Continuo a parlare dell'enciclica Deus Caritas Est. Che si trattasse di un'enciclica «socialdemocratica» l'aveva già sottolineato Oscar Giannino e ieri avevo ripreso l'argomento notando come fosse più in sintonia con «l'idea di stato etico soft» che appartiene alla sinistra che non ai liberali conservatori. Ma sempre di «stato etico soft» si tratta.
Il Papa, sottolineando la necessità della carità cristiana, cui nessuno vuole negare valore e ruolo nella società, chiama direttamente i politici di orientamento cattolico alla costruzione di uno stato giusto, social-assistenziale, non basato sulle strutture burocratiche statali, ma sulle strutture ecclesiastiche, scuole, ospedali, istituti di carità, oratori, ordini, associazioni, da finanziare con il denaro pubblico che la politica amministra - «generosamente riconosca e sostenga» sta scritto. E' la via che conduce alla «clericalizzazione» della politica e alla «parastatalizzazione» della Chiesa al pari di partiti e sindacati. In considerazione di ciò i liberisti, non più solo i laicisti, avrebbero validi motivi per opporsi all'influenza della Chiesa come all'influenza dei sindacati, a un'idea di società, espressa dalla Dottrina sociale cattolica, fondata ancora sul pregiudizio anticapitalistico, anti-individualista, che vede il male nel consumo, nella merce, nel denaro.
E' andato un po più in là Giancarlo Schirru, il quale, oggi su il Riformista (via Leftwing), è rimasto sorpreso dall'ammissione di Ratzinger: nell'argomentazione di Marx «c'è del vero», ha scritto il Papa. Schirru trae alcune interessanti conclusioni dall'analisi socio-economica in cui s'inoltra nell'enciclica. Partendo dalla ricostruzione dell'origine del "comunismo", o meglio comunitarismo, cristiano, sembra affermare quattro cose:
1) l'industria moderna ha provocato un cambiamento radicale nella composizione della società - in tedesco Gesellschaftsstrukturen, "strutture della società", come Marx, (...) - e quindi è l'economia a determinare in ultima istanza le strutture fondamentali della società;
2) la questione decisiva della società contemporanea è data dalla relazione tra capitale e lavoro: non si ricorre al termine contraddizione (Widerspruch), ma la formulazione presente nel testo tedesco (das Verhältnis von Kapital und Arbeit) è comunque ricorrente sia in Marx, sia soprattutto in Engels (...);
3) necessità per le masse lavoratrici (arbeitenden Massen) di una ribellione contro la privazione dei diritti: non si dice cioè che la storia è mossa dal conflitto delle classi, ma comunque che la ribellione delle masse lavoratrici (rappresentanti un polo fondamentale della relazione capitale-lavoro) è provocata dallo stato delle cose materiali;
4) ritardo della Chiesa a comprendere questa situazione.
Più indecifrabile cosa ci abbia voluto dire nel suo articolo, sempre su il Riformista di oggi, Fabrizio Cicchitto, il vice coordinatore di Forza Italia.
La Chiesa «non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica». Essa deve impegnarsi per la giustizia, ma non deve mettersi «al posto dello Stato». Anch'egli ravvisa in queste parole un motivo di delusione per i neo-con e i teocon, in quanto il Papa «riafferma con forza alcuni principi del cristianesimo dai quali deriva anche la cultura liberale».
Il rischio, scrive Cicchitto, è che «di fronte alla grande espansione dell'Islam e alla sfida che questo lancia all'Occidente, si tenda ad accentuare eccessivamente l'elemento identitario del cristianesimo, dimenticando la natura universalistica e antidogmatica di quest'ultimo. Se il cristianesimo è incontro con Cristo, non può essere ridotto a dottrina etico-sociale o a mera strategia identitaria. Questa irriducibilità ci pare che, da un lato, salvaguardi l'autonomia della morale e, dall'altro, preservi il ruolo metastorico della Chiesa in quanto corpo di Cristo. In questo senso, i cristiani alla Ratzinger e gli illuministi liberali si trovano alleati anche nel difendere l'autonomia della morale, pur facendo, come è bene che sia, ciascuno la sua parte, e sostenendo con convinzione le proprie rispettive posizioni in materie molto sensibili».
Fin qui le parole, ma nei fatti, nella prassi del centrodestra di oggi e di Cicchitto, non è chiaro dove stia il «ciascuno la sua parte»? Continua: «... così come nello scontro fra i due totalitarismi del XX secolo, il comunismo e il nazismo, furono decisive due culture, quella cattolico-liberale e quella liberal-socialista, così rispetto ai nodi del XXI secolo e, in primo luogo, nei confronti del fondamentalismo islamico, sono sempre questi due i filoni culturali che, nella loro concordia-discors, possono dare un"anima" all'Occidente».
Lo smarcamento dai teo-con è chiaro, ma non è chiaro dove Cicchitto ricollochi se stesso, e quindi il centrodestra, una volta smarcatosi.
Tuesday, January 31, 2006
Monday, January 30, 2006
Scacco all'Iran in tre mosse
Accanto al riconoscimento del voto palestinese, secondo Biagio De Giovanni, occorre ora «la solidarietà di tutto il mondo civilizzato con Israele, non la solidarietà pelosa e ambigua dell'Europa di questi anni, bensì la convinta scelta di difenderla con ogni mezzo, nessuno escluso...». Come «stringerci» dunque intorno a Israele, minacciato da Hamas alla guida dell'Anp e dall'Iran possibile potenza nucleare?
Senza sbraitare e minacciare, compiendo subito due atti semplici ma di immensa portata politica.
1) Il primo è l'adesione di Israele nell'Unione europea, come i radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino sostengono da anni, accompagnandola a un piano Marshall per uno Stato palestinese e nella prospettiva di un processo d'integrazione regionale fra Israele, Palestina, Giordania, Libano (esteso poi a Iraq e Siria).
2) Il secondo è far entrare Israele nella Nato, integrandolo in tutto e per tutto al sistema di sicurezza occidentale. Già possiede tutti i requisiti per l'adesione all'Alleanza Atlantica: è una democrazia, a libero mercato, e pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune, con il 10% del pil di spese militari, 167mila uomini e donne in armi e 358mila della riserva. L'idea di aprire a Israele le porte della Nato è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. Essendo inaccettabile che l'Iran si doti dell'atomica, impraticabile l'opzione militare diretta agli impianti, e senza sbocchi i negoziati, sarebbe questo l'unico modo per convincere gli ayatollah che proseguire con i piani nucleari non gli conviene.
3) C'è però una terza, decisiva, opzione. Mentre la comunità internazionale è concentrata sulla questione nucleare, sfugge il vero nodo da tagliare: il regime. E' la linea Ledeen-Ottolenghi-Kagan. C'è qualcosa che gli ayatollah temono ancor più dell'uso della forza. Il timore che il mondo libero eserciti tutta la sua forza d'attrazione di libertà e democrazia sollevando il popolo iraniano contro i mullah oppressori. Le potenze democratiche dovrebbero cominciare a rivolgersi direttamente al popolo iraniano, a sostenere l'opposizione al regime, perché come spiegava giorni fa Emanuele Ottolenghi su il Riformista, la questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica, il rovesciamento della mullahcrazia:
«Ci sono due conti alla rovescia in corso a Teheran: uno, molto veloce, è quello della bomba; l'altro, molto lento, è quello della rivoluzione democratica. Il dilemma è semplice: quali politiche adottare per rallentare il primo e accelerare il secondo, di modo che l'Iran arrivi al rovesciamento del suo regime, prima che il regime arrivi a produrre la bomba?»
A sostegno di questa tesi anche un editoriale del neocon Robert Kagan sul Washington Post, per il quale l'azione militare mirata agli impianti iraniani è la meno peggio di una serie di cattive opzioni, ma i costi superano i benefici.
Nessuno vuole vedere l'Iran con la bomba, ma dipende anche da chi è al potere. Non ci spaventano Francia e Gran Bretagna, India o Israele, perché siamo portati a credere che governi democratici non la useranno. Se l'Iran fosse governato anche da «un imperfetto governo democratico» saremmo molto meno preoccupati. Potrebbero decidere di smantellare i programmi volontariamente, come Ucraina o Sud Africa, ma anche se non volessero, un Iran liberale e democratico sarebbe «meno paranoico per la sua sicurezza».
«L'amministrazione Bush, nonostante la sua dottrina di democratizzazione, non ha ancora provato ad applicarla in quel posto dove ideali e interessi strategici coincidono più chiaramente. E' stato fatto poco» per il cambiamento politico in Iran. Si può cominciare a «comunicare direttamente con la popolazione iraniana filo-occidentale, tramite radio, internet e altri media; organizzare sostegno internazionale per sindacati e gruppi per i diritti umani; provvedere all'appoggio coperto di coloro che volessero farne uso; imporre sanzioni sufficienti a togliere al regime il sostegno delle elite economiche».
Certo, i mullah potranno reprimere con la violenza i gruppi dissidenti, ma il popolo iraniano non starebbe peggio di adesso. La strategia del regime change in Iran ha il vantaggio di essere «interamente compatibile con gli sforzi diplomatici per rallentare il programma nucleare». Non è detto che si abbiano risultati in breve tempo così da impedire all'Iran di acquisire la bomba, è un rischio che dobbiamo prenderci. «Ma se questa o la prossima amministrazione decide che è troppo pericoloso aspettare il cambiamento politico, allora la risposta sarà un'invasione, non solo un bombardamento aereo e missilistico», per porre fine con certezza al proramma nucleare non c'è che abbattere il regime. «Se è davvero intollerabile un Iran nucleare, c'è solo l'opzione militare.
«La risposta non militare consiste solo nel regime change. Ed è in questa che dovremmo investire le nostre energie, la nostra diplomazia, la nostra intelligence e le nostre risorse economiche. Sì, il tempo stringe, e in parte perché così tanti anni sono già stati sprecati. Ma meglio cominciare ora che tardare di più».
Senza sbraitare e minacciare, compiendo subito due atti semplici ma di immensa portata politica.
1) Il primo è l'adesione di Israele nell'Unione europea, come i radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino sostengono da anni, accompagnandola a un piano Marshall per uno Stato palestinese e nella prospettiva di un processo d'integrazione regionale fra Israele, Palestina, Giordania, Libano (esteso poi a Iraq e Siria).
2) Il secondo è far entrare Israele nella Nato, integrandolo in tutto e per tutto al sistema di sicurezza occidentale. Già possiede tutti i requisiti per l'adesione all'Alleanza Atlantica: è una democrazia, a libero mercato, e pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune, con il 10% del pil di spese militari, 167mila uomini e donne in armi e 358mila della riserva. L'idea di aprire a Israele le porte della Nato è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. Essendo inaccettabile che l'Iran si doti dell'atomica, impraticabile l'opzione militare diretta agli impianti, e senza sbocchi i negoziati, sarebbe questo l'unico modo per convincere gli ayatollah che proseguire con i piani nucleari non gli conviene.
3) C'è però una terza, decisiva, opzione. Mentre la comunità internazionale è concentrata sulla questione nucleare, sfugge il vero nodo da tagliare: il regime. E' la linea Ledeen-Ottolenghi-Kagan. C'è qualcosa che gli ayatollah temono ancor più dell'uso della forza. Il timore che il mondo libero eserciti tutta la sua forza d'attrazione di libertà e democrazia sollevando il popolo iraniano contro i mullah oppressori. Le potenze democratiche dovrebbero cominciare a rivolgersi direttamente al popolo iraniano, a sostenere l'opposizione al regime, perché come spiegava giorni fa Emanuele Ottolenghi su il Riformista, la questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica, il rovesciamento della mullahcrazia:
«Ci sono due conti alla rovescia in corso a Teheran: uno, molto veloce, è quello della bomba; l'altro, molto lento, è quello della rivoluzione democratica. Il dilemma è semplice: quali politiche adottare per rallentare il primo e accelerare il secondo, di modo che l'Iran arrivi al rovesciamento del suo regime, prima che il regime arrivi a produrre la bomba?»
A sostegno di questa tesi anche un editoriale del neocon Robert Kagan sul Washington Post, per il quale l'azione militare mirata agli impianti iraniani è la meno peggio di una serie di cattive opzioni, ma i costi superano i benefici.
«The Pentagon can hit facilities it can see with relative confidence. But much of Iran's program is underground, and some of it we don't know about. Even if a strike set back Iran's plans, we would not know by how much. For all the price we would pay, we wouldn't even know what we'd achieved. And we would pay a price. President Mahmoud Ahmadinejad and the mullahs would declare victory, as Saddam Hussein did in 1998, and probably would gain some sympathy and admiration from the Muslim world and beyond... Then there is the prospect of Iranian retaliation: terrorist attacks, military activity in Iraq, attempts to close off the Persian Gulf shipping lanes and disrupt oil supplies. Unless we were prepared to escalate, ultimately to the point of taking down the regime, we could end up in worse shape than when we began.»Né la diplomazia sembra una via migliore, con l'Iran determinato a dotarsi del nucleare e disposto a sopportare sanzioni economiche:
«If so, even bigger carrots will not persuade it to forgo a program it considers vital to its interests».Occorre una nuova strategia. «La nostra giustificata fissazione di impedire all'Iran di dotarsi della bomba ci ha in qualche modo impedito di perseguire un più fondamentale obiettivo: il cambiamento politico in Iran... Dobbiamo cominciare a sostenere il cambiamento democratico e liberale per il popolo iraniano».
Nessuno vuole vedere l'Iran con la bomba, ma dipende anche da chi è al potere. Non ci spaventano Francia e Gran Bretagna, India o Israele, perché siamo portati a credere che governi democratici non la useranno. Se l'Iran fosse governato anche da «un imperfetto governo democratico» saremmo molto meno preoccupati. Potrebbero decidere di smantellare i programmi volontariamente, come Ucraina o Sud Africa, ma anche se non volessero, un Iran liberale e democratico sarebbe «meno paranoico per la sua sicurezza».
«L'amministrazione Bush, nonostante la sua dottrina di democratizzazione, non ha ancora provato ad applicarla in quel posto dove ideali e interessi strategici coincidono più chiaramente. E' stato fatto poco» per il cambiamento politico in Iran. Si può cominciare a «comunicare direttamente con la popolazione iraniana filo-occidentale, tramite radio, internet e altri media; organizzare sostegno internazionale per sindacati e gruppi per i diritti umani; provvedere all'appoggio coperto di coloro che volessero farne uso; imporre sanzioni sufficienti a togliere al regime il sostegno delle elite economiche».
Certo, i mullah potranno reprimere con la violenza i gruppi dissidenti, ma il popolo iraniano non starebbe peggio di adesso. La strategia del regime change in Iran ha il vantaggio di essere «interamente compatibile con gli sforzi diplomatici per rallentare il programma nucleare». Non è detto che si abbiano risultati in breve tempo così da impedire all'Iran di acquisire la bomba, è un rischio che dobbiamo prenderci. «Ma se questa o la prossima amministrazione decide che è troppo pericoloso aspettare il cambiamento politico, allora la risposta sarà un'invasione, non solo un bombardamento aereo e missilistico», per porre fine con certezza al proramma nucleare non c'è che abbattere il regime. «Se è davvero intollerabile un Iran nucleare, c'è solo l'opzione militare.
«La risposta non militare consiste solo nel regime change. Ed è in questa che dovremmo investire le nostre energie, la nostra diplomazia, la nostra intelligence e le nostre risorse economiche. Sì, il tempo stringe, e in parte perché così tanti anni sono già stati sprecati. Ma meglio cominciare ora che tardare di più».
L'enciclica verso la parastatalizzazione della Chiesa
«La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia... La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica».
«L'attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane». Nessuno quindi, sia un Pera o un Ferrara, si senta legittimato a pensare alla Chiesa come instrumentum regni, o che sia disposta a legare i propri destini a un progetto politico in fondo antidemocratico e antiliberale.
La tentazione sarebbe quella di tirare un sospiro di sollievo da questi passaggi contenuti nella prima enciclica di Papa Benedetto XVI, Deus Caritas Est. Dovrebbero raffreddare i bollenti spiriti dei laicisti, consigliarli a riporre nel cassetto lo "scandaloso" anticlericalismo ottocentesco?
Esiste un nodo istituzionale da sciogliere. Non si vuole imbavagliare la Chiesa. Massima libertà d'espressione e d'"ingerenza" politica, persino con la partecipazione del clero, ma senza privilegi concordatari e 8 per mille da far impallidire i finanziamenti pubblici di partiti e sindacati. Proprio oggi, con la fine dell'unità politica dei cattolici e la Chiesa che interviene direttamente per ciò che le sta a cuore, s'impone il superamento di un concordato che appartiene a un'epoca passata.
Rimarrebbe comunque la questione politica. La Chiesa come attore politico nella società, «non deve restare ai margini nella lotta per la giustizia» scrive il Papa, continuerebbe inevitabilmente a essere oggetto di critiche per le sue politiche ispirate a una concezione etica dello stato e del diritto.
Un'enciclica «socialdemocratica» l'ha definita Oscar Giannino su il Riformista. A non accorgersene non sono solo a sinistra i cattocomunisti, ma anche i liberali e i liberisti, che vedono in questo Papa, e nella Chiesa, validi alleati nella battaglia per i valori e l'identità dell'Occidente contro il fondamentalismo islamico, e per una società non solo liberale e democratica ma anche «buona».
Il comunismo viene definito un «sogno svanito», ma «senza che il pontefice ritenga di fare alcun riferimento - né diretto né indiretto - all'economia di mercato, al liberismo e all'individuo come metro e moltiplicatore di superiorità del modello che del collettivismo marxista ha avuto storicamente ragione. (...) il vero imbarazzo più rilevante da collegare all'enciclica forse non è affatto quello vero o preteso dei neocon, di chi si attendeva trattati i temi del conflitto di civiltà oppure dell'etica della vita. E' un papa più socialdemocratico che liberista...».
Quella che emerge è quindi un'enciclica molto più in sintonia con l'idea di stato etico soft che appartiene alla sinistra socialdemocratica che non ai liberali conservatori.
Lo Stato, scrive Ratzinger, deve perseguire la «giustizia» e «lo scopo di un giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno, nel rispetto del principio di sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni». È quanto la dottrina cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa hanno sempre sottolineato. «Un'indicazione fondamentale» soprattutto «nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell'economia».
«La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica». Come realizzare la «giustizia», e che cos'è? E' affare della ragione, ma «per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile. In questo punto politica e fede si toccano... essa è una forza purificatrice per la ragione».
Senza la fede la ragione non può «svolgere nel modo migliore il suo compito». È qui che entra in gioco la dottrina sociale cattolica, che «non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato», o «imporre» a tutti «prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa», ma «contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato». Dunque, "aiutare" a imporre ciò che si ritiene "giusto".
La dottrina sociale della Chiesa si fonda su «ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano». Dunque, esiste una conformità naturale cui attenersi. La Chiesa non farà valere politicamente questa dottrina, ma vuole «contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse». La costruzione di un «giusto ordinamento sociale e statale», essendo «un compito politico», non può essere «incarico immediato della Chiesa», ma essa ha «il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili».
Il Papa non vuole uno Stato che «regoli e domini tutto», ma che «generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali», e la Chiesa è una di queste. «Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale... la carità deve animare l'intera esistenza (...) e quindi anche la loro attività politica, vissuta come "carità sociale"». Questa enciclica chiama direttamente i politici di orientamento cattolico alla costruzione di uno stato social-assistenziale non basato sulle strutture burocratiche statali, ma sulle strutture ecclesiastiche, scuole, ospedali, istituti di carità, oratori, ordini, associazioni, da finanziare con il denaro pubblico che la politica amministra - «generosamente riconosca e sostenga» sta scritto. E' la via che conduce alla «clericalizzazione» della politica e alla «parastatalizzazione» della Chiesa al pari di partiti e sindacati.
La carità privata è un fattore essenziale in una società a economia di mercato, e secondo alcune tesi libertarie dovrebbe persino sostituire il welfare, più costoso e meno efficiente, dello Stato, ma l'esperienza ha dimostrato che la povertà si riduce e si sconfigge non con l'intervento dello Stato o la carità, ma con la crescita generata dalla libertà economica. Ora i liberisti, non più solo i laicisti, avrebbero validi motivi per opporsi all'influenza della Chiesa come all'influenza dei sindacati, a un'idea di società, espressa dalla Dottrina sociale cattolica, fondata ancora sul pregiudizio anticapitalistico, anti-individualista, che vede il male nel consumo, nella merce, nel denaro, tanto da invitare, ogni Natale, a non esagerare nel "consumismo".
Incontrando le Acli, il Papa continua a parlare di una democrazia sotto tutela, nella quale la regola della maggioranza vale finché, a giudizio della Chiesa, non venga in contrapposizione con valori, giustizia sociale e verità. «Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo». «La giustizia è il banco di prova di un'autentica democrazia. (...) non va dimenticato che la ricerca della verità costituisce al contempo la condizione di possibilità di una democrazia reale e non apparente».
La laicità non si contrappone alla religione, bensì a qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica. Il diritto deve limitarsi a un minimo etico, individuare i suoi limiti e la dimensione propria dell'etica, non sposarne una visione. Pretese etiche o educative del diritto vanno respinte, provengano esse dalla Chiesa, dai partiti, o da qualsiasi altra forza sociale che pretenda di esprimere la sua società "buona".
«L'attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane». Nessuno quindi, sia un Pera o un Ferrara, si senta legittimato a pensare alla Chiesa come instrumentum regni, o che sia disposta a legare i propri destini a un progetto politico in fondo antidemocratico e antiliberale.
La tentazione sarebbe quella di tirare un sospiro di sollievo da questi passaggi contenuti nella prima enciclica di Papa Benedetto XVI, Deus Caritas Est. Dovrebbero raffreddare i bollenti spiriti dei laicisti, consigliarli a riporre nel cassetto lo "scandaloso" anticlericalismo ottocentesco?
«Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali.[19] Lo Stato non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca».Ammetto che mi sarei aspettato di peggio, ma questi passaggi riaffermano semplicemente, e sarebbe stato incredibile il contrario, che la Chiesa non ambisce a governare in prima persona la società. Ma la questione dei rapporti fra Chiesa e Stato non vi trova ancora soluzione.
Esiste un nodo istituzionale da sciogliere. Non si vuole imbavagliare la Chiesa. Massima libertà d'espressione e d'"ingerenza" politica, persino con la partecipazione del clero, ma senza privilegi concordatari e 8 per mille da far impallidire i finanziamenti pubblici di partiti e sindacati. Proprio oggi, con la fine dell'unità politica dei cattolici e la Chiesa che interviene direttamente per ciò che le sta a cuore, s'impone il superamento di un concordato che appartiene a un'epoca passata.
Rimarrebbe comunque la questione politica. La Chiesa come attore politico nella società, «non deve restare ai margini nella lotta per la giustizia» scrive il Papa, continuerebbe inevitabilmente a essere oggetto di critiche per le sue politiche ispirate a una concezione etica dello stato e del diritto.
Un'enciclica «socialdemocratica» l'ha definita Oscar Giannino su il Riformista. A non accorgersene non sono solo a sinistra i cattocomunisti, ma anche i liberali e i liberisti, che vedono in questo Papa, e nella Chiesa, validi alleati nella battaglia per i valori e l'identità dell'Occidente contro il fondamentalismo islamico, e per una società non solo liberale e democratica ma anche «buona».
Il comunismo viene definito un «sogno svanito», ma «senza che il pontefice ritenga di fare alcun riferimento - né diretto né indiretto - all'economia di mercato, al liberismo e all'individuo come metro e moltiplicatore di superiorità del modello che del collettivismo marxista ha avuto storicamente ragione. (...) il vero imbarazzo più rilevante da collegare all'enciclica forse non è affatto quello vero o preteso dei neocon, di chi si attendeva trattati i temi del conflitto di civiltà oppure dell'etica della vita. E' un papa più socialdemocratico che liberista...».
Quella che emerge è quindi un'enciclica molto più in sintonia con l'idea di stato etico soft che appartiene alla sinistra socialdemocratica che non ai liberali conservatori.
Lo Stato, scrive Ratzinger, deve perseguire la «giustizia» e «lo scopo di un giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno, nel rispetto del principio di sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni». È quanto la dottrina cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa hanno sempre sottolineato. «Un'indicazione fondamentale» soprattutto «nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell'economia».
«La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica». Come realizzare la «giustizia», e che cos'è? E' affare della ragione, ma «per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile. In questo punto politica e fede si toccano... essa è una forza purificatrice per la ragione».
Senza la fede la ragione non può «svolgere nel modo migliore il suo compito». È qui che entra in gioco la dottrina sociale cattolica, che «non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato», o «imporre» a tutti «prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa», ma «contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato». Dunque, "aiutare" a imporre ciò che si ritiene "giusto".
La dottrina sociale della Chiesa si fonda su «ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano». Dunque, esiste una conformità naturale cui attenersi. La Chiesa non farà valere politicamente questa dottrina, ma vuole «contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse». La costruzione di un «giusto ordinamento sociale e statale», essendo «un compito politico», non può essere «incarico immediato della Chiesa», ma essa ha «il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili».
Il Papa non vuole uno Stato che «regoli e domini tutto», ma che «generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali», e la Chiesa è una di queste. «Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale... la carità deve animare l'intera esistenza (...) e quindi anche la loro attività politica, vissuta come "carità sociale"». Questa enciclica chiama direttamente i politici di orientamento cattolico alla costruzione di uno stato social-assistenziale non basato sulle strutture burocratiche statali, ma sulle strutture ecclesiastiche, scuole, ospedali, istituti di carità, oratori, ordini, associazioni, da finanziare con il denaro pubblico che la politica amministra - «generosamente riconosca e sostenga» sta scritto. E' la via che conduce alla «clericalizzazione» della politica e alla «parastatalizzazione» della Chiesa al pari di partiti e sindacati.
La carità privata è un fattore essenziale in una società a economia di mercato, e secondo alcune tesi libertarie dovrebbe persino sostituire il welfare, più costoso e meno efficiente, dello Stato, ma l'esperienza ha dimostrato che la povertà si riduce e si sconfigge non con l'intervento dello Stato o la carità, ma con la crescita generata dalla libertà economica. Ora i liberisti, non più solo i laicisti, avrebbero validi motivi per opporsi all'influenza della Chiesa come all'influenza dei sindacati, a un'idea di società, espressa dalla Dottrina sociale cattolica, fondata ancora sul pregiudizio anticapitalistico, anti-individualista, che vede il male nel consumo, nella merce, nel denaro, tanto da invitare, ogni Natale, a non esagerare nel "consumismo".
Incontrando le Acli, il Papa continua a parlare di una democrazia sotto tutela, nella quale la regola della maggioranza vale finché, a giudizio della Chiesa, non venga in contrapposizione con valori, giustizia sociale e verità. «Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo». «La giustizia è il banco di prova di un'autentica democrazia. (...) non va dimenticato che la ricerca della verità costituisce al contempo la condizione di possibilità di una democrazia reale e non apparente».
La laicità non si contrappone alla religione, bensì a qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica. Il diritto deve limitarsi a un minimo etico, individuare i suoi limiti e la dimensione propria dell'etica, non sposarne una visione. Pretese etiche o educative del diritto vanno respinte, provengano esse dalla Chiesa, dai partiti, o da qualsiasi altra forza sociale che pretenda di esprimere la sua società "buona".
Sunday, January 29, 2006
Massimo intervista Massimo
E così il nostro Massimo di Azioneparallela ha realizzato una bella intervista di quasi un'ora a Massimo D'Alema (qui in mp3, da non perdere), finita oggi anche sul Corriere della Sera. L'abbiamo ascoltata tutta e non è per amicizia che affermiamo che un Massimo non è stato all'altezza dell'altro Massimo. Intervista istruttiva.
E', in effetti, Massimo D'Alema attualmente l'ultimo e più autorevole erede del luogocomunismo. Il "nostro" Massimo ha cercato in tutti i modi di far affrontare con profondità d'analisi quasi filosofica all'intervistato i temi di attualità, ma quello, il Massimo col baffo, niente, tornava a bomba con i più consunti luoghi comuni del post-comunismo. Se c'è uno che sta nel «limbo post-comunista» descritto da Panebianco, beh, quello è proprio D'Alema, con cui mi capitò di parlare l'estate scorsa, la sera degli attentati di Londra, a una festa dell'Unità, quando praticamente mi confessò, dopo un comizio, di aver detto ciò che la gente voleva sentirsi dire.
«Hamas non è il nazismo»? Certo, se non gli permettiamo di diventarlo. L'unicità della shoah è un mito di rimozione. Convincendoci, per superare il trauma collettivo, dell'idea che sia un evento irripetibile rischiamo di non avvertire il peso della responsabilità delle nostre azioni, ma questo è un tema che ci porterebbe lontano. L'opinione che D'Alema mostra di avere sul conflitto israelo-palestinese è quella degli anni '70, dell'inizio degli '80, va'. In pratica tutto ruota intorno a Israele, e agli Stati Uniti, grandi, anzi unici burattinai. Israele è l'aggressore (da occupante o perché reagisce in modo sproporzionato al terrorismo palestinese) che ha reso il fondamentalismo e il terrorismo più forti. Sentendolo, è come se la decina di paesi arabi là intorno sparisse improvvisamente: nessuna responsabilità, nessun ruolo nell'arco degli ultimi decenni. Nessun dubbio su come la classe dirigente dell'Anp avrebbe potuto investire i miliardi di dollari ricevuti dall'Occidente da Oslo in poi per una popolazione di poche centinaia di migliaia di persone. Quel «popolo senza speranza» da chi, bisognerebbe chiedersi, è stato mantenuto scientemente senza speranze?
Politiche sbagliate invece di sostenere le anime democratiche della società palestinese hanno alimentato l'odio. L'Europa e l'Italia sono esempi evidenti, eppure si fa riferimento a Israele e Stati Uniti, i quali quanto meno dal 2001, hanno mostrato di aver compreso la lezione. In fondo, che male c'è a trattare con Hamas oggi, non mi sono forse recato in visita da Netanyahu da presidente del Consiglio? E' questa l'equivalenza, un Netanyahu vale Hamas. E non è, badate, relativismo, è prendere parte, la parte sbagliata. Inutile dilungarmi su questo, avrete capito l'approccio dalemiano alla questione palestinese.
Il "nostro" Massimo ha introdotto molti spunti interessanti sui temi della globalizzazione e dell'identità, che però l'altro Massimo non deve aver afferrato. Su ognuno di essi il riflesso di D'Alema è stato difensivo. Guai a guardare la globalizzazione con gli occhi dell'«ottimismo neoliberale». Piuttosto, con una sorta di giustificazione della ricerca e della difesa di un'identità come reazione a una globalizzazione il cui unico significato sarebbe quello dell'omologazione. Eppure, vediamo che tra i cosiddetti «globalizzatori», per D'Alema quelli che impongono la globalizzazione, c'è molta meno omologazione che tra i globalizzati, quelli che dovrebbero subirla. In termini di convivenza, certo difficile, tra le culture diverse, ma anche di diversificazione di ceti sociali e di distribuzione del reddito.
Da liberale che sente di doversi appropriare di uno spazio a sinistra lasciato vuoto dalla defunta socialdemocrazia, per Adinolfi «l'identità non è qualcosa che noi già abbiamo, ma che dobbiamo guardare come qualcosa che sta avanti a noi e non indietro, altrimenti il riflesso difensivo-regressivo [conservatore] rimane sempre quello prevalente». D'Alema, a corto di parole, risponde con quel riflesso identitario. A ogni input reagisce esprimendo preoccupazione per ciò che che finisce e non curiosità per ciò che inizia. E' psicologicamente rivolto all'indietro, davanti vede il buio. L'ansia di portarsi dietro i bagagli più che di studiarsi il viaggio. E allora vediamo D'Alema prendere le parti di un Pera soft, politically correct.
L'identità, concede, non è fissa, è un qualcosa in movimento, un fenomeno evolutivo, ma non dobbiamo farne tabula rasa. Non era questo, di tutta evidenza, ciò che sosteneva il "nostro" Massimo, ma che il nostro sguardo dev'essere volto avanti a noi, perché l'identità è qualcosa che alla fine costruiamo con le scelte di ogni giorno.
Sulla fede stesso ragionamento. Pur non riferendosi alla fede religiosa, ha mostrato la debolezza culturale di non uscire dal concetto di fede per descrivere colui che «ha una marcia in più». E anche qui il "nostro" Massimo ha "sanzionato".
Complimenti
E', in effetti, Massimo D'Alema attualmente l'ultimo e più autorevole erede del luogocomunismo. Il "nostro" Massimo ha cercato in tutti i modi di far affrontare con profondità d'analisi quasi filosofica all'intervistato i temi di attualità, ma quello, il Massimo col baffo, niente, tornava a bomba con i più consunti luoghi comuni del post-comunismo. Se c'è uno che sta nel «limbo post-comunista» descritto da Panebianco, beh, quello è proprio D'Alema, con cui mi capitò di parlare l'estate scorsa, la sera degli attentati di Londra, a una festa dell'Unità, quando praticamente mi confessò, dopo un comizio, di aver detto ciò che la gente voleva sentirsi dire.
«Hamas non è il nazismo»? Certo, se non gli permettiamo di diventarlo. L'unicità della shoah è un mito di rimozione. Convincendoci, per superare il trauma collettivo, dell'idea che sia un evento irripetibile rischiamo di non avvertire il peso della responsabilità delle nostre azioni, ma questo è un tema che ci porterebbe lontano. L'opinione che D'Alema mostra di avere sul conflitto israelo-palestinese è quella degli anni '70, dell'inizio degli '80, va'. In pratica tutto ruota intorno a Israele, e agli Stati Uniti, grandi, anzi unici burattinai. Israele è l'aggressore (da occupante o perché reagisce in modo sproporzionato al terrorismo palestinese) che ha reso il fondamentalismo e il terrorismo più forti. Sentendolo, è come se la decina di paesi arabi là intorno sparisse improvvisamente: nessuna responsabilità, nessun ruolo nell'arco degli ultimi decenni. Nessun dubbio su come la classe dirigente dell'Anp avrebbe potuto investire i miliardi di dollari ricevuti dall'Occidente da Oslo in poi per una popolazione di poche centinaia di migliaia di persone. Quel «popolo senza speranza» da chi, bisognerebbe chiedersi, è stato mantenuto scientemente senza speranze?
Politiche sbagliate invece di sostenere le anime democratiche della società palestinese hanno alimentato l'odio. L'Europa e l'Italia sono esempi evidenti, eppure si fa riferimento a Israele e Stati Uniti, i quali quanto meno dal 2001, hanno mostrato di aver compreso la lezione. In fondo, che male c'è a trattare con Hamas oggi, non mi sono forse recato in visita da Netanyahu da presidente del Consiglio? E' questa l'equivalenza, un Netanyahu vale Hamas. E non è, badate, relativismo, è prendere parte, la parte sbagliata. Inutile dilungarmi su questo, avrete capito l'approccio dalemiano alla questione palestinese.
Il "nostro" Massimo ha introdotto molti spunti interessanti sui temi della globalizzazione e dell'identità, che però l'altro Massimo non deve aver afferrato. Su ognuno di essi il riflesso di D'Alema è stato difensivo. Guai a guardare la globalizzazione con gli occhi dell'«ottimismo neoliberale». Piuttosto, con una sorta di giustificazione della ricerca e della difesa di un'identità come reazione a una globalizzazione il cui unico significato sarebbe quello dell'omologazione. Eppure, vediamo che tra i cosiddetti «globalizzatori», per D'Alema quelli che impongono la globalizzazione, c'è molta meno omologazione che tra i globalizzati, quelli che dovrebbero subirla. In termini di convivenza, certo difficile, tra le culture diverse, ma anche di diversificazione di ceti sociali e di distribuzione del reddito.
Da liberale che sente di doversi appropriare di uno spazio a sinistra lasciato vuoto dalla defunta socialdemocrazia, per Adinolfi «l'identità non è qualcosa che noi già abbiamo, ma che dobbiamo guardare come qualcosa che sta avanti a noi e non indietro, altrimenti il riflesso difensivo-regressivo [conservatore] rimane sempre quello prevalente». D'Alema, a corto di parole, risponde con quel riflesso identitario. A ogni input reagisce esprimendo preoccupazione per ciò che che finisce e non curiosità per ciò che inizia. E' psicologicamente rivolto all'indietro, davanti vede il buio. L'ansia di portarsi dietro i bagagli più che di studiarsi il viaggio. E allora vediamo D'Alema prendere le parti di un Pera soft, politically correct.
L'identità, concede, non è fissa, è un qualcosa in movimento, un fenomeno evolutivo, ma non dobbiamo farne tabula rasa. Non era questo, di tutta evidenza, ciò che sosteneva il "nostro" Massimo, ma che il nostro sguardo dev'essere volto avanti a noi, perché l'identità è qualcosa che alla fine costruiamo con le scelte di ogni giorno.
Sulla fede stesso ragionamento. Pur non riferendosi alla fede religiosa, ha mostrato la debolezza culturale di non uscire dal concetto di fede per descrivere colui che «ha una marcia in più». E anche qui il "nostro" Massimo ha "sanzionato".
Complimenti
Saturday, January 28, 2006
Calma e sangue freddo
Subito Israele nella Nato e nell'Unione europea
La situazione nei territori palestinesi sembra precipitare verso il regolamento di conti se non la guerra civile. La comunità internazionale, non dicendo una parola chiara, rischia di dare una spinta a questo precipitare. Primo: i risultati elettorali non si toccano. Secondo: con i terroristi non si tratta. E' la posizione subito espressa da Washington, che non tratterà con chi vuole distruggere Israele, non tratterà con Hamas esattamente come non ha trattato con Arafat negli ultimi anni. L'incongruenza è evidente, ma necessaria.
Da una parte legittimare il risultato democratico è un'esigenza, ne va della credibilità della democrazia e della nostra convinzione in essa agli occhi di tutti i popoli arabi. Non possiamo, proprio noi democratici, abolire la democrazia quando i risultati non ci piacciono. Che dovremmo fare? Aiutare Fatah a riprendere il potere? Cambierebbe qualcosa? Israele sarebbe forse più sicura? Dall'altra però imporre la rinuncia al terrorismo, il disarmo delle fazioni, l'apertura della società palestinese, il rafforzamento di istituzioni e pratiche democratiche. Solo in tale contesto «i palestinesi prima o poi si accorgeranno di aver fatto una scelta sbagliata, di cui cominceranno presto, purtroppo, a subire le conseguenze».
Ieri Christian Rocca ha riportato le posizioni di alcuni diplomatici e analisti americani. Dennis Ross, l'ex inviato di Clinton in Medio Oriente e capo negoziatore a Camp David, ha spiegato che i palestinesi non hanno votato per Hamas perché favorevoli alla lotta armata contro Israele, ma perché rispondeva «ai bisogni e alle politiche locali» e per rabbia contro la corruzione dilagante nell'Anp. La cosa da fare però ora è «isolare la leadership di Hamas, affinché capisca che non potrà raggiungere alcun obiettivo se non rinuncia a quelli inaccettabili». Concorda Max Boot, del Los Angeles Times: «La vittoria di Hamas [è] dovuta più al disgusto nei confronti della corruzione di Fatah che al desiderio di dichiarare guerra totale contro Israele, anche se questo è certamente l'obiettivo di Hamas. Stati Uniti e Unione europea non dovranno dare nemmeno un centesimo alle istituzioni palestinesi guidate da Hamas». Steven Cook, del Council on Foreign Relations, avverte innanzitutto gli europei: «Non facciamoci prendere in giro, specialmente voi creduloni europei, magari pensando che Hamas in qualche magico modo si sia trasformato in un'organizzazione nuova...». Ciò non significa voltarsi dall'altra parte e non favorire pragmaticamente, ma senza compromessi sulla rinuncia al terrorismo, la trasformazione di Hamas in organizzazione civile.
L'incongruenza necessaria mi sembra manifesta anche nell'editoriale di oggi di Biagio De Giovanni, su il Riformista. Da una parte «giusto riconoscere, al primo segnale, il governo che nascerà in Palestina dopo la vittoria di Hamas. Si tratta quasi di un esperimento "in vivo" di scienza politica: verificare se l'insediamento, per via democratica, di una organizzazione terroristica al governo di quel paese, sia adeguato per produrre l'avvio della sua trasformazione in forza politica. Non c'è altro percorso, in Medio Oriente, dove l'avvio di esperimenti democratici non ha presupposti costituzionali, né valori universali condivisi, ma tutto si concentra nella novità del voto, su cui, peraltro, si stanno costruendo il nuovo Afghanistan e il nuovo Iraq... accanto a quel riconoscimento si stringa, per un lunghissimo periodo, la solidarietà di tutto il mondo civilizzato con Israele, non la solidarietà pelosa e ambigua dell'Europa di questi anni, bensì la convinta scelta di difenderla con ogni mezzo, nessuno escluso...»
Come «stringerci» intorno a Israele? Senza sbraitare a vuoto verso Hamas e i mullah iraniani, scrive oggi Oscar Giannino, «basterebbe limitarsi a un solo atto di immensa portata politica». Israele nella Nato e, aggiungono i radicali ormai da anni, subito nell'Unione europea. «Stendendo il confine della sicurezza occidentale in tutto e per tutto a quello di Israele, che soddisfa pienamente i requisiti di adesione all'Alleanza Atlantica per essere una democrazia, a libero mercato e pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune anche dei suoi nuovi alleati, col suo 10% del pil di spese militari, 167 mila uomini e donne alle armi e 358mila della riserva». L'idea di aprire a Israele le porte della Nato è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. Essendo inaccettabile che l'Iran si doti dell'atomica, impraticabile l'opzione militare diretta agli impianti e senza sbocchi i negoziati, sarebbe questo l'unico modo per convincere gli ayatollah che proseguire con i piani nucleari non gli conviene.
«Non si possono cambiare le regole del gioco perché vincono gli avversari». Hamas ha vinto, che governi; discutiamo, ma «ponendo delle condizioni molto precise e soprattutto cercando di essere credibili», mi sembra il senso dell'intervista di Emma Bonino, oggi al Corriere della Sera, che al di là del titolo semplificatorio («Sono terroristi, ma trattiamo») mi sembra più sfumata e ambigua. Sbaglia però, chi volesse vedervi un cedimento al compromesso e al realismo. «E' un governo di gente che usa e ha usato il terrorismo, ma Arafat non era molto diverso». Discutere, aprire rapporti diplomatici, non significa per forza essere accondiscendenti, anche se le pessime prove dell'Europa indurrebbero a ritenere il contrario. Ma in questi anni l'Europa semplicemente non ha fatto diplomazia, si è schierata contro Israele.
La situazione nei territori palestinesi sembra precipitare verso il regolamento di conti se non la guerra civile. La comunità internazionale, non dicendo una parola chiara, rischia di dare una spinta a questo precipitare. Primo: i risultati elettorali non si toccano. Secondo: con i terroristi non si tratta. E' la posizione subito espressa da Washington, che non tratterà con chi vuole distruggere Israele, non tratterà con Hamas esattamente come non ha trattato con Arafat negli ultimi anni. L'incongruenza è evidente, ma necessaria.
Da una parte legittimare il risultato democratico è un'esigenza, ne va della credibilità della democrazia e della nostra convinzione in essa agli occhi di tutti i popoli arabi. Non possiamo, proprio noi democratici, abolire la democrazia quando i risultati non ci piacciono. Che dovremmo fare? Aiutare Fatah a riprendere il potere? Cambierebbe qualcosa? Israele sarebbe forse più sicura? Dall'altra però imporre la rinuncia al terrorismo, il disarmo delle fazioni, l'apertura della società palestinese, il rafforzamento di istituzioni e pratiche democratiche. Solo in tale contesto «i palestinesi prima o poi si accorgeranno di aver fatto una scelta sbagliata, di cui cominceranno presto, purtroppo, a subire le conseguenze».
Ieri Christian Rocca ha riportato le posizioni di alcuni diplomatici e analisti americani. Dennis Ross, l'ex inviato di Clinton in Medio Oriente e capo negoziatore a Camp David, ha spiegato che i palestinesi non hanno votato per Hamas perché favorevoli alla lotta armata contro Israele, ma perché rispondeva «ai bisogni e alle politiche locali» e per rabbia contro la corruzione dilagante nell'Anp. La cosa da fare però ora è «isolare la leadership di Hamas, affinché capisca che non potrà raggiungere alcun obiettivo se non rinuncia a quelli inaccettabili». Concorda Max Boot, del Los Angeles Times: «La vittoria di Hamas [è] dovuta più al disgusto nei confronti della corruzione di Fatah che al desiderio di dichiarare guerra totale contro Israele, anche se questo è certamente l'obiettivo di Hamas. Stati Uniti e Unione europea non dovranno dare nemmeno un centesimo alle istituzioni palestinesi guidate da Hamas». Steven Cook, del Council on Foreign Relations, avverte innanzitutto gli europei: «Non facciamoci prendere in giro, specialmente voi creduloni europei, magari pensando che Hamas in qualche magico modo si sia trasformato in un'organizzazione nuova...». Ciò non significa voltarsi dall'altra parte e non favorire pragmaticamente, ma senza compromessi sulla rinuncia al terrorismo, la trasformazione di Hamas in organizzazione civile.
L'incongruenza necessaria mi sembra manifesta anche nell'editoriale di oggi di Biagio De Giovanni, su il Riformista. Da una parte «giusto riconoscere, al primo segnale, il governo che nascerà in Palestina dopo la vittoria di Hamas. Si tratta quasi di un esperimento "in vivo" di scienza politica: verificare se l'insediamento, per via democratica, di una organizzazione terroristica al governo di quel paese, sia adeguato per produrre l'avvio della sua trasformazione in forza politica. Non c'è altro percorso, in Medio Oriente, dove l'avvio di esperimenti democratici non ha presupposti costituzionali, né valori universali condivisi, ma tutto si concentra nella novità del voto, su cui, peraltro, si stanno costruendo il nuovo Afghanistan e il nuovo Iraq... accanto a quel riconoscimento si stringa, per un lunghissimo periodo, la solidarietà di tutto il mondo civilizzato con Israele, non la solidarietà pelosa e ambigua dell'Europa di questi anni, bensì la convinta scelta di difenderla con ogni mezzo, nessuno escluso...»
Come «stringerci» intorno a Israele? Senza sbraitare a vuoto verso Hamas e i mullah iraniani, scrive oggi Oscar Giannino, «basterebbe limitarsi a un solo atto di immensa portata politica». Israele nella Nato e, aggiungono i radicali ormai da anni, subito nell'Unione europea. «Stendendo il confine della sicurezza occidentale in tutto e per tutto a quello di Israele, che soddisfa pienamente i requisiti di adesione all'Alleanza Atlantica per essere una democrazia, a libero mercato e pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune anche dei suoi nuovi alleati, col suo 10% del pil di spese militari, 167 mila uomini e donne alle armi e 358mila della riserva». L'idea di aprire a Israele le porte della Nato è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. Essendo inaccettabile che l'Iran si doti dell'atomica, impraticabile l'opzione militare diretta agli impianti e senza sbocchi i negoziati, sarebbe questo l'unico modo per convincere gli ayatollah che proseguire con i piani nucleari non gli conviene.
«Non si possono cambiare le regole del gioco perché vincono gli avversari». Hamas ha vinto, che governi; discutiamo, ma «ponendo delle condizioni molto precise e soprattutto cercando di essere credibili», mi sembra il senso dell'intervista di Emma Bonino, oggi al Corriere della Sera, che al di là del titolo semplificatorio («Sono terroristi, ma trattiamo») mi sembra più sfumata e ambigua. Sbaglia però, chi volesse vedervi un cedimento al compromesso e al realismo. «E' un governo di gente che usa e ha usato il terrorismo, ma Arafat non era molto diverso». Discutere, aprire rapporti diplomatici, non significa per forza essere accondiscendenti, anche se le pessime prove dell'Europa indurrebbero a ritenere il contrario. Ma in questi anni l'Europa semplicemente non ha fatto diplomazia, si è schierata contro Israele.
«... in Palestina non abbiamo fatto abbastanza per la costruzione istituzionale, tant'è che all'Anp abbiamo dato centinaia di milioni di euro all'anno senza mai porre un limite alla corruzione, né allo spreco, né alla sovrapposizione di ben 14 servizi segreti intorno ad Arafat. L'Ue ha sostenuto a lungo che non c'era soluzione senza Arafat finché non se ne era occupato il padre eterno. E lo stesso abbiamo fatto e facciamo con tanti regimi: subiamo il fascino dei dittatori, in nome della stabilità a qualunque prezzo».Se questo atteggiamento cambia, diventa possibile discutere, non trattare, con Hamas, mettendo così un punto fermo sul rispetto delle regole democratiche, legittimando la democrazia stessa, instaurando rapporti diplomatici non più all'insegna delle "carote senza bastoni", come ha fatto finora l'Europa, ma delle "carote E bastoni". L'analisi della vittoria di Hamas è la stessa di Ross e Boot:
«In Palestina lo slogan era "riforme", non "vendetta": chi ha votato Hamas lo ha fatto non necessariamente contro Israele ma perché Hamas è apparsa meno corrotta di Al Fatah... Hamas ha vinto e ha promesso, in campagna elettorale, uno stato più efficiente, riforme, distribuzione della ricchezza. Dovrà mantenere le sue promesse e per questo avrà bisogno di riconoscimento internazionale. Quindi credo che con questi signori si debba discutere, ponendo delle condizioni molto precise e soprattutto cercando di essere credibili».Prima di tutte: «Sostenere lo sviluppo democratico del Paese, se verrà confermata la tregua con Israele»
«Certo è che non si promuove la democrazia con mezza mano. Si fa se ci si investe, non a intermittenza e con il minimo indispensabile. Non capisco perché ci sia venuto in mente di esportare la democrazia, quando forse basterebbe sostenere quei democratici che in moltissimi Paesi arabi cercano di fare una politica meno corrotta, più liberale. Penso a tutti gli emarginati di Arafat. Quando furono esclusi decine di candidati democratici in Iran, nessuno protesta in Occidente, l'Onu accetta di fare la conferenza mondiale sulle nuove tecnologie e la libertà di espressione a Tunisi, dove a presiederla c'è l'ex ministro degli Interni e capo dei servizi segreti... Dovremmo essere più coerenti per essere più efficaci».E' la critica indiretta con cui conclude l'intervista, la medesima che persino i neocon rivolgono, agli Stati Uniti perché quel che fanno è ancora troppo poco per promuovere la democrazia, «a intermittenza e con il minimo indispensabile», e all'Europa perché non fa proprio nulla.
Casta sì, da abbattere
Ieri l'inaugurazione dell'anno giudiziario con la relazione introduttiva del presidente della Corte di Cassazione Nicola Marvulli.
Fa rimanere a bocca aperta quando parla della magistratura come «casta»: «Dobbiamo riconoscere con umiltà che oggi la magistratura, a causa dell'inadeguatezza dell'amministrazione della giustizia, più non gode dell'antico prestigio, quello che era il prestigio della casta».
Nel riportare i dati delle cause di divorzio è fuori luogo il suo giudizio di valore: la famiglia fondata sul matrimonio «continua ad essere in crisi. Lo dimostra il numero sempre crescente delle separazioni e dei divorzi, nonché la diminuzione delle madri disposte a portare a termine una gravidanza, sol perché questa non è ritenuta compatibile con le personali condizioni economiche o con la propria attività lavorativa». Né si capisce poi cosa abbia a che fare con la giustizia la sua impressione personale sui motivi che spingono le donne all'interruzione volontaria delle gravidanze.
Degni di nota anche i 485 giorni medi necessari per le indagini preliminari e, altro primato italiano in Europa, il maggior numero di giudici cui corrisponde il maggior tempo nella definizione dei processi, sia civili che penali. Tradotto significa: lavorate di più e meglio.
Poi quell'accidente, quel riferimento alla legge ex Cirielli sulle prescrizioni definita «amnistia mascherata», termine già usato un'infinità di volte, per esempio da Conso, la cui somiglianza con l'espressione «amnistia di classe», usata da Pannella per motivare la necessità di una vera amnistia, sembra del tutto casuale.
Fa rimanere a bocca aperta quando parla della magistratura come «casta»: «Dobbiamo riconoscere con umiltà che oggi la magistratura, a causa dell'inadeguatezza dell'amministrazione della giustizia, più non gode dell'antico prestigio, quello che era il prestigio della casta».
Nel riportare i dati delle cause di divorzio è fuori luogo il suo giudizio di valore: la famiglia fondata sul matrimonio «continua ad essere in crisi. Lo dimostra il numero sempre crescente delle separazioni e dei divorzi, nonché la diminuzione delle madri disposte a portare a termine una gravidanza, sol perché questa non è ritenuta compatibile con le personali condizioni economiche o con la propria attività lavorativa». Né si capisce poi cosa abbia a che fare con la giustizia la sua impressione personale sui motivi che spingono le donne all'interruzione volontaria delle gravidanze.
Degni di nota anche i 485 giorni medi necessari per le indagini preliminari e, altro primato italiano in Europa, il maggior numero di giudici cui corrisponde il maggior tempo nella definizione dei processi, sia civili che penali. Tradotto significa: lavorate di più e meglio.
Poi quell'accidente, quel riferimento alla legge ex Cirielli sulle prescrizioni definita «amnistia mascherata», termine già usato un'infinità di volte, per esempio da Conso, la cui somiglianza con l'espressione «amnistia di classe», usata da Pannella per motivare la necessità di una vera amnistia, sembra del tutto casuale.
Prodi 1 - Berlusconi 2
«Mi aspetto da Berlusconi che vada a fare le telepromozioni. Tra poco venderà tappeti in televisione».
Calcio di rigore... palla in rete. 1 a 0
«Prodi ha l'attitudine alla svendita. Lo ha fatto prima con le aziende dell'Iri e poi con la Lira nei confronti dell'Euro».
Mezza rovesciata volante appena dentro l'area di rigore su cross dalla destra. Doppietta. 1 a 2.
Berlusconi: «Io penso che non valga la pena e che sia meglio non fare una legge sui Pacs perchè si potrebbe indebolire il concetto di famiglia». Bene, un po' di chiarezza agli elettori.
Il centrosinistra che farà? Rincorre?
Calcio di rigore... palla in rete. 1 a 0
«Prodi ha l'attitudine alla svendita. Lo ha fatto prima con le aziende dell'Iri e poi con la Lira nei confronti dell'Euro».
Mezza rovesciata volante appena dentro l'area di rigore su cross dalla destra. Doppietta. 1 a 2.
Berlusconi: «Io penso che non valga la pena e che sia meglio non fare una legge sui Pacs perchè si potrebbe indebolire il concetto di famiglia». Bene, un po' di chiarezza agli elettori.
Il centrosinistra che farà? Rincorre?
Friday, January 27, 2006
«Voglio trovare un senso a questa storia»
«Penso che sia giusto che ci siano dei Radicali in Parlamento e penso che sia giusto che ci sia Pannella, che considero il mio alter ego politico»
La dichiarazione di voto di Vasco Rossi alle telecamere del Dopo Tg1, nella puntata in onda stasera.
La dichiarazione di voto di Vasco Rossi alle telecamere del Dopo Tg1, nella puntata in onda stasera.
«Io deputato? E' uno scherzo. Non mi occupo di politica. Però ho la tessera del Partito Radicale da vent'anni e in casa siamo tutti Radicali. Quindi appoggio e sono solidale, sono convinto che siano importanti le battaglie, la difesa dei diritti civili. Ultimamente sento che alcuni diritti conquistati sembrano tornati ad essere messi in discussione. Sono preoccupato, ho paura dell'oscurantismo».
Panebianco e lo "scandaloso" anticlericalismo radicale
Panebianco è tornato, ieri sul Corriere, sullo «storico» anticlericalismo radicale, che a suo avviso oggi, accentuato a scapito di altri aspetti, rischia di impedire ai radicali di «poter svolgere, in un eventuale processo di aggregazione della sinistra, quel ruolo di protagonisti che la loro storia legittimerebbe». La «laicità», scrive, non consiste nell'imporre la «"neutralizzazione politica" delle scelte religiose e il silenzio della Chiesa sulle grandi questioni di etica pubblica». Ma chi lo nega? Non si vuole imbavagliare la Chiesa. Massima libertà d'espressione, persino di partecipazione del clero alla politica, ma senza privilegi concordatari e 8 per mille da far impallidire i finanziamenti pubblici di partiti e sindacati. C'è in gioco la «clericalizzazione» della politica e la «parastatalizzazione» della Chiesa. Proprio oggi, con la fine dell'unità politica dei cattolici e la Chiesa che interviene direttamente per ciò che le sta a cuore, s'impone il superamento del concordato di un'epoca passata.
Rimuovere l'anticlericalismo, «se non altro, perché si antagonizzano i cattolici», suggeriva Panebianco. In Italia, negli anni '50, ricorda Pannella, si diceva da parte comunista che «non si riesce a governare se non siamo scelti dalla Chiesa e dalla Dc. Se facciamo polemiche troppo gravi li compattiamo, le loro differenze non esplodono». Retaggio togliattiano che mette facilmente d'accordo oggi ex comunisti ed ex democristiani di sinistra nell'accantonare le scelte laiche e liberali.
Ne era forse già consapevole Benedetto Croce, quando, in una lettera del 27 luglio 1949, scrisse: «Il fatto nuovo è la situazione politica formatasi in Italia, che ha permesso ai clericali d'impadronirsi di gran parte della vita pubblica e tra l'altro del governo della scuola, portandovi quell'ingordigia e quelle altre attitudini onde Ludovico Ariosto aborriva i preti e che il Machiavelli e lo stesso Guicciardini confermavano in gravissimi e perpetui giudizii. Né c'è da contare sull'opposta parte che si dice comunistica (...) perché essa si è messa sempre d'accordo coi suoi concorrenti, quando si trattava di avvilire il pensiero laico italiano, e non aspira ad altro che a collaborare con essi a questo intento».
Panebianco assume verso lo "scandaloso" anticlericalismo radicale lo stesso riflesso di ex comunisti ed ex democristiani di sinistra. Ma se, come ha scritto, il partito democratico «non potrà nascere semplicemente dalla confluenza fra ex comunisti ed ex sinistra democristiana», sembra un controsenso fare proprie le critiche che essi rivolgono, per condannarlo alla marginalità, a Pannella, definito «il più coerente» di quegli «anticomunisti democratici» che «occorre che dell'eventuale partito democratico facciano parte a pieno diritto».
Rimuovere l'anticlericalismo, «se non altro, perché si antagonizzano i cattolici», suggeriva Panebianco. In Italia, negli anni '50, ricorda Pannella, si diceva da parte comunista che «non si riesce a governare se non siamo scelti dalla Chiesa e dalla Dc. Se facciamo polemiche troppo gravi li compattiamo, le loro differenze non esplodono». Retaggio togliattiano che mette facilmente d'accordo oggi ex comunisti ed ex democristiani di sinistra nell'accantonare le scelte laiche e liberali.
Ne era forse già consapevole Benedetto Croce, quando, in una lettera del 27 luglio 1949, scrisse: «Il fatto nuovo è la situazione politica formatasi in Italia, che ha permesso ai clericali d'impadronirsi di gran parte della vita pubblica e tra l'altro del governo della scuola, portandovi quell'ingordigia e quelle altre attitudini onde Ludovico Ariosto aborriva i preti e che il Machiavelli e lo stesso Guicciardini confermavano in gravissimi e perpetui giudizii. Né c'è da contare sull'opposta parte che si dice comunistica (...) perché essa si è messa sempre d'accordo coi suoi concorrenti, quando si trattava di avvilire il pensiero laico italiano, e non aspira ad altro che a collaborare con essi a questo intento».
Panebianco assume verso lo "scandaloso" anticlericalismo radicale lo stesso riflesso di ex comunisti ed ex democristiani di sinistra. Ma se, come ha scritto, il partito democratico «non potrà nascere semplicemente dalla confluenza fra ex comunisti ed ex sinistra democristiana», sembra un controsenso fare proprie le critiche che essi rivolgono, per condannarlo alla marginalità, a Pannella, definito «il più coerente» di quegli «anticomunisti democratici» che «occorre che dell'eventuale partito democratico facciano parte a pieno diritto».
Thursday, January 26, 2006
Ma cosa cambia davvero con Hamas? La democrazia è all'opera
Non fraintendete, è una provocazione. Avete saputo tutti com'è andata. Ribaltando ogni exit poll Hamas ha battuto Fatah nelle elezioni politiche palestinesi, conquistando 76 seggi contro 43. Dico subito che la penso esattamente come Christian Rocca e come 1972. Cosa è cambiato davvero? L'unica novità politica di rilievo è il processo democratico nel suo pieno corso. Per il resto non fatevi ingannare dalle appparenze, non è stata la democrazia, che finora non c'è stata, ma la dittatura a portare al potere Hamas. Il dialogo con Israele sarà difficile come prima, la pace lontana come prima, il terrorismo quello di prima. Hamas aveva mano libera da anni e se può esserci un effetto positivo di queste elezioni è che forse non l'avrà così libera quanto prima, o per lo meno dell'esercizio di quella libertà sarà chiamata a rispondere di fronte ai suoi cittadini. Ora è chiamata a condividere quella che si chiama responsabilità politica.
La differenza fra Fatah e Hamas è un particolare fuorviante, la stessa differenza che c'è tra un Khatami e un Ahmadinejad, cioè impercettibile per i democratici. Credete forse che tutti i palestinesi che hanno votato Hamas siano dei terroristi pronti a farsi esplodere? O quelli che hanno votato Fatah non lo siano per niente? No, hanno votato un'organizzazione attiva dal punto di vista sociale e assistenziale contro un sistema di potere corrotto e mafioso.
Il vero volto dell'Autorità nazionale palestinese è costretto a uscire allo scoperto e potrebbe essere, se Europa e Stati Uniti sapranno vederla, un'occasione di chiarezza. Certo, si dovrà riprendere il discorso da prima di Oslo, dalla rinuncia alla distruzione di Israele, ma non era già così nei fatti? Le trattative, se inizieranno, si svolgeranno tra partner entrambi responsabili degli impegni presi e non come fino a oggi, per cui Abu Mazen prometteva, ma non era in grado di mantenere. Occorre fuggire dalla tentazione di rimpiangere Arafat, perché la sua dittatura è la prima causa della vittoria di Hamas oggi. Insomma, l'Anp, dopo la vittoria di Hamas, è più o meno pericolosa di ieri?
Dipende da noi. Gli Stati Uniti hanno già fatto sapere che non intendono avere rapporti con Hamas, a meno che il movimento islamico rinunci a perseguire la distruzione di Israele. «Non tratteremo con chi vuole distruggere Israele». Bush ha però fornito una valutazione positiva del carattere democratico e pacifico delle elezioni, «una sveglia per la vecchia guardia della leadership palestinese, perché la gente vuole da chi governa onestà, servizi, efficienza». Questa frase apparentemente ovvia mostra la totale assenza di ogni pregiudizio razzistico nei confronti degli arabi. Gli Stati Uniti vedono vincere Hamas ma riconoscono che chi l'ha votata cerca, come ogni altro abitante di questo pianeta, «onestà, servizi, efficienza». E' questo desiderio che rende sempre possibile la democrazia. Proprio così, presidente, fiducia nel voto democratico.
Ci sarà qualcuno che, come ha già fatto, ci verrà a dire che «il rischio è quello di annullare la democrazia sostanziale». 'Sta benedetta sostanza. Senza forma, quale sostanza? Fu Magdi Allam, le cui opinioni di solito condivido, a chiedere a Bush e ai leader occidentali impegnati nella promozione della democrazia nel mondo arabo e musulmano una pausa di riflessione. «Il successo dei Fratelli Musulmani in Egitto, che gestiscono la maggiore rete dell'integralismo islamico nel mondo, e di Hamas nei territori palestinesi, che primeggia tra i gruppi terroristici che vogliono la distruzione di Israele», richiede di «sospendere» l'esportazione della democrazia. Il pericolo è che l'islamismo radicale possa sfruttare il «rito» delle elezioni, strumentalizzare la democrazia formale, per arrivare al potere e far fuori la democrazia sostanziale.
Prima delle elezioni, prima della democrazia formale, scrive Allam, bisogna «radicare e diffondere i valori del primato della persona e della sacralità della vita di tutti». Il suo mi sembra un errore fondamentale. 'Sti benedetti valori... Com'è possibile che questi valori si affermino, che almeno formalmente siano riconosciuti i diritti umani e politici dei cittadini in società chiuse? Come provocare quella «rivoluzione di valori» se non a partire proprio dalla democrazia formale? Se è vero, come lo stesso Allam scrive, che «le dittature e l'opposizione teocratica sono due facce della stessa medaglia, il prodotto della stessa ideologia dell'intolleranza, della violenza e della morte», più consentiamo il protrarsi nel tempo di questo circolo vizioso della dittatura che alimenta l'integralismo e dell'integralismo che richiede la dittatura per arginarlo e più sarà difficile provocare e aiutare qualsiasi cambiamento. "Vedete? li facciamo votare, ma poi vincono gli integralisti islamici". E' un equivoco retorico che ha il solo effetto di minare la nostra determinazione a promuovere la democrazia in Medio Oriente.
La dicotomia tra democrazia formale e sostanziale è fonte di troppi equivoci. La forma è sostanza. Questo pregiudizio di nuovo di moda in certi intellettuali - in fondo dettato dalla paura - che i cosiddetti valori diano sostanza alla democrazia, mentre le regole si risolvano in vuote forme, fa perdere di vista la premessa di qualsiasi democrazia, cioè proprio il rispetto delle regole che garantiscono il suo corretto funzionamento formale. Per rincorrere i valori pensati in astratto si perdono spesso di vista le regole empiriche che li fanno vivere.
Pretendere di promuovere prima i valori, o lo sviluppo economico, è un approccio, quello sì idealista e teorico. Proprio perché nessuno crede a trapianti irrealistici e utopistici, le democrazia dev'essere una scelta innanzitutto dei palestinesi, al massimo noi possiamo rimuovere gli ostacoli. E non è un parere disincantato, è del maggior storico del Medio Oriente e dell'islam, Bernard Lewis.
Ha osservato correttamente 1972 che «Hamas e al-Fatah sono l'unica cosa che i palestinesi hanno conosciuto fino ad oggi. La sfida consiste nell'aiutarli a conoscere qualcos'altro e per farlo non c'è momento migliore di quello in cui, perfino chi ha votato Hamas, ha capito di poter contare. Hamas è un'organizzazione terrorista e va combattuta. Ma la democrazia è un processo e va incoraggiato». In una società chiusa è fisiologico, ma sono persuaso che in una società aperta e con elezioni libere, che solo il rispetto formale delle regole democratiche può garantire, si possa «conoscere qualcos'altro», forze autenticamente liberali e democratiche possano dire la loro. Votare e basta non produce automaticamente società democratiche modello, ma certo è quello il primo passo. Spetta anche a noi vigilare affinché la società palestinese sia costretta ad aprirsi sempre più e ad adattarsi alle istituzioni e alle procedure democratiche, non accettando, per esempio, regressi nel processo appena avviato e rifiutando di trattare con i terroristi. Non mi illudo che Hamas possa cambiare, ma che possa essere sconfitta dall'interno perdendo il suo consenso.
Se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che i movimenti fondamentalisti esercitano una forte attrazione sulle popolazioni islamiche quando da oppositori a regimi autoritari e corrotti intercettano il malcontento popolare indirizzandolo contro la modernizzazione. Hanno il vantaggio di non aver mai governato prima. Possono addirittura presentarsi all'opinione pubblica come benefattori, difensori del popolo, solo perché non hanno ancora preso il potere. Come Khomeini negli anni '70 era il campione delle organizzazioni per i diritti umani, della BBC, e dei filosofi francesi di sinistra. Parlava di democrazia, uguaglianza e diritti umani. Non c'è bisogno di dire com'è andata a finire. Tuttavia, i fondamentalisti perdono la sfida del governo, quasi subito il consenso, e sono costretti a conservare il potere con la forza. I paesi democratici dovrebbero vigilare e non permetterlo.
Da tempo ci si chiedeva cosa sarebbe accaduto se attraverso elezioni democratiche una forza fondamentalista avesse preso il governo. Quella palestinese sarà un'occasione utilissima per testare la determinazione e la capacità dei paesi democratici nell'aiutare la società palestinese ad aprirsi nonostante Hamas. Il test arriva con una popolazione di poche centinaia di migliaia di persone, per fortuna, non un grande stato arabo ricco di risorse geostrategiche. Ci riusciremo? Forse, ma è l'unica strada, come spiega Christian Rocca.
La differenza fra Fatah e Hamas è un particolare fuorviante, la stessa differenza che c'è tra un Khatami e un Ahmadinejad, cioè impercettibile per i democratici. Credete forse che tutti i palestinesi che hanno votato Hamas siano dei terroristi pronti a farsi esplodere? O quelli che hanno votato Fatah non lo siano per niente? No, hanno votato un'organizzazione attiva dal punto di vista sociale e assistenziale contro un sistema di potere corrotto e mafioso.
Il vero volto dell'Autorità nazionale palestinese è costretto a uscire allo scoperto e potrebbe essere, se Europa e Stati Uniti sapranno vederla, un'occasione di chiarezza. Certo, si dovrà riprendere il discorso da prima di Oslo, dalla rinuncia alla distruzione di Israele, ma non era già così nei fatti? Le trattative, se inizieranno, si svolgeranno tra partner entrambi responsabili degli impegni presi e non come fino a oggi, per cui Abu Mazen prometteva, ma non era in grado di mantenere. Occorre fuggire dalla tentazione di rimpiangere Arafat, perché la sua dittatura è la prima causa della vittoria di Hamas oggi. Insomma, l'Anp, dopo la vittoria di Hamas, è più o meno pericolosa di ieri?
Dipende da noi. Gli Stati Uniti hanno già fatto sapere che non intendono avere rapporti con Hamas, a meno che il movimento islamico rinunci a perseguire la distruzione di Israele. «Non tratteremo con chi vuole distruggere Israele». Bush ha però fornito una valutazione positiva del carattere democratico e pacifico delle elezioni, «una sveglia per la vecchia guardia della leadership palestinese, perché la gente vuole da chi governa onestà, servizi, efficienza». Questa frase apparentemente ovvia mostra la totale assenza di ogni pregiudizio razzistico nei confronti degli arabi. Gli Stati Uniti vedono vincere Hamas ma riconoscono che chi l'ha votata cerca, come ogni altro abitante di questo pianeta, «onestà, servizi, efficienza». E' questo desiderio che rende sempre possibile la democrazia. Proprio così, presidente, fiducia nel voto democratico.
Ci sarà qualcuno che, come ha già fatto, ci verrà a dire che «il rischio è quello di annullare la democrazia sostanziale». 'Sta benedetta sostanza. Senza forma, quale sostanza? Fu Magdi Allam, le cui opinioni di solito condivido, a chiedere a Bush e ai leader occidentali impegnati nella promozione della democrazia nel mondo arabo e musulmano una pausa di riflessione. «Il successo dei Fratelli Musulmani in Egitto, che gestiscono la maggiore rete dell'integralismo islamico nel mondo, e di Hamas nei territori palestinesi, che primeggia tra i gruppi terroristici che vogliono la distruzione di Israele», richiede di «sospendere» l'esportazione della democrazia. Il pericolo è che l'islamismo radicale possa sfruttare il «rito» delle elezioni, strumentalizzare la democrazia formale, per arrivare al potere e far fuori la democrazia sostanziale.
Prima delle elezioni, prima della democrazia formale, scrive Allam, bisogna «radicare e diffondere i valori del primato della persona e della sacralità della vita di tutti». Il suo mi sembra un errore fondamentale. 'Sti benedetti valori... Com'è possibile che questi valori si affermino, che almeno formalmente siano riconosciuti i diritti umani e politici dei cittadini in società chiuse? Come provocare quella «rivoluzione di valori» se non a partire proprio dalla democrazia formale? Se è vero, come lo stesso Allam scrive, che «le dittature e l'opposizione teocratica sono due facce della stessa medaglia, il prodotto della stessa ideologia dell'intolleranza, della violenza e della morte», più consentiamo il protrarsi nel tempo di questo circolo vizioso della dittatura che alimenta l'integralismo e dell'integralismo che richiede la dittatura per arginarlo e più sarà difficile provocare e aiutare qualsiasi cambiamento. "Vedete? li facciamo votare, ma poi vincono gli integralisti islamici". E' un equivoco retorico che ha il solo effetto di minare la nostra determinazione a promuovere la democrazia in Medio Oriente.
La dicotomia tra democrazia formale e sostanziale è fonte di troppi equivoci. La forma è sostanza. Questo pregiudizio di nuovo di moda in certi intellettuali - in fondo dettato dalla paura - che i cosiddetti valori diano sostanza alla democrazia, mentre le regole si risolvano in vuote forme, fa perdere di vista la premessa di qualsiasi democrazia, cioè proprio il rispetto delle regole che garantiscono il suo corretto funzionamento formale. Per rincorrere i valori pensati in astratto si perdono spesso di vista le regole empiriche che li fanno vivere.
Pretendere di promuovere prima i valori, o lo sviluppo economico, è un approccio, quello sì idealista e teorico. Proprio perché nessuno crede a trapianti irrealistici e utopistici, le democrazia dev'essere una scelta innanzitutto dei palestinesi, al massimo noi possiamo rimuovere gli ostacoli. E non è un parere disincantato, è del maggior storico del Medio Oriente e dell'islam, Bernard Lewis.
Ha osservato correttamente 1972 che «Hamas e al-Fatah sono l'unica cosa che i palestinesi hanno conosciuto fino ad oggi. La sfida consiste nell'aiutarli a conoscere qualcos'altro e per farlo non c'è momento migliore di quello in cui, perfino chi ha votato Hamas, ha capito di poter contare. Hamas è un'organizzazione terrorista e va combattuta. Ma la democrazia è un processo e va incoraggiato». In una società chiusa è fisiologico, ma sono persuaso che in una società aperta e con elezioni libere, che solo il rispetto formale delle regole democratiche può garantire, si possa «conoscere qualcos'altro», forze autenticamente liberali e democratiche possano dire la loro. Votare e basta non produce automaticamente società democratiche modello, ma certo è quello il primo passo. Spetta anche a noi vigilare affinché la società palestinese sia costretta ad aprirsi sempre più e ad adattarsi alle istituzioni e alle procedure democratiche, non accettando, per esempio, regressi nel processo appena avviato e rifiutando di trattare con i terroristi. Non mi illudo che Hamas possa cambiare, ma che possa essere sconfitta dall'interno perdendo il suo consenso.
Se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che i movimenti fondamentalisti esercitano una forte attrazione sulle popolazioni islamiche quando da oppositori a regimi autoritari e corrotti intercettano il malcontento popolare indirizzandolo contro la modernizzazione. Hanno il vantaggio di non aver mai governato prima. Possono addirittura presentarsi all'opinione pubblica come benefattori, difensori del popolo, solo perché non hanno ancora preso il potere. Come Khomeini negli anni '70 era il campione delle organizzazioni per i diritti umani, della BBC, e dei filosofi francesi di sinistra. Parlava di democrazia, uguaglianza e diritti umani. Non c'è bisogno di dire com'è andata a finire. Tuttavia, i fondamentalisti perdono la sfida del governo, quasi subito il consenso, e sono costretti a conservare il potere con la forza. I paesi democratici dovrebbero vigilare e non permetterlo.
Da tempo ci si chiedeva cosa sarebbe accaduto se attraverso elezioni democratiche una forza fondamentalista avesse preso il governo. Quella palestinese sarà un'occasione utilissima per testare la determinazione e la capacità dei paesi democratici nell'aiutare la società palestinese ad aprirsi nonostante Hamas. Il test arriva con una popolazione di poche centinaia di migliaia di persone, per fortuna, non un grande stato arabo ricco di risorse geostrategiche. Ci riusciremo? Forse, ma è l'unica strada, come spiega Christian Rocca.
«La democrazia non è un sistema perfetto e questa imperfezione può anche consentire a movimenti totalitari di arrivare al potere sfruttando le libertà democratiche, come è successo nel passato. Ma in sé questo non è un argomento contro la dottrina Bush. Non dimostra il contrario, cioè che senza la democrazia non ci sarebbe stato il fascismo. E non lo può dimostrare per il semplice fatto che l'assenza di democrazia è già fascismo».
"Danni all'Unione"? "Regresso"? E' un po' troppo. Il viziaccio brutto della sinistra
Credo necessario interrompere questo che rischia di diventare un gioco delle tre carte. Mi spiego: qualsiasi delle carte che i radicali alzano è quella sbagliata. Per dieci anni hanno proposto decine di referendum per la modernizzazione sociale, economica, della giustizia del nostro paese, in senso liberale, tanto che si potrebbe dire oggi che è il professor Giavazzi ad adottare l'"agenda radicale", e non andava bene, erano i "liberisti selvaggi", i "massacratori sociali" e ne pagarono i costi. Da sempre quella radicale è una politica estera di ingerenza democratica, che quasi tutti oggi ritengono necessaria – senza però vedere Emma Bonino, l'unica a esercitarla continuando a "esportare" democrazia senza armi – eppure da sempre sono i "servi degli amerikani". Sulla giustizia, meno di un mese fa, Ds e Margherita hanno affossato l'ipotesi di amnistia. Rimane, nella Rosa nel Pugno, ben poco di tutto questo? Solo agli occhi di chi non vuole vedere che non solo non si è dismesso niente, ma che sono tutti vivi e pieni di frutti maturi i rami dell'albero radicale per la riforma del paese.
Oggi nominano Pacs e Concordato? "Mangiapreti" e laicisti regressivi, tutto pugni e niente rose. E', mi pare, l'atteggiamento di Umberto Minopoli su il Riformista, che insegue quello di Panebianco domenica, emblematico di una sinistra che non trova mai il modo di fare i conti con tutte, nessuna esclusa, le sue tre carenze culturali: libertà di mercato, atlantismo, laicità. Legalità e diritti civili, senza le virgolette, non sono single issue, ma questioni sociali meritevoli di risposte di governo. Non si «antagonizzano» i cattolici, se intendiamo i credenti e non i clericali. Si difendono dignità, coscienza e vissuto dei credenti. Parlano i referendum su divorzio e aborto, la recente indagine dell'Eurispes, la realtà storica del nostro paese: laico e credente connotati dello stesso tipo antropologico. Le proposte "zapateriste", in realtà anche blairiane e fortuniane, non sono percepite come eccessive da gran parte dell'opinione pubblica. Nulla di «intransigente», solo il modello americano: massima libertà d'espressione delle chiese, d'"ingerenza politica", ma senza privilegi concordatari e 8 per mille. Tutto su Notizie Radicali
Oggi nominano Pacs e Concordato? "Mangiapreti" e laicisti regressivi, tutto pugni e niente rose. E', mi pare, l'atteggiamento di Umberto Minopoli su il Riformista, che insegue quello di Panebianco domenica, emblematico di una sinistra che non trova mai il modo di fare i conti con tutte, nessuna esclusa, le sue tre carenze culturali: libertà di mercato, atlantismo, laicità. Legalità e diritti civili, senza le virgolette, non sono single issue, ma questioni sociali meritevoli di risposte di governo. Non si «antagonizzano» i cattolici, se intendiamo i credenti e non i clericali. Si difendono dignità, coscienza e vissuto dei credenti. Parlano i referendum su divorzio e aborto, la recente indagine dell'Eurispes, la realtà storica del nostro paese: laico e credente connotati dello stesso tipo antropologico. Le proposte "zapateriste", in realtà anche blairiane e fortuniane, non sono percepite come eccessive da gran parte dell'opinione pubblica. Nulla di «intransigente», solo il modello americano: massima libertà d'espressione delle chiese, d'"ingerenza politica", ma senza privilegi concordatari e 8 per mille. Tutto su Notizie Radicali
La droga, e la libertà, sono più forti
Il consumo di droghe, più la cannabis che la cocaina (forse), fa parte ormai delle abitudini e del vissuto comune a milioni di persone in Italia. Milioni, non c'è dubbio. Che vogliamo fare? Cosa si propone di fare lo Stato? Secondo me dovrebbe semplicemente prenderne atto e regolamentare il commercio e il consumo. Invece no, milioni di "delinquenti", che vivono, lavorano, amano, viaggiano come tutti, ma esprimono la cosiddetta "cultura della morte". Purtroppo chi ci governa deve pensarla così, se approva una legge ancor più restrittiva di quella in vigore oggi, anch'essa proibizionista.
E' una legge ideologica, cioè da stato etico, e ha perfettamente ragione Pedrizzi a dire che con essa, e con la legge 40 sulla procreazione assistita, questa maggioranza si qualifica. Il parallelo fra le due leggi è fondato. Si propone, non lo possono dire palesemente per non spaventarci, di punire il consumo. L'aspetto più delicato deve ancora concretizzarsi, con il decreto che stabilirà la quantità di sostanza con cui si passa da uso personale a spaccio. E' lì che scatta la pena dai 6 ai 20 anni. Pensate: pochi grammi faranno la differenza. Pare che sarà una quantità inferiore della metà rispetto a legislazioni altrettanto proibizioniste come quelle americana e russa, ma in fondo fa poca differenza.
Perché la legge è per lo più inapplicabile. Non sto dicendo che quei milioni di persone che per legge dovrebbero finire in carcere ci finiranno davvero. Sarà questione di qualche migliaio di soliti sfigati. Con aggravio sull'azione delle forze dell'ordine, impegnate nella caccia impossibile, e dei tribunali, con lauto guadagno delle mafie. Chi detiene un quantitativo di droga nei limiti di quello che sarà per decreto definito «uso personale» sarà, invece, sottoposto a una serie di fastidiosissime sanzioni amministrative.
Qualche dichiarazione entusiastica ci aiuterà a capire di cosa stiamo parlando. Dice Fini: «E' innegabile che chi assume delle sostanze stupefacenti crea dei danni ed è giusto che lo Stato sanzioni amministrativamente il consumo personale». Quale concezione del diritto e del reato rivelano queste parole? Una concezione liberale vuole che per esserci reato debba esserci un danneggiato, una vittima. E' inammissibile che i governi perseguano un comportamento individuale che non danneggi la vita, la libertà o la proprietà altrui. Nel consumo di droghe danni non ne vedo. Ma è chiaro a quali «danni» si riferisse, in buona fede, Fini. Sotto l'effetto di droghe potrei essere portato a provocare incidenti stradali. Per procurarmela potrei ricorrere a scippi e rapine. Ma in questo caso i reati sono l'omicidio colposo, il furto, nient'altro. La legge deve sanzionare il danno, a prescindere dai motivi e dalle abitudini personali che lo hanno causato: incoscienza, avidità, ubriachezza, distrazione. Insomma, non rischio l'arresto se in casa ho più di dieci bottiglie di liquori.
Proseguiamo. «Non esiste il diritto di drogarsi» (Fini); «Non esiste la libertà della droga» (Mantovano). Hanno ragione dal punto di vista formale. Non esiste neanche, infatti, un diritto, o una libertà, di uscire di casa, comprare il giornale, prendere l'autobus, andare a lavoro, eccetera eccetera. Semplicemente perché si chiamano libertà personali. Dunque non c'è un «diritto alla droga», ma c'è la libertà individuale, il principio della propria autodeterminazione, che prevede anche l'ingerire qualsiasi sostanza ritenga opportuna anche solo per il mio piacere.
«Per costoro [i libertari], la droga, che uccide l'uomo nel corpo e nello spirito, non è un nemico» (Pedrizzi)». Neanche qui posso dargli torto. Anche il colesterolo e l'alcol uccidono corpo e anima, ma non li ritengo «nemici». Sta alle abitudini di ciascuno avere con questi «amici» un buon rapporto. Come molte altre sostanze che l'uomo usa ingerire o introdurre nel proprio corpo la quantità e la qualità delle dosi determinano il delicato equilibrio tra effetti positivi e negativi. Ma gli effetti gradevoli delle droghe è inutile negarli.
Anche la posizione dei radicali però si è fatta via via, e forse comprensibilmente, più pragmatica. Contro la droga la politica più efficace è l'antiproibizionismo. Ma - appunto e beninteso - contro. Ma chi dice che ci dev'essere per forza una politica contro la droga? Cioè che induca la gente a non drogarsi? Non sarebbero comunque tempo, energie e risorse sprecate? Guardiamoci negli occhi: non possiamo assicurare che politiche antiproibizioniste riducano il numero dei "drogati", né è questo che ci interessa davvero. Le politiche antiproibizioniste possono ridurre morti e feriti, grazie al consumo informato, e l'indotto della criminalità, piccola e organizzata. Riconosco che troppa libertà tutta insieme spaventa e un approccio più realistico, dichiararsi cioè contro questo preteso "flagello" della droga, nella sua parte più allarmante provocato proprio dalle politiche proibizioniste, può persino giovare alla causa antiproibizionista.
Qualsiasi politica nei confronti delle droghe dovrebbe partire dalla semplice constatazione che è letteralmente impossibile per lo Stato impedire a un libero cittadino di ingerire o introdurre nel proprio corpo qualsivoglia sostanza. La libertà di disporre del proprio corpo, come della propria coscienza, è quasi incoercibile. Qualsiasi politica volta a impedire l'assunzione di sostanze richiederebbe una sproporzione di mezzi e risorse senza poter mai registrarne l'efficacia. Un compito tanto arduo suggerisce di soprassedere.
Ancora una volta dovrebbe valere il binomio libertà/responsabilità: sono libero di spararmi le canne che voglio e farmi da mattina a sera, ma se le mie azioni danneggiano gli altri allora sono guai seri. Dovrebbe funzionare così per tutte le cose. Si parte dal danno arrecato. Senza danno non c'è reato. Massima libertà, massima responsabilità. Liberalizzare commerci, professioni e tutto il resto, sapendo che però si sarà chiamati a rispondere in modo implacabile, sul piano civile o penale, dei danni arrecati agli altri svolgendo le nostre attività.
E' una legge ideologica, cioè da stato etico, e ha perfettamente ragione Pedrizzi a dire che con essa, e con la legge 40 sulla procreazione assistita, questa maggioranza si qualifica. Il parallelo fra le due leggi è fondato. Si propone, non lo possono dire palesemente per non spaventarci, di punire il consumo. L'aspetto più delicato deve ancora concretizzarsi, con il decreto che stabilirà la quantità di sostanza con cui si passa da uso personale a spaccio. E' lì che scatta la pena dai 6 ai 20 anni. Pensate: pochi grammi faranno la differenza. Pare che sarà una quantità inferiore della metà rispetto a legislazioni altrettanto proibizioniste come quelle americana e russa, ma in fondo fa poca differenza.
Perché la legge è per lo più inapplicabile. Non sto dicendo che quei milioni di persone che per legge dovrebbero finire in carcere ci finiranno davvero. Sarà questione di qualche migliaio di soliti sfigati. Con aggravio sull'azione delle forze dell'ordine, impegnate nella caccia impossibile, e dei tribunali, con lauto guadagno delle mafie. Chi detiene un quantitativo di droga nei limiti di quello che sarà per decreto definito «uso personale» sarà, invece, sottoposto a una serie di fastidiosissime sanzioni amministrative.
Qualche dichiarazione entusiastica ci aiuterà a capire di cosa stiamo parlando. Dice Fini: «E' innegabile che chi assume delle sostanze stupefacenti crea dei danni ed è giusto che lo Stato sanzioni amministrativamente il consumo personale». Quale concezione del diritto e del reato rivelano queste parole? Una concezione liberale vuole che per esserci reato debba esserci un danneggiato, una vittima. E' inammissibile che i governi perseguano un comportamento individuale che non danneggi la vita, la libertà o la proprietà altrui. Nel consumo di droghe danni non ne vedo. Ma è chiaro a quali «danni» si riferisse, in buona fede, Fini. Sotto l'effetto di droghe potrei essere portato a provocare incidenti stradali. Per procurarmela potrei ricorrere a scippi e rapine. Ma in questo caso i reati sono l'omicidio colposo, il furto, nient'altro. La legge deve sanzionare il danno, a prescindere dai motivi e dalle abitudini personali che lo hanno causato: incoscienza, avidità, ubriachezza, distrazione. Insomma, non rischio l'arresto se in casa ho più di dieci bottiglie di liquori.
Proseguiamo. «Non esiste il diritto di drogarsi» (Fini); «Non esiste la libertà della droga» (Mantovano). Hanno ragione dal punto di vista formale. Non esiste neanche, infatti, un diritto, o una libertà, di uscire di casa, comprare il giornale, prendere l'autobus, andare a lavoro, eccetera eccetera. Semplicemente perché si chiamano libertà personali. Dunque non c'è un «diritto alla droga», ma c'è la libertà individuale, il principio della propria autodeterminazione, che prevede anche l'ingerire qualsiasi sostanza ritenga opportuna anche solo per il mio piacere.
«Per costoro [i libertari], la droga, che uccide l'uomo nel corpo e nello spirito, non è un nemico» (Pedrizzi)». Neanche qui posso dargli torto. Anche il colesterolo e l'alcol uccidono corpo e anima, ma non li ritengo «nemici». Sta alle abitudini di ciascuno avere con questi «amici» un buon rapporto. Come molte altre sostanze che l'uomo usa ingerire o introdurre nel proprio corpo la quantità e la qualità delle dosi determinano il delicato equilibrio tra effetti positivi e negativi. Ma gli effetti gradevoli delle droghe è inutile negarli.
Anche la posizione dei radicali però si è fatta via via, e forse comprensibilmente, più pragmatica. Contro la droga la politica più efficace è l'antiproibizionismo. Ma - appunto e beninteso - contro. Ma chi dice che ci dev'essere per forza una politica contro la droga? Cioè che induca la gente a non drogarsi? Non sarebbero comunque tempo, energie e risorse sprecate? Guardiamoci negli occhi: non possiamo assicurare che politiche antiproibizioniste riducano il numero dei "drogati", né è questo che ci interessa davvero. Le politiche antiproibizioniste possono ridurre morti e feriti, grazie al consumo informato, e l'indotto della criminalità, piccola e organizzata. Riconosco che troppa libertà tutta insieme spaventa e un approccio più realistico, dichiararsi cioè contro questo preteso "flagello" della droga, nella sua parte più allarmante provocato proprio dalle politiche proibizioniste, può persino giovare alla causa antiproibizionista.
Qualsiasi politica nei confronti delle droghe dovrebbe partire dalla semplice constatazione che è letteralmente impossibile per lo Stato impedire a un libero cittadino di ingerire o introdurre nel proprio corpo qualsivoglia sostanza. La libertà di disporre del proprio corpo, come della propria coscienza, è quasi incoercibile. Qualsiasi politica volta a impedire l'assunzione di sostanze richiederebbe una sproporzione di mezzi e risorse senza poter mai registrarne l'efficacia. Un compito tanto arduo suggerisce di soprassedere.
Ancora una volta dovrebbe valere il binomio libertà/responsabilità: sono libero di spararmi le canne che voglio e farmi da mattina a sera, ma se le mie azioni danneggiano gli altri allora sono guai seri. Dovrebbe funzionare così per tutte le cose. Si parte dal danno arrecato. Senza danno non c'è reato. Massima libertà, massima responsabilità. Liberalizzare commerci, professioni e tutto il resto, sapendo che però si sarà chiamati a rispondere in modo implacabile, sul piano civile o penale, dei danni arrecati agli altri svolgendo le nostre attività.
Wednesday, January 25, 2006
Fiato sospeso: Fatah o Hamas?
In attesa di dati più precisi sull'esito delle elezioni palestinesi. Grande affluenza, oltre il 77%. Organizzazione buona, voto regolare, dicono gli osservatori. Ottime premesse.
Tra Casini e Rutelli, il secondo neanche una canna
Le interviste doppie del programma Le Iene, su Italia1, sono sempre più che godibili. Ricordo un memorabile confronto Emma Bonino - Don Benzi (4 ottobre 2004), nel quale la radicale, con simpatia, polverizzava il prete che azzardava a definire «ingiusto e oppressivo» il modello occidentale.
Ieri sera Casini vs. Rutelli, diremmo due facce della stessa medaglia, con l'unica differenza che uno, il primo, non ha fatto mistero di non essere più disposto a coprire le marachelle di Berlusconi, mentre l'altro è stato più abile a dissimulare il suo fiato sul collo di Prodi.
Ma non è questo, per cui vi ho disturbato. E' che, rivelazione, Casini ha confessato di essersi fumato una canna, a sedici anni, in un parco, in compagnia degli amici, mentre Rutelli ha candidamente ammesso di non averne mai fumate, arrossendo. Si sarà reso conto di averla sparata grossa? Se ci sono testimoni a via di Torre Argentina, questo è il momento di venire fuori.
Ieri sera Casini vs. Rutelli, diremmo due facce della stessa medaglia, con l'unica differenza che uno, il primo, non ha fatto mistero di non essere più disposto a coprire le marachelle di Berlusconi, mentre l'altro è stato più abile a dissimulare il suo fiato sul collo di Prodi.
Ma non è questo, per cui vi ho disturbato. E' che, rivelazione, Casini ha confessato di essersi fumato una canna, a sedici anni, in un parco, in compagnia degli amici, mentre Rutelli ha candidamente ammesso di non averne mai fumate, arrossendo. Si sarà reso conto di averla sparata grossa? Se ci sono testimoni a via di Torre Argentina, questo è il momento di venire fuori.
Tuesday, January 24, 2006
"Zapateristi". L'accusa ingiusta ma non strana
Sul Corriere oggi è continuato il dibattito sull'editoriale di Panebianco, di domenica scorsa, secondo cui il neo-anticlericalismo e la linea "zapaterista" che hanno scelto impedisce ai radicali «di svolgere quel ruolo di protagonisti che il loro passato legittimerebbe». A intervenire è un altro notista politico del giornale, Paolo Franchi, al quale suona «strana» l'accusa di "zapaterismo".
Innanzitutto si chiede «come mai le altre forze politiche (in primo luogo, si capisce, quelle dell'Unione) seguano con tanto disinteresse» la «brutta storia» delle discriminazioni introdotte dal decreto elettorale contro la Rosa nel Pugno, tali addirittura da vanificare il principio di uguaglianza nell'esercizio del diritto di elettorato passivo.
Dall'inizio ho sostenuto che questo triangolo, Fortuna-Blair-Zapatero, non si chiudesse. Franchi ha ragione a ricordare che i radicali e la Rosa nel Pugno non vanno identificati con il modello negativo di Zapatero. Ma se ciò accade il problema è a monte. E' stato un errore di comunicazione prenderlo a modello del nuovo soggetto dei radical-socialisti. Il riferimento a Blair era più che sufficiente a rappresentare le politiche che sostengono, mentre quello a Fortuna per far capire ai socialisti quale fosse il socialismo da riprendere dalla lunghissima storia del socialismo italiano: quello liberale.
Da troppo poco tempo al governo, le notizie che giungono su Zapatero sono contradditorie. Alcune autorevoli fonti parlano di un atteggiamento di governo più anti-cattolico che anti-clericale, di un approccio eticista nella legislazione e di cedevolezza nei confronti del terrorismo basco. Certo, bisognerà ammettere che il giudizio su Zapatero è ancora aperto. Nel recente dibattito europeo per il bilancio dell'Unione è stato al fianco di Blair, forse più dell'Italia, ed è notizia di qualche giorno fa che in poco più d'un anno al governo ha tagliato le tasse in una misura che Berlusconi in cinque anni non è riuscito. Rimane, dal punto di vista della comunicazione, un investimento rischioso per la Rosa nel Pugno.
Innanzitutto si chiede «come mai le altre forze politiche (in primo luogo, si capisce, quelle dell'Unione) seguano con tanto disinteresse» la «brutta storia» delle discriminazioni introdotte dal decreto elettorale contro la Rosa nel Pugno, tali addirittura da vanificare il principio di uguaglianza nell'esercizio del diritto di elettorato passivo.
«Pochi giorni fa, discutendo in pubblico con Paolo Mieli a Firenze, Piero Fassino aveva manifestato addirittura la speranza che prima o poi (più prima che poi) i radicalsocialisti confluiscano, e senza appannare la loro identità, nel costituendo Partito democratico. Nel frattempo, caro Fassino, e cari leader dell'Unione, non sarebbe il caso di difendere con più energia il diritto ad essere pienamente in campo di questa componente (atipica, certo, ma essenziale) del centrosinistra?».Nonostante gli appunti che si vogliano muovere alla strategia adottata da Pannella, per Franchi di una forza laica, radicale, liberale e socialista hanno «bisogno sia un centrosinistra in cui a far difetto non è certo la rispettosa attenzione nei confronti della Chiesa e delle gerarchie ecclesiastiche sia, più in generale, la democrazia italiana».
«Magari (ma non lo credo) quelli della Rosa nel pugno sopravvalutano i rischi di ingerenza della gerarchia nella vita pubblica del Paese e in quella privata delle italiane e degli italiani: e però parlare di neoanticlericalismo, come ha fatto domenica sul Corriere Angelo Panebianco, che di neoclericali in circolazione a quanto pare non ne vede, mi sembra un po' troppo».A non convincere Franchi è anche l'accusa di "zapaterismo" indirizzata alla Rosa nel Pugno. Zapatero è visto come un modello negativo per il ritiro delle truppe spagnole dall'Iraq deciso appena eletto? In ogni caso, Pannella e la Bonino, ma anche lo Sdi, la pensano diversamente. Per i matrimoni gay? Si celebrano anche nella Gran Bretagna di Blair e comunque la Rosa nel Pugno è semplicemente per i Pacs.
Dall'inizio ho sostenuto che questo triangolo, Fortuna-Blair-Zapatero, non si chiudesse. Franchi ha ragione a ricordare che i radicali e la Rosa nel Pugno non vanno identificati con il modello negativo di Zapatero. Ma se ciò accade il problema è a monte. E' stato un errore di comunicazione prenderlo a modello del nuovo soggetto dei radical-socialisti. Il riferimento a Blair era più che sufficiente a rappresentare le politiche che sostengono, mentre quello a Fortuna per far capire ai socialisti quale fosse il socialismo da riprendere dalla lunghissima storia del socialismo italiano: quello liberale.
Da troppo poco tempo al governo, le notizie che giungono su Zapatero sono contradditorie. Alcune autorevoli fonti parlano di un atteggiamento di governo più anti-cattolico che anti-clericale, di un approccio eticista nella legislazione e di cedevolezza nei confronti del terrorismo basco. Certo, bisognerà ammettere che il giudizio su Zapatero è ancora aperto. Nel recente dibattito europeo per il bilancio dell'Unione è stato al fianco di Blair, forse più dell'Italia, ed è notizia di qualche giorno fa che in poco più d'un anno al governo ha tagliato le tasse in una misura che Berlusconi in cinque anni non è riuscito. Rimane, dal punto di vista della comunicazione, un investimento rischioso per la Rosa nel Pugno.
Come cambia l'art. 52 del Codice penale
1. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.
2. Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma [1. Chiunque si introduce nell'abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s'introduce clandestinamente o con inganno, è punito con la reclusione fino a tre anni. 2. Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro l'espressa volontà di chi ha diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno.], sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o altrui incolumità;
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Qui le mie competenze si fermano, ma in dottrina giuridica l'argomento della legittima difesa è molto dibattuto. In pratica questa modifica fa sì che in alcuni casi (per difendere la propria incolumità fisica in casa propria o in negozio, o i propri beni, ma in questo caso bisogna che il ladro non desista e minacci l'aggressione) il codice stabilisce che la difesa è sempre proporzionata all'offesa e non sarà più il giudice, di volta in volta, a stabilire se lo è stata.
UPDATE: Ascoltate questo vecchio spot di Radio Radicale, una chicca.
2. Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma [1. Chiunque si introduce nell'abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s'introduce clandestinamente o con inganno, è punito con la reclusione fino a tre anni. 2. Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro l'espressa volontà di chi ha diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno.], sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o altrui incolumità;
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Qui le mie competenze si fermano, ma in dottrina giuridica l'argomento della legittima difesa è molto dibattuto. In pratica questa modifica fa sì che in alcuni casi (per difendere la propria incolumità fisica in casa propria o in negozio, o i propri beni, ma in questo caso bisogna che il ladro non desista e minacci l'aggressione) il codice stabilisce che la difesa è sempre proporzionata all'offesa e non sarà più il giudice, di volta in volta, a stabilire se lo è stata.
UPDATE: Ascoltate questo vecchio spot di Radio Radicale, una chicca.
L'arma del gas
Lucida analisi di Joseph S. Nye, sul Corriere di oggi, sul gas come arma strategica della Russia di Putin, la posizione dell'Ucraina e dell'Europa.
Di dipendenza energetica e settori decotti e protetti parla oggi Oscar Giannino su Il Messaggero: "Rimandare è meglio che sbagliare" è la regola jeffersoniana. Si badi però, in casi rari ed estremi, ma se la si adotta come sistema, «il peggio è assicurato e l'Italia ne costituisce a proprie spese la controprova».
«In definitiva, il prossimo decennio sarà contrassegnato da un delicato equilibrio in cui l'Europa dipenderà dal gas russo, ma il bisogno della Russia di esportare il suo gas renderà anch'essa dipendente dall'Europa. La lezione che sì ricava dalla crisi ucraina è che mentre la Russia è una superpotenza del gas meno forte di quel che appare, l'Europa farebbe bene a cominciare a costruire rapporti energetici più diversificati».Avevamo parlato qui della nuova arma testata da Putin contro l'Ucraina, con esiti non proprio soddisfacenti.
Di dipendenza energetica e settori decotti e protetti parla oggi Oscar Giannino su Il Messaggero: "Rimandare è meglio che sbagliare" è la regola jeffersoniana. Si badi però, in casi rari ed estremi, ma se la si adotta come sistema, «il peggio è assicurato e l'Italia ne costituisce a proprie spese la controprova».
«Tanto la vicenda della dipendenza energetica dal gas, quanto l'ennesimo aggravarsi della malattia di Alitalia, sono due capitoli dell'eterna malattia italiana di rinviare decisioni necessarie, fino al punto di far pagare all'intera collettività un costo raddoppiato: prima dell'inazione, e poi delle sue conseguenze... Come contribuenti, solo negli ultimi 4 anni Alitalia ci è costata oltre 3 miliardi di euro di esborsi a carico dello Stato: 1,2 miliardi di euro per le ricapitalizzazioni finanziate dal ministero dell'Economia; i 750 milioni stanziati nella finanziaria 2005 promessi a Cimoli al suo insediamento; i 400 milioni pubblici per la cassa integrazione dei 3.690 dipendenti in esubero nel triennio, puntualmente sottostimati; i 780 milioni dovuti da Fintecna...»
Monday, January 23, 2006
La battaglia più importante di tutte
La battaglia «più importante» per difendere i diritti di tutti. Marco Pannella si avvicina alle prime 24 ore di sciopero della sete. Lotta contro la legge di riforma del sistema elettorale per le elezioni legislative (S 3633), approvata definitivamente il 14 dicembre 2005 dal Senato, che detta una nuova disciplina per la presentazione delle liste di candidati, introducendo in modo del tutto irragionevole discriminazioni tra forze politiche tali da vanificare il principio di uguaglianza nell'esercizio del diritto di elettorato passivo. Qui per saperne di più.
Nella conferenza stampa di oggi ha lanciato un monito grave. «Siamo giunti ormai a un punto nel quale non solo si opera da parte delle istituzioni contro la legalità, fuori dalla legalità, ma anche fuori di qualsiasi morale. La questione morale in italia c'è e da decenni è venuta aggravandosi con moralismi ed eticismi di ogni tipo che abbiamo sempre respinto, perché la politica ha la sua moralità». Una illegalità, ha aggiunto, «tanto evidente che in un regime come questo diventa clandestina». Come Bancopli e Tangentopoli, cose «ultranote», che per questo sono restate «clandestine».
«Stiamo ponendo e proponendo un problema morale: si sta andando velocemente in una di quelle situazioni nelle quali poi nella storia i popoli si chiedono "come mai non ce ne accorgemmo"»
E Malvino cita Benedetto Croce (1926): «Fummo poco cauti e non bene ascoltammo le voci ammonitrici di uomini nei quali era viva la coscienza dei pericoli intrinseci alla società italiana [...] Ma le generazioni, come gli individui, imparano di solito a loro spese».
Ai giornalisti presenti Pannella ha tenuto a precisare l'uso che i radicali hanno fatto e fanno della nonviolenza: «Abbiamo sempre proposto quando abbiamo usato la nonviolenza, le proteste le abbiamo fatte con il bagaglio della politica tradizionale. Mai un'iniziativa nonviolenta che non avesse obiettivi precisi puntuali, calendarizzati. Perché è dell'etica gandhiana di rivolgersi al potere e ai suoi rappresentanti scegliendo di far loro fiducia per attuare la loro legalità che non riescono ad attuare. Ecco perché il digiuno, anche quando drammatico, è di dialogo». Dunque i radicali non protestano, ma propongono, non lamentano, ma documentano. Qui la proposta
Domani mattina, davanti al Senato sit-in dalle 10 alle 12,30.
Nella conferenza stampa di oggi ha lanciato un monito grave. «Siamo giunti ormai a un punto nel quale non solo si opera da parte delle istituzioni contro la legalità, fuori dalla legalità, ma anche fuori di qualsiasi morale. La questione morale in italia c'è e da decenni è venuta aggravandosi con moralismi ed eticismi di ogni tipo che abbiamo sempre respinto, perché la politica ha la sua moralità». Una illegalità, ha aggiunto, «tanto evidente che in un regime come questo diventa clandestina». Come Bancopli e Tangentopoli, cose «ultranote», che per questo sono restate «clandestine».
«Stiamo ponendo e proponendo un problema morale: si sta andando velocemente in una di quelle situazioni nelle quali poi nella storia i popoli si chiedono "come mai non ce ne accorgemmo"»
E Malvino cita Benedetto Croce (1926): «Fummo poco cauti e non bene ascoltammo le voci ammonitrici di uomini nei quali era viva la coscienza dei pericoli intrinseci alla società italiana [...] Ma le generazioni, come gli individui, imparano di solito a loro spese».
Ai giornalisti presenti Pannella ha tenuto a precisare l'uso che i radicali hanno fatto e fanno della nonviolenza: «Abbiamo sempre proposto quando abbiamo usato la nonviolenza, le proteste le abbiamo fatte con il bagaglio della politica tradizionale. Mai un'iniziativa nonviolenta che non avesse obiettivi precisi puntuali, calendarizzati. Perché è dell'etica gandhiana di rivolgersi al potere e ai suoi rappresentanti scegliendo di far loro fiducia per attuare la loro legalità che non riescono ad attuare. Ecco perché il digiuno, anche quando drammatico, è di dialogo». Dunque i radicali non protestano, ma propongono, non lamentano, ma documentano. Qui la proposta
Domani mattina, davanti al Senato sit-in dalle 10 alle 12,30.
Fini supera, appena sufficiente, l'esame Iran
Bravo per 3/4 Gianfranco Fini dopo l'incontro con il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice. Nella conferenza stampa congiunta ha affermato: «Siamo convinti che la lotta per la libertà e la democrazia debba impegnare tutti i popoli e tutti i governi... gli scenari del Medio Oriente, dell'Iraq e dei Balcani sono quelli in cui il ruolo attivo dell'Italia e dell'Ue può risultare più prezioso».
Bene
Il formato della Troika Europea (Francia-Germania-Gran Bretagna) che per oltre due anni ha negoziato a nome dell'Unione Europea sul nucleare iraniano è «nettamente superato». Per questo Fini ha chiesto che sia pensato «un formato di trattativa diverso», con una formula nuova che «coinvolga pienamente» anche l'Italia, primo partner commerciale europeo dell'Iran. Questa «nostra posizione privilegiata non ci ha impedito di dire chiaramente che Teheran deve cooperare»
Bravo
Il deferimento dell'Iran al Consiglio di sicurezza dell'Onu è «ormai indispensabile... Il Consiglio di sicurezza valuterà poi con flessibilità e lungimiranza politica».
Ottimo
«Ribadiamo agli amici di Israele che l'unica via è quella diplomatica».
Insufficiente
Ecco, continuo a ritenere che la minaccia dell'uso della forza sia indispensabile per dare qualche chance a quella «via diplomatica».
Ma c'è qualcosa che il regime degli ayatollah teme ancor più dell'uso della forza. Il timore che il mondo libero eserciti tutta la sua forza d'attrazione di libertà e democrazia sollevando il popolo iraniano contro i mullah oppressori. Le potenze democratiche dovrebbero cominciare a rivolgersi direttamente al popolo iraniano, a sostenere l'opposizione al regime, perché come spiegava giorni fa Emanuele Ottolenghi su il Riformista, la questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica, il rovesciamento della mullahcrazia: «Ci sono due conti alla rovescia in corso a Teheran: uno, molto veloce, è quello della bomba; l'altro, molto lento, è quello della rivoluzione democratica. Il dilemma è semplice: quali politiche adottare per rallentare il primo e accelerare il secondo, di modo che l'Iran arrivi al rovesciamento del suo regime, prima che il regime arrivi a produrre la bomba?»
Bene
Il formato della Troika Europea (Francia-Germania-Gran Bretagna) che per oltre due anni ha negoziato a nome dell'Unione Europea sul nucleare iraniano è «nettamente superato». Per questo Fini ha chiesto che sia pensato «un formato di trattativa diverso», con una formula nuova che «coinvolga pienamente» anche l'Italia, primo partner commerciale europeo dell'Iran. Questa «nostra posizione privilegiata non ci ha impedito di dire chiaramente che Teheran deve cooperare»
Bravo
Il deferimento dell'Iran al Consiglio di sicurezza dell'Onu è «ormai indispensabile... Il Consiglio di sicurezza valuterà poi con flessibilità e lungimiranza politica».
Ottimo
«Ribadiamo agli amici di Israele che l'unica via è quella diplomatica».
Insufficiente
Ecco, continuo a ritenere che la minaccia dell'uso della forza sia indispensabile per dare qualche chance a quella «via diplomatica».
Ma c'è qualcosa che il regime degli ayatollah teme ancor più dell'uso della forza. Il timore che il mondo libero eserciti tutta la sua forza d'attrazione di libertà e democrazia sollevando il popolo iraniano contro i mullah oppressori. Le potenze democratiche dovrebbero cominciare a rivolgersi direttamente al popolo iraniano, a sostenere l'opposizione al regime, perché come spiegava giorni fa Emanuele Ottolenghi su il Riformista, la questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica, il rovesciamento della mullahcrazia: «Ci sono due conti alla rovescia in corso a Teheran: uno, molto veloce, è quello della bomba; l'altro, molto lento, è quello della rivoluzione democratica. Il dilemma è semplice: quali politiche adottare per rallentare il primo e accelerare il secondo, di modo che l'Iran arrivi al rovesciamento del suo regime, prima che il regime arrivi a produrre la bomba?»
Ciampi vuole esercitare un potere di veto
Lo scontro istituzionale con il Quirinale di stasera era stato già prefigurato dal retroscena di Claudio Tito stamane sul Corriere. Al centro la Legge Pecorella sull'inappellabilità delle sentenze di assoluzione rinviata alle Camere. Il presidente Ciampi non vuole avere l'imbarazzo di ritrovarsi la medesima, o quasi, legge riapprovata dal Parlamento da promulgare.
Visto l'accavallarsi delle amministrative e dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica, si era convenuto con Ciampi di anticipare lo scioglimento naturale della legislatura al 29 gennaio. Ciampi però ha, legittimamente, rinviato alle Camere una legge che la maggioranza del Parlamento e il Governo espresso dai cittadini ritengono un'importante riforma con cui presentarsi davanti ai cittadini per chiedere la riconferma. E' un fatto nuovo e ora chiedono semplicemente il rinvio di due settimane della chiusura dei lavori, fino all'11 febbraio (la scadenza naturale della legislatura è il 15 febbraio).
Ci saranno tatticismi elettoralistici da parte di tutte le parti in gioco, ma è una grave scorrettezza istituzionale di Ciampi impedire al Parlamento di riesaminare e rivotare una legge appena rinviata, esercitando di fatto un potere di veto.
Visto l'accavallarsi delle amministrative e dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica, si era convenuto con Ciampi di anticipare lo scioglimento naturale della legislatura al 29 gennaio. Ciampi però ha, legittimamente, rinviato alle Camere una legge che la maggioranza del Parlamento e il Governo espresso dai cittadini ritengono un'importante riforma con cui presentarsi davanti ai cittadini per chiedere la riconferma. E' un fatto nuovo e ora chiedono semplicemente il rinvio di due settimane della chiusura dei lavori, fino all'11 febbraio (la scadenza naturale della legislatura è il 15 febbraio).
Ci saranno tatticismi elettoralistici da parte di tutte le parti in gioco, ma è una grave scorrettezza istituzionale di Ciampi impedire al Parlamento di riesaminare e rivotare una legge appena rinviata, esercitando di fatto un potere di veto.
Kosovo. Un fallimento covato nel buio
Completa e inappuntabile analisi di Enzo Bettiza sulla situazione in Kosovo, a ben sette anni dalla conclusione della guerra.
L'insegnamento da trarre è: elezioni subito, costituzione subito, autodeterminazione subito, libertà e responsabilità subito. Dare avvio subito al processo democratico per costituire quanto prima un vissuto di vita democratica. Senza amministrazioni provvisorie o protettorati.
«Quanto sia ancora ambiguo lo status del Kosovo lo stanno a dimostrare i dispacci d'agenzia, gli annunci delle televisioni e gli articoli di stampa che hanno accompagnato con connotazioni sfuggenti la notizia della morte di Ibrahim Rugova. Si annunciava la scomparsa del "presidente del Kosovo" e subito dopo, nel medesimo contesto, si definiva Pristina "capitale della provincia serba amministrata dall'Onu". Quale deduzione dobbiamo trarre da queste apparentemente inestricabili contraddizioni in termini? In altre parole: lo scomparso Rugova era il presidente di uno Stato vero e proprio, oppure era soltanto il cittadino autorevole di una periferica provincia di Belgrado affidata in gestione temporanea ai plenipotenziari delle Nazioni Unite?» Continua a leggereMai iniziare una guerra senza sapere come concluderla. Senza sapere quale assetto e quale governo debbano succedere all'indomani dell'eventuale vittoria. Una lezione spesso, in questi anni, impartita agli Stati Uniti per l'Iraq, con l'accusa all'amministrazione Bush di non avere piani strategici per il paese e di brancolare nel caos. Da sette anni invece un fallimento strategico annunciato covava nel buio e nella disattenzione dei media e della politica internazionale. Quella critica andava rivolta alle quattro potenze (Inghilterra, Francia, America, Russia) che si sono prese la responsabilità dello status del Kosovo. Il contrasto è evidente. In poco meno di tre anni in Iraq c'è una democrazia che faticosamente cerca di affermarsi, ma che ha già vissuto con successo alcuni appuntamenti costitutivi fondamentali e vive ogni giorno la pratica del compromesso politico fra le etnie che compongono il paese. Dall'altra c'è una regione nella quale alla dittatura di Belgrado si è sostituita la prima dittatura dell'Onu, non in grado neanche di amministrare una regione di poche centinaia di migliaia di persone dove non accennano a diminuire la violenze etniche.
L'insegnamento da trarre è: elezioni subito, costituzione subito, autodeterminazione subito, libertà e responsabilità subito. Dare avvio subito al processo democratico per costituire quanto prima un vissuto di vita democratica. Senza amministrazioni provvisorie o protettorati.
Per un approccio liberale al problema dell'identità
Chiaro, esaustivo, piccolo saggio di Amartya Sen per affrontare il problema dell'identità e del multiculturalismo senza cadere nel perismo:
Nel novembre scorso Marco Pannella a Radio Radicale metteva in guardia: «Se multiculturalismo significa creare situazioni concordatarie con organismi detti rappresentativi di ambienti religiosi o altro, sono contrario. Il pluralismo è un valore che non ritengo tale, sono sulle posizioni di Martin Luther King: gli individui vanno tutelati nei loro diritti e quanto più sono negati, tanto più è un problema generale di tutti gli individui».
«La politica del confronto globale viene spesso vista nel mondo come un corollario di divisioni culturali e religiose, e il mondo viene sempre più considerato (se non altro implicitamente) come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui le persone percepiscono se stesse. A sostegno di questa linea di pensiero esiste la strana presunzione per cui i popoli del mondo possono essere classificati in modo univoco in base a un sistema di suddivisione singolare e onnicomprensivo. La suddivisione della popolazione del mondo in base alla civiltà o alla religione porta a un approccio «solitarista» dell'identità umana, che vede gli esseri umani come membri di un gruppo particolare (in questo caso definito dalla civiltà o dalla religione, diversamente da prima, quando le differenze venivano fatte risalire alla nazionalità o alla classe sociale). L'approccio solitarista non solo nega alle persone il diritto di scegliere la propria identità, ma può essere anche un ottimo modo per fraintendere praticamente chiunque...» Continua a leggereQualche giorno fa Francis Fukuyama si interrogava sul multiculturalismo europeo:
«La tolleranza liberale è stata interpretata come rispetto non per i diritti dei singoli ma dei gruppi, alcuni dei quali proprio loro intolleranti (con l'imposizione, ad esempio, di chi le proprie figlie dovessero frequentare o sposare). Per un senso sbagliato di rispetto nei confronti delle altre culture, si è dunque lasciato che le minoranze musulmane autodisciplinassero i propri comportamenti, un atteggiamento che si coniugava con un approccio corporativo tradizionalmente europeo nei confronti dell'organizzazione sociale».Anziché integrare individui abbiamo cercato di integrare comunità, invece di assicurare l'esercizio di libertà e diritti a quei singoli individui, all'interno delle nostre città abbiamo concesso delle autonomie etnico-confessionali, se non veri e propri rapporti privilegiati con lo Stato, a etnie e gruppi religiosi in quanto comunità. Occorre recuperare la dimensione dell'individuo come soggetto di diritti, dando minore spazio a politiche pubbliche incentrate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo. Altrimenti il rischio è quello di trovarci di fronte a società tribalizzate, frammentate, prive di centro politico, dove molti gruppi culturali affermano la propria identità attraverso il vittimismo, il risentimento, l'ideologia politica.
Nel novembre scorso Marco Pannella a Radio Radicale metteva in guardia: «Se multiculturalismo significa creare situazioni concordatarie con organismi detti rappresentativi di ambienti religiosi o altro, sono contrario. Il pluralismo è un valore che non ritengo tale, sono sulle posizioni di Martin Luther King: gli individui vanno tutelati nei loro diritti e quanto più sono negati, tanto più è un problema generale di tutti gli individui».
L'Italia in mano a dei paranoici
E la tesi, estremizzata un po' ma convincente, esposta da Luca Ricolfi su La Stampa.
«La cosa che trovo più curiosa in Prodi e Berlusconi è la simmetria delle rispettive analisi. Entrambi paiono convinti che il principale ostacolo alla crescita dell'Italia sia costituito dall'avversario, e non dalle proprie difficoltà a governare la propria coalizione e a guidare la trasformazione del Paese in un ambiente internazionale sempre più "turbolento". Berlusconi pensava che, rimosso Prodi, l'Italia avrebbe ipso facto imboccato un nuovo glorioso cammino di modernizzazione. Analogamente Prodi pensa che, rimosso Berlusconi, l'Italia possa liberare le sue migliori energie, e riprendere un cammino di crescita economica e civile malauguratamente interrotto nel 2001.
Questa doppia analisi è puerile. Berlusconi non è credibile proprio perché pretende di non aver sbagliato nulla nei suoi cinque anni di governo. Prodi non è credibile precisamente perché l'unica vera autocritica che sentiamo ripetere sugli anni dell'Ulivo è quella di non aver varato una legge severa sul conflitto di interesse, come se il declino italiano dipendesse dal non aver rimosso l'anomalia Berlusconi (ancora una volta la rimozione dell'avversario come unica via di salvezza del Paese)». Leggi tutto
Miscela Morales: razzismo, militarismo, nazionalismo
Mario Vargas Llosa ha le idee chiare sul nuovo presidente della Bolivia Evo Morales e noi le sottoscriviamo:
«Prevedo che il fragile campanero, le sue chompas colorate si tradurranno presto nel segno di distinzione dei progressisti occidentali. Basta sentirlo parlare un buon castigliano, basta la sua astuta modestia, bastano le sue studiate ambiguità ("Il capitalismo europeo è buono, quello americano no") per sapere che è un emblematico creolo latino-americano, vivace come un'anguilla, astuto come una volpe, con una vasta esperienza nella manipolazione delle persone acquisita come dirigente cocalero e membro dell'aristocrazia sindacale. E' gente come Chavez, Morales, o la famiglia Humala in Perù, a riportare in auge il concetto di razza coperto di nuova rispettabilità. Un concetto che - benedetto da settori irresponsabili della sinistra - si converte in valore capace di far decidere se una persona è buona o cattiva». Un razzismo anti-bianchi, sostiene Vargas Llosa, che insieme al militarismo e al nazionalismo questi leader propongono «come la panacea contro i mali del Sudamarica».
Ostaggi di Alitalia. «Paghiamo tre volte»
«A quale prezzo? Quanto dovranno ancora pagare gli italiani, come contribuenti, viaggiatori e inconsapevoli ostaggi nelle trattative fra politica, manager e sindacati, per tenere in vita artificialmente Alitalia?».
E' la stringente domanda che Tito Boeri, non proprio un liberista selvaggio, rivolge su La Stampa ai leader politici che si ostinano a tenere in vita settori decotti pur di difendere posti di lavoro, e non lavoratori, e di non scontrarsi con le corporazioni degli industriali e dei sindacati.
E' la stringente domanda che Tito Boeri, non proprio un liberista selvaggio, rivolge su La Stampa ai leader politici che si ostinano a tenere in vita settori decotti pur di difendere posti di lavoro, e non lavoratori, e di non scontrarsi con le corporazioni degli industriali e dei sindacati.
«I cittadini pagano tre volte l'incapacità della politica di staccare la spina ad Alitalia. La pagano dapprima come contribuenti di uno Stato che continua ad intervenire per ripianare debiti di una compagnia che è arrivata a perdere fino a 50 mila euro all'ora e che ha quasi 2 miliardi di euro di debiti. La privatizzazione del novembre scorso è stata una farsa: un'operazione studiata a tavolino solo per salvare le apparenze, cercando di scongiurare l'intervento di Bruxelles per violazione delle misure contro gli aiuti di Stato. E' costata tantissimo: lo Stato ha dovuto praticamente azzerare il valore della sua partecipazione per renderla appetibile al mercato.Ma «la bolletta Alitalia è solo destinata a diventare più salata col passare del tempo». A fronte dei costi a carico del contribuente e del consumatore, si chiede infine Boeri, «quali sono i vantaggi di avere una compagnia di bandiera? Orgoglio nazionale? Immagine? Se sì, quale? Mentre molte compagnie europee sono tornate in utile dopo lo choc dell'11 settembre, Alitalia è diventata l'emblema di un sistema insanabile, ed è una palla al piede del nostro sistema produttivo».
I cittadini pagano poi come viaggiatori costretti a non poter utilizzare tariffe più basse, dato che la difesa di Alitalia ostacola non poco le liberalizzazioni del settore. Alitalia per il proprio rilancio punta, non a caso, proprio sui servizi intercontinentali, quelli in cui oggi è minore la concorrenza. E difende a spada tratta l'attuale allocazione degli «slot» aeroportuali, che le offrono la possibilità di monopolizzare i collegamenti fra centri importanti negli orari più ambiti e che le consentono di fatto il duopolio nella tratta Milano-Roma. Infine i cittadini pagano in quanto ostaggi delle agitazioni dei dipendenti della compagnia di bandiera che, sapendo che prima o poi lo Stato interverrà, utilizzano l'arma dello sciopero come una clava.»
Sunday, January 22, 2006
Che cosa è cambiato dal '93 a oggi
Eppure Angelo Panebianco, nel lontano 28 settembre 1993, comprese così bene l'importanza di sostenere le Liste Pannella - che alle elezioni amministrative di quell'anno si presentavano con l'obiettivo della riforma anglosassone e di costituire un «nucleo promotore e anticipatore» del Partito Democratico, impegnandosi a investire a questo scopo, nelle elezioni politiche, il risultato elettorale delle amministrative - da apparire come secondo firmatario (il primo era Pera, ma è un caso da affrontare a parte) di un manifesto-appello.
La critica che nell'appello si faceva agli ex PCI appare molto simile a quella che oggi Panebianco fa ai Ds e alla forma che sembrerebbe prendere un partito democratico composto da ex comunisti ed ex democristiani. «Inadeguati - si legge nell'appello - i tentativi in atto o di rigenerare vecchi partiti o di costituire aggregazioni che, all'insegna del nuovismo, ripetono esperienze già fatte. In particolare, chi subordinasse la propria strategia e le proprie scelte a quelle attuali del PDS, non potrebbe assicurare al Paese quella radicale riforma e quella rivoluzione liberale che vogliamo».
Allora Panebianco decise quindi di sostenere le Liste Pannella: «Le liste Pannella dovranno costituire anche il nucleo promotore e anticipatore di questo partito. Con questo senso - di aggregazione "per il Partito Democratico" - esse si presentano alle prossime elezioni amministrative e a questo fine - di costituente del Partito Democratico - il Movimento indirizzerà il risultato conseguito. L'impegno oggi alle elezioni amministrative a favore delle Liste Pannella è quindi premessa per la presentazione domani del Partito Democratico alle elezioni politiche, da noi fortemente voluta. Per queste ragioni, rivolgiamo un appello per l'adesione al Movimento e per la partecipazione o comunque il sostegno...» eccetera eccetera.
Oggi invece Panebianco solleva rilievi, anche in parte fondati, alla strategia di Pannella nel centrosinistra, ma non s'accorge che il ruolo che la Rosa nel Pugno potrebbe giocare è il medesimo (o molto simile) per il quale, nel 1993, sottoscrisse l'appello a sostegno delle Liste Pannella, appello che oggi sembra trovare il suo corrispettivo in quello di Biagio De Giovanni, che rimarrà, prevediamo con rammarico, privo della firma di Panebianco.
La critica che nell'appello si faceva agli ex PCI appare molto simile a quella che oggi Panebianco fa ai Ds e alla forma che sembrerebbe prendere un partito democratico composto da ex comunisti ed ex democristiani. «Inadeguati - si legge nell'appello - i tentativi in atto o di rigenerare vecchi partiti o di costituire aggregazioni che, all'insegna del nuovismo, ripetono esperienze già fatte. In particolare, chi subordinasse la propria strategia e le proprie scelte a quelle attuali del PDS, non potrebbe assicurare al Paese quella radicale riforma e quella rivoluzione liberale che vogliamo».
Allora Panebianco decise quindi di sostenere le Liste Pannella: «Le liste Pannella dovranno costituire anche il nucleo promotore e anticipatore di questo partito. Con questo senso - di aggregazione "per il Partito Democratico" - esse si presentano alle prossime elezioni amministrative e a questo fine - di costituente del Partito Democratico - il Movimento indirizzerà il risultato conseguito. L'impegno oggi alle elezioni amministrative a favore delle Liste Pannella è quindi premessa per la presentazione domani del Partito Democratico alle elezioni politiche, da noi fortemente voluta. Per queste ragioni, rivolgiamo un appello per l'adesione al Movimento e per la partecipazione o comunque il sostegno...» eccetera eccetera.
Oggi invece Panebianco solleva rilievi, anche in parte fondati, alla strategia di Pannella nel centrosinistra, ma non s'accorge che il ruolo che la Rosa nel Pugno potrebbe giocare è il medesimo (o molto simile) per il quale, nel 1993, sottoscrisse l'appello a sostegno delle Liste Pannella, appello che oggi sembra trovare il suo corrispettivo in quello di Biagio De Giovanni, che rimarrà, prevediamo con rammarico, privo della firma di Panebianco.
Panebianco risponde
Dunque, Punzi e Castaldi scrivono, Panebianco risponde, con il suo domenicale di oggi, in prima pagina. A raccontarvi com'è andata ci ha già pensato Malvino.
Nell'editoriale di domenica scorsa Panebianco esponeva una tesi condivisibile: il partito democratico «non potrà nascere semplicemente dalla confluenza fra ex comunisti ed ex sinistra democristiana... perché discontinuità ci sia davvero, perché il limbo [post-comunista] sia abbandonato, occorre che dell'eventuale partito democratico facciano parte a pieno diritto anche gli "anticomunisti democratici", quei democratici che ai tempi della guerra fredda si opposero frontalmente al Partito comunista italiano (per fortuna nostra e anche del Pci)...»
Tutto giusto, ma non manca qualcosa? Panebianco dimentica di scrivere che tra questi «anticomunisti democratici» ce n'era uno, Marco Pannella, che all'inizio degli anni '90 fece dell'idea di un partito democratico iniziativa politica, rivolgendosi all'allora segretario del Pci-Pds, Achille Occhetto. Ritrovo nell'archivio del sito radicale una lettera, datata 15 novembre 1989, di cui non sapevo l'esistenza, in cui si parla di un «Partito Democratico, di stampo anglosassone, e per una riforma istituzionale di stesso segno», a fuggire la soluzione «socialdemocratica, del mondo del proporzionalismo, del partitismo, della parastatalizzazione e nazionalizzazione della società civile, dell'ideologismo, dei giacobinismi più o meno macchiavellici, eticizzanti, e quasi sempre antiliberali».
M'aveva anticipato Malvino, che sul suo post, poi divenuto editoriale per Notizie Radicali, aggiungeva: «Senza la Rosa nel Pugno quel Partito Democratico abortirebbe ben presto in una "cosa" socialdemocratica o cattocomunista».
Mercoledì 18 scriviamo una lettera che viene pubblicata su il Riformista, ma non sul Corriere. Oggi l'editoriale di Panebianco, che si giustifica: «Non ricordavo l'episodio. Ma è vero: Pannella è stato il più coerente degli anticomunisti democratici, convinto che la rigenerazione della sinistra ne richiedesse la trasformazione in una forza liberaldemocratica». Dunque i radicali potrebbero, secondo Panebianco, «legittimamente aspirare a svolgere un ruolo centrale nell'ipotizzato rimescolamento delle carte denominato Partito democratico». C'è un "ma":
Ha ragione invece, pur dimenticando l'adesione dei radicali, unico partito, all'«agenda Giavazzi», quando osserva che gli altri fronti, riforme economiche e istituzionali, giustizia, politica estera, sono rimasti sguarniti. «Non che i radicali non se ne occupino», ma mancano iniziative politiche per una serie di cause concomitanti: la più difficile intesa con lo Sdi su questi temi, ma non ultima la convenienza di molti, stampa e partiti, a marginalizzare la Rosa nel Pugno nel ghetto dei "diritti civili".
In qualche modo, rimproverando a Panebianco di aver dimenticato il nome di Marco Pannella, che oggi lui stesso definisce «il più coerente degli anticomunisti democratici», gli chiedevamo di dare forza alla Rosa nel Pugno nel discutere della nascita di un Partito Democratico, perché è lì che oggi il patrimonio degli «anticomunisti democratici» si trova, è da lì che si può cambiare la sinistra in senso liberale. Qualcosa, risponde Panebianco, impedisce ai radicali di svolgere il ruolo al quale pure sono legittimati: il neo-anticlericalismo. Curioso argomento, rinunciare all'anticlericalismo per concentrarsi solo su fronti dove il centrosinistra sarebbe più carente, come libertà di mercato, garantismo giudiziario, e atlantismo, si direbbe la ricetta buona per svolgere un ruolo nel centrodestra, o almeno così ci diceva Benedetto Della Vedova. Ma siamo sicuri che il centrosinistra non abbia bisogno anche di forti dosi di laicità? Persino certe difese dell'aborto, la concezione della giustizia o del ruolo dello Stato nell'economia che si sentono a sinistra sembrano estranee a una concezione laica e non clericale della politica.
Può darsi che sia così, che i radicali siano mal tollerati anche nel centrosinistra per il loro anticlericalismo, ma allora proprio Panebianco, sostenitore di un partito democratico che non sia mera confluenza di ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, non si sarebbe dovuto unire, nell'editoriale di oggi, alla critica, di sapore cattocomunista, che questi - i Mastella, i Rutelli, i Fassino - muovono spesso ai radicali. Il Panebianco di oggi sembra contraddire il Panebianco di domenica scorsa. Il partito democratico da lui evocato non era forse lontano dal cattocomunismo? Lontano dal togliattismo, dal dossettismo, e dal craxismo?
Non solo il pregiudizio anti-mercato e l'antiamericanismo sono i retaggi di tutte quelle culture politiche, ma anche la tendenza al compromesso con il Vaticano. A quale scopo? Per non «antagonizzarsi» i cattolici? Energie sprecate, se per cattolici s'intendono i credenti e non i clericali. Dovrebbe essere assimilata la lezione che i cattolici impartirono con i referendum su divorzio e aborto. Non solo la recente indagine dell'Eurispes, ma anche la realtà storica del nostro paese, suggeriscono che laico e credente sono connotati dello stesso tipo antropologico e quindi che le proposte che hanno caratterizzato gli ultimi mesi di iniziativa politica radicale e della Rosa nel Pugno, quella linea "zapaterista" che in realtà è anche blairiana e fortuniana, non sono percepite come eccessive da gran parte della popolazione. Oggi il confronto è fra laici, credenti e non, da una parte, e clericali dall'altra.
Il temuto neo-anticlericalismo non è che la risposta a un temibile neo-clericalismo. Anche se il secolarismo, connotato centrale della modernità, continua il suo lavoro incessantemente, l'allarme per l'interventismo delle gerarchie ecclesiastiche non sembra eccessivo se entrambe le coalizioni fanno a gara a sposare le tesi della Cei di Ruini. Si badi, della Cei, senz'alcuna preoccupazione per i credenti. Panebianco, e Della Vedova, dovrebbero guardare alla Chiesa come ai sindacati. Una corporazione parassitaria che impone la conservazione dei propri privilegi e il proprio controllo sulla politica grazie alla forza che gli deriva dal denaro pubblico.
L'anticlericalismo radicale non consiste in nulla di eccessivo o intransigente, ma guarda al modello americano per i rapporti fra Stato e Chiesa. Massima libertà d'espressione, d'ingerenza politica, ma senza privilegi concordatari e 8 per mille da far impallidire i finanziamenti pubblici concessi ai partiti. E' falso che i radicali vogliano imbavagliare la Chiesa, come è falso che volessero, è arrivato a sostenere questo Giuliano Amato, chiudere i sindacati.
Panebianco, di nuovo, dimentica. Come può pensare, conoscendo la loro storia, che i radicali abbandonino o trascurino le «decennali battaglie» condotte in solitudine, spesso da precursori, e pagandone i costi? Per dieci anni hanno proposto referendum per riforme liberali e liberiste delle istituzioni, dell'economia e della giustizia, ma lo stesso Corriere e lo stesso editorialista, Panebianco, pur sottolineando la necessità di tali riforme dimenticavano, esattamente come oggi per il partito democratico, di citare i radicali e le loro proposte referendarie che erano lì, in quel momento, pronte a essere sottoscritte e sostenute. Oggi come allora, Panebianco dimentica che i radicali hanno scelto con forza, con la formalità di un congresso, unico soggetto politico a farlo, di adottare l'«agenda Giavazzi», anche editorialista del Corriere.
Nonostante questo però, sul fatto che i fronti della libertà di mercato, del garantismo giudiziario, della politica estera, siano rimasti sguarniti di iniziative politiche ci sono pochi dubbi. Non è chiaro, per esempio, quanto le riforme economiche proposte da Giavazzi siano condivise nella Rosa nel Pugno, dallo Sdi, o tra gli stessi radicali oltre a Capezzone e a pochi altri. L'esempio più recente è il silenzio della Rosa nel Pugno e dei radicali sull'inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la legge Pecorella rinviata alle Camere dal presidente Ciampi. Eppure, con la marcia di Natale per l'amnistia, la giustizia è stata al centro della loro iniziativa neanche un mese fa. Fin dall'inizio, all'indomani della sconfitta referendaria e ai primi passi mossi con lo Sdi, ho sempre ritenuto che dovesse essere fatto di tutto per non farsi rinchiudere nel ghetto dei "diritti civili" o dell'anticlericalismo.
Nell'editoriale di domenica scorsa Panebianco esponeva una tesi condivisibile: il partito democratico «non potrà nascere semplicemente dalla confluenza fra ex comunisti ed ex sinistra democristiana... perché discontinuità ci sia davvero, perché il limbo [post-comunista] sia abbandonato, occorre che dell'eventuale partito democratico facciano parte a pieno diritto anche gli "anticomunisti democratici", quei democratici che ai tempi della guerra fredda si opposero frontalmente al Partito comunista italiano (per fortuna nostra e anche del Pci)...»
Tutto giusto, ma non manca qualcosa? Panebianco dimentica di scrivere che tra questi «anticomunisti democratici» ce n'era uno, Marco Pannella, che all'inizio degli anni '90 fece dell'idea di un partito democratico iniziativa politica, rivolgendosi all'allora segretario del Pci-Pds, Achille Occhetto. Ritrovo nell'archivio del sito radicale una lettera, datata 15 novembre 1989, di cui non sapevo l'esistenza, in cui si parla di un «Partito Democratico, di stampo anglosassone, e per una riforma istituzionale di stesso segno», a fuggire la soluzione «socialdemocratica, del mondo del proporzionalismo, del partitismo, della parastatalizzazione e nazionalizzazione della società civile, dell'ideologismo, dei giacobinismi più o meno macchiavellici, eticizzanti, e quasi sempre antiliberali».
M'aveva anticipato Malvino, che sul suo post, poi divenuto editoriale per Notizie Radicali, aggiungeva: «Senza la Rosa nel Pugno quel Partito Democratico abortirebbe ben presto in una "cosa" socialdemocratica o cattocomunista».
Mercoledì 18 scriviamo una lettera che viene pubblicata su il Riformista, ma non sul Corriere. Oggi l'editoriale di Panebianco, che si giustifica: «Non ricordavo l'episodio. Ma è vero: Pannella è stato il più coerente degli anticomunisti democratici, convinto che la rigenerazione della sinistra ne richiedesse la trasformazione in una forza liberaldemocratica». Dunque i radicali potrebbero, secondo Panebianco, «legittimamente aspirare a svolgere un ruolo centrale nell'ipotizzato rimescolamento delle carte denominato Partito democratico». C'è un "ma":
«Recuperando dal proprio repertorio storico, come Pannella ha fatto, l'anticlericalismo più intransigente e scegliendo una linea "zapaterista" si possono prendere voti ma ci si condanna, rispetto a eventuali processi di aggregazione a sinistra, alla marginalità. Se non altro, perché si antagonizzano i cattolici. Il neo-anticlericalismo, frutto, a mio giudizio, di un eccesso di allarme per l'interventismo della gerarchia ecclesiastica, porta i radicali a sguarnire i fronti su cui più dovrebbero stare. Dove il centrosinistra è più carente: libertà di mercato, garantismo giudiziario, solidale azione fra le democrazie occidentali contro le dittature. Non che i radicali non se ne occupino. Lo fanno da sempre, unici a sinistra. Ma la cifra con cui hanno scelto di caratterizzarsi, anticlericalismo e zapaterismo, diventa un freno, impedisce loro di svolgere quel ruolo di protagonisti che il loro passato legittimerebbe».Separiamo anche noi il grano dal loglio: Panebianco sbaglia a suggerire ai radical-socialisti di rinunciare all'anticlericalismo. Oltre a essere una necessità contingente contro il dilagare, tra le forze politiche, di una concezione etica dello Stato, è parte essenziale, con le altre aree d'iniziativa radicale, di una storia e di un progetto di riforma del nostro paese. La marginalità che l'anticlericalismo sembra provocare dai «processi di aggregazione a sinistra» è dovuta semmai alla resistenza e al pregiudizio anti-radicale di quelle culture, ex comunista ed ex democristiana di sinistra, inclini al compromesso con il Vaticano, di cui però Panebianco stesso auspica il superamento nel suo primo editoriale, di domenica scorsa, proprio nell'ottica di un partito democratico che non sia né socialdemocratico né cattocomunista, ma alle quali, nell'editoriale di ieri, sembra unirsi nella critica dell'"eccessivo" anticlericalismo radicale.
Ha ragione invece, pur dimenticando l'adesione dei radicali, unico partito, all'«agenda Giavazzi», quando osserva che gli altri fronti, riforme economiche e istituzionali, giustizia, politica estera, sono rimasti sguarniti. «Non che i radicali non se ne occupino», ma mancano iniziative politiche per una serie di cause concomitanti: la più difficile intesa con lo Sdi su questi temi, ma non ultima la convenienza di molti, stampa e partiti, a marginalizzare la Rosa nel Pugno nel ghetto dei "diritti civili".
In qualche modo, rimproverando a Panebianco di aver dimenticato il nome di Marco Pannella, che oggi lui stesso definisce «il più coerente degli anticomunisti democratici», gli chiedevamo di dare forza alla Rosa nel Pugno nel discutere della nascita di un Partito Democratico, perché è lì che oggi il patrimonio degli «anticomunisti democratici» si trova, è da lì che si può cambiare la sinistra in senso liberale. Qualcosa, risponde Panebianco, impedisce ai radicali di svolgere il ruolo al quale pure sono legittimati: il neo-anticlericalismo. Curioso argomento, rinunciare all'anticlericalismo per concentrarsi solo su fronti dove il centrosinistra sarebbe più carente, come libertà di mercato, garantismo giudiziario, e atlantismo, si direbbe la ricetta buona per svolgere un ruolo nel centrodestra, o almeno così ci diceva Benedetto Della Vedova. Ma siamo sicuri che il centrosinistra non abbia bisogno anche di forti dosi di laicità? Persino certe difese dell'aborto, la concezione della giustizia o del ruolo dello Stato nell'economia che si sentono a sinistra sembrano estranee a una concezione laica e non clericale della politica.
Può darsi che sia così, che i radicali siano mal tollerati anche nel centrosinistra per il loro anticlericalismo, ma allora proprio Panebianco, sostenitore di un partito democratico che non sia mera confluenza di ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, non si sarebbe dovuto unire, nell'editoriale di oggi, alla critica, di sapore cattocomunista, che questi - i Mastella, i Rutelli, i Fassino - muovono spesso ai radicali. Il Panebianco di oggi sembra contraddire il Panebianco di domenica scorsa. Il partito democratico da lui evocato non era forse lontano dal cattocomunismo? Lontano dal togliattismo, dal dossettismo, e dal craxismo?
Non solo il pregiudizio anti-mercato e l'antiamericanismo sono i retaggi di tutte quelle culture politiche, ma anche la tendenza al compromesso con il Vaticano. A quale scopo? Per non «antagonizzarsi» i cattolici? Energie sprecate, se per cattolici s'intendono i credenti e non i clericali. Dovrebbe essere assimilata la lezione che i cattolici impartirono con i referendum su divorzio e aborto. Non solo la recente indagine dell'Eurispes, ma anche la realtà storica del nostro paese, suggeriscono che laico e credente sono connotati dello stesso tipo antropologico e quindi che le proposte che hanno caratterizzato gli ultimi mesi di iniziativa politica radicale e della Rosa nel Pugno, quella linea "zapaterista" che in realtà è anche blairiana e fortuniana, non sono percepite come eccessive da gran parte della popolazione. Oggi il confronto è fra laici, credenti e non, da una parte, e clericali dall'altra.
Il temuto neo-anticlericalismo non è che la risposta a un temibile neo-clericalismo. Anche se il secolarismo, connotato centrale della modernità, continua il suo lavoro incessantemente, l'allarme per l'interventismo delle gerarchie ecclesiastiche non sembra eccessivo se entrambe le coalizioni fanno a gara a sposare le tesi della Cei di Ruini. Si badi, della Cei, senz'alcuna preoccupazione per i credenti. Panebianco, e Della Vedova, dovrebbero guardare alla Chiesa come ai sindacati. Una corporazione parassitaria che impone la conservazione dei propri privilegi e il proprio controllo sulla politica grazie alla forza che gli deriva dal denaro pubblico.
L'anticlericalismo radicale non consiste in nulla di eccessivo o intransigente, ma guarda al modello americano per i rapporti fra Stato e Chiesa. Massima libertà d'espressione, d'ingerenza politica, ma senza privilegi concordatari e 8 per mille da far impallidire i finanziamenti pubblici concessi ai partiti. E' falso che i radicali vogliano imbavagliare la Chiesa, come è falso che volessero, è arrivato a sostenere questo Giuliano Amato, chiudere i sindacati.
Panebianco, di nuovo, dimentica. Come può pensare, conoscendo la loro storia, che i radicali abbandonino o trascurino le «decennali battaglie» condotte in solitudine, spesso da precursori, e pagandone i costi? Per dieci anni hanno proposto referendum per riforme liberali e liberiste delle istituzioni, dell'economia e della giustizia, ma lo stesso Corriere e lo stesso editorialista, Panebianco, pur sottolineando la necessità di tali riforme dimenticavano, esattamente come oggi per il partito democratico, di citare i radicali e le loro proposte referendarie che erano lì, in quel momento, pronte a essere sottoscritte e sostenute. Oggi come allora, Panebianco dimentica che i radicali hanno scelto con forza, con la formalità di un congresso, unico soggetto politico a farlo, di adottare l'«agenda Giavazzi», anche editorialista del Corriere.
Nonostante questo però, sul fatto che i fronti della libertà di mercato, del garantismo giudiziario, della politica estera, siano rimasti sguarniti di iniziative politiche ci sono pochi dubbi. Non è chiaro, per esempio, quanto le riforme economiche proposte da Giavazzi siano condivise nella Rosa nel Pugno, dallo Sdi, o tra gli stessi radicali oltre a Capezzone e a pochi altri. L'esempio più recente è il silenzio della Rosa nel Pugno e dei radicali sull'inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la legge Pecorella rinviata alle Camere dal presidente Ciampi. Eppure, con la marcia di Natale per l'amnistia, la giustizia è stata al centro della loro iniziativa neanche un mese fa. Fin dall'inizio, all'indomani della sconfitta referendaria e ai primi passi mossi con lo Sdi, ho sempre ritenuto che dovesse essere fatto di tutto per non farsi rinchiudere nel ghetto dei "diritti civili" o dell'anticlericalismo.
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