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Thursday, February 05, 2004

"La guerra in tribunale"
Una riflessione di insetimabile valore di Ernesto Galli Della Loggia, da riportare integralmente (perché domani non sarà più on line).
«In questi giorni Bush e Tony Blair stanno scoprendo a proprie spese quali pasticci nascano da quella confusione tra verità giudiziaria e verità politica in cui si sono infilati quando hanno deciso di muovere guerra all'Iraq. La verità giudiziaria è quella a cui Bush e Blair hanno fatto appello un anno fa chiamando Saddam Hussein a rispondere davanti al tribunale dell'opinione pubblica dell'accusa di possedere armi di distruzione di massa. Ma la verità giudiziaria è difficile da maneggiare fuori dalle aule di giustizia: essa impone il confronto accurato tra l'atto d'accusa e le prove a carico; l'accusa, poi, deve essere specifica e circostanziata, indicare fatti precisi e lo stesso vale per le prove: anch'esse devono reggere a ogni verifica, devono provare al di là di "ogni ragionevole dubbio". Non c'è posto nella verità giudiziaria per l'arbitrio della convinzione ideale, per l'azzardo dell'intuizione e della visione, per la sicurezza del giudizio morale che basta a se stesso: tutti elementi, questi, che come si sa costituiscono invece la sostanza della verità politica. Verità che si distingue anche per un altro aspetto cruciale da quella giudiziaria: e cioè che, mentre quest'ultima esiste per così dire in quanto tale, per il fatto solo che esistano prove certe a suo suffragio, ma indipendentemente dalle conseguenze cui può dar luogo, l'altra, viceversa, quella politica, è sottoposta in misura decisiva alla verifica delle conseguenze, e cioè del successo o dell'insuccesso. E' probabile a esempio che oggi, anche se la situazione irachena fosse completamente sotto il controllo Usa, Bush non potrebbe tuttavia mai farsi forte di ciò per cancellare il mancato ritrovamento delle famose armi di Saddam: invocò quella prova come ragione della guerra e, cascasse il mondo, quella prova è obbligato a fornire. Le attuali difficoltà del presidente americano e di Blair sono la prova che nei regimi democratici anche la guerra - vale a dire la massima decisione politica che esista - anch'essa tende a essere ormai assorbita nella sfera della giustizia formale: può essere dichiarata solo in base a prove concrete, precise e falsificabili come quelle che devono essere esibite in un procedimento penale qualunque, e se tali prove vengono a mancare tende a essere equiparata immediatamente ad alcunché di illecito. Un esito perfettamente congruo, del resto, a quell'altro aspetto all'opera da molti decenni e tipico dell'impegno con cui le democrazie affrontano i conflitti internazionali, in base al quale i nemici tendono irresistibilmente a trasformarsi in criminali: da sconfiggere sì, ma soprattutto da portare alla sbarra di qualche tribunale internazionale per ricevere un'esemplare condanna. Tutto ciò è l'ennesimo indizio di quella crisi profonda in cui si dibatte la dimensione della politica in tutto l'Occidente. Essa, infatti, è come schiacciata oggi in una tenaglia: da un lato i processi travolgenti della globalizzazione economica ne restringono implacabilmente la capacità di influire sulla produzione e sulla distribuzione del reddito, dall’altro l'eticismo proprio delle democrazie e delle organizzazioni internazionali - facendo della legalità formale e delle procedure di accertamento giudiziario dei fatti gli unici involucri accreditati delle decisioni pubbliche - tende altrettanto implacabilmente a cancellare ogni autonoma specificità della sfera politica stessa. Chi si rallegra dell'esistenza di uno o dell'altro dei fenomeni suddetti (o magari di entrambi) dovrebbe ricordare che al dunque, però, nella politica, e soltanto nella politica, sta la possibilità da parte di una collettività umana di decidere del proprio destino, e perciò di essere libera».

Corriere della Sera

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