mesi, anche i più pretestuosi e demagogici, nei confronti di Berlusconi e nel merito dell'azione di governo.

Di nuovo sugli attacchi del Giornale («non si sa perché soltanto oggi la solidarietà» del premier - mentre non è stata la prima volta); sulla giustizia (riforme «indispensabili», ma «non bisogna denigrare la magistratura che è baluardo della legalità», né «si può dare l'idea di allargare le sacche di illegalità» - come un Bersani o un Di Pietro qualsiasi); persino su Saviano (è meglio che il presidente del Consiglio non parli); sul federalismo («non è possibile discutere di federalismo senza sapere quanto costa» - il che è ovvio, ampiamente condiviso ed è per questo che i lavori sono in corso); sul reato di immigrazione clandestina (provocherebbe «aberrazioni» contrarie alla dignità umana - mentre siamo molto più morbidi di altri Paesi europei governati dalla sinistra o dal Ppe); infine, sul ruolo di presidente della Camera, che ricopre, puntualizza Fini, «non perché ho vinto un concorso né per un cadeau del presidente del Consiglio». «Continuerò a dire queste cose piaccia o non piaccia, all'interno del mio partito e ovunque ci sia occasione», avverte. E a Vespa, che gli chiede se è possibile una «serena collaborazione» con Berlusconi, risponde che è possibile piuttosto un «sereno confronto».

Ma il passaggio a mio modo di vedere scandaloso e preoccupante di ieri sera, non degno di Fini, è sulle dimissioni-farsa di Bocchino, una sceneggiata patetica che questa mattina si è conclusa nel solo modo possibile. Con una soluzione che avrebbe dovuto calmare gli animi, mentre la reazione scomposta di Bocchino rischia di incendiare ancora di più il clima. Se accettano le sue dimissioni o lo sfiduciano, diceva ieri anche Fini, allora è «epurazione». Ma allora ci si chiede: perché Bocchino ha presentato dimissioni che nessuno gli ha chiesto. Purtroppo la realtà è che le sue dimissioni, condizionate a quelle di Cicchitto, miravano ad un azzeramento dei vertici del gruppo del Pdl alla Camera, in vista di una ridistribuzione dei ruoli (il rinnovo dei presidenti delle commissioni parlamentari è previsto per metà maggio, l'ha ricordato lo stesso Fini) che tenesse conto del peso della componente 'finiana'. Rivotare capogruppo e vice «per consentire alla minoranza - come ha messo nero su bianco lo stesso Bocchino - di esercitare il suo ruolo, di verificare le sue forze e conseguentemente di rivendicare gli spazi corrispondenti al suo peso».

In breve, una "conta" per poter reclamare "posti" in una quota 'finiana'. Fini ieri sera ha ribadito di non volere una corrente, ricordando di aver definito lui stesso le correnti «metastasi» e spiegando che «il correntismo è una posizione pregiudiziale», mentre lui vuole solo «animare il dibattito» interno. Ma che cosa è stata, se non il manifestarsi del correntismo deteriore, in pieno stile Prima Repubblica, questa vicenda delle dimissioni di Bocchino? Il fatto che l'operazione non sia riuscita non ne cambia certo la natura.

Poi qualcuno dovrebbe ricordare a Fini che sulle riforme Berlusconi non ha affatto cambiato idea: innumerevoli volte ha dichiarato (così come i leghisti) che sarebbe auspicabile arrivare a «riforme condivise», con il «coinvolgimento» delle opposizioni, mentre c'è stata almeno un'occasione in cui Fini ha fatto notare - giustamente - che non ci devono neanche essere diritti di veto, e che una maggioranza è comunque legittimata ad andare avanti da sola. Si lamenta che il Pdl non ha ancora una sua bozza sulle riforme istituzionali, mentre Calderoli ha già presentato la sua al capo dello Stato, ma se quella bozza ci fosse stata c'è da scommettere che avrebbe lamentato l'assenza di un sufficiente dibattito.

La carica polemica dei suoi interventi, ora anche televisivi, e l'ampiezza dei temi su cui si pronuncia nel merito, persino su provvedimenti all'esame delle Camere, non fanno che offrire argomenti alla tesi di uno sconfinamento del suo ruolo istituzionale: il presidente di una Camera che interviene nel merito di leggi in via di approvazione, che fa le pulci all'azione di governo e "controcanto" rispetto al presidente del Consiglio, sembra rivendicare un ruolo, che non può avere, nella determinazione dell'indirizzo politico del governo. Lo ripetiamo: non è l'esprimere opinioni politiche, o continuare ad essere un leader politico, in contrasto con le sue funzioni, ma l'essere capocorrente, in qualche modo oppositore, come sempre più si sta configurando - sia pure interno al suo partito - del presidente del Consiglio. Un doppio ruolo sempre meno sostenibile.

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