Scoramento e orgoglio, ma anche risentimento, sono i sentimenti espressi da molti blog di TocqueVille all'annuncio di Berlusconi del rinvio a dopo le elezioni del 2006 del progetto di partito unico del centrodestra. Lui condurrà ancora la CdL contro Prodi e il centrosinistra.
Non me ne rallegro, però è un dato di fatto che nella loro decennale storia Forza Italia, Berlusconi, il centrodestra abbiano compiuto una lunga ma trasparente manovra di allontanamento, in ordine di tempo, dalla riforma americana delle istituzioni e della giustizia, dal liberalismo, e in ultimo anche dal liberismo. E RegimeChange ha mille sacrosanti motivi per sfogarsi in questo modo e anche per non rimpiangere un progetto che così come teorizzato da Ferdinando Adornato pareva anche a me abominevole.
Sa bene Walking Class che le possibilità di vittoria sono pochine se «per vincere la nuova battaglia il Cavaliere dovrà rispolverare la rivoluzione permanente, quella che non si realizza mai, un nuovo mirabile programma con il quale faremo tutte le cose che in questi cinque anni non abbiamo fatto ma che certamente faremo». Riconosce che questo risultato si deve all'«aver occupato oziosamente i seggi della maggioranza» e «seminato il territorio italico di pessimo personale politico».
Allo scoramento reagisce The Right Nation, inesauribile in tutti i sensi
:-)
Mi convince il suo obiettivo dell'approccio fusionista per un futuro partito unico del centrodestra, ma bisogna anche constatare con realismo che finora, nell'arco di oltre 10 anni, la direzione verso cui, non si cammina, ma si corre, è l'opposta. E la «scansione dei tempi» decisa da Berlusconi non assicura affatto che la direzione sia quella di un GOP italiano: si può viaggiare anche lentamente, ma se la direzione resta sbagliata...
Siamo d'accordo con la «rimonta culturale», con la necessità di «investimenti miliardari per elaborare idee, trasformarle in progetto politico condiviso e diffondere questo progetto sul territorio, nelle teste e nei cuori dei cittadini italiani». Tuttavia, proprio perché siamo d'accordo su questo, che senso ha accusare di «intelligenza con il nemico» chi avanza critiche ben fondate? Forse iniziare a lavorare su una tabula rasa dopo una salutare sconfitta è quello che ci vuole, come fu per Goldwater.
Insomma, parlo da deluso della prima ora (circa dal 2000), il tuo appello a fare quadrato per vincere comunque, a tutti i costi, autocensurando oggi un dibattito che dovrebbe cominciare solo dopo, non mi convince. Il problema infatti è come si vince, per fare cosa. E vincere nel 2006 significherebbe comunque sprecare altri 5 anni.
Postilla: sia Berlusconi sia Prodi, agli occhi degli italiani, vengono da fallimenti politici, sono cotti. Il primo dei due che salta, il suo sostituto rischia di battere quello che rimane. E io credo che quando il 9 ottobre Prodi sarà incoronato democraticamente candidato premier dell'Unione, Berlusconi alle brutte saprà tirar fuori dal cilindro la sorpresa che metterà Prodi nella merda. Ecco perché, forse, ha pensato che fosse inutile parlare oggi di leadership e, di conseguenza, di partito unico e non certo perché ha in mente il modello del GOP american style.
Thursday, June 30, 2005
Altro che modello americano! Pera e Ratzinger hanno ben altro in mente
Un dialogo che, guarda caso, nella pratica va nella direzione opposta al modello americano di religione civile di cui si riempiono la bocca
Ieri, su Il Foglio, Jeff Israely notava l'aspetto che paralizza il mondo laico di fronte alla pretesa della Chiesa di agire nella società come attore politico. Tutti riconosciamo che nella campagna contro i referendum Ruini «non ha sbagliato un colpo», parlando fin dall'inizio ma non troppo spesso, dando l'impressione di non aver imposto quella che è una campagna politica della Cei senza precedenti. Ben sapendo che sulla morale e la vita privata solo una «modesta minoranza di italiani è pronta a seguire i consigli» di una Chiesa retrogada, ha astutamente «lasciato che le forze dell'apatia, della confusione e dei politici opportunisti prendessero il comando».
Per un americano, scrive Israely, «nessuno scandalo se un leader religioso parla della politica partendo dal punto di vista della sua fede». Ma conviene urlare di ingerenza ogni volta il Papa o un vescovo parlano di temi di pubblico interesse? Piuttosto, osserva Israely, «il grosso bastone brandito da Ruini non si trova nel pulpito, ma nelle silenziose stanze da dove ha orchestrato l'approvazione della Legge 40». Alla presentazione del nuovo libro di Ratzinger, Ruini, interpellato da Pera, ha fatto riferimento all'esperienza americana di religiosità civile, ma il compromesso che la Chiesa dovrebbe accettare è «un'autentica separazione tra Stato e Chiesa, a cominciare dall'abolizione del Concordato. Dal punto di vista di un americano, il primo passo è la rispettosa e ordinata rimozione di ogni crocefisso da tutte le aule scolastiche dei tribunali».
Tuttavia, se per Israely Ruini «sembra riconoscerlo», a me è parso esattamente il contrario, cioè che la "sola" religiosità civile del modello americano alla Chiesa vada stretta.
Sull'ambiguità con la quale Ratzinger e Ruini, loro per primi, hanno fatto riferimento al modello di religione civile americana per sostenere la legittimità della Chiesa a intervenire nel dibattito politico, i miei stessi dubbi li esprime oggi Giorgio Rebuffa su il Riformista.
Anche Rebuffa sembra essersi accorto che «i discorsi che stiamo ascoltando sono una scusa per imporre dei precetti e dei poteri, un modo per "tener buono" ciò che la politica non riesce più a guidare... si sta configurando insomma un uso politico della religione» e allora, se è così, «bisogna sapere che questo è l'esatto contrario del "modello americano"». E bisogna cominciare, per esempio, a mettere in discussione l'8 per mille, come mostrano le parole del giudice della Corte Suprema Hugo Black (da una sentenza del 1947):
Che rimane dunque, del dialogo Pera-Ratzinger? Se Pera chiede alla Chiesa cattolica di accettare la sfida di farsi religione civile sul modello americano, l'ambizioso progetto Ratzinger-Ruini è altro: affermare sì il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica, quindi avere mani libere nella vita politica e istituzionale degli Stati, ma senza rinunciare ai privilegi concordatari, costituendo anzi a partire da essi, dall'Italia, un nuovo modello da esportare in tutta Europa. Pera e Ratzinger si usano a vicenda: l'uno per ottenere il favore degli ambienti cattolici nella corsa al Quirinale, l'altro per far breccia nel mondo laico e poter esercitare ingerenze senza dover mettere in discussione il regime concordatario.
Ieri, su Il Foglio, Jeff Israely notava l'aspetto che paralizza il mondo laico di fronte alla pretesa della Chiesa di agire nella società come attore politico. Tutti riconosciamo che nella campagna contro i referendum Ruini «non ha sbagliato un colpo», parlando fin dall'inizio ma non troppo spesso, dando l'impressione di non aver imposto quella che è una campagna politica della Cei senza precedenti. Ben sapendo che sulla morale e la vita privata solo una «modesta minoranza di italiani è pronta a seguire i consigli» di una Chiesa retrogada, ha astutamente «lasciato che le forze dell'apatia, della confusione e dei politici opportunisti prendessero il comando».
Per un americano, scrive Israely, «nessuno scandalo se un leader religioso parla della politica partendo dal punto di vista della sua fede». Ma conviene urlare di ingerenza ogni volta il Papa o un vescovo parlano di temi di pubblico interesse? Piuttosto, osserva Israely, «il grosso bastone brandito da Ruini non si trova nel pulpito, ma nelle silenziose stanze da dove ha orchestrato l'approvazione della Legge 40». Alla presentazione del nuovo libro di Ratzinger, Ruini, interpellato da Pera, ha fatto riferimento all'esperienza americana di religiosità civile, ma il compromesso che la Chiesa dovrebbe accettare è «un'autentica separazione tra Stato e Chiesa, a cominciare dall'abolizione del Concordato. Dal punto di vista di un americano, il primo passo è la rispettosa e ordinata rimozione di ogni crocefisso da tutte le aule scolastiche dei tribunali».
Tuttavia, se per Israely Ruini «sembra riconoscerlo», a me è parso esattamente il contrario, cioè che la "sola" religiosità civile del modello americano alla Chiesa vada stretta.
Sull'ambiguità con la quale Ratzinger e Ruini, loro per primi, hanno fatto riferimento al modello di religione civile americana per sostenere la legittimità della Chiesa a intervenire nel dibattito politico, i miei stessi dubbi li esprime oggi Giorgio Rebuffa su il Riformista.
«Qual è dunque il modello americano di cui si parla da noi? Quello del divieto di una "religione favorita"? O riguarda piuttosto il desiderio di suscitare maggior spirito religioso nel nostro paese? O addirittura, come mi sembra talvolta, quello di definire dei precetti comuni, indipendentemente dalle nostre fedi? O anche dalla nostra mancanza di fede, visto che talvolta i predicatori di casa nostra si dichiarano anche "atei"?»Come ho scritto in questo articolo, per un verso Ratzinger e Ruini, lamentando «l'esclusione di Dio dalla coscienza pubblica» europea, rivendicano per la Chiesa cattolica la stessa rilevanza pubblica e la stessa libertà d'azione "evangelizzatrice" riconosciute alle religioni nella società americana. Una laicità non arroccata su vecchi princìpi dovrebbe convenire, ma del modello americano non si può prendere solo ciò che fa comodo. Infatti, per altro verso, la Chiesa rifiuta il presupposto inderogabile di quel modello: il rapporto a-concordatario fra Stato e chiese.
Anche Rebuffa sembra essersi accorto che «i discorsi che stiamo ascoltando sono una scusa per imporre dei precetti e dei poteri, un modo per "tener buono" ciò che la politica non riesce più a guidare... si sta configurando insomma un uso politico della religione» e allora, se è così, «bisogna sapere che questo è l'esatto contrario del "modello americano"». E bisogna cominciare, per esempio, a mettere in discussione l'8 per mille, come mostrano le parole del giudice della Corte Suprema Hugo Black (da una sentenza del 1947):
«Nessuna imposta, per qualsiasi ammontare, può essere autorizzata per sostenere autorità ed istituzioni religiose, qualsiasi denominazione esse abbiano, o qualsiasi metodo esse usino per l'insegnamento o per la pratica religiosa».Si dirà: almeno il riferimento alle «radici cristiane» nella nuova Costituzione europea? No, neanche un simile riferimento c'è nella costituzione americana, eppure non per questo i cittadini americani sono meno religiosi o ignorano la propria identità. La Costituzione degli Stati Uniti, nel suo Primo Emendamento (1791), parla chiaro: «Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto».
«Il Bill of Rights comincia dunque con un rigido divieto all'Assemblea legislativa, ai rappresentanti del popolo. Non avrebbe potuto essere diversamente, perché è alla volontà della maggioranza, che bisogna dare le indicazioni più severe e porre i limiti più rigorosi. Ed è alla maggioranza, come è ovvio, che la Costituzione proibisce di istituire una "religione favorita"».Non solo perché i costituenti americani sapevano che in Europa la Chiesa aveva fatto «largo uso del privilegio religioso per fini temporali», ma anche per evitare discriminazioni fra i cittadini. L'appoggio dello Stato a una religione, sono le parole (Lynch vs. Donnelly, 1984) del giudice della corte Suprema Sandra Day O'Connor, cattolica, nominata da Reagan, «manderebbe un messaggio a tutti coloro che non aderiscono a quella religione, dicendo loro che sono degli outsiders, membri non a pieno titolo della comunità politica; e invierebbe un corrispondente messaggio agli adepti di quella religione: voi siete i beniamini della comunità politica».
Che rimane dunque, del dialogo Pera-Ratzinger? Se Pera chiede alla Chiesa cattolica di accettare la sfida di farsi religione civile sul modello americano, l'ambizioso progetto Ratzinger-Ruini è altro: affermare sì il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica, quindi avere mani libere nella vita politica e istituzionale degli Stati, ma senza rinunciare ai privilegi concordatari, costituendo anzi a partire da essi, dall'Italia, un nuovo modello da esportare in tutta Europa. Pera e Ratzinger si usano a vicenda: l'uno per ottenere il favore degli ambienti cattolici nella corsa al Quirinale, l'altro per far breccia nel mondo laico e poter esercitare ingerenze senza dover mettere in discussione il regime concordatario.
«Pur fondata da un condannato a morte...
... la Chiesa resta cauta sulla pena capitale»
Nel "nuovo" Catechismo di recente presentato la Chiesa cattolica non ritiene di dover chiudere quel seppur minimo spiraglio di legittimità morale del ricorso alla pena di morte. Tanto i casi di «assoluta necessità di pena di morte sono molto rari se non addirittura praticamente inesistenti» e «i mezzi incruenti sono sufficienti».
Oggi su il Riformista l'articolo di Giuseppe di Leo inizia così:
Nel "nuovo" Catechismo di recente presentato la Chiesa cattolica non ritiene di dover chiudere quel seppur minimo spiraglio di legittimità morale del ricorso alla pena di morte. Tanto i casi di «assoluta necessità di pena di morte sono molto rari se non addirittura praticamente inesistenti» e «i mezzi incruenti sono sufficienti».
Oggi su il Riformista l'articolo di Giuseppe di Leo inizia così:
«Ma come fa la Chiesa, fondata da un condannato a morte, a non pronunciarsi in modo netto contro la pena di morte?»
La commovente storia del "Sindaco Buono"
Da leggere l'articolo di Daniele Capezzone nella sua rubrica settimanale su Libero. «In quella calda estate...»
La non riforma non mi appassiona
I magistrati scioperano il 14 luglio, presa della Bastiglia. Gli avvocati non sono affatto soddisfatti. Ma quale riforma della giustizia? I veri nodi rimangono ancora tutti da sciogliere: separazione della carriere, abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale, responsabilità civile dei magistrati. Erano i temi di tre quesiti di quel pacchetto di referendum che Berlusconi nel 2000 definì «comunisti». Se allora non avesse scelto la via del mare, facendo fallire quei referendum, si sarebbe trovato una vera riforma bell'e pronta, scritta dai cittadini, solo da difendere e da perfezionare.
Cosa ottiene oggi? Va in porto una riformicchia che si accontenta di assestare qualche screzio personale qua e là (a Caselli, per esempio), che fa il solletico alla corporazione dei magistrati, i quali continueranno comunque a odiare il centrodestra, senza mettere mano ai nodi che avrebbero inferto il colpo del ko al potere extragiudiziario della magistratura.
Rimaniamo in un paese dove è consentito ai magistrati di scioperare perché non accettano che l'avanzamento delle loro carriere venga sottoposto a una verifica concorsuale. Una cosa che quasi non ci si crede. Questa non riforma non mi appassiona.
Cosa ottiene oggi? Va in porto una riformicchia che si accontenta di assestare qualche screzio personale qua e là (a Caselli, per esempio), che fa il solletico alla corporazione dei magistrati, i quali continueranno comunque a odiare il centrodestra, senza mettere mano ai nodi che avrebbero inferto il colpo del ko al potere extragiudiziario della magistratura.
Rimaniamo in un paese dove è consentito ai magistrati di scioperare perché non accettano che l'avanzamento delle loro carriere venga sottoposto a una verifica concorsuale. Una cosa che quasi non ci si crede. Questa non riforma non mi appassiona.
Wednesday, June 29, 2005
In Spagna un esperimento di ingegneria sociale
Devo ammettere che non conosco a sufficienza il modo in cui Zapatero ha introdotto in Spagna i matrimoni gay. Però faccio fiducia a quello che in questi anni è stato il lavoro di 1972, ai suoi documentati e onesti reportage. Le sue argomentazioni in merito mi convincono. Ne avevo parlato qui. Non credo che i matrimoni gay di per sé minaccino il matrimonio e la famiglia tradizionali e l'ordine sociale, o che segnino la decadenza morale della nostra civiltà. Le ritengo preoccupazioni medievaliste che risentono di un approccio religioso. Mi preoccupa invece la tendenza all'omologazione per legge delle diversità. Perseguita in primo luogo attraverso la "pulizia" linguistica della legge. Vi vedo una concezione etica dello Stato di segno opposto a chi vorrebbe negare qualsiasi riconoscimento alle unioni di fatto.
Un altro fatto oggi, sempre via 1972: «La guerra non ci piace? Basta eliminarla dal dizionario. Sono meravigliosi questi socialisti spagnoli»:
Un altro fatto oggi, sempre via 1972: «La guerra non ci piace? Basta eliminarla dal dizionario. Sono meravigliosi questi socialisti spagnoli»:
Defense minister Jose Bono yesterday backed the possibility of removing the three references to the word "war" from the Spanish constitution before Parliament's defense committee. Leggi tuttoQuesto uso della "pulizia" linguistica nasconde un riflesso, un istinto, quasi una tentazione, a intraprendere la strada dell'edificazione per decreto di una società migliore, ideale, abitata da un "uomo nuovo". Naturalmente non credo che se ne rendano neanche conto i socialisti spagnoli di Zapatero, ma sono oggi artefici di un esperimento di ingegneria sociale, che Hayek avrebbe chiamato socialismo "scientista". Elites politiche e burocratiche, affette da "razionalismo costruttivista", credono possibile progettare sulla carta una società migliore, più giusta, ideale, in una parola "nuova", e implementarla per legge.
Ma non era quello che chiedevate da mesi?
Solo qualche giorno fa, di fronte alla procura di Milano che dà la caccia agli agenti della Cia, ci eravamo chiesti quali erano questi mezzi "altri" rispetto alla guerra che per mesi i movimenti pacifisti e antagonisti invocavano nelle piazze, e i partiti di sinistra nelle trasmissioni televisive, per combattere il terrorismo. Non si erano forse chieste operazioni mirate di intelligence che colpissero i "capi", gli appartenenti alle reti del terrore, senza coinvolgere popolazioni innocenti?
Per giudicare su tali questioni, occorre essere consapevoli di quale risposta si dà a questa domanda: quella contro il terrorismo islamico è a) una guerra o b) una lotta alla criminalità organizzata? La mia risposta, essendo a), implica che, come in guerra, quando si cattura un nemico non lo si processa. Se il combattente fa parte di un'organizzazione aderente alla Convenzione di Ginevra, avrà diritto a essere trattato secondo i principi della convenzione. In caso contrario, sarà sufficiente rispettare nei suoi confronti i principi di umanità riconosciuti oggi nei paesi occidentali.
Oggi Giuliano Ferrara chiarisce senza peli sullo stomaco:
Dovrebbero lasciare agli altri, a quelli come me, di interrogarsi se sia incoerenza, buon senso, o altro ancora.
P.S.: A me non sembrano trattative.
UPDATE 30 GIUGNO: Sottoscriviamo il commento di Christian Rocca:
Per giudicare su tali questioni, occorre essere consapevoli di quale risposta si dà a questa domanda: quella contro il terrorismo islamico è a) una guerra o b) una lotta alla criminalità organizzata? La mia risposta, essendo a), implica che, come in guerra, quando si cattura un nemico non lo si processa. Se il combattente fa parte di un'organizzazione aderente alla Convenzione di Ginevra, avrà diritto a essere trattato secondo i principi della convenzione. In caso contrario, sarà sufficiente rispettare nei suoi confronti i principi di umanità riconosciuti oggi nei paesi occidentali.
Oggi Giuliano Ferrara chiarisce senza peli sullo stomaco:
«I poteri sono tre: il legislativo fa le leggi, il giudiziario le deve applicare senza parzialità, l'esecutivo (altrimenti detto governo) governa. In alcuni casi, specie quando si tratti di sicurezza in situazione di guerra, l'esecutivo è al di sopra o al di sotto della legge, e può opporre il segreto di stato di fronte al Parlamento e ai magistrati, può autorizzare in emergenza operazioni illegali. Fine. Tutto il resto è noioso moralismo, incapacità di capire il significato della politica e il funzionamento del potere, questo meccanismo forse odioso, certamente misterioso, ma indispensabile a far vivere una democrazia...»Adesso si apprende, dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che gli Stati Uniti e le nuove autorità irachene stanno trattando con gli insorti sunniti per ottenere un cessate-il-fuoco in cambio del rientro nel processo politico. Al di là di come si voglia giudicare la scelta americana (buon senso, exit strategy, ritorno alla realpolitik e quant'altro), mi meraviglia chi si meraviglia. Coloro che da mesi e mesi non hanno fatto altro che invocare il mitico "ritorno alla politica" spiegando che non era possibile una vittoria militare sul campo e che piuttosto bisognava coinvolgere i sunniti (oops, i «resistenti») nel processo politico, proprio loro, oggi, non possono accusare gli americani di incoerenza (come fa Venturini), ma dovrebbero esultare: "Meglio tardi che mai!".
Dovrebbero lasciare agli altri, a quelli come me, di interrogarsi se sia incoerenza, buon senso, o altro ancora.
P.S.: A me non sembrano trattative.
UPDATE 30 GIUGNO: Sottoscriviamo il commento di Christian Rocca:
«Nel mondo occidentale oggi la differenza è tra chi ha visto che cosa è successo l'undici settembre e quindi vorrebbe sconfiggere il nemico e chi ha visto che cosa è successo però dice che dovremmo capire le ragioni dell'odio che il nostro nemico ha nei nostri confronti. Che gli italiani e gli europei non stiano tra i primi e non sostengano gli americani è una cosa incredibile: ma come fanno a non capire che nel momento in cui a Washington si romperanno le scatole di morire e di spendere anche per noi, e per giunta essere presi per il culo, poi toccherà a noi combattere o, come abbiamo spesso fatto nello scorso secolo, arrenderci?»
Tuesday, June 28, 2005
C'è ancora chi parla di "scelta" del popolo iraniano
Sulle disoneste e irreponsabili analisi delle elezioni iraniane è uscito oggi questo mio articolo su L'opinione. Ma è successo di nuovo, ieri: Anna Momigliano, su il Riformista (da Polito non me l'aspettavo). Nel suo commento parla di «elezioni più o meno libere» (quelle in cui i candidati scomodi al regime sono esclusi).
Anche lei, come Venturini sul Corriere, commette l'errore logico di interpretare l'esito del voto iraniano come un fallimento della strategia americana e uno stop del processo di democratizzazione del Medio Oriente: «... l'effetto domino della democrazia esportata in Iraq, la cosiddetta primavera mediorientale, si è arrestato; e in secondo luogo, che elezioni libere (elezioni libere in Iran? Questa sì che è una notizia. Ma qualche riga sopra non erano solo «più o meno libere»?) non sempre portano a un governo democratico - e in Medio Oriente più spesso che altrove». Anche qui, sotto-sotto, gratta-gratta, il pregiudizio un po' razzista che se si mette in mano la democrazia ai popoli del Medio Oriente questi non sappiano proprio usarla, e messi di fronte alla scelta optano per la tirannia (che stupidi eh!). E quello dell'Iran neanche era il caso, visto che la democrazia che gli ayatollah gli mettono in mano è piuttosto fasulla.
«... la democrazia che annulla se stessa (democrazia in Iran? Questa sì che è una notizia) perché non sempre la volontà popolare al governo (elezioni libere, democrazia e volontà popolare in Iran? Queste sì che sono notizie) significa più libertà civili e politiche, o un maggiore rispetto dei diritti umani. Non sempre il suffragio universale porta insomma a quel concetto di democrazia liberale» (di certo l'Italia è un esempio). Infine, la ciliegina sulla torta ci sta, è di stagione: «... la scelta conservatrice del popolo iraniano». Ma se c'erano solo candidati conservatori, come faceva il popolo a scegliere diversamente? Chi me lo spiega?). Ma questa qui, Polito, dove l'ha presa?
Almeno quella di Carlo Panella su Il Foglio è un'analisi che non chiama in causa, per ingenuità o malafede, la volontà popolare, ma cerca di interpretare l'esito del voto nelle dinamiche interne al potere.
Il Foglio ha il merito di tradurre l'analisi diAmir Taheri sul Wall Street Journal, di cui riporto alcuni passaggi che spiegano come l'esito del voto iraniano presenti un «enorme vantaggio sul piano della chiarezza».
Anche lei, come Venturini sul Corriere, commette l'errore logico di interpretare l'esito del voto iraniano come un fallimento della strategia americana e uno stop del processo di democratizzazione del Medio Oriente: «... l'effetto domino della democrazia esportata in Iraq, la cosiddetta primavera mediorientale, si è arrestato; e in secondo luogo, che elezioni libere (elezioni libere in Iran? Questa sì che è una notizia. Ma qualche riga sopra non erano solo «più o meno libere»?) non sempre portano a un governo democratico - e in Medio Oriente più spesso che altrove». Anche qui, sotto-sotto, gratta-gratta, il pregiudizio un po' razzista che se si mette in mano la democrazia ai popoli del Medio Oriente questi non sappiano proprio usarla, e messi di fronte alla scelta optano per la tirannia (che stupidi eh!). E quello dell'Iran neanche era il caso, visto che la democrazia che gli ayatollah gli mettono in mano è piuttosto fasulla.
«... la democrazia che annulla se stessa (democrazia in Iran? Questa sì che è una notizia) perché non sempre la volontà popolare al governo (elezioni libere, democrazia e volontà popolare in Iran? Queste sì che sono notizie) significa più libertà civili e politiche, o un maggiore rispetto dei diritti umani. Non sempre il suffragio universale porta insomma a quel concetto di democrazia liberale» (di certo l'Italia è un esempio). Infine, la ciliegina sulla torta ci sta, è di stagione: «... la scelta conservatrice del popolo iraniano». Ma se c'erano solo candidati conservatori, come faceva il popolo a scegliere diversamente? Chi me lo spiega?). Ma questa qui, Polito, dove l'ha presa?
Almeno quella di Carlo Panella su Il Foglio è un'analisi che non chiama in causa, per ingenuità o malafede, la volontà popolare, ma cerca di interpretare l'esito del voto nelle dinamiche interne al potere.
«La radicalizzazione, la svolta, l'emarginazione del "partito" dei moderati è tanto netta e violenta che lo stesso apparente leader, Khamenei, ne è palesemente spaventato. Il divieto ai vincitori di festeggiare nelle piazze il trionfo, le parole di straordinario apprezzamento pronunciate dal rahbar nei confronti di Rafsanjani ci presentano oggi infatti un Khamenei più ostaggio che leader e questa sua debolezza palese aggiunge tinte ancora più fosche al quadro generale».Cercando di ipotizzare le prossime mosse di Teheran posso mettere in fila: melina e dissimulazione con gli europei sul programma nucleare; fomentare Siria, Hezbollah e palestinesi contro Israele; tentativo di esportare la rivoluzione islamica in Iraq; aiuto ad Al Qaeda per colpire l'America; attacco a Israele.
Il Foglio ha il merito di tradurre l'analisi diAmir Taheri sul Wall Street Journal, di cui riporto alcuni passaggi che spiegano come l'esito del voto iraniano presenti un «enorme vantaggio sul piano della chiarezza».
«I politici mullah come Khatami e Rafsanjani hanno cercato (e spesso ci sono riusciti) di ingannare gli europei facendo finta di essere liberal in stile Davos, mentre in patria obbligavano le donne a coprirsi i capelli perché emanano un pericoloso bagliore che rende selvaggi gli uomini. Con Ahmadinejad, invece, quello che si vede è la realtà. A differenza di Khatami, il quale affermava che l'Islam e la democrazia sono la stessa cosa, Ahmadinejad non si fa alcuno scrupolo a dire che le due cose sono incompatibili. Sostiene anche senza mezzi termini che le donne non sono uguali agli uomini e che i non musulmani non possono avere gli stessi diritti dei musulmani.
Khatami e Rafsanjani hanno cercato di presentare al mondo un "diverso" che era in realtà la stessa cosa, ma senza barba e turbante. Ahmadinejad, invece, è orgoglioso di presentarsi come il "diverso" che non rinuncia in nessun caso alla sua diversità. Tutto questo rappresenta un immenso vantaggio sul piano della chiarezza. Ora sappiamo che l'Iran è controllato da un'élite che rifiuta il modello globale e dichiara di costituire un'alternativa a ciò che lei stessa definisce il "corrotto stile di vita occidentale". La vittoria di Ahmadinejad dimostra che il regime khomeinista non può essere riformato dall'interno, perlomeno non nella direzione sperata dalle classi medie urbane del paese e dalle potenze occidentali. Dice che l'Iran ha diritto ad avere qualsiasi arma desideri, comprese quelle nucleari, abbandonando così quell'ambiguità tanto cara a Jack Straw o Joschka Fischer.
Paradossalmente, queste non sono cattive notizie. In patria, le classi medie iraniane ora si rendono conto che devono combattere per ottenere ciò che vogliono. All'estero, tutte le potenze che hanno rapporti con la Repubblica islamica sanno che non possono più temporeggiare e tergiversare con i nuovi mamelucchi di Teheran. La nuova élite di Teheran può essere tenuta sotto controllo e, al momento giusto, anche affrontata e sconfitta. Ma non si può certo convincerla a un comportamento ragionevole durante un colloquio a Davos o nel corso di una cena con Jacques Chirac».
Monday, June 27, 2005
Benvenuti a BlogRoll
E' partita la scorsa settimana una trasmissione radiofonica che JimMomo conduce insieme a due suoi colleghi: michelelembo e robba.
Va in onda ogni venerdì alle ore 20 (circa) su Radio Radicale. In due parole si tratta di una rassegna blog. A nostro insindacabile e arbitrario giudizio, guidati solo dai nostri personalissimi gusti e interessi, faremo una selezione dei post più "caldi" della settimana. Ve li segnaleremo e di alcuni ne leggeremo qualche passo.
Manco a dirlo, alla trasmissione non potevamo non dedicare un blog, dal quale potrete riascoltare tutte le puntate andate in onda (formato mp3), ritrovare i link a tutti (o quasi) i post segnalati in trasmissione, lasciare i vostri commenti e inviare le vostre segnalazioni. Se pensate di aver scritto un post che tutti dovrebbero leggere, o vi imbattete in qualcosa che "noi umani non potremmo immaginare", non indugiate a scriverci. Ma ricordate che la rete è un oceano e la nostra è una piccola triremi.
E' un esperimento ai primi passi, quindi non siate troppo severi nel giudicare tre dilettanti allo sbaraglio. Col tempo cercheremo di migliorarci. E, a proposito, i consigli sono naturalmente ben accetti. Buon ascolto!
Va in onda ogni venerdì alle ore 20 (circa) su Radio Radicale. In due parole si tratta di una rassegna blog. A nostro insindacabile e arbitrario giudizio, guidati solo dai nostri personalissimi gusti e interessi, faremo una selezione dei post più "caldi" della settimana. Ve li segnaleremo e di alcuni ne leggeremo qualche passo.
Manco a dirlo, alla trasmissione non potevamo non dedicare un blog, dal quale potrete riascoltare tutte le puntate andate in onda (formato mp3), ritrovare i link a tutti (o quasi) i post segnalati in trasmissione, lasciare i vostri commenti e inviare le vostre segnalazioni. Se pensate di aver scritto un post che tutti dovrebbero leggere, o vi imbattete in qualcosa che "noi umani non potremmo immaginare", non indugiate a scriverci. Ma ricordate che la rete è un oceano e la nostra è una piccola triremi.
E' un esperimento ai primi passi, quindi non siate troppo severi nel giudicare tre dilettanti allo sbaraglio. Col tempo cercheremo di migliorarci. E, a proposito, i consigli sono naturalmente ben accetti. Buon ascolto!
Sunday, June 26, 2005
Orso di Pietra c'è andato pesante con Penna Bianca
C'è andato pesante Orso di Pietra con il suo corsivo polemico rivolto a Marco Pannella e all'idea di un Partito d'Azione «liberale, socialista, democratico, radicale». E' comprensibile, visto che l'idea del leader radicale sembra ricalcare il tentativo fatto qualche tempo fa dal direttore de L'opinione di costituire un polo laico. Sembra, e vediamo perché sembra.
Potremmo limitarci a smontare la premessa da cui Diaconale parte. La proposta di Pannella non è stata formulata all'indomani della sconfitta referendaria, ma il 29 maggio a Radio Radicale. Dunque, ammesso che sia il leader radicale «l'artefice del tracollo» referendario, l'idea voleva essere sia la via d'uscita a una probabile sconfitta, che non è solo radicale, ma anche lo sbocco di un'eventuale vittoria.
Certo, premetteva Pannella, se il Partito d'Azione «nasce con i segretari di tutte le forze minori, ogni forza ha il problema di avere due-tre eletti e alla fine non c'è trippa per gatti». E precisava: «Non si tratta di fare come ha generosamente tentato di fare l'amico Diaconale, la federazione di quelli che devono essere eletti loro personalmente, più due amici o quattro». L'obiettivo è quello di immettere una nuova realtà nel contesto di un sistema "anglosassone", in cui la politica radicale potrebbe essere «l'animo», la politica di governo di un grande schieramento.
L'idea pannelliana rimane tuttora vaga, allo stato embrionale, ma c'è un humus, la tradizione liberale e quella socialista che fanno tuttora parte del Dna sociale. Il Partito d'Azione potrebbe occupare uno spazio politico che occorre prima di tutto creare: perché ora non c'è. Per esempio, come interlocutore dei Ds al posto di Rutelli, o di Forza Italia se tornasse quella del '94.
Ma qui torniamo sempre a quel nocciolo che è anche al centro della questione Della Vedova. Non è in discussione il "se", o "con chi" allearsi, ma il "per fare che cosa", il "come". E il come è tutto, il "che fare" è prioritario. E' la differenza tra vivere e morire. Entrare in una delle due coalizioni e poi vedere il da farsi, oppure sapere bene il da farsi e poi semmai entrare?
Posto che siamo d'accordo sul fatto che l'entrata in una delle due coalizioni non può costituire una scelta di valore fra due facce della stessa medaglia partitocratica, ma una scelta su obiettivi. Mentre i valori ciascuno ha i propri, sugli obiettivi possono convergere in un'ottica fusionista forze politiche e sociali diverse che di volta in volta trovano un determinato obiettivo compatibile con i propri valori. Non l'unione dei laici quindi, ma «l'unità laica delle forze»: ciascuno con il suo motivo, laicamente si incontra su un obiettivo. Cosa c'è di più pragmatico del "tratto di strada assieme"?
Invece, è incredibile la persistenza, anche tra i più attenti osservatori del movimento radicale, di alcuni miti che i fatti si sono incaricati di far cadere. Così, una dialettica aperta e trasparente all'interno di un soggetto politico radicale diventa Pannella padre-padrone che divora i dissenzienti. Il merito delle posizioni nessuno si disturba a coglierlo. Così per l'altro luogo comune. Parlare di «splendido isolamento» è davvero una beffa quando si viene dai due mesi di fitte trattative dell'iniziativa dell'"ospitalità", fallita per i veti incrociati partiti dall'interno delle due coalizioni. Un fallimento anche per gli amici dei radicali che sono dentro e che non hanno peso politico o non hanno esercitato pressioni sufficienti.
Però siamo ancora fermi a credere che Della Vedova è il radicale che si vuole alleare, mentre Pannella & Bonino i difensori dello «splendido isolamento». E' un buon film, fa comodo a molti crederci, ma non è realtà. Altro che «duri e puri». La storia radicale dimostra che l'azione politica dei radicali non si esaurisce nei referendum. Rimanere fuori dalle istituzioni non è quasi mai una scelta dei radicali, ma è spesso scelta altrui nel rifiutarsi di creare le condizioni politiche minime necessarie. Se un accordo per rientrare nelle istituzioni prescinde da un fatto politico, anche minimo, la presenza radicale diverrebbe presto scoria invece che azione politica.
Troppo alte le richieste dei soliti incontentabili radicali? Vista la debolezza del movimento, che da troppo tempo attraversa il deserto «senz'acqua e scarpe», l'unica richiesta di Pannella è quella di ricevere un aiuto a presentare le liste e di valorizzare la presenza radicale (in tv, sui giornali, per posta), non nasconderla, all'interno della coalizione ospitante, in modo da farne un fatto politico da presentare ai propri elettori. Nessuna condizione, nessun compromesso sui programmi, scomodo e ipocrita per l'una e l'altra parte, ma un fatto politico, innanzitutto per quella coalizione. Quale fosse questo fatto politico minimo se ne accorsero persino autorevoli commentatori.
Potremmo limitarci a smontare la premessa da cui Diaconale parte. La proposta di Pannella non è stata formulata all'indomani della sconfitta referendaria, ma il 29 maggio a Radio Radicale. Dunque, ammesso che sia il leader radicale «l'artefice del tracollo» referendario, l'idea voleva essere sia la via d'uscita a una probabile sconfitta, che non è solo radicale, ma anche lo sbocco di un'eventuale vittoria.
Certo, premetteva Pannella, se il Partito d'Azione «nasce con i segretari di tutte le forze minori, ogni forza ha il problema di avere due-tre eletti e alla fine non c'è trippa per gatti». E precisava: «Non si tratta di fare come ha generosamente tentato di fare l'amico Diaconale, la federazione di quelli che devono essere eletti loro personalmente, più due amici o quattro». L'obiettivo è quello di immettere una nuova realtà nel contesto di un sistema "anglosassone", in cui la politica radicale potrebbe essere «l'animo», la politica di governo di un grande schieramento.
L'idea pannelliana rimane tuttora vaga, allo stato embrionale, ma c'è un humus, la tradizione liberale e quella socialista che fanno tuttora parte del Dna sociale. Il Partito d'Azione potrebbe occupare uno spazio politico che occorre prima di tutto creare: perché ora non c'è. Per esempio, come interlocutore dei Ds al posto di Rutelli, o di Forza Italia se tornasse quella del '94.
Ma qui torniamo sempre a quel nocciolo che è anche al centro della questione Della Vedova. Non è in discussione il "se", o "con chi" allearsi, ma il "per fare che cosa", il "come". E il come è tutto, il "che fare" è prioritario. E' la differenza tra vivere e morire. Entrare in una delle due coalizioni e poi vedere il da farsi, oppure sapere bene il da farsi e poi semmai entrare?
Posto che siamo d'accordo sul fatto che l'entrata in una delle due coalizioni non può costituire una scelta di valore fra due facce della stessa medaglia partitocratica, ma una scelta su obiettivi. Mentre i valori ciascuno ha i propri, sugli obiettivi possono convergere in un'ottica fusionista forze politiche e sociali diverse che di volta in volta trovano un determinato obiettivo compatibile con i propri valori. Non l'unione dei laici quindi, ma «l'unità laica delle forze»: ciascuno con il suo motivo, laicamente si incontra su un obiettivo. Cosa c'è di più pragmatico del "tratto di strada assieme"?
Invece, è incredibile la persistenza, anche tra i più attenti osservatori del movimento radicale, di alcuni miti che i fatti si sono incaricati di far cadere. Così, una dialettica aperta e trasparente all'interno di un soggetto politico radicale diventa Pannella padre-padrone che divora i dissenzienti. Il merito delle posizioni nessuno si disturba a coglierlo. Così per l'altro luogo comune. Parlare di «splendido isolamento» è davvero una beffa quando si viene dai due mesi di fitte trattative dell'iniziativa dell'"ospitalità", fallita per i veti incrociati partiti dall'interno delle due coalizioni. Un fallimento anche per gli amici dei radicali che sono dentro e che non hanno peso politico o non hanno esercitato pressioni sufficienti.
Però siamo ancora fermi a credere che Della Vedova è il radicale che si vuole alleare, mentre Pannella & Bonino i difensori dello «splendido isolamento». E' un buon film, fa comodo a molti crederci, ma non è realtà. Altro che «duri e puri». La storia radicale dimostra che l'azione politica dei radicali non si esaurisce nei referendum. Rimanere fuori dalle istituzioni non è quasi mai una scelta dei radicali, ma è spesso scelta altrui nel rifiutarsi di creare le condizioni politiche minime necessarie. Se un accordo per rientrare nelle istituzioni prescinde da un fatto politico, anche minimo, la presenza radicale diverrebbe presto scoria invece che azione politica.
Troppo alte le richieste dei soliti incontentabili radicali? Vista la debolezza del movimento, che da troppo tempo attraversa il deserto «senz'acqua e scarpe», l'unica richiesta di Pannella è quella di ricevere un aiuto a presentare le liste e di valorizzare la presenza radicale (in tv, sui giornali, per posta), non nasconderla, all'interno della coalizione ospitante, in modo da farne un fatto politico da presentare ai propri elettori. Nessuna condizione, nessun compromesso sui programmi, scomodo e ipocrita per l'una e l'altra parte, ma un fatto politico, innanzitutto per quella coalizione. Quale fosse questo fatto politico minimo se ne accorsero persino autorevoli commentatori.
L'"ospitalità" ai radicali avrebbe «segnato il grado alto di libertà e di istinto democratico, rischi e benefici inclusi, di quella delle due parti che lo accetta». Furio ColomboDunque, rivendicando il copyright di un'iniziativa generosa, ma ben diversa dalla suggestione pannelliana di un Partito d'Azione, quello di Orso di Pietra rimane un attacco polemico che nasce e muore lì. Forse è servito a provocare una reazione, ma la speranza, e l'invito, è che ora vi sia la disponibilità a discutere insieme il "che fare". Così Vecellio ha risposto a Giacalone:
«... nei due poli l'alleanza con i radicali è voluta soprattutto da coloro che aspirano a connotare in senso più "liberale" il proprio schieramento. I radicali possono far perdere voti ma anche farne guadagnare. Hanno un blasone temuto e ambito. Proprio di chi, nella sua ormai lunga storia, ha dato lezioni di libertà a tanti senza mai bisogno di prenderne da nessuno». Angelo Panebianco
«Una sana iniezione di cultura liberale farebbe bene a entrambi i poli. Ma, forse, è proprio questa la ragione per la quale entrambi guardano a tale prospettiva con tanta diffidenza». Piero Ostellino
«Non ci siamo ripiegati su noi stessi, non ci siamo esercitati nell'inconcludente pratica del crucifige, abbiamo avviato una discussione seria e concreta su "che fare", "come fare", "con chi fare". Caro Giacalone: dici che è poco? E se viene anche quel mondo del centro-destra che ha sostenuto i referendum e fatto l'opzione a favore del "sì", benvenuto, tappeto rosso in loro onore. Ma tu li vedi, sai dove sono finiti? Forse mi sarò distratto, ma all'Ergife non li ho né visti né sentiti».Consideriamo tutti che parlando del futuro dei radicali a Rai 21.15, su Rainews24, Pannella non ha usato mezzi termini per descrivere la situazione di estrema debolezza che limita le capacità di movimento del movimento.
«Non è giusto utilizzare il termine sciogliere. Dico invece che potremmo essere costretti a chiudere baracca... Può essere che qualcosa accada nei prossimi mesi o settimane, prima che si arrivi a compiere i cinquant'anni. Se si parla di cose vive si parla anche della possibilità della morte... Purtroppo noi radicali siamo diventati un'etnia, nostro malgrado... Ciò non toglie che abbiamo una capacità e un materiale di governo. Nei novanta referendum promossi durante tutta la nostra storia, sia quelli mancati che quelli vittoriosi, c'è scritto un programma politico di governo che in trenta giorni noi potremmo approntare per un governo al quale all'improvviso fossimo chiamati...».In tal caso servirà anche Benedetto Della Vedova, ma non per scaldare una poltrona.
Lula infrange i brevetti: un precedente pericoloso
Il Brasile minaccia di infrangere il brevetto del farmaco anti-Aids Kaletra, considerato il più efficace e avanzato al mondo, prodotto dalla statunitense Abbott, se la casa farmaceutica non accetterà di ridurne il prezzo o di cedere la licenza di fabbricazione al governo brasiliano. Non è la prima minaccia simile, ma è la prima volta che il Ministero della Sanità dichiara un farmaco di "interesse pubblico". La Abbott ha dieci giorni per rispondere alla richiesta di un abbassamento di prezzo, altrimenti il Brasile comincerà a produrre il farmaco in proprio, in un laboratorio statale. Il Kaletra potrà essere prodotto entro un anno al costo di 68 centesimi a unità contro 1,17 dlr. preteso dalla Abbott per consegne all'ingrosso.
«Non è un'infrazione né del contratto di fornitura né degli accordi internazionali sui brevetti. E' solo l'applicazione delle norme internazionali e degli accordi del Wto che permettono di adottare misure del genere in circostanze d'emergenza», ha dichiarato il ministro della Sanità, Humberto Costa. Il presidente Luiz Inacio Lula ha firmato il provvedimento.
Si tratta di un precedente pericoloso, che colpisce uno dgli istituti su cui si fondano il sistema economico di libero mercato e la ricerca scientifica. Un precedente demagogico, che aprendo la strada a decisioni simili, rischia di rallentare, in un futuro anche prossimo, la ricerca delle aziende farmaceutiche nel settore dell'Aids. La realizzazione di farmaci come quelli contro l'Aids richiede alle aziende investimenti eccezionali. Pretendere che le aziende rinuncino ai loro guadagni una volta rientrate dei costi di produzione, significa diminuire le risorse disponibili per nuovi investimenti e ricerche.
Ovviamente a festeggiare sono i no global. Vittorio Agnoletto è raggiante: «La decisione di Lula di disobbedire all'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) è una scelta che non ha precedenti e afferma la priorità della difesa della salute rispetto agli interessi economici delle grandi multinazionali farmaceutiche».
«Non è un'infrazione né del contratto di fornitura né degli accordi internazionali sui brevetti. E' solo l'applicazione delle norme internazionali e degli accordi del Wto che permettono di adottare misure del genere in circostanze d'emergenza», ha dichiarato il ministro della Sanità, Humberto Costa. Il presidente Luiz Inacio Lula ha firmato il provvedimento.
Si tratta di un precedente pericoloso, che colpisce uno dgli istituti su cui si fondano il sistema economico di libero mercato e la ricerca scientifica. Un precedente demagogico, che aprendo la strada a decisioni simili, rischia di rallentare, in un futuro anche prossimo, la ricerca delle aziende farmaceutiche nel settore dell'Aids. La realizzazione di farmaci come quelli contro l'Aids richiede alle aziende investimenti eccezionali. Pretendere che le aziende rinuncino ai loro guadagni una volta rientrate dei costi di produzione, significa diminuire le risorse disponibili per nuovi investimenti e ricerche.
Ovviamente a festeggiare sono i no global. Vittorio Agnoletto è raggiante: «La decisione di Lula di disobbedire all'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) è una scelta che non ha precedenti e afferma la priorità della difesa della salute rispetto agli interessi economici delle grandi multinazionali farmaceutiche».
Regime Change! E' l'unico commento onesto
Non facciamoci ingannare da letture che ci scoraggiano dal sostenere le forze della rivoluzione democratica in Iran facendoci credere che il popolo sostiene il regime
C'è una sola parola per definire commenti ed editoriali come quello di Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi: irresponsabile. L'esito delle elezioni iraniane rappresenta di tutto fuorché una sconfitta dell'Occidente, o di Bush, come apprendiamo dall'articolo. Semplicemente perché non si è trattato di elezioni democratiche, ma di una «lotta di potere interna a una elite di tiranni». E' vero, «irregolarità» vi sono state anche nelle lodate elezioni in Iraq e Afghanistan, ma è disonesto paragonarle alle elezioni iraniane.
Non stiamo parlando di qualche scheda in più, né di violenze o aiuti del potere a vantaggio del candidato uscito vincitore; non stiamo parlando insomma, dei brogli denunciati dallo sconfitto Rafsanjani, ma stiamo parlando di un regime che ha fatto fuori tutti i candidati ritenuti scomodi. E' ingenuo ritenere che da queste elezioni «l'intero Occidente» dovesse aspettarsi «un'affermazione della spinta modernizzatrice», una «secolarizzazione progressiva della società e della politica», una «liberalizzazione dell'economia». E' dunque assurdo parlare ora di «bruciante battuta d'arresto». Arresto rispetto a quale movimento? E' assurdo commentare elezioni-farsa attraverso un'ottica occidentale, come se fossero state elezioni democratiche con giusto qualche irrilevante irregolarità, dove tutto sommato è il popolo ad avere scelto liberamente.
L'errore, innanzitutto logico, sta nell'accreditare una lettura per cui le elezioni iraniane costituirebbero un nuovo banco di prova per quell'effetto domino alla base della strategia americana di democratizzazione del Medio Oriente. Ma al contrario delle elezioni in Afghanistan, Iraq e Libano, le elezioni iraniane non potevano esserlo, semplicemente perché non erano elezioni. Alla vigilia del primo voto in Iran, il presidente Bush non auspicava il successo di alcun candidato "riformatore" (non ce n'erano), ma denunciava il fallimento di elezioni messe in scena da un regime che non rispetta standard minimi di democrazia.
Non siamo di fronte all'espressione di una volontà popolare. Invece, sapevamo fin dall'inizio, da quando il Consiglio dei Guardiani ha escluso il 90% dei candidati dalla competizione elettorale, che chiunque avesse vinto sarebbe stata l'espressione della volontà del regime e che saremmo stati qui a commentare quella volontà, la volontà - certo inquietante - di quella parte uscita vittoriosa dalla faida interna. Non siamo di fronte a un popolo che scegliendo e legittimando la tirannia (un vero e proprio ossimoro) provoca una «battuta d'arresto» in una regione in cui iracheni, libanesi e afgani hanno scelto la democrazia.
E' esattamente la lettura che gli ayatollah vogliono far passare. «Scoraggiarci dal sostenere le forze della rivoluzione democratica in Iran» facendoci credere che il popolo sostiene il regime. Prima del voto ci aveva messi in guardia Michael Ledeen da quelle che sarebbero state le sirene post-elettorali di autorevoli commentatori.
L'unico commento possibile di queste elezioni sta in due parole: regime change. L'aspetto positivo infatti, lo riconosce lo stesso Venturini, è che a differenza di quanto accaduto con l'elezione di Khatami, stavolta «nessuna coalizione di elettori riformisti si è tappata il naso per sbarrare la strada all'ultraconservatore». Come sempre lucida e puntuale l'analisi di Magdi Allam.
Emblematiche le prime reazioni. Francia e Russia invitano il neo-presidente a proseguire il «dialogo» sul programma nucleare. Tutto qui. Per gli Stati Uniti è un voto contro la voglia di libertà in tutta la regione. Il ministro degli Esteri britannico Jack Straw denuncia «gravi irregolarità». Schroeder ci va piano, con la debole espressione «notevoli carenze». Niente di nuovo.
C'è una sola parola per definire commenti ed editoriali come quello di Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi: irresponsabile. L'esito delle elezioni iraniane rappresenta di tutto fuorché una sconfitta dell'Occidente, o di Bush, come apprendiamo dall'articolo. Semplicemente perché non si è trattato di elezioni democratiche, ma di una «lotta di potere interna a una elite di tiranni». E' vero, «irregolarità» vi sono state anche nelle lodate elezioni in Iraq e Afghanistan, ma è disonesto paragonarle alle elezioni iraniane.
Non stiamo parlando di qualche scheda in più, né di violenze o aiuti del potere a vantaggio del candidato uscito vincitore; non stiamo parlando insomma, dei brogli denunciati dallo sconfitto Rafsanjani, ma stiamo parlando di un regime che ha fatto fuori tutti i candidati ritenuti scomodi. E' ingenuo ritenere che da queste elezioni «l'intero Occidente» dovesse aspettarsi «un'affermazione della spinta modernizzatrice», una «secolarizzazione progressiva della società e della politica», una «liberalizzazione dell'economia». E' dunque assurdo parlare ora di «bruciante battuta d'arresto». Arresto rispetto a quale movimento? E' assurdo commentare elezioni-farsa attraverso un'ottica occidentale, come se fossero state elezioni democratiche con giusto qualche irrilevante irregolarità, dove tutto sommato è il popolo ad avere scelto liberamente.
L'errore, innanzitutto logico, sta nell'accreditare una lettura per cui le elezioni iraniane costituirebbero un nuovo banco di prova per quell'effetto domino alla base della strategia americana di democratizzazione del Medio Oriente. Ma al contrario delle elezioni in Afghanistan, Iraq e Libano, le elezioni iraniane non potevano esserlo, semplicemente perché non erano elezioni. Alla vigilia del primo voto in Iran, il presidente Bush non auspicava il successo di alcun candidato "riformatore" (non ce n'erano), ma denunciava il fallimento di elezioni messe in scena da un regime che non rispetta standard minimi di democrazia.
Non siamo di fronte all'espressione di una volontà popolare. Invece, sapevamo fin dall'inizio, da quando il Consiglio dei Guardiani ha escluso il 90% dei candidati dalla competizione elettorale, che chiunque avesse vinto sarebbe stata l'espressione della volontà del regime e che saremmo stati qui a commentare quella volontà, la volontà - certo inquietante - di quella parte uscita vittoriosa dalla faida interna. Non siamo di fronte a un popolo che scegliendo e legittimando la tirannia (un vero e proprio ossimoro) provoca una «battuta d'arresto» in una regione in cui iracheni, libanesi e afgani hanno scelto la democrazia.
E' esattamente la lettura che gli ayatollah vogliono far passare. «Scoraggiarci dal sostenere le forze della rivoluzione democratica in Iran» facendoci credere che il popolo sostiene il regime. Prima del voto ci aveva messi in guardia Michael Ledeen da quelle che sarebbero state le sirene post-elettorali di autorevoli commentatori.
L'unico commento possibile di queste elezioni sta in due parole: regime change. L'aspetto positivo infatti, lo riconosce lo stesso Venturini, è che a differenza di quanto accaduto con l'elezione di Khatami, stavolta «nessuna coalizione di elettori riformisti si è tappata il naso per sbarrare la strada all'ultraconservatore». Come sempre lucida e puntuale l'analisi di Magdi Allam.
«Il voto rappresenta in effetti la spaccatura formale tra la società civile, uomini e donne che patrocinano il sogno della libertà e della democrazia, e il regime teocratico che s'impone come una cappa asfissiante dal 1979. E' essenzialmente un voto di sfiducia nella possibilità di riformare la teocrazia dall'interno».Se invece avessero scelto di turarsi il naso, avrebbe vinto Rafsanjani. Se per gli stessi iraniani la vittoria dell'uno o dell'altro era indifferente, perché la sconfitta di Rafsanjani dovrebbe essere una nostra "sconfitta"? Il favorito Rafsanjani, il conservatore realista del regime, paga i suoi cattivi rapporti con la Guida Suprema Khamenei. Non era il candidato riformista o moderato, come sciaguratamente abbiamo letto su alcuni giornali e siti di news, ma «una vecchia volpe più volte presidente del Parlamento e dello Stato... interamente organico e funzionale alla teocrazia». Avremmo sbagliato a riporre in lui speranze di cambiamento che neanche gli iraniani vi hanno riposto.
«La gente non è più disposta a farsi prendere in giro. Se gli iraniani hanno ritirato la fiducia riposta in Khatami, pur riconoscendogli un'onestà intellettuale e una integrità morale, perché mai avrebbero dovuto scommettere su un personaggio che incarna l'ambiguità e il doppiogiochismo politico? La lezione di fondo di queste elezioni è che la maggioranza degli iraniani, di cui i due terzi hanno meno di trent'anni, ha maturato la consapevolezza che il problema dei problemi è la teocrazia stessa e che non è possibile riformarla dall'interno. Oggi controllando la Presidenza della Repubblica in aggiunta al Parlamento, la teocrazia si è ricompattata con la "guida spirituale" che incarna i massimi poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Il regime teocratico ormai domina tutto. Ma ha perso la fiducia della maggioranza degli iraniani. Khamenei ha doppiamente ragione: non solo non è un giorno di festa ma siamo alla vigilia di una imprevedibile resa dei conti».Forse si tradurrà addirittura in un vantaggio per le forze democratiche iraniane l'elezione-farsa del candidato ultraconservatore Ahmadinejad. Il regime mostra il suo vero volto, non si nasconde, è più odioso, più facile da denunciare e da combattere. Alla luce di questa interpretazione del voto, l'Occidente dovrebbe sostenere con maggiore determinazione e mezzi i movimenti di opposizione democratica in Iran, facilitare l'accesso della popolazione a una informazione il più possibile libera e aperta all'esterno, impegnarsi a far circolare le idee, così da indebolire ulteriormente la base sociale su cui si regge il regime. Sul piano delle relazioni diplomatiche, l'Occidente non dovrebbe legittimare le autorità iraniane con il «dialogo», perché scoraggerebbe quegli iraniani che si battono per la libertà rafforzando il regime.
Emblematiche le prime reazioni. Francia e Russia invitano il neo-presidente a proseguire il «dialogo» sul programma nucleare. Tutto qui. Per gli Stati Uniti è un voto contro la voglia di libertà in tutta la regione. Il ministro degli Esteri britannico Jack Straw denuncia «gravi irregolarità». Schroeder ci va piano, con la debole espressione «notevoli carenze». Niente di nuovo.
Saturday, June 25, 2005
Cosa ci serve, cosa facciamo
L'elenco delle cose che dovremmo fare sta nel programma che Tony Blair ha presentato al Parlamento europeo, ed è il tema dell'editoriale di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera di oggi:
Per comprendere bene lo spartiacque di fronte al quale ci troviamo in Europa è utile anche il punto di Piero Ostellino, oggi sul Corriere della Sera.
«L'economia italiana non cresce perché sopporta il peso di troppe rendite (nelle professioni, nell'energia, nelle comunicazioni) e di regole disegnate per proteggere i fortunati che hanno un posto di lavoro (nelle fabbriche, nelle aziende pubbliche, nelle università) a scapito di chi è escluso...Berlusconi si definisce, insieme al premier britannico, «alfiere del nuovo corso», ma cosa fa concretamente, qui e ora, per inaugurare il nuovo corso in Italia? Assume 40 mila (dico 40 mila) precari della scuola, ne promette altrettanti per l'impiego pubblico, mentre Blair ha snellito la burocrazia di 80 mila impiegati e ne ha messi in mobilità altri 20 mila. Affida il programma per il 2006 al colbertista e quasi-no-global Tremonti, per non parlare dei recenti aumenti agli statali. Si sa, entriamo nell'anno elettorale, ma Berlusconi crede davvero di ottenere voti da ceti tradizionalmente ostili al centrodestra? Come pensa, invece, di ridurre la spesa pubblica e realizzare l'obiettivo "meno Stato"?
Completare il mercato interno là dove ancora non funziona: professioni, energia, servizi finanziari; delegare le decisioni sul finanziamento della ricerca a una agenzia indipendente sul modello della National Science Foundation americana: solo Italia e Polonia hanno votato contro questo progetto, nel nostro caso per l'opposizione della lobby dei ricercatori, terrorizzati dalla prospettiva che i fondi vengano assegnati sulla base del merito; smetterla di destinare metà del bilancio europeo agli agricoltori; meno aiuti di Stato alle aziende grandi e decotte, vedi Alitalia, e meno tasse per quelle piccole e di successo».
Per comprendere bene lo spartiacque di fronte al quale ci troviamo in Europa è utile anche il punto di Piero Ostellino, oggi sul Corriere della Sera.
«... se dovere di ogni buon europeista è difendere l'Europa che ha prodotto un'agricoltura dirigista di tipo sovietico ma, al tempo stesso, parassitaria di genere corporativo, beh, allora, mettiamo fin d'ora in preventivo che, come europei, siamo condannati alla decadenza economica e a restare indietro nella competizione mondiale. Insomma, se invece di continuare a fare della retorica europeista, il dito dietro il quale nascondiamo la sudditanza a una cultura corporativa, dirigista e burocratica, facessimo empiricamente un paio di conti, capiremmo che quello che ci è stato finora venduto come un progetto di Europa politicamente unita e la burocratica e centralistica ossessione napoleonica di tutto armonizzare e regolamentare, che poco lascia alla spontaneità del mercato e all'autonoma liberta di scelta del cittadino...
L'idea di un'Europa liberale, aperta, nella quale gli interessi nazionali competano dentro un quadro istituzionale e un sistema economico autenticamente federali e il momento unificante siano l'euro, una politica estera e di difesa comuni, non una oguale quantità di cacao nelle barrette di cioccolato. Nel federalismo americano i singoli Stati hanno un'autonoma capacità legislativa in molti campi e lo Stato federale non è nato per devoluzione di sovranità da parte dei primi, ma ha una funzione di contrappeso (vedi Montesquieu, non Rousseau) rispetto a quelli. E se la mia idea fosse la stessa che sta inducendo anche molti altri europei a diffidare di questa Europa? Meditate gente, meditate».
Ratzinger detta. In molti a prendere appunti
Il Riformista si adegua e ai laici propone l'appeasement
Ratzinger a passo spedito, Ciampi zoppica, è stato il mio primo commento, ieri, alla visita del Papa al Quirinale. Impressione rafforzata da quanto leggo oggi. A fronte di una difesa di rito della laicità dello Stato da parte del presidente Ciampi, le parole di Benedetto XVI risuonano come un'offensiva in piena regola. Una vera e propria lista della spesa che la Chiesa presenta alle forze politiche italiane, tutte in condizioni di estrema debolezza e desiderose di guadagnarsi i favori delle gerarchie ecclesiastiche con l'avvicinarsi della fine della legislatura e della campagna elettorale per le politiche del 2006, che nei palazzi vaticani si preparano a gestire in entrambi i forni.
Dopo aver trasformato un confronto su una legge dello Stato in uno scontro di civiltà fra valori assoluti e valori zero, passano all'incasso come un qualsiasi leader di partito appena uscito vincitore dalle urne: sanno bene, il Ponetifice e la Curia romana, che di quel 75% di astensioni non ne possono annettere più di un terzo, ma da politici navigati, per ora mettono il cappellaccio su tutti. E' l'inevitabile effetto politico che tutti avevamo ben presente prima del 12 e 13 giugno.
Ieri il Papa non si è limitato a esprimere le sue opinioni sui temi all'ordine del giorno, a riaffermare i valori della Chiesa, e non si è solo rivolto alla politica italiana con lo stile cauto che era di Giovanni Paolo II e dei suoi predecessori, ma ha «letteralmente dettato la legge». Fanno impressione i toni insistenti con i quali il Papa, pur nella cordialità, ha presentato il conto: niente legalizzazione delle coppie di fatto, nessuna modifica alla legge 40 come avevano pur ventilato gli scienziati del fronte per l'astensione (scomparsi nel nulla), ma soprattutto, passando a un altro genere di valori la richiesta urgente di finanziamenti per le scuole cattoliche.
L'offensiva più grave però, non è sulle richieste, ma sui principi. Concedere la «legittimità» della laicità dello Stato purché «sana» è di per sé una provocazione. Se è suo diritto e dovere riaffermare anche in sedi politiche la dottrina della Chiesa, gli «equivoci» sorgono, osserva Gian Enrico Rusconi su La Stampa, quando Benedetto XVI afferma «con tono perentorio che la società italiana, fedele alle sue radici cristiane, non può non riconoscersi nella dottrina della Chiesa su questi argomenti».
La pretesa di avere una sorta di sovranità etica e morale sull'Italia rischia di divenire anche legislativa a causa della subalternità della politica. I laici devoti si arruolano nelle legioni di Ratzinger sperando di essere eletti a governare il paese con l'aiuto della forza mondana del Vaticano. Dunque, non è questione di laici vs. cattolici, ma lo scontro è fra due concezioni del diritto e dello Stato, della politica.
La manovra di virata è completata con l'editoriale di oggi, la cui analisi sulla realtà della Chiesa di oggi è anche condivisibile:
Ratzinger a passo spedito, Ciampi zoppica, è stato il mio primo commento, ieri, alla visita del Papa al Quirinale. Impressione rafforzata da quanto leggo oggi. A fronte di una difesa di rito della laicità dello Stato da parte del presidente Ciampi, le parole di Benedetto XVI risuonano come un'offensiva in piena regola. Una vera e propria lista della spesa che la Chiesa presenta alle forze politiche italiane, tutte in condizioni di estrema debolezza e desiderose di guadagnarsi i favori delle gerarchie ecclesiastiche con l'avvicinarsi della fine della legislatura e della campagna elettorale per le politiche del 2006, che nei palazzi vaticani si preparano a gestire in entrambi i forni.
Dopo aver trasformato un confronto su una legge dello Stato in uno scontro di civiltà fra valori assoluti e valori zero, passano all'incasso come un qualsiasi leader di partito appena uscito vincitore dalle urne: sanno bene, il Ponetifice e la Curia romana, che di quel 75% di astensioni non ne possono annettere più di un terzo, ma da politici navigati, per ora mettono il cappellaccio su tutti. E' l'inevitabile effetto politico che tutti avevamo ben presente prima del 12 e 13 giugno.
Ieri il Papa non si è limitato a esprimere le sue opinioni sui temi all'ordine del giorno, a riaffermare i valori della Chiesa, e non si è solo rivolto alla politica italiana con lo stile cauto che era di Giovanni Paolo II e dei suoi predecessori, ma ha «letteralmente dettato la legge». Fanno impressione i toni insistenti con i quali il Papa, pur nella cordialità, ha presentato il conto: niente legalizzazione delle coppie di fatto, nessuna modifica alla legge 40 come avevano pur ventilato gli scienziati del fronte per l'astensione (scomparsi nel nulla), ma soprattutto, passando a un altro genere di valori la richiesta urgente di finanziamenti per le scuole cattoliche.
L'offensiva più grave però, non è sulle richieste, ma sui principi. Concedere la «legittimità» della laicità dello Stato purché «sana» è di per sé una provocazione. Se è suo diritto e dovere riaffermare anche in sedi politiche la dottrina della Chiesa, gli «equivoci» sorgono, osserva Gian Enrico Rusconi su La Stampa, quando Benedetto XVI afferma «con tono perentorio che la società italiana, fedele alle sue radici cristiane, non può non riconoscersi nella dottrina della Chiesa su questi argomenti».
«A parte la sproporzione tra questi problemi e la visione catastrofistica evocata per la moralità pubblica, ciò che colpisce è il fatto che i cittadini che pensano in modo difforme dalla Chiesa vengono cancellati, come se non facessero parte del popolo italiano. I loro argomenti sono ignorati e il loro atteggiamento è semplicemente sospettato o dichiarato immorale, anzi socialmente pericoloso perché, minando la famiglia (intesa in modo tradizionale) è in pericolo la società stessaMa Ciampi era troppo preso nella cerimonia per accorgersene. Ti credo che, come non manca di sottolineare Il Foglio, il Quirinale non si è fatto «coinvolgere in una polemica contro la gerarchia ecclesiastica», ma qualcosa è successo.
(...)
Benedetto XVI invita i legislatori a seguire il criterio dell'"umano" nella determinazione delle norme. Ma poi afferma che le sue indicazioni sulla famiglia sono giuste perchè la Chiesa è "abituata a scrutare la volontà di Dio inscritta nella natura stessa della creatura umana". In altre parole il Pontefice - con encomiabile chiarezza - dice che le sue tesi sulla famiglia si giustificano soltanto nella prospettiva religiosa quale è interpretata dalla Chiesa. E' un ben servito a tutti i "laici sani"».
«Con questo passo la Chiesa vanifica la distinzione laica delle competenze, perchè avanza il diritto di dettare l'etica pubblica per tutti... la laicità è ammissibile purché sia "sana", condizionata e definita cioè da quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento ultimo nella religione».Inoltre, nel discorso del Papa il riferimento alle radici cristiane «va ben oltre l'inconfutabile (e crociana, n.d.r.) affermazione che la nostra civiltà affonda nella esperienza e nella tradizione cristiana», quando da riferimento «diventa subdolamente un vincolo (con effetti anche giuridici) per condizionare l'etica pubblica in una direzione piuttosto che in un'altra». Il problema però, è che «l'etica pubblica non può essere monopolizzata da nessuna visione del mondo di gruppi sociali e politici», perché la laicità si contrappone a qualsiasi pretesa, anche non-confessionale, di quel monopolio.
La pretesa di avere una sorta di sovranità etica e morale sull'Italia rischia di divenire anche legislativa a causa della subalternità della politica. I laici devoti si arruolano nelle legioni di Ratzinger sperando di essere eletti a governare il paese con l'aiuto della forza mondana del Vaticano. Dunque, non è questione di laici vs. cattolici, ma lo scontro è fra due concezioni del diritto e dello Stato, della politica.
«In gioco - ha spiegato Pannella - due concezioni non solo dello Stato e della società, ma anche della libertà religiosa. Credenti e laici sono due categorie evocate non in modo corretto: la laicità è un connotato della religiosità per la maggioranza dei teologi anche cattolici; la laicità ha nella religiosità un suo connotato».Incredibile il "contrordine compagni" del Riformista. Pochi giorni prima del voto referendario il giornale sottolineava la stridente contraddizione fra la condotta della Chiesa e i privilegi che l'attuale regime concordatario le assicura. L'indomani del voto il vicedirettore Oscar Giannino già si rimangiava tutto, facendo sparire qualsiasi accenno al secondo polo della contraddizione. Al suo posto, un invito all'appeasement rivolto alla sinistra: la Chiesa è questa, eccoli i nuovi cattolici usciti vincitori dai referendum, tanto vale fare buon viso a cattivo gioco, dialogare e trovare intese senza illudersi con vecchi discorsi sulla laicità.
La manovra di virata è completata con l'editoriale di oggi, la cui analisi sulla realtà della Chiesa di oggi è anche condivisibile:
«La Chiesa deve combattere in prima persona, conquistare alleanze, cercarle trasversali, faticarsi il consenso che le serve, adeguare e modernizzare il suo messaggio per ottenerlo, rendersi capace di parlare anche ai laici, esporsi sul mercato libero della politica... non mostra alcuna nostalgia dell'unità politica dei cattolici o alcuna tentazione neo-centrista».A fronte di questo preteso ruolo politico della Chiesa, invece di porre almeno in dicussione il regime concordatario dei rapporti fra Stato e Chiesa, il Riformista propone alla sinistra il cedimento. Giungere alla conclusione che non ci sono rischi per la laicità dello Stato e che «i laici, soprattutto se di sinistra, dovrebbero dunque deporre quest'arma metodologica alquanto spuntata e confrontarsi con la Chiesa sui contenuti», è decisamente, se non un cedimento quanto meno un appeasement, reso ancor più inquietante dal riferimento ai «punti di contatto» su cui dialogare.
«La sinistra non deve temere questo confronto, perché tra il suo umanesimo e quello della Chiesa ci sono forse anche più punti di contatto di quelli che ci sono tra la Chiesa e l'edonismo berlusconiano o il razzismo leghista».Questi «punti di contatto» fra questa Chiesa e questa sinistra rischiano di rappresentare il peggio dell'una e dell'altra.
Friday, June 24, 2005
Guerra alla Cia e pacchia per i terroristi
Insomma, quali erano questi mezzi "altri" rispetto alla guerra che per mesi i movimenti pacifisti e antagonisti invocavano nelle piazze, e i partiti di sinistra nelle trasmissioni televisive, per combattere il terrorismo? Non si erano forse chieste operazioni mirate di intelligence che colpissero i "capi", gli appartenenti alle reti del terrore, senza coinvolgere popolazioni innocenti? Non ci hanno spiegato questo per mesi? Eppure è possibile che quando l'intelligence ne becca uno, la solita, tecnicamente irresponsabile, Procura di Milano, riesce ad aprire una caccia all'uomo contro ben 13 agenti della Cia (leggi qui), che ovviamente io mi auguro riescano a tirare qualche brutto scherzo alla procura?
Vi parla uno per il quale il caso Sigonella non fu un alto momento d'orgoglio nazionale, ma semplicemente un brutto tiro a un alleato storico e un'ossequioso regalo al terrorismo islamico.
In questo caso, addirittura, è la magistratura, e non un governo (democraticamente) eletto dai cittadini, a intralciare la guerra al terrorismo. Quale sarebbe, alla luce di questa simpatica iniziativa della procura milanese, la tanto sbandierata cooperazione fra americani ed europei sul piano delle operazioni di intelligence che dovrebbero farci dormire sonni tranquilli? Invece di combattere il terrorismo, in occidente ci combattiamo a vicenda. Guerra alla Cia e pacchia per i terroristi? Auguri.
Vi parla uno per il quale il caso Sigonella non fu un alto momento d'orgoglio nazionale, ma semplicemente un brutto tiro a un alleato storico e un'ossequioso regalo al terrorismo islamico.
In questo caso, addirittura, è la magistratura, e non un governo (democraticamente) eletto dai cittadini, a intralciare la guerra al terrorismo. Quale sarebbe, alla luce di questa simpatica iniziativa della procura milanese, la tanto sbandierata cooperazione fra americani ed europei sul piano delle operazioni di intelligence che dovrebbero farci dormire sonni tranquilli? Invece di combattere il terrorismo, in occidente ci combattiamo a vicenda. Guerra alla Cia e pacchia per i terroristi? Auguri.
Ratzinger a passo spedito, Ciampi zoppica
Il presidente Ciampi, accogliendo Papa Benedetto XVI, ha sfoggiato un'encomiabile «orgoglio» laico, ma ho avuto un'impressione negativa dal passaggio del suo discorso nel quale dice: «Il legame fra la Santa Sede e l'Italia è un modello esemplare di armoniosa convivenza e di collaborazione». Quale modello, visto che da più parti, e per esiti opposti, vengono messi in discussione gli attuali confini fra politica e religione? Su questo Ciampi non contribuisce, rimanendo avvinghiato, lui sì, a una laicità di maniera.
Rivelatrici, in questo senso, le parole di Ratzinger, che il suo modello lo promuove bene. «Legittima», ci concede, la laicità dello Stato, ma solo se è «sana» (?). Il modello di rapporti fra Stato e Chiesa configurato dalla condotta di Ratzinger e della Cei tende a sommare due elementi incompatibili: sempre più privilegi dal regime concordatario; lobbying della Chiesa nei confronti dei politici cattolici in entrambe le coalizioni al fine di ottenere legislazioni gradite. Innanzitutto coerenti con i valori cristiani, e già possiamo obiettare che le leggi non devono sposare i valori che ispirano una religione, per quanto diffusa, ma il suo contenuto etico dev'essere ridotto al minimo. Poi gradita rispetto ad altri valori, quelli che rimpinguano le casse del Vaticano.
Come leggere altrimenti il passaggio in cui il Papa non invita, ma addirittura «confida» che «i legislatori italiani, nella loro saggezza, sappiano dare ai problemi ora ricordati soluzioni "umane"»? Quali sono questi problemi? «Ferma restando la competenza dello Stato a dettare le norme generali dell'istruzione, non posso non esprimere l'auspicio che venga rispettato concretamente il diritto dei genitori a una libera scelta educativa, senza dover sopportare per questo l'onere aggiuntivo di ulteriori gravami». Un riferimento esplicito a finaziamenti dello Stato per i genitori che mandano i figli alle scuole cattoliche. Dico, se abbassassero loro, le rette?
Nulla da eccepire sui richiami del Papa sulla famiglia, la vita, le radici cristiane, non li condivido, ma fa il suo mestiere. La politica dovrebbe fare il suo.
Di fronte a un Ratzinger che sa quel che vuole e lo dice, Ciampi zoppica.
Rivelatrici, in questo senso, le parole di Ratzinger, che il suo modello lo promuove bene. «Legittima», ci concede, la laicità dello Stato, ma solo se è «sana» (?). Il modello di rapporti fra Stato e Chiesa configurato dalla condotta di Ratzinger e della Cei tende a sommare due elementi incompatibili: sempre più privilegi dal regime concordatario; lobbying della Chiesa nei confronti dei politici cattolici in entrambe le coalizioni al fine di ottenere legislazioni gradite. Innanzitutto coerenti con i valori cristiani, e già possiamo obiettare che le leggi non devono sposare i valori che ispirano una religione, per quanto diffusa, ma il suo contenuto etico dev'essere ridotto al minimo. Poi gradita rispetto ad altri valori, quelli che rimpinguano le casse del Vaticano.
Come leggere altrimenti il passaggio in cui il Papa non invita, ma addirittura «confida» che «i legislatori italiani, nella loro saggezza, sappiano dare ai problemi ora ricordati soluzioni "umane"»? Quali sono questi problemi? «Ferma restando la competenza dello Stato a dettare le norme generali dell'istruzione, non posso non esprimere l'auspicio che venga rispettato concretamente il diritto dei genitori a una libera scelta educativa, senza dover sopportare per questo l'onere aggiuntivo di ulteriori gravami». Un riferimento esplicito a finaziamenti dello Stato per i genitori che mandano i figli alle scuole cattoliche. Dico, se abbassassero loro, le rette?
Nulla da eccepire sui richiami del Papa sulla famiglia, la vita, le radici cristiane, non li condivido, ma fa il suo mestiere. La politica dovrebbe fare il suo.
Di fronte a un Ratzinger che sa quel che vuole e lo dice, Ciampi zoppica.
Dellavedoviana/2 (per tutti i blogger radicali)
La precisazione inoltrata via e-mail da Benedetto Della Vedova alla dirigenza radicale - il commento che Ale. Tap. ha lasciato qui - sull'interpretazione dell'art. 98 del testo unico sulle consultazioni elettorali era già comparsa su un paio di miei articoli, uno per Notizie Radicali (26 maggio), l'altro per L'opinione (6 giugno).
Non incide di un millimetro sulla motivazione politica del richiamo fatto da Pannella e altri a quell'articolo durante la campagna. Non solo: non è utile, perché solo collaterale, a cogliere il nodo politico che divide Della Vedova da Pannella, che riguarda, piuttosto, il diverso approccio rispetto alla questione alleanze (leggi Dellavedoviana).
Siamo d'accordo e lo diciamo da tempo: un generico appello all'astensione non è punibile, lo devono proferire un'autorità pubblica o un ministro di culto. Lo devono fare nell'esercizio delle loro funzioni e abusandone, con un "ricatto", menzionando il danno cui si va incontro disobbedendo. Per poter dire di essere di fronte a un reato occorre, dice la Cassazione, la «menzione di conseguenti vantaggi o danni, anche di carattere spirituale». Dunque, occorre capire se durante la campagna si sia o no verificata questa fattispecie.
Nel caso dei religiosi dissenzienti il danno è implicito ma molto concreto: rischiano di esser sbattuti ai confini, di veder decurtati stipendi e pensioni. Per i credenti laici il danno è spirituale, nella misura in cui il recarsi alle urne viene definito come un peccato per cui provare colpa... E il peccato, la colpa, sono le "sanzioni spirituali" cui molti vescovi e parroci (certo non tutti) hanno fatto riferimento esplicito per religiosi e fedeli che intendessero disobbedire. Inoltre, data una capillare presenza di strutture ecclesiastiche sul territorio italiano, l'appello astensionista ha dato luogo a forme di controllo sociale del voto. Siamo certi che tutto questo non abbia in alcuna circostanza avuto luogo? Ebbene, le notizie in nostro possesso, e di dominio pubblico, dicono il contrario.
La norma può apparire sbagliata, da cambiare e non invocare, solo se ci si muove in una logica a-concordataria, mentre conserva tutta la sua ragion d'essere in un regime concordatario. Non è illiberale. La norma tutela la libertà di coscienza del cittadino (primi fra tutti suore, parroci, credenti), quindi il principio della segretezza del voto, limitando in casi specifici la libertà d'espressione dei pubblici ufficiali. Se durante una sessione di esami universitari l'indicazione di voto, o di non voto, la facesse il professore? Se il nostro datore di lavoro ci spiegasse con accuratezza di particolari che per il bene dell'azienda e di noi dipendenti dovremmo votare in un certo modo, o non votare affatto? Non sarebbe abusare delle proprie funzioni, un sopruso, un ricatto?
Nel caso tali esortazioni giungano dalle gerarchie di una Chiesa la cosa si fa più delicata. Se nelle mani del professore c'è l'esito del nostro esame e nelle mani del datore di lavoro ci sono il nostro impiego e la nostra paga, per i credenti nelle mani di vescovi e parroci c'è la loro anima, il loro rapporto con Dio, qualcosa che tocca nel profondo le coscienze, persino la salvezza. Quando un'autorità religiosa di qualsiasi grado esercita pressioni per determinare un comportamento politico, per ottenere "obbedienza", si avvale - volutamente o no - di una posizione di forza acquisita grazie alla nostra stessa fede nell'origine divina di quell'autorità.
I fantasmi della scomunica, del peccato, dell'esclusione dalla comunità religiosa di cui ci si sente parte - tutti "danni spirituali" - sono lì, in un silenzioso ricatto spirituale. E' questo l'aspetto simoniaco di questa campagna astensionista della Cei. Un tempo la salvezza veniva comprata con i propri averi, oggi con la sottomissione, il più delle volte inconsapevole, a indicazioni politiche che nulla hanno a che fare con i dogmi della Fede. Quanti fedeli abbiano seguito le indicacazioni della Cei è materia di discussione, io credo certamente una minoranza di cattolici praticanti, ma ciò non sposta il problema politico che quella campagna ha aperto, quello del rapporto fra Stato e Chiesa.
Detto questo, veniamo alla questione politica interna: qual è l'accusa che Benedetto rivolge a Pannella e a parte del fronte referandario: aver invocato una legge che ritiene illiberale (ma non lo è)? Un'intepretazione restrittiva della legge? Nessuno ha sporto denunce o chiesto l'arresto dei preti. Veniva chiesto un controllo di legalità su singole e presunte violazioni, che la magistratura aprisse procedimenti, giustificando anche eventuali archiviazioni.
No, l'interpretazione della legge, come emerso già nella campagna, è la medesima, semmai le critiche di Benedetto sembrano fare riferimento a motivi di opportunità politica del tirare fuori questi argomenti e di individuare nella Chiesa un avversario. Ma quando la Chiesa sceglie di divenire attore politico, sta nelle cose che risulti nostro avversario, non come religione, ma come potere che sostiene determinate soluzioni legislative.
Piuttosto, sembra che un radicale può essere accettato solo se moderato, "politicamente corretto", altrimenti viene additato come illiberale. Evidentemente è sconveniente esprimere un tasso ritenuto eccessivo di anticlericalismo, liberismo, libertarismo. Con questi distinguo temo che si cerchi di individuare una tipologia di radicale «perbene», quindi «conforme», disposto a riconoscere che sì, è radicale, ma fino a un certo punto, non oltre certi limiti, e che oltre certi toni è disdicevole andare.
Non incide di un millimetro sulla motivazione politica del richiamo fatto da Pannella e altri a quell'articolo durante la campagna. Non solo: non è utile, perché solo collaterale, a cogliere il nodo politico che divide Della Vedova da Pannella, che riguarda, piuttosto, il diverso approccio rispetto alla questione alleanze (leggi Dellavedoviana).
Siamo d'accordo e lo diciamo da tempo: un generico appello all'astensione non è punibile, lo devono proferire un'autorità pubblica o un ministro di culto. Lo devono fare nell'esercizio delle loro funzioni e abusandone, con un "ricatto", menzionando il danno cui si va incontro disobbedendo. Per poter dire di essere di fronte a un reato occorre, dice la Cassazione, la «menzione di conseguenti vantaggi o danni, anche di carattere spirituale». Dunque, occorre capire se durante la campagna si sia o no verificata questa fattispecie.
Nel caso dei religiosi dissenzienti il danno è implicito ma molto concreto: rischiano di esser sbattuti ai confini, di veder decurtati stipendi e pensioni. Per i credenti laici il danno è spirituale, nella misura in cui il recarsi alle urne viene definito come un peccato per cui provare colpa... E il peccato, la colpa, sono le "sanzioni spirituali" cui molti vescovi e parroci (certo non tutti) hanno fatto riferimento esplicito per religiosi e fedeli che intendessero disobbedire. Inoltre, data una capillare presenza di strutture ecclesiastiche sul territorio italiano, l'appello astensionista ha dato luogo a forme di controllo sociale del voto. Siamo certi che tutto questo non abbia in alcuna circostanza avuto luogo? Ebbene, le notizie in nostro possesso, e di dominio pubblico, dicono il contrario.
La norma può apparire sbagliata, da cambiare e non invocare, solo se ci si muove in una logica a-concordataria, mentre conserva tutta la sua ragion d'essere in un regime concordatario. Non è illiberale. La norma tutela la libertà di coscienza del cittadino (primi fra tutti suore, parroci, credenti), quindi il principio della segretezza del voto, limitando in casi specifici la libertà d'espressione dei pubblici ufficiali. Se durante una sessione di esami universitari l'indicazione di voto, o di non voto, la facesse il professore? Se il nostro datore di lavoro ci spiegasse con accuratezza di particolari che per il bene dell'azienda e di noi dipendenti dovremmo votare in un certo modo, o non votare affatto? Non sarebbe abusare delle proprie funzioni, un sopruso, un ricatto?
Nel caso tali esortazioni giungano dalle gerarchie di una Chiesa la cosa si fa più delicata. Se nelle mani del professore c'è l'esito del nostro esame e nelle mani del datore di lavoro ci sono il nostro impiego e la nostra paga, per i credenti nelle mani di vescovi e parroci c'è la loro anima, il loro rapporto con Dio, qualcosa che tocca nel profondo le coscienze, persino la salvezza. Quando un'autorità religiosa di qualsiasi grado esercita pressioni per determinare un comportamento politico, per ottenere "obbedienza", si avvale - volutamente o no - di una posizione di forza acquisita grazie alla nostra stessa fede nell'origine divina di quell'autorità.
I fantasmi della scomunica, del peccato, dell'esclusione dalla comunità religiosa di cui ci si sente parte - tutti "danni spirituali" - sono lì, in un silenzioso ricatto spirituale. E' questo l'aspetto simoniaco di questa campagna astensionista della Cei. Un tempo la salvezza veniva comprata con i propri averi, oggi con la sottomissione, il più delle volte inconsapevole, a indicazioni politiche che nulla hanno a che fare con i dogmi della Fede. Quanti fedeli abbiano seguito le indicacazioni della Cei è materia di discussione, io credo certamente una minoranza di cattolici praticanti, ma ciò non sposta il problema politico che quella campagna ha aperto, quello del rapporto fra Stato e Chiesa.
Detto questo, veniamo alla questione politica interna: qual è l'accusa che Benedetto rivolge a Pannella e a parte del fronte referandario: aver invocato una legge che ritiene illiberale (ma non lo è)? Un'intepretazione restrittiva della legge? Nessuno ha sporto denunce o chiesto l'arresto dei preti. Veniva chiesto un controllo di legalità su singole e presunte violazioni, che la magistratura aprisse procedimenti, giustificando anche eventuali archiviazioni.
«I processi - scrive Giuseppe Rossodivita - si fanno proprio per questo, per accertare se un determinato comportamento abbia integrato o no, unitamente all'elemento soggettivo, una determinata fattispecie penale e penso che noi non ci dobbiamo dolere dell'assenza di condanne, ma ci dobbiamo dolere dell'assenza di qualsiasi accertamento, ci dobbiamo dolere, cioè, che in una situazione più che sospetta, nessuno abbia sentito la necessità di andare ad accertare con lo strumento del processo e con le garanzie del processo, se fossero stati consumati, o no, dei reati».Dove sta scritto che i liberali non denunciano, che non invocano l'applicazione di norme esistenti? Di fronte alla violazione collettiva e reiterata di una norma, un liberale che fa? Chiude gli occhi perché è tollerante? E' questa la tolleranza? Ammesso e non concesso che la norma fosse davvero illiberale, un radicale non ricorre anche all'(auto)denuncia per combatterla? Pannella non si è fatto scrupolo di ricorrere allo sciopero della sete per il plenum di una Corte costituzionale che ritiene «la suprema cupola della mafiosità partitocratica».
No, l'interpretazione della legge, come emerso già nella campagna, è la medesima, semmai le critiche di Benedetto sembrano fare riferimento a motivi di opportunità politica del tirare fuori questi argomenti e di individuare nella Chiesa un avversario. Ma quando la Chiesa sceglie di divenire attore politico, sta nelle cose che risulti nostro avversario, non come religione, ma come potere che sostiene determinate soluzioni legislative.
Piuttosto, sembra che un radicale può essere accettato solo se moderato, "politicamente corretto", altrimenti viene additato come illiberale. Evidentemente è sconveniente esprimere un tasso ritenuto eccessivo di anticlericalismo, liberismo, libertarismo. Con questi distinguo temo che si cerchi di individuare una tipologia di radicale «perbene», quindi «conforme», disposto a riconoscere che sì, è radicale, ma fino a un certo punto, non oltre certi limiti, e che oltre certi toni è disdicevole andare.
Blair Duca di Wellington: una Waterloo per Chirac
"Change or fail". Libero mercato per combattere la povertà, non protezionismo per combattere la ricchezza
E' davvero splendido il riferimento storico con cui Gianni Riotta attacca il suo editoriale di oggi sul Corriere della Sera.
E la forza prorompente del discorso di Blair sta nell'aver utilizzato, in perfetto stile anglosassone, la retorica del "di quà o di là", da una parte il cambiamento, da una parte il fallimento. "Tertium non datur". Così è riuscito a porre di fronte a tutti noi l'urgenza di una scelta fra valori alternativi. Capacità che è mancata, per esempio, al fronte referendario contro la legge 40.
Dio solo sa, apre così il suo post Daisy Miller, se avevamo bisogno «di un perfido maestro per distogliere lo sguardo dei burocrati europei, degli Chirac e dei Giscard d'Estaing, dalle stelle della bandiera dell'Unione».
Blair in questa frase esprime «il succo della tradizione democratica anglosassone: siamo noi cittadini a dare fiato alle trombe, e alla realtà è impossibile sfuggire»:
E' davvero splendido il riferimento storico con cui Gianni Riotta attacca il suo editoriale di oggi sul Corriere della Sera.
«Per capire che tipo di interlocutore avesse davanti, lo scrittore Leonardo Sciascia chiedeva talvolta "Lei, da che parte avrebbe combattuto a Waterloo?", sintetizzando nel suo modo elegante due opposte visioni del mondo. La Gran Bretagna razionale del Duca di Wellington, operosa e industriale, tollerante ma imperiale, libera nel rispetto sovrano della legge, contro la Francia figlia della Rivoluzione, madre dei diritti dell'uomo, innamorata di Napoleone. La ragione riformista di Londra contro la passione utopica di Parigi simboleggiano un antico scisma progressista...»Di fronte alla tragedia della Costituzione «perduta», alla commedia della «baruffa» sul bilancio e «l'epica» del declino economico, Blair propone di «innovare, senza imbalsamarsi in sussidi egoisti e goffi protezionismi, scommettendo sul futuro, per radicarsi tra Usa ed Asia» nel mondo globalizzato.
E la forza prorompente del discorso di Blair sta nell'aver utilizzato, in perfetto stile anglosassone, la retorica del "di quà o di là", da una parte il cambiamento, da una parte il fallimento. "Tertium non datur". Così è riuscito a porre di fronte a tutti noi l'urgenza di una scelta fra valori alternativi. Capacità che è mancata, per esempio, al fronte referendario contro la legge 40.
«Guerriero in nome della democrazia, nemico dello status quo, Blair è da molti considerato a sinistra avversario mascherato, non alleato da studiare. Insistere nella scomunica del premier laburista è un errore strategico, che può raccattare qualche consenso, ma si rivelerà una trappola se il centrosinistra tornerà al governo nel 2006. Allora, finiti i comizi, i leader dell'Unione, Prodi, Fassino, Rutelli, dovranno rimettere in moto la nostra grippata economia. Non è difficile che ce la facciano senza considerare, almeno in parte, le proposte di Blair: è impossibile... "Regalare" Tony Blair al centrodestra sarebbe futile testimonianza di una sinistra incapace di ben ordinare il Paese nel ribollente mondo globale: sarebbe schierarsi dalla parte sbagliata, a Waterloo».Anche l'editoriale di oggi su Il Foglio torna con la memoria a Waterloo: «Tony Blair è il nuovo duca di Wellington nella battaglia per l'Europa?».
«Non esita a sparare cannonate di realismo contro le armate franco-tedesche, comandate dal napoleonico Jacques Chirac, che negli ultimi giorni lo avevano accusato di voler imporre la visione di un grande mercato a danno del progetto politico europeo. "Non soltanto è falso – dice Blair – ma è un modo per intimidire quelli che vogliono cambiare l'Europa, rappresentando il desiderio di cambiamento come il tradimento dell'ideale europeo". A Chirac, il cui obiettivo inconfessabile è "di spegnere il dibattito sul futuro dell'Europa", il premier britannico risponde che "gli ideali sopravvivono attraverso il cambiamento, muoiono con l'inerzia di fronte alle sfide".Se dunque l'Europa ha trovato in Blair il suo Duca di Wellington, e l'esilio del napoleonico Chirac è già cominciato, l'Italia che fa? Sta a guardare? Da una parte, Berlusconi ostenta simpatia per Tony, ma affida il programma per il 2006 al colbertista e quasi-no-global Tremonti. Che sia solo alla ricerca di un porto tranquillo in Europa, senza alcuna intenzione di scommettere sulla visione blairiana come ricetta per risollevare l'Italia nel mondo globalizzato? E la sinistra che fa? Si affida con «grande entusiasmo» (parole di D'Alema) a Prodi, che fino a ieri ha inciuciato con l'asse franco-tedesco e che in politica economica ed estera è agli antipodi da Blair? Per i Ds non sarebbe il caso di unirsi alle armate del Duca? Servono coraggio e cervelli "radicali".
(...)
Le truppe napoleoniche sono una testuggine chiracchiana cui è stato ordinato di esporsi al fuoco nemico... Blair può contare su una coalizione di Stati che vuole disfarsi dei Napoleone: i nuovi dell'est, l'Olanda e i paesi scandinavi. Le truppe prussiane arriveranno in autunno... ma a giudicare dagli applausi del PE a Blair, l'esilio di Chirac dall'Europa è già cominciato».
Dio solo sa, apre così il suo post Daisy Miller, se avevamo bisogno «di un perfido maestro per distogliere lo sguardo dei burocrati europei, degli Chirac e dei Giscard d'Estaing, dalle stelle della bandiera dell'Unione».
Blair in questa frase esprime «il succo della tradizione democratica anglosassone: siamo noi cittadini a dare fiato alle trombe, e alla realtà è impossibile sfuggire»:
«It is time to give ourselves a reality check. To receive the wake-up call. The people are blowing the trumpets round the city walls. Are we listening? Have we the political will to go out and meet them so that they regard our leadership as part of the solution not the problem?»
Thursday, June 23, 2005
Avanti con Blair: Europe forward, not back
Troppi, davvero troppi, i passaggi che meriterebbero di essere segnalati, e scolpiti nella nostra memoria, dal vigoroso discorso europeista di Tony Blair davanti al Parlamento europeo per l'inaugurazione del semestre di presidenza britannica dell'Ue. Ve ne propongo tre, il resto è qui. Ascolta il discorso di Blair L'intervento di Blair oggi su La Stampa
Blair ha subito respinto i luoghi comuni sul suo conto e sull'"europeismo corretto":
Blair ha subito respinto i luoghi comuni sul suo conto e sull'"europeismo corretto":
«Sono sempre stato un europeista appassionato... Credo nell'Europa come progetto politico. Non accetterei mai un'Europa che fosse solo un mercato economico». Ma «aprire il dibattito sull'Europa non significa essere antieuropeista».Sulle cause del momento di crisi dell'Europa, Blair è spietato.
«Solo con il cambiamento l'Ue troverà la propria forza e idealismo e quindi il proprio appoggio fra la gente... Non è una crisi delle istituzioni politiche, è una crisi della leadership politica».Determinato su globalizzazione e modernizzazione. Solo con il cambiamento, solo con un'economia modernizzata, guidata da una leadership chiara, l'Europa «troverà il proprio appoggio fra la gente».
«Se non affrontiamo la globalizzazione, rischieremo il fallimento a livello strategico... Alcuni hanno detto che voglio abbandonare il modello sociale europeo, ma ditemi: che tipo di modello sociale è quello che ha 20 milioni di disoccupati in Europa, tassi di produttività che cadono al di sotto di quelli degli Usa? Questo sta permettendo che l'India produca più laureati dell'Europa... L'India espanderà il suo settore biotecnologico cinque volte nei prossimi cinque anni, la Cina ha triplicato le sue spese in ricerca e sviluppo negli ultimi cinque... L'obiettivo del nostro modello sociale dovrebbe essere aiutare la nostra capacità di competere, di aiutare i nostri popoli ad affrontare la globalizzazione».Secondo Marco Pannella, Blair è «l'unico grande leader europeo possibile alternativa allo sfascio partitocratico».
Blair ha richiamato le linee del "rapporto Kok" del 2004: «Investimento in conoscenza, capacità, politiche del lavoro attive, parchi scientifici e innovazione, istruzione superiore, rigenerazione urbana, aiuti alle piccole imprese. Questa è politica sociale moderna, non regolamentazioni e protezione del lavoro che forse possono salvare alcuni lavori per un po', ma perdendone molti nel futuro».
«Con Tony Blair l'Ue ha un possibile - non probabile - grande leader, certo non federalista, certo europeista. L'alternativa resta lo sfascio civile, e vile, di una realtà partitocratica, non democratica, in declino inarrestabile fatto da parte di coloro che ne sono causa principale, al di fuori dei propri confini come nella considerazione dei propri popoli».Tema correlato: Così la lobby del camembert chiude i mercati ai contadini d'Africa, di Danilo Taino sul Corriere della Sera
Dellavedoviana (per tutti i blogger radicali)
Premesse:
1) Stimo Benedetto Della Vedova, uno degli esponenti radicali più preparati, e non ritengo affatto che per le sue posizioni non sia radicale, in quanto, da lezione pannelliana, radicale è chi acquista la tessera. Non sarà mai una storia di «tradimenti», ma la dimostrazione della forza delle idee, del fatto che a «idee diverse», corrispondono «forze diverse», ha fatto capire il leader radicale. Sgombrando il campo da ogni equivoco, Pannella chiarì lo scorso gennaio che si definisce "radicale" «chiunque compia l'atto del tesseramento», non ci sono né "veri" radicali, né radicali "traditori".
2) L'inesattezza pubblicata su qualche giornale e ripresa da qualche blog: Della Vedova non è stato affatto messo alla porta, anzi la sua posizione, anche se minoritaria, è stata deliberatamente e dichiaratamente valorizzata da Pannella che ne ha fatto l'argomento di due suoi interventi (domenica all'assemblea e lunedì al comitato); non ho mai sentito una chiusura identitaria provenire da Pannella e Bonino all'indirizzo di Benedetto, della serie "non esprime la storia e l'identità radicale", "non è radicale" e via dicendo. Piuttosto, critiche politiche, anche estreme, ma il non riconoscersi in un eventuale prevalere della linea Della Vedova scaturiva, nei due leader, sempre dalla consapevolezza della propria personale storia politica.
Per togliere di mezzo qualche falso mito che si è di nuovo affacciato nella discussione sull'intervento di Benedetto Della Vedova all'Assemblea dei Mille occorre per prima cosa risalire a questo inverno, all'iniziativa pannelliana dell'"ospitalità". Sì, perché se la critica politica di Della Vedova è principalmente quella di essersi imbarcati in un'avventura referendaria dall'esito negativo scontato, alla base di questa critica c'è il tema delle alleanze. Quella dei radicali che non hanno mai tentato di scegliere l'una o l'altra coalizione, che da duri e puri non hanno mai saputo scegliere, magari frenati da Pannella, è pura leggenda metropolitana svanita nel nulla in questo modo.
Si sa che l'ospitalità per le regionali non andò in porto per i veti incrociati di alcune forze politiche di entrambe le coalizioni. Troppo alte le richieste dei soliti incontentabili radicali? Vista la debolezza del movimento, che da troppo tempo attraversa il deserto «senz'acqua e scarpe», l'unica richiesta di Pannella era quella di ricevere un aiuto a presentare le liste e di valorizzare la presenza radicale (in tv, sui giornali, per posta), non nasconderla, all'interno della coalizione ospitante, in modo da farne un fatto politico da presentare ai propri elettori. Nessun compromesso sui programmi, scomodo e ipocrita per l'una e l'altra parte, ma solo la volontà politica di una delle due coalizioni di far rientrare i radicali nelle istituzioni, consentendo loro di esprimere ciò che sono e continuare le proprie battaglie senza la pretesa di farne battaglie condivise dall'intera coalizione ospitante. Tutto scritto fin nella mozione di gennaio approvata dal Comitato. La ricerca di un accordo «come atto necessario per la conquista di segmenti di legalità nella vita e nell'attività delle stesse istituzioni, e, insieme, per il recupero alle istituzioni della presenza e dell'apporto radicale».
Insomma, altro che duri e puri, la richiesta era quella di un fatto politico davvero minimo, e lo dimostrano i pretesti a cui soprattutto Prodi è dovuto ricorrere per far saltare un accordo che con i Ds era concluso. Pannella accettò persino che l'accordo non si sarebbe fatto su tutte le regioni, ma su un buon numero di esse purché demograficamente rilevanti. Mi pare che alla fine fu l'assenza dell'Emilia Romagna a far saltare tutto, ma non ricordo bene. Tutto è conservato nelle registrazioni di via di Torre Argentina. Nessuna condizione dunque, ma qual fosse questo fatto politico minimo se ne accorsero autorevoli commentatori.
Un fatto politicamente rilevante per quella coalizione, questo deve costituire per Pannella l'eventuale accordo. Il 3,5% in Lombardia e Piemonte sarebbe stato possibile solo se la presenza di liste radicali avesse costituito, come nel 2000, un fatto politico di carattere nazionale, altrimenti si sarebbe finiti come nelle disfatte di Bolzano e dell'Abruzzo, dove il danno di immagine dell'1, o dello 0, non è stato lieve. Su candidature individuali nelle liste delle altre coalizioni non c'è stato alcun veto. Insomma, di cosa parliamo?
Torniamo a Della Vedova, che ci ha detto: l'errore è stato fare il referendum. Che sia la stessa principale e unica risposta di Rutelli ai Ds è un segno che denota «l'inconsistenza assoluta della proposta» di Della Vedova. In casa radicale, sarà un difetto per carità, ma si è abituati a parlare e discutere di lotte, di iniziative, di proposte, anche di ipotesi di... ma non di posizionamenti. Banalmente, chiamiamola critica costruttiva. Non si tratta di referendum sacro e radicali che non possono essere che referendari a tutti i costi. Contro la legge 40, se non il referendum che cosa? A questo Della Vedova non ha mai risposto se non con il ritornello delle alleanze.
La strategia di Rutelli, dalla quale Pannella ha messo in guardia Della Vedova, è la tipica strategia inclusiva da cui devono guardarsi i radicali: Rutelli dà alla Margherita la funzione di raccogliere i laici e i cattolici disponibili a battere Berlusconi. Punto. Lo stesso discorso vale per l'altra coalizione. Per questo l'ospitalità dei radicali in una delle due coalizioni deve rappresentare un fatto politico valorizzato, utile innanzitutto per quella coalizione: una scelta dettata da esigenze politiche. Per esempio, guardando a oggi, le difficoltà di Ds e Sdi fra sinistra radicale e l'accoppiata Prodi-Rutelli.
La scelta di campo fra le due coalizioni per i radicali non potrà mai essere preventiva, pena l'autoconsegna. Primo, perl'analisi che fa Pannella della situazione del regime in Italia: «L'illegalità della vita istituzionale e politica del nostro Paese è ormai un fatto compiuto, non più solo in fieri... uno stesso sistema politico articolato in due poli antropologicamente uniti». Non c'è, nella partitocrazia, da una parte il meglio e dall'altra il peggio. Le due coalizioni sono due facce della stessa medaglia, due cosche della mafiosità partitocratica: da una parte i corleonesi, dall'altra i palermitani. Si può non essere d'accordo con questa analisi - secondo le dinamiche che ho cercato di spiegare in questo articolo. E infatti i radicali che invece sostengono la necessità di una scelta di campo preventiva, Della Vedova con il centrodestra, altri, per esempio Cappato, con il centrosinistra, non condividono questa analisi e Pannella lo sa: «In modo maggioritario qui da noi si coglie quel tanto di strumentalizzabile nella mia posizione... "così si fa questo accordo"».
Essi compiono una scelta di valore, non di lotta, di obiettivi. E mentre i valori ciascuno ha i propri e rimangono tali, sugli obiettivi possono convergere forze politiche diverse che di volta in volta trovano un determinato obiettivo compatibile con i propri valori. E' l'unità laica delle forze: ciascuno con il suo motivo laicamente si incontra su un obiettivo. Cosa c'è di più pragmatico del "tratto di strada assieme"? Della Vedova, nei confronti della coalizione che predilige, ha mai saputo avviare, o almeno proporre, un "tratto di strada assieme" su un obiettivo concreto? Di qui l'inconsistenza della proposta dellavedoviana, che è solo posizione.
A cosa sono serviti, cosa hanno prodotto in termini di battaglie radicali, gli "innesti" radicali verso destra o verso sinistra tentati nel corso degli ultimi decenni? Calderisi, Teodori, Taradash da una parte, Negri, Rutelli, Aglietta dall'altra: risultato nessuno. Qui ha ragione Zarqawi, l'entrismo non produce nulla: o si tratta di usare l'appartenenza radicale per piazzarsi bene in vista nella politica italiana, un uso legittimo per il quale non serve portarsi dietro un partito, o al massimo ti usano come bandierina liberale.
La seconda ragione è tattica, e nessuno ha saputo ancora trovare una risposta: «Nel momento in cui andiamo da Prodi o da chiunque altro - chiede Pannella, lo chiede davvero - premesso che abbiamo fatto la nostra scelta di campo e siete voi, quello che viene dopo non conta più un cazzo... qual è la forza contrattuale, cosa mettiamo nel negoziato, al di là di 4 o 40 posti?». Se non deve essere un'autoconsegna, cosa c'è di altro? «La prospettiva eventuale della scelta di campo radicale è la materia prima di un possibile accordo, ma se questa invece è già acquisita in partenza, mi si spieghi...». L'unica possibilità è che i prescelti dicano: "Vedete, i radicali quelli seri sono già con noi senza condizioni perché riconoscono che i nostri programmi sono buoni". «Se esiste l'acquisizione di già della presenza radicale all'Unione o ai Ds, non servirà né a Turci né ai Ds». Di nuovo il fatto politico, l'ingresso dei radicali come fatto politico che "serve" alle forze politiche con le quali si conclude l'accordo, qualsiasi esse siano. «Se ci sono scelte altre che sembrano poco solide, destinate a divenire scoria subito, lo ritengo qualcosa che nuoce a tutti».
Veniamo ai referendum. Il "capo" non ha mai dato nulla di perso in partenza. Pannella vedeva l'avvicinarsi di una «catastrofe», ma non ineluttabile: se solo per 5 giorni soprattutto i Ds si fossero liberati dai condizionamenti poteva accadere di tutto. Mentre lo scontro politico provocava «nausea» nei confronti della politica, il referendum veniva marginalizzato, anche per merito di un dibattito «specialistico e idolatrico», appassionato ma solo su alcuni aspetti. L'impegno personale e generoso di Fassino non bastava a rendere l'idea di «un grande scontro ideale, una grande contrapposizione di valori, che nella politica laica devono essere impliciti ad obiettivi legislativi che non si confondano con i valori, che abbiano il senso laico, tollerante, non definitivo, questo sì relativo e relativista». I valori sono stati messi in campo solo dal fronte astensionista, mentre i referendari tentavano di erudire gli elettori.
L'elevato tasso di anticlericalismo della campagna è stata l'altra critica avanzata da Della Vedova. Il richiamo all'art. 98 del testo unico sulle consultazioni elettorali è stato l'aspetto più discusso. In questo articolo ho cercato di spiegare perché non la ritengo una norma illiberale. Dato un regime concordatario fra Stato e Chiesa, quella norma vieta ai ministri di culto, nell'esercizio delle proprie funzioni (quindi non in ogni circostanza), di indurre all'astensione. L'intenzione del legislatore è chiara e nient'affatto illiberale: data una capillare presenza di strutture ecclesiastiche sul territorio italiano, l'appello astensionista avrebbe dato luogo a forme di controllo sociale del voto. La norma tutela il principio della segretezza del voto, e quindi la libertà di coscienza del cittadino, primi fra tutti suore, parroci, credenti, limitando in casi specifici la libertà d'espressione dei pubblici ufficiali. Nel caso delle cariche dello Stato addirittura la norma fu estesa ai referendum nel '70, per proteggere il referendum contro il divorzio da possibili appelli all'astensione da parte di cariche istituzionali.
Piuttosto, pare che un radicale sia "politicamente corretto" solo se moderato, altrimenti viene additato come illiberale. Evidentemente è sconveniente esprimere un tasso ritenuto eccessivo di anticlericalismo, liberismo, libertarismo. Con questi distinguo ho l'impressione che si cerchi di individuare una tipologia di radicale «perbene», quindi «conforme», disposto a riconoscere che sì, è radicale, ma fino a un certo punto, non con certi toni disdicevoli.
Alla base, nota La Radice, c'è un «cattivo uso di due termini: moderato e liberale... Anche e soprattutto un liberale può definirsi moderato (e può essere cattolico) ma non nei termini usati dalla CdL o dal gruppo margheritino e mastelliano». A quanto pare infatti, il liberale va scansato quando non è moderato, quando eccede in liberismo, in libertarismo, persino in liberalismo, che «per molti politici italiani significherebbe la fine della burocrazia, del corporativismo, dell'egemonia culturale», e ovviamente quando eccede in anticlericalismo. Eppure «l'anticlericalismo religioso» dei radicali è «anti gestione della rivelazione rivendicata da una gerarchia anche mondana e secolare». Il cristianesimo, e il cattolicesimo liberale, hanno una storia anticlericale. «Il risorgimento non ce l'avrebbe fatta se fosse stato solo mazziniano e garibaldino». Il cattolicesimo liberale fu persino scomunicato per il suo essere anticlericale.
Con questo lungo post di cui mi scuso credo di aver risposto alle varie sollecitazioni sull'intervento di Della Vedova all'Assemblea dei Mille, senza voler sostenere che nella campagna referendaria non siano stati fatti errori e che dall'esito del voto non debba venire una riflessione profonda. Ho cercato di offire il mio contributo con questo post.
1) Stimo Benedetto Della Vedova, uno degli esponenti radicali più preparati, e non ritengo affatto che per le sue posizioni non sia radicale, in quanto, da lezione pannelliana, radicale è chi acquista la tessera. Non sarà mai una storia di «tradimenti», ma la dimostrazione della forza delle idee, del fatto che a «idee diverse», corrispondono «forze diverse», ha fatto capire il leader radicale. Sgombrando il campo da ogni equivoco, Pannella chiarì lo scorso gennaio che si definisce "radicale" «chiunque compia l'atto del tesseramento», non ci sono né "veri" radicali, né radicali "traditori".
2) L'inesattezza pubblicata su qualche giornale e ripresa da qualche blog: Della Vedova non è stato affatto messo alla porta, anzi la sua posizione, anche se minoritaria, è stata deliberatamente e dichiaratamente valorizzata da Pannella che ne ha fatto l'argomento di due suoi interventi (domenica all'assemblea e lunedì al comitato); non ho mai sentito una chiusura identitaria provenire da Pannella e Bonino all'indirizzo di Benedetto, della serie "non esprime la storia e l'identità radicale", "non è radicale" e via dicendo. Piuttosto, critiche politiche, anche estreme, ma il non riconoscersi in un eventuale prevalere della linea Della Vedova scaturiva, nei due leader, sempre dalla consapevolezza della propria personale storia politica.
Per togliere di mezzo qualche falso mito che si è di nuovo affacciato nella discussione sull'intervento di Benedetto Della Vedova all'Assemblea dei Mille occorre per prima cosa risalire a questo inverno, all'iniziativa pannelliana dell'"ospitalità". Sì, perché se la critica politica di Della Vedova è principalmente quella di essersi imbarcati in un'avventura referendaria dall'esito negativo scontato, alla base di questa critica c'è il tema delle alleanze. Quella dei radicali che non hanno mai tentato di scegliere l'una o l'altra coalizione, che da duri e puri non hanno mai saputo scegliere, magari frenati da Pannella, è pura leggenda metropolitana svanita nel nulla in questo modo.
Si sa che l'ospitalità per le regionali non andò in porto per i veti incrociati di alcune forze politiche di entrambe le coalizioni. Troppo alte le richieste dei soliti incontentabili radicali? Vista la debolezza del movimento, che da troppo tempo attraversa il deserto «senz'acqua e scarpe», l'unica richiesta di Pannella era quella di ricevere un aiuto a presentare le liste e di valorizzare la presenza radicale (in tv, sui giornali, per posta), non nasconderla, all'interno della coalizione ospitante, in modo da farne un fatto politico da presentare ai propri elettori. Nessun compromesso sui programmi, scomodo e ipocrita per l'una e l'altra parte, ma solo la volontà politica di una delle due coalizioni di far rientrare i radicali nelle istituzioni, consentendo loro di esprimere ciò che sono e continuare le proprie battaglie senza la pretesa di farne battaglie condivise dall'intera coalizione ospitante. Tutto scritto fin nella mozione di gennaio approvata dal Comitato. La ricerca di un accordo «come atto necessario per la conquista di segmenti di legalità nella vita e nell'attività delle stesse istituzioni, e, insieme, per il recupero alle istituzioni della presenza e dell'apporto radicale».
Insomma, altro che duri e puri, la richiesta era quella di un fatto politico davvero minimo, e lo dimostrano i pretesti a cui soprattutto Prodi è dovuto ricorrere per far saltare un accordo che con i Ds era concluso. Pannella accettò persino che l'accordo non si sarebbe fatto su tutte le regioni, ma su un buon numero di esse purché demograficamente rilevanti. Mi pare che alla fine fu l'assenza dell'Emilia Romagna a far saltare tutto, ma non ricordo bene. Tutto è conservato nelle registrazioni di via di Torre Argentina. Nessuna condizione dunque, ma qual fosse questo fatto politico minimo se ne accorsero autorevoli commentatori.
L'"ospitalità" ai radicali avrebbe «segnato il grado alto di libertà e di istinto democratico, rischi e benefici inclusi, di quella delle due parti che lo accetta». Furio ColomboSe tutti i nemici "storici" dei radicali, in entrambi i poli, hanno lottato in campo aperto con identici obiettivi e motivazioni, per impedirgli la possibilità di rientrare nelle istituzioni, ciò significa che l'iniziativa dell'"ospitalità" mirava all'obiettivo giusto nel modo giusto per il movimento, e che la simmetria perfetta delle due coalizioni era tale da giustificare un'"ospitalità" in qualunque delle due l'avesse accettata. E' dimostrato nei fatti ciò che l'Unione voleva far negare a Pannella: che i due Poli sono perfettamente simmetrici nel rappresentare entrambi un unico regime partitocratico, nei suoi connotati di illegalità, clericalismo, degrado politico e di governo. Le più classiche delle due facce della stessa medaglia. Non ci sono al di qua i "perbene" e al di là il "male assoluto", Berlusconi, con i radicali che non sanno scegliere. Questa è da quel momento in poi una lettura smentita dai fatti, almeno per chi vuole vederli.
«... nei due poli l'alleanza con i radicali è voluta soprattutto da coloro che aspirano a connotare in senso più "liberale" il proprio schieramento. I radicali possono far perdere voti ma anche farne guadagnare. Hanno un blasone temuto e ambito. Proprio di chi, nella sua ormai lunga storia, ha dato lezioni di libertà a tanti senza mai bisogno di prenderne da nessuno». Angelo Panebianco
«Una sana iniezione di cultura liberale farebbe bene a entrambi i poli. Ma, forse, è proprio questa la ragione per la quale entrambi guardano a tale prospettiva con tanta diffidenza». Piero Ostellino
Un fatto politicamente rilevante per quella coalizione, questo deve costituire per Pannella l'eventuale accordo. Il 3,5% in Lombardia e Piemonte sarebbe stato possibile solo se la presenza di liste radicali avesse costituito, come nel 2000, un fatto politico di carattere nazionale, altrimenti si sarebbe finiti come nelle disfatte di Bolzano e dell'Abruzzo, dove il danno di immagine dell'1, o dello 0, non è stato lieve. Su candidature individuali nelle liste delle altre coalizioni non c'è stato alcun veto. Insomma, di cosa parliamo?
Torniamo a Della Vedova, che ci ha detto: l'errore è stato fare il referendum. Che sia la stessa principale e unica risposta di Rutelli ai Ds è un segno che denota «l'inconsistenza assoluta della proposta» di Della Vedova. In casa radicale, sarà un difetto per carità, ma si è abituati a parlare e discutere di lotte, di iniziative, di proposte, anche di ipotesi di... ma non di posizionamenti. Banalmente, chiamiamola critica costruttiva. Non si tratta di referendum sacro e radicali che non possono essere che referendari a tutti i costi. Contro la legge 40, se non il referendum che cosa? A questo Della Vedova non ha mai risposto se non con il ritornello delle alleanze.
La strategia di Rutelli, dalla quale Pannella ha messo in guardia Della Vedova, è la tipica strategia inclusiva da cui devono guardarsi i radicali: Rutelli dà alla Margherita la funzione di raccogliere i laici e i cattolici disponibili a battere Berlusconi. Punto. Lo stesso discorso vale per l'altra coalizione. Per questo l'ospitalità dei radicali in una delle due coalizioni deve rappresentare un fatto politico valorizzato, utile innanzitutto per quella coalizione: una scelta dettata da esigenze politiche. Per esempio, guardando a oggi, le difficoltà di Ds e Sdi fra sinistra radicale e l'accoppiata Prodi-Rutelli.
La scelta di campo fra le due coalizioni per i radicali non potrà mai essere preventiva, pena l'autoconsegna. Primo, perl'analisi che fa Pannella della situazione del regime in Italia: «L'illegalità della vita istituzionale e politica del nostro Paese è ormai un fatto compiuto, non più solo in fieri... uno stesso sistema politico articolato in due poli antropologicamente uniti». Non c'è, nella partitocrazia, da una parte il meglio e dall'altra il peggio. Le due coalizioni sono due facce della stessa medaglia, due cosche della mafiosità partitocratica: da una parte i corleonesi, dall'altra i palermitani. Si può non essere d'accordo con questa analisi - secondo le dinamiche che ho cercato di spiegare in questo articolo. E infatti i radicali che invece sostengono la necessità di una scelta di campo preventiva, Della Vedova con il centrodestra, altri, per esempio Cappato, con il centrosinistra, non condividono questa analisi e Pannella lo sa: «In modo maggioritario qui da noi si coglie quel tanto di strumentalizzabile nella mia posizione... "così si fa questo accordo"».
Essi compiono una scelta di valore, non di lotta, di obiettivi. E mentre i valori ciascuno ha i propri e rimangono tali, sugli obiettivi possono convergere forze politiche diverse che di volta in volta trovano un determinato obiettivo compatibile con i propri valori. E' l'unità laica delle forze: ciascuno con il suo motivo laicamente si incontra su un obiettivo. Cosa c'è di più pragmatico del "tratto di strada assieme"? Della Vedova, nei confronti della coalizione che predilige, ha mai saputo avviare, o almeno proporre, un "tratto di strada assieme" su un obiettivo concreto? Di qui l'inconsistenza della proposta dellavedoviana, che è solo posizione.
A cosa sono serviti, cosa hanno prodotto in termini di battaglie radicali, gli "innesti" radicali verso destra o verso sinistra tentati nel corso degli ultimi decenni? Calderisi, Teodori, Taradash da una parte, Negri, Rutelli, Aglietta dall'altra: risultato nessuno. Qui ha ragione Zarqawi, l'entrismo non produce nulla: o si tratta di usare l'appartenenza radicale per piazzarsi bene in vista nella politica italiana, un uso legittimo per il quale non serve portarsi dietro un partito, o al massimo ti usano come bandierina liberale.
La seconda ragione è tattica, e nessuno ha saputo ancora trovare una risposta: «Nel momento in cui andiamo da Prodi o da chiunque altro - chiede Pannella, lo chiede davvero - premesso che abbiamo fatto la nostra scelta di campo e siete voi, quello che viene dopo non conta più un cazzo... qual è la forza contrattuale, cosa mettiamo nel negoziato, al di là di 4 o 40 posti?». Se non deve essere un'autoconsegna, cosa c'è di altro? «La prospettiva eventuale della scelta di campo radicale è la materia prima di un possibile accordo, ma se questa invece è già acquisita in partenza, mi si spieghi...». L'unica possibilità è che i prescelti dicano: "Vedete, i radicali quelli seri sono già con noi senza condizioni perché riconoscono che i nostri programmi sono buoni". «Se esiste l'acquisizione di già della presenza radicale all'Unione o ai Ds, non servirà né a Turci né ai Ds». Di nuovo il fatto politico, l'ingresso dei radicali come fatto politico che "serve" alle forze politiche con le quali si conclude l'accordo, qualsiasi esse siano. «Se ci sono scelte altre che sembrano poco solide, destinate a divenire scoria subito, lo ritengo qualcosa che nuoce a tutti».
Veniamo ai referendum. Il "capo" non ha mai dato nulla di perso in partenza. Pannella vedeva l'avvicinarsi di una «catastrofe», ma non ineluttabile: se solo per 5 giorni soprattutto i Ds si fossero liberati dai condizionamenti poteva accadere di tutto. Mentre lo scontro politico provocava «nausea» nei confronti della politica, il referendum veniva marginalizzato, anche per merito di un dibattito «specialistico e idolatrico», appassionato ma solo su alcuni aspetti. L'impegno personale e generoso di Fassino non bastava a rendere l'idea di «un grande scontro ideale, una grande contrapposizione di valori, che nella politica laica devono essere impliciti ad obiettivi legislativi che non si confondano con i valori, che abbiano il senso laico, tollerante, non definitivo, questo sì relativo e relativista». I valori sono stati messi in campo solo dal fronte astensionista, mentre i referendari tentavano di erudire gli elettori.
L'elevato tasso di anticlericalismo della campagna è stata l'altra critica avanzata da Della Vedova. Il richiamo all'art. 98 del testo unico sulle consultazioni elettorali è stato l'aspetto più discusso. In questo articolo ho cercato di spiegare perché non la ritengo una norma illiberale. Dato un regime concordatario fra Stato e Chiesa, quella norma vieta ai ministri di culto, nell'esercizio delle proprie funzioni (quindi non in ogni circostanza), di indurre all'astensione. L'intenzione del legislatore è chiara e nient'affatto illiberale: data una capillare presenza di strutture ecclesiastiche sul territorio italiano, l'appello astensionista avrebbe dato luogo a forme di controllo sociale del voto. La norma tutela il principio della segretezza del voto, e quindi la libertà di coscienza del cittadino, primi fra tutti suore, parroci, credenti, limitando in casi specifici la libertà d'espressione dei pubblici ufficiali. Nel caso delle cariche dello Stato addirittura la norma fu estesa ai referendum nel '70, per proteggere il referendum contro il divorzio da possibili appelli all'astensione da parte di cariche istituzionali.
Accetteremmo le pressioni di un datore di lavoro che ci "indichi" per chi o cosa votare? O quelle di un professore universitario durante un esame? O del nostro sergente se fossimo soldati? Ci ribelleremmo tutti, perché in quelle pressioni non potremmo riscontrare alcuna libertà d'espressione, quanto, piuttosto, un ricatto implicito, l'eventualità concreta che a seguito di una nostra scelta elettorale non protetta dalla segretezza dell'urna (il mero presentarsi al seggio) ci verrebbe comminata una "sanzione".Premesso che è quanto meno discutibile definire illiberale la norma, si può discutere dell'opportunità di usare questo delicato argomento in campagna elettorale, ma Pannella non si è fatto scrupolo di ricorrere allo sciopero della sete per il plenum di una Corte costituzionale che ritiene «la suprema cupola della mafiosità partitocratica». E in questo caso la prima preoccupazione è stata la libertà di religiosi e credenti. La legge può apparire sbagliata, da cambiare e non invocare, solo se ci si muove in una logica a-concordataria, mentre conserva tutta la sua ragion d'essere in un regime concordatario. Detto questo, non si chiedeva l'arresto del prete di montagna, ma che la magistratura aprisse procedimenti giustificando eventuali archiviazioni, in modo da sgombrare il campo da possibili irregolarità formali. Di fronte alla violazione collettiva e reiterata di una norma, un liberale che fa? Chiude gli occhi perché è tollerante? E' questa la tolleranza? E ammesso e non concesso che la norma fosse davvero illiberale, un radicale non ricorre anche all'(auto)denuncia per combatterla.
Piuttosto, pare che un radicale sia "politicamente corretto" solo se moderato, altrimenti viene additato come illiberale. Evidentemente è sconveniente esprimere un tasso ritenuto eccessivo di anticlericalismo, liberismo, libertarismo. Con questi distinguo ho l'impressione che si cerchi di individuare una tipologia di radicale «perbene», quindi «conforme», disposto a riconoscere che sì, è radicale, ma fino a un certo punto, non con certi toni disdicevoli.
Alla base, nota La Radice, c'è un «cattivo uso di due termini: moderato e liberale... Anche e soprattutto un liberale può definirsi moderato (e può essere cattolico) ma non nei termini usati dalla CdL o dal gruppo margheritino e mastelliano». A quanto pare infatti, il liberale va scansato quando non è moderato, quando eccede in liberismo, in libertarismo, persino in liberalismo, che «per molti politici italiani significherebbe la fine della burocrazia, del corporativismo, dell'egemonia culturale», e ovviamente quando eccede in anticlericalismo. Eppure «l'anticlericalismo religioso» dei radicali è «anti gestione della rivelazione rivendicata da una gerarchia anche mondana e secolare». Il cristianesimo, e il cattolicesimo liberale, hanno una storia anticlericale. «Il risorgimento non ce l'avrebbe fatta se fosse stato solo mazziniano e garibaldino». Il cattolicesimo liberale fu persino scomunicato per il suo essere anticlericale.
Con questo lungo post di cui mi scuso credo di aver risposto alle varie sollecitazioni sull'intervento di Della Vedova all'Assemblea dei Mille, senza voler sostenere che nella campagna referendaria non siano stati fatti errori e che dall'esito del voto non debba venire una riflessione profonda. Ho cercato di offire il mio contributo con questo post.
L'assenza e l'indifferenza degli italiani, che in queste proporzioni non possiamo mettere in conto neanche alla campagna astensionista, hanno toccato un livello tale da farci rabbrividire e chiedere in quale paese viviamo. Ce lo dobbiamo chiedere, perché non lo sappiamo. E in politica non è un particolare. Chi dovrebbe saper colmare la distanza del dibattito politico dalla realtà sociale del paese? E' inevitabile e obbligatorio per gli sconfitti «cercare di intercettare e di comprendere» le motivazioni dell'elettorato.«Radicali prima, poi rosa nel pugno, poi antiproibizionisti, poi federalisti, poi gandhiani, poi radicali italiani, poi lucacoscioni, poi scienziati uniti e chi ne ha più ne metta». In termini di marketing politico e comunicazione siano benvenuti tutti gli studi, ma stringi-stringi si chiama partito d'opinione. Per l'amor di Dio, Salvio, senza tirare in ballo i comizi di Bossi sempre pieni, è anche vero che, come dici, le troppe lamentele hanno finito «col far passare il messaggio del lamento e non della lotta... tralasciando quasi del tutto la motivazione del voto: la libertà».
Wednesday, June 22, 2005
L'inquietante record personale di Rafsanjani
Lo traccia il neocon David Frum su Il Foglio di oggi, anticipando che i leader europei accoglieranno a braccia aperte il nuovo presidente iraniano. Ma perché? Per viltà, per affari, per corruzione, nutrendo «illusioni confortevoli».
«Perché molte cancellerie europee si sono convinte che è diventato "un conservatore moderato", un "pragmatista rinato", deciso a migliorare i rapporti con gli Stati Uniti e pronto a negoziare la rinuncia iraniana allo sviluppo di un programma atomico? Una possibile risposta è che i governi europei si siano abbandonati ai pii desideri, alla negazione dell'evidenza e alla fuga. Non vogliono riconoscere la vera realtà del regime iraniano, perché in tal caso dovrebbero fare qualcosa. Pur di non agire, hanno deciso di ingannare se stessi». Leggi tuttoEsiste un'altra risposta, «probabilmente la più vicina alla verità e la più inquietante»: i leaderi europei ritengono i politici islamici corrotti quelli più disposti a collaborare con l'occidente. Ma spesso corrotti fa rima con terroristi: «Si può essere contemporaneamente ladri e assassini», come nel caso del fu Yasser Arafat.
Più democrazia e liberismo per l'Africa
Basta con le politiche paternalistiche nei confronti della miseria africana. Non servono le campagne delle rock star o le lodevoli cancellazioni del debito utili più al nostro senso di colpa. Alleviano sul momento, ma il sottosviluppo rimane. L'Istituto Bruno Leoni pubblica un interessante paper di Franklyn Cudjoe, economista del Ghana, del think thank Imani.
«Siamo noi stessi africani a dover migliorare il benessere delle nostre società e incoraggiare la crescita economica, adottando radicali trasformazioni delle nostre istituzioni politiche e istituzionali. La soluzione a tutto ciò che ci opprime non ha a che fare con gli aiuti internazionali, la cancellazione del debito pubblico o "il commercio equo". La soluzione può venire solamente dall'adozione di istituzioni che liberino lo spirito imprenditoriale presente in ogni paese africano, permettendo agli africani di commerciare tra loro e con ogni altra persona nel mondo. Il primo passo fondamentale sarebbe stabilire chiari diritti di proprietà. Un altro obiettivo importantissimo consisterebbe nel delineare un ordine giuridico efficace, trasparente e responsabile. Combinate con il rispetto della proprietà privata e della rule of law, queste ampie riforme incoraggerebbero l'imprenditorialità, il commercio, l'innovazione e anche la protezione ambientale, poiché darebbero più forza alla gente e ne toglierebbero alle élite politiche e burocratiche».Gli africani sono già padroni del loro futuro, a noi non resta che rimuovere gli ostacoli e le barriere. L'Europa, per esempio, potrebbe cominciare portando a quota zero i sussidi per la propria agricoltura.
Una pattuglia di "originalisti" anche in Italia
Se solo si discutesse di giudici anche da noi in Italia come se ne discute negli Stati Uniti! Non c'è la magistratura, ma ci sono i giudici, non un corpo organizzato e indipendente che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale esercita in modo arbitrario il proprio potere. Quello per la nomina di due nuovi giudici della Corte Costituzionale da parte del Parlamento italiano è un dibattito come sempre poco trasparente, dove a prevalere sono interessi di cordata e affiliazioni partitiche. Solo oggi il giudice Silvestri ce l'ha fatta.
Anche negli Stati Uniti le forze politiche si dividono sulla nomina dei giudici, ma almeno alla base del dibattito emergono le dottrine giuridiche a cui i giudici da nominare fanno riferimento.
Qui in Italia è assente, o comunque inespressa, qualsiasi dottrina giuridica legata alla lettera della Costituzione e alla testualità della legge. continua (su Notizie Radicali)
Anche negli Stati Uniti le forze politiche si dividono sulla nomina dei giudici, ma almeno alla base del dibattito emergono le dottrine giuridiche a cui i giudici da nominare fanno riferimento.
Qui in Italia è assente, o comunque inespressa, qualsiasi dottrina giuridica legata alla lettera della Costituzione e alla testualità della legge. continua (su Notizie Radicali)
Il laico devoto Pera scopre il gioco di Ratzinger-Ruini
Ieri il presidente del Senato Marcello Pera ha dichiarato di accettare la sfida lanciata da Papa Ratzinger ai laici, di agire cioè «come se Dio esistesse», pur precisando di non essersi convertito né di essere divenuto clericale. Il suo vorrebbe essere un crociano "non possiamo non dirci cristiani". La sua interpretazione, che fa riferimento non solo a radici storiche e culturali, ma che rintraccia legami fra il Decalogo e il diritto dello Stato a esso ispirato, è discutibile, ma non è qui che voglio affrontare questo argomento, anche perché ci ha pensato Malvino e non occorre aggiungere altro alle parole dello stesso Benedetto Croce.
Pera lancia a sua volta una sfida al credente: «E' disposto a de-istituzionalizzarsi, a pensare che quella religione per lui irrinunciabile possa diventare una religione cristiana civile? La Chiesa è disposta a uscire dai privilegi» degli accordi concordatari e «farsi missione all'interno della società?».
Insomma, la domanda è stringente, il laico devoto Pera ha colto in pieno le contraddizioni di questa Chiesa, ricevendo risposte apparentemente ambigue, ma a uno sguardo più attento precise, che a lui conviene far apparire "aperte" in vista della corsa al Quirinale.
E' Ratzinger stesso nel libro "Senza radici", ricorda Pera, a lodare il modello delle chiese libere americane, che predicano nella società, competono, e si fanno missionarie. «E' questa la via che la Chiesa e i credenti intendono perseguire?». Una via per forza di cose a-concordataria? Secondo Pera la risposta sta nelle parole pronunciate dal Card. Camillo Ruini l'11 febbraio scorso, all'Opera romana pellegrinaggi:
Pera osserva che nel suo nuovo libro il Papa sembra richiamare proprio l'art. 52 del Trattato costituzionale europeo, che riconosce i concordati nazionali, come se fosse stato un errore da parte della Chiesa Cattolica ritenerlo sufficiente a compensare la perdita della menzione delle radici cristiane nel preambolo. Garantiti i diritti istituzionali, temporali, delle chiese, il prezzo è che esse trovano posto nell'ambito dei rapporti concordatari, ma il loro contenuto non trova spazio nelle basi dell'Europa e riconoscimento nella sfera pubblica. Ruini sostiene però che la Chiesa non ha potuto scegliere tra l'art. 52 e l'inclusione delle radici cristiane: «Non volevano darci né l'uno né l'altro».
Però il riferimento alle radici cristiane non c'è, mentre l'art. 52 sì, dunque qualcuno la scelta deve pur averla fatta.
Dunque, il richiamo al modello americano di religiosità civile è strumentale. Per un verso Ratzinger e Ruini, lamentando «l'esclusione di Dio dalla coscienza pubblica» europea, rivendicano per la Chiesa cattolica la stessa rilevanza pubblica e la stessa libertà d'azione evangelizzatrice riconosciute alle religioni nella società americana. I laici non arroccati su vecchi princìpi dovrebbero convenire, ma del modello americano non si può prendere solo ciò che fa comodo. Infatti, per altro verso, la Chiesa rifiuta il presupposto inderogabile di quel modello: il rapporto a-concordatario fra Stato e chiese. Citando Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi, potremmo affermare che Ratzinger e Ruini «reclamano la loro libertà in nome dei nostri principi» per negarla agli altri «in nome dei principi loro».
In cambio della non ingerenza della Chiesa cattolica nella vita politica e istituzionale dello Stato italiano, il concordato le assegna privilegi e benefici dovuti al fatto che è riconosciuta come religione degli italiani. Così, per esempio, riceve i finanziamenti dell'otto per mille e ottiene l'inserimento in ruolo degli insegnanti di religione. Cose intollerabili negli Stati Uniti, dove il primo emendamento vieta espressamente qualsiasi riconoscimento di una religione da parte dello Stato. E' lecito chiedersi se il progetto della Chiesa sia davvero una missione ri-evangelizzatrice per la rinascita della religiosità cristiana nella società europea. Il progetto sembra sì quello della religione civile sul modello americano, ma senza rinunciare ai privilegi dei concordati: l'Italia sarà il nuovo modello.
Audiovideo: qui Pera, qui Ruini
Conclusioni. Questo dialogo fra Pera e Ratzinger, fra laici e cattolici, dovrebbe essere necessario per aggiustare i confini di separazione fra Stato e Chiesa, «non fissati in astratto e una volta per tutte». Trova la sua ragion d'essere nelle presunte difficoltà di entrambi a riconoscerli, mentre entrambi, a parole, quei confini non fanno che affermarli. Allora a quale scambio, a quale venirsi incontro, il dialogo dovrebbe approdare?
Se Pera chiede alla Chiesa cattolica di accettare la sfida di farsi religione civile sul modello americano a-concordatario, l'ambizioso progetto Ratzinger-Ruini è sì quello di affermare il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica, quindi di avere mani libere nella vita politica e istituzionale degli Stati, ma senza rinunciare ai privilegi concordatari, costituendo anzi a partire dall'Italia un nuovo modello da esportare in tutta Europa.
Pera e Ratzinger si usano a vicenda: l'uno per ottenere il favore degli ambienti cattolici nella corsa al Quirinale, l'altro per far breccia nel mondo laico e poter esercitare ingerenze senza dover mettere in discussione il regime concordatario.
Pera lancia a sua volta una sfida al credente: «E' disposto a de-istituzionalizzarsi, a pensare che quella religione per lui irrinunciabile possa diventare una religione cristiana civile? La Chiesa è disposta a uscire dai privilegi» degli accordi concordatari e «farsi missione all'interno della società?».
Insomma, la domanda è stringente, il laico devoto Pera ha colto in pieno le contraddizioni di questa Chiesa, ricevendo risposte apparentemente ambigue, ma a uno sguardo più attento precise, che a lui conviene far apparire "aperte" in vista della corsa al Quirinale.
E' Ratzinger stesso nel libro "Senza radici", ricorda Pera, a lodare il modello delle chiese libere americane, che predicano nella società, competono, e si fanno missionarie. «E' questa la via che la Chiesa e i credenti intendono perseguire?». Una via per forza di cose a-concordataria? Secondo Pera la risposta sta nelle parole pronunciate dal Card. Camillo Ruini l'11 febbraio scorso, all'Opera romana pellegrinaggi:
«La cosiddetta religiosità civile americana, di carattere non confessionale ma di chiara impronta cristiana, sembra il modello meglio in grado di garantire, nell'attuale società libera e democratica, i fondamenti morali della convivenza e in ultima analisi una comune visione del mondo, cosicché la promozione della democrazia appaia un imperativo morale in sintonia con la fede religiosa».Tuttavia, ieri la risposta del cardinale non si è fatta attendere ed è stata un garbato e velato no, non è disposta:
«La Chiesa deve vivere in una società aperta. Ma è anche vero che non può essere solo religione civile perché perderebbe l'essenza profonda del suo essere comunità di fede».Come in America si giura "Under God" senza che ciò costituisca una minaccia per la separazione fra Stato e Chiesa, anche in Europa il nuovo Trattato costituzionale potrebbe accogliere il riferimento alle radici cristiane (giudaico- si è perso per strada) se la Chiesa accettasse di rinunciare all'art. 52.
Pera osserva che nel suo nuovo libro il Papa sembra richiamare proprio l'art. 52 del Trattato costituzionale europeo, che riconosce i concordati nazionali, come se fosse stato un errore da parte della Chiesa Cattolica ritenerlo sufficiente a compensare la perdita della menzione delle radici cristiane nel preambolo. Garantiti i diritti istituzionali, temporali, delle chiese, il prezzo è che esse trovano posto nell'ambito dei rapporti concordatari, ma il loro contenuto non trova spazio nelle basi dell'Europa e riconoscimento nella sfera pubblica. Ruini sostiene però che la Chiesa non ha potuto scegliere tra l'art. 52 e l'inclusione delle radici cristiane: «Non volevano darci né l'uno né l'altro».
Però il riferimento alle radici cristiane non c'è, mentre l'art. 52 sì, dunque qualcuno la scelta deve pur averla fatta.
Dunque, il richiamo al modello americano di religiosità civile è strumentale. Per un verso Ratzinger e Ruini, lamentando «l'esclusione di Dio dalla coscienza pubblica» europea, rivendicano per la Chiesa cattolica la stessa rilevanza pubblica e la stessa libertà d'azione evangelizzatrice riconosciute alle religioni nella società americana. I laici non arroccati su vecchi princìpi dovrebbero convenire, ma del modello americano non si può prendere solo ciò che fa comodo. Infatti, per altro verso, la Chiesa rifiuta il presupposto inderogabile di quel modello: il rapporto a-concordatario fra Stato e chiese. Citando Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi, potremmo affermare che Ratzinger e Ruini «reclamano la loro libertà in nome dei nostri principi» per negarla agli altri «in nome dei principi loro».
In cambio della non ingerenza della Chiesa cattolica nella vita politica e istituzionale dello Stato italiano, il concordato le assegna privilegi e benefici dovuti al fatto che è riconosciuta come religione degli italiani. Così, per esempio, riceve i finanziamenti dell'otto per mille e ottiene l'inserimento in ruolo degli insegnanti di religione. Cose intollerabili negli Stati Uniti, dove il primo emendamento vieta espressamente qualsiasi riconoscimento di una religione da parte dello Stato. E' lecito chiedersi se il progetto della Chiesa sia davvero una missione ri-evangelizzatrice per la rinascita della religiosità cristiana nella società europea. Il progetto sembra sì quello della religione civile sul modello americano, ma senza rinunciare ai privilegi dei concordati: l'Italia sarà il nuovo modello.
Audiovideo: qui Pera, qui Ruini
Conclusioni. Questo dialogo fra Pera e Ratzinger, fra laici e cattolici, dovrebbe essere necessario per aggiustare i confini di separazione fra Stato e Chiesa, «non fissati in astratto e una volta per tutte». Trova la sua ragion d'essere nelle presunte difficoltà di entrambi a riconoscerli, mentre entrambi, a parole, quei confini non fanno che affermarli. Allora a quale scambio, a quale venirsi incontro, il dialogo dovrebbe approdare?
Se Pera chiede alla Chiesa cattolica di accettare la sfida di farsi religione civile sul modello americano a-concordatario, l'ambizioso progetto Ratzinger-Ruini è sì quello di affermare il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica, quindi di avere mani libere nella vita politica e istituzionale degli Stati, ma senza rinunciare ai privilegi concordatari, costituendo anzi a partire dall'Italia un nuovo modello da esportare in tutta Europa.
Pera e Ratzinger si usano a vicenda: l'uno per ottenere il favore degli ambienti cattolici nella corsa al Quirinale, l'altro per far breccia nel mondo laico e poter esercitare ingerenze senza dover mettere in discussione il regime concordatario.
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