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Monday, January 25, 2010

Nessuna scorciatoia, caro Pd

Scherzi da primarie. Negli States ne sanno qualcosa sia i Democratici che i Repubblicani. E' la democrazia, baby, e non puoi farci niente. Capita infatti che gli elettori capovolgano le scelte e le preferenze dei vertici dei partiti. Spesso anche lì i vertici sostengono il candidato più moderato, capace secondo i loro schemi di attrarre l'elettorato indipendente, mentre la base si entusiasma per quello più radicale. E' capitato anche di recente tra Obama e Hillary Clinton e abbiamo visto come sono andate a finire le "secondarie", come le ha sarcasticamente chiamate D'Alema per sottolineare come Vendola fosse sì in grado di vincere le primarie, ma non di battere poi il centrodestra alle elezioni vere e proprie. Non lo darei per certo, vista la confusione che regna nel campo avversario e alcune scelte discutibili.

L'errore madornale, strategico, culturale di quel "genio" di D'Alema è che pensa di sfondare al centro alleandosi con l'Udc e non cambiando se stesso e il Pd. E' ovvio che la base si ribelli e veda in Vendola un candidato molto più affine e congeniale alla sua identità. C'è chi vede in questa contraddizione «due partiti», ma in realtà è sempre lo stesso. D'Alema pretende che il Pd sia solo l'ennesima evoluzione nominalistica del Pci-Pds-Ds, un partito di sinistra - sia pure non massimalista - che può andare al governo solo se alleato con una forza di centro. L'operazione Pd ha senso invece solo se l'obiettivo è diverso: conquistare lo spazio centrale dell'elettorato cambiando e modernizzando se stesso. Ma per fare questo i vertici dovrebbero innanzitutto investire questo periodo all'opposizione non nella tessitura di un'alleanza con l'Udc, il cui obiettivo è quello di sgretolare il bipolarismo, ma in una battaglia culturale interna al loro partito, mettendo in gioco se stessi.

Insomma, non possono pretendere di incarnare una linea di opposizione antiberlusconiana, di inseguire Di Pietro sul terreno del giustizialismo, di non modernizzarsi sui temi del lavoro e della sicurezza, e poi pretendere che la base accetti di allearsi con l'Udc al posto di Vendola. Nel merito vogliono continuare a fare "la sinistra", poi però quando si tratta di studiare la tattica per arrivare al potere, quindi di «allargare» il centrosinistra, cercano improbabili scorciatoie: allearsi con un partito di centro invece che conquistare loro stessi il centro e l'elettorato indipendente con un nuovo profilo e una nuova proposta politica.

Due parole anche sul Pdl, in cui sembra regnare la confusione. Nel centrosud Berlusconi ha lasciato troppo campo libero. In Puglia la scelta di Palese sembra debole (come quella di Caldoro in Campania). Due regioni in cui la corsa sembrava in discesa e invece ora sembra essersi oltre modo complicata. Per non parlare di una non impossibile impresa della Bonino nel Lazio. Interessante, a proposito, l'articolo di Vittorio Macioce, oggi su il Giornale. Diversamente da Macioce, secondo me Pannella teme molto più la vittoria che la sconfitta della Bonino. «Se i radicali vanno a governare, fosse pure solo una regione, significa che qualcosa nel mondo non funziona. C'è un trucco: o il mondo è cambiato, oppure i radicali non sono più radicali». Vincere significherebbe «cercare di amministrare e governare una regione da radicali, mentre i tuoi alleati, i tuoi soci, continuano a fare le cose come da tradizione, con le clientele e i soldi da distribuire. Quella domanda è lì, come una scommessa o una maledizione: e se il potere finisse per contaminare un partito orgogliosamente diverso? Emma griderà, bestemmierà, e non accetterà di sentirsi sporca. Ma in lei, nel partito, nella sua gente qualcosa sarà cambiato. Per sempre. E per Pannella questa è una morte un po' peggiore».

E' vero che la Bonino si gioca molto della sua statura e del capitale politico dei radicali, ma molto dipenderà anche da come perde. Se di pochi punti, o di una decina. Nel primo caso, sarà colpa di un Pd allo sbando e nessun altro avrebbe comunque potuto far meglio di lei. Nel secondo, vorrà dire che Emma avrà perso tutto il suo charme di donna di governo e delle istituzioni. Al contrario, la Polverini e Fini si giocano tutto, non c'è paracadute, non c'è alibi:
«È l'ora della conta, quella che ti dice quanta carne c'è nel portafoglio di Fini. È valutare il peso della variabile Casini, capire se il suo gioco di percentuali sposta la bilancia a destra o a sinistra. Non è una partita che Gianfranco si gioca da solo. Bene o male con lui c'è il Pdl, c'è la Roma capitale di Alemanno, ci sono i buoni uffici di Letta e l'ombra di San Pietro. C'è tutto il peso dei palazzi di Caltagirone. C'è tutto questo. Ma c'è anche una logica che non fa sconti. Questa volta la sconfitta non si paga in solido. Se davvero sulla ruota del Lazio esce il rosso Bonino c'è un solo uomo a cui toccherà passare alla cassa. Ed è Gianfranco Fini».

Wednesday, August 12, 2009

Salari differenziati, polemica surreale

E Calderoli apre il capitolo tasse

Una polemica surreale quella degli ultimi giorni sulle cosiddette "gabbie salariali", in cui per pura demagogia si è impiccata a una brutta espressione un'idea ampiamente condivisa da sindacati, Confindustria e governo, ma anche da esponenti riformisti del Pd, come il giuslavorista e senatore Pietro Ichino. Talmente condivisa che rientra già nell'accordo quadro siglato il 22 gennaio scorso da tutte le parti sociali (tranne la Cgil) per la riforma del modello contrattuale. Il meccanismo perverso che è scattato l'ha descritto bene Vittorio Macioce, oggi su il Giornale:
«E' chiaro che se uno le chiama così ti riportano agli anni '50, a qualcosa di vecchio, ammuffito, sepolto, abbandonato. E allora il signor Bonanni della Cisl parla di ritorno all'Unione Sovietica, che da queste parti comunque non c'è mai stata, gli operai del Sud pensano che qualcuno sta lì con le forbici a tagliare i loro stipendi, già all'osso, i politici si preoccupano di perdere voti, tutti fanno la voce grossa e qualcuno ci marcia evocando fame e malattie, tanto qualche Savonarola in giro non manca mai. Quella che doveva essere una mossa per rendere il costo dei lavoro meno stagnante, una sorta di rivoluzione contro la dittatura dei contratti nazionali, un modo per legare il salario alla produttività e dare un po' di respiro alle buste paga di chi lavora a Torino, a Milano o a Roma, dove il costo della vita è senza dubbio più alto, diventa invece una restaurazione, un tuffo nel passato. La cosa strana di questa storia è che poi tutti dicono: sì, bisogna difendere i salari reali. Oppure: sì, bisogna dare più spazio alla contrattazione aziendale e territoriale. Basta chiamare le cose con un nome diverso? Basta dire, come fa Brunetta, la parola magica federalismo? Federalismo dei salari? Forse sì. Ed è come se in questo Paese le riforme si incagliassero sullo scoglio di qualche parola, un eterno gioco di parole tabù, parole che non si possono dire, parole maledette, parole che fanno mettere mano alla pistola al solito esercito di benpensanti. Bum. Al minimo movimento spara. Il risultato è che tutto il dibattito politico gira intorno ai vocaboli. Non ci sono più casi da risolvere, ma parole da spianare».
Una polemica montata «sul nulla», si sfoga stamane Berlusconi: «Mai parlato di gabbie salariali». La possibilità di salari differenziati è infatti demandata «alla contrattazione decentrata, già approvata peraltro dalle categorie sindacali, Cgil esclusa», in base, appunto, all'accordo per il nuovo sistema contrattuale, come prova a spiegare intervenendo sul Sole 24 Ore anche il ministro del Lavoro Sacconi, che di quell'accordo è stato l'artefice. L'obiettivo della riforma è di superare il vecchio modello di «contrattazione centralizzata», che ha sì contenuto le spinte inflattive negli scorsi decenni, ma che alla lunga ha prodotto «bassi salari e bassa produttività». «L'andamento delle retribuzioni si era infatti rivelato piatto e moderato perché una contrattazione centralizzata non può che tararsi sui vagoni più lenti del convoglio delle imprese».

Nel nuovo sistema viene riconosciuto più spazio alla «contrattazione decentrata, di per sé virtuosa perché naturalmente votata a riflettere indicatori di produttività e di specifico costo della vita nei diversi ambiti aziendali e territoriali». «È in questo contesto - sottolinea il ministro - che devono essere lette tutte le affermazioni di questo pigro mese di agosto». I salari differenziati quindi saranno frutto della contrattazione territoriale e aziendale, non di un'imposizione dall'alto com'era prima che venissero abolite, alla fine degli anni '60, le cosiddette "gabbie salariali".

«Nessuno vuole il ripristino di meccanismi di indicizzazione dei salari al costo o ai costi della vita perché ne abbiamo già sperimentato gli effetti inflattivi. Nel governo tutti riconoscono la insostituibile funzione della contrattazione collettiva che nessuna legislazione centralistica può sostituire. Tutti vogliamo una più equa distribuzione della ricchezza attraverso i salari quale è stata negata dall'egualitarismo e dal centralismo retributivo», spiega Sacconi. Spetta alle parti, aggiunge, «dimostrare, fino a prova contraria, la capacità di definire con il contratto nazionale una dinamica minima delle retribuzioni e con i contratti decentrati parti sempre più consistenti del reddito secondo differenziazioni eque e trasparenti».

Saranno incoraggiati a fare ciò dalla detassazione e dalla decontribuzione già introdotte dal governo sulle componenti della retribuzione «variabilmente determinate in sede locale». «La tassazione secca e definitiva al solo 10% delle parti variabili del salario erogate unilateralmente o determinate dalla contrattazione nella dimensione territoriale e aziendale», spiega il ministro, è stata la «premessa» per quel «nuovo modello contrattuale che le parti sociali - con l'unica autoesclusione della Cgil - hanno pochi mesi dopo sottoscritto».

«Tutti nel governo pensano che spetti al contratto, e alla contrattazione decentrata in particolare, la realizzazione della diffenziazione delle retribuzioni», assicura Sacconi cercando di chiudere le polemiche. E oggi interviene di nuovo colui che, pur non parlando mai di "gabbie salariali", aveva acceso la miccia, il ministro Calderoli, che a La Stampa rivendica di voler «affrontare con serietà le due questioni collegate, quella meridionale e quella settentrionale», lanciando una nuova duplice proposta: azzerare del tutto l'Ires alle aziende che aprono e creano nuova occupazione al Sud; tagliare le imposte dirette, «l'Irpef tanto per capirsi», al Nord, dove il costo della vita è maggiore. Il ministro della Lega confessa di non averne ancora parlato con il ministro Tremonti, ma finalmente qualcuno che apre il capitolo tasse.

Altrettanto surreale poi, ricorda Macioce, la polemica sulle ronde, l'idea innocua, anzi di civiltà e comunque già consentita dalla legge, «di guardie civiche, dei liberi cittadini dei comuni che si organizzano per difendere le strade della propria città».
«Non sono armati, guardano soltanto. Fanno luce, come le insegne dei negozi che rendono meno buia la notte. Magari non risolvono il problema, ma un po' tutti pensano che una mano di aiuto la possono dare. Come le chiamiamo? Ronde. E qui la fantasia si scatena. E tutti i discorsi si aggrovigliano sul nulla. Non si discute più di sicurezza, ma di fantapolitica. Le guardie civiche possono far sorridere, come i boy scout, ma tutte queste elucubrazioni sul regime sono irritanti. È lo starnazzo di troppa gente che non ha mai visto in faccia una dittatura. Regime, regime, regime, ma le ronde, poi, le fanno anche i sindaci di sinistra, solo che le chiamano in un altro modo. Teatro dell'assurdo».
Come quando Berlusconi, qualche giorno fa, ha detto che la Rai non deve attaccare maggioranza e opposizione. «Nulla di scandaloso». Anzi, persino una banalità, e cioè che «il servizio pubblico, pagato da tutti, non può essere partigiano». Ma poi le parole sono state «tagliate e rimodellate» per far credere che Berlusconi vuole una Rai che non riporti notizie scomode per il governo. «La vischiosità del passato è l'ultima risorsa dei sacerdoti del Novecento. E il futuro resta imbrigliato in una ragnatela di parole», conclude Macioce.

Thursday, February 15, 2007

«Sono stato anche beccato... dalla Polizia!»

Un Vasco "amico" della polizia, che richiama al rispetto delle regole, viene fuori in questa intervista per... Poliziamoderna.

«Beh, veramente quella del poliziotto è una vita spericolata... Mi dispiace che spesso il messaggio di quella canzone (uscita nel 1983, ndr) sia stato travisato e strumentalizzato per sostenere che inneggiavo al non rispetto delle regole e quant'altro. Allora avevo 31 anni e desideravo una vita spericolata nel senso di non ordinaria, non piatta o fatta di sole certezze. Ma chi del resto quando è giovane non sogna di fare esperienze emozionanti e straordinarie? Problemi con la giustizia li ho avuti e sono noti. Ma ora ho un rapporto splendido con i poliziotti. Adesso se mi fermano è per chiedermi un autografo. Certo qualche multa dalla Stradale l'ho presa, ma neanche tante e solo una per eccesso di velocità di 5 km/h rispetto al limite, per cui niente decurtazione di punti dalla patente. Del resto viaggio in automobile molto meno di prima».

Il cittadino Vasco cosa chiederebbe alla polizia?
«Professionalità, serietà, e rispetto. Con affetto. Anche questo fa rima, come casco con Vasco...»

UPDATE: bel pezzo davvero di Vittorio Macioce, su il Giornale, che ricorda un significativo passaggio di una canzone di Vasco, "Stupendo": «E mi ricordo chi voleva al potere la fantasia. Erano giorni di grandi sogni, sai. Erano vere anche le utopie. Ma non ricordo se chi c'era aveva queste facce qui. Ma non mi dire che è proprio così. Non mi dire che sono quelli lì. Sì. Stupendo! Mi viene il vomito... È la vita ed è ora che cresci. Devi viverla così».