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Thursday, June 23, 2005

Dellavedoviana (per tutti i blogger radicali)

Premesse:
1) Stimo Benedetto Della Vedova, uno degli esponenti radicali più preparati, e non ritengo affatto che per le sue posizioni non sia radicale, in quanto, da lezione pannelliana, radicale è chi acquista la tessera. Non sarà mai una storia di «tradimenti», ma la dimostrazione della forza delle idee, del fatto che a «idee diverse», corrispondono «forze diverse», ha fatto capire il leader radicale. Sgombrando il campo da ogni equivoco, Pannella chiarì lo scorso gennaio che si definisce "radicale" «chiunque compia l'atto del tesseramento», non ci sono né "veri" radicali, né radicali "traditori".
2) L'inesattezza pubblicata su qualche giornale e ripresa da qualche blog: Della Vedova non è stato affatto messo alla porta, anzi la sua posizione, anche se minoritaria, è stata deliberatamente e dichiaratamente valorizzata da Pannella che ne ha fatto l'argomento di due suoi interventi (domenica all'assemblea e lunedì al comitato); non ho mai sentito una chiusura identitaria provenire da Pannella e Bonino all'indirizzo di Benedetto, della serie "non esprime la storia e l'identità radicale", "non è radicale" e via dicendo. Piuttosto, critiche politiche, anche estreme, ma il non riconoscersi in un eventuale prevalere della linea Della Vedova scaturiva, nei due leader, sempre dalla consapevolezza della propria personale storia politica.

Per togliere di mezzo qualche falso mito che si è di nuovo affacciato nella discussione sull'intervento di Benedetto Della Vedova all'Assemblea dei Mille occorre per prima cosa risalire a questo inverno, all'iniziativa pannelliana dell'"ospitalità". Sì, perché se la critica politica di Della Vedova è principalmente quella di essersi imbarcati in un'avventura referendaria dall'esito negativo scontato, alla base di questa critica c'è il tema delle alleanze. Quella dei radicali che non hanno mai tentato di scegliere l'una o l'altra coalizione, che da duri e puri non hanno mai saputo scegliere, magari frenati da Pannella, è pura leggenda metropolitana svanita nel nulla in questo modo.

Si sa che l'ospitalità per le regionali non andò in porto per i veti incrociati di alcune forze politiche di entrambe le coalizioni. Troppo alte le richieste dei soliti incontentabili radicali? Vista la debolezza del movimento, che da troppo tempo attraversa il deserto «senz'acqua e scarpe», l'unica richiesta di Pannella era quella di ricevere un aiuto a presentare le liste e di valorizzare la presenza radicale (in tv, sui giornali, per posta), non nasconderla, all'interno della coalizione ospitante, in modo da farne un fatto politico da presentare ai propri elettori. Nessun compromesso sui programmi, scomodo e ipocrita per l'una e l'altra parte, ma solo la volontà politica di una delle due coalizioni di far rientrare i radicali nelle istituzioni, consentendo loro di esprimere ciò che sono e continuare le proprie battaglie senza la pretesa di farne battaglie condivise dall'intera coalizione ospitante. Tutto scritto fin nella mozione di gennaio approvata dal Comitato. La ricerca di un accordo «come atto necessario per la conquista di segmenti di legalità nella vita e nell'attività delle stesse istituzioni, e, insieme, per il recupero alle istituzioni della presenza e dell'apporto radicale».

Insomma, altro che duri e puri, la richiesta era quella di un fatto politico davvero minimo, e lo dimostrano i pretesti a cui soprattutto Prodi è dovuto ricorrere per far saltare un accordo che con i Ds era concluso. Pannella accettò persino che l'accordo non si sarebbe fatto su tutte le regioni, ma su un buon numero di esse purché demograficamente rilevanti. Mi pare che alla fine fu l'assenza dell'Emilia Romagna a far saltare tutto, ma non ricordo bene. Tutto è conservato nelle registrazioni di via di Torre Argentina. Nessuna condizione dunque, ma qual fosse questo fatto politico minimo se ne accorsero autorevoli commentatori.
L'"ospitalità" ai radicali avrebbe «segnato il grado alto di libertà e di istinto democratico, rischi e benefici inclusi, di quella delle due parti che lo accetta». Furio Colombo

«... nei due poli l'alleanza con i radicali è voluta soprattutto da coloro che aspirano a connotare in senso più "liberale" il proprio schieramento. I radicali possono far perdere voti ma anche farne guadagnare. Hanno un blasone temuto e ambito. Proprio di chi, nella sua ormai lunga storia, ha dato lezioni di libertà a tanti senza mai bisogno di prenderne da nessuno». Angelo Panebianco

«Una sana iniezione di cultura liberale farebbe bene a entrambi i poli. Ma, forse, è proprio questa la ragione per la quale entrambi guardano a tale prospettiva con tanta diffidenza». Piero Ostellino
Se tutti i nemici "storici" dei radicali, in entrambi i poli, hanno lottato in campo aperto con identici obiettivi e motivazioni, per impedirgli la possibilità di rientrare nelle istituzioni, ciò significa che l'iniziativa dell'"ospitalità" mirava all'obiettivo giusto nel modo giusto per il movimento, e che la simmetria perfetta delle due coalizioni era tale da giustificare un'"ospitalità" in qualunque delle due l'avesse accettata. E' dimostrato nei fatti ciò che l'Unione voleva far negare a Pannella: che i due Poli sono perfettamente simmetrici nel rappresentare entrambi un unico regime partitocratico, nei suoi connotati di illegalità, clericalismo, degrado politico e di governo. Le più classiche delle due facce della stessa medaglia. Non ci sono al di qua i "perbene" e al di là il "male assoluto", Berlusconi, con i radicali che non sanno scegliere. Questa è da quel momento in poi una lettura smentita dai fatti, almeno per chi vuole vederli.

Un fatto politicamente rilevante per quella coalizione, questo deve costituire per Pannella l'eventuale accordo. Il 3,5% in Lombardia e Piemonte sarebbe stato possibile solo se la presenza di liste radicali avesse costituito, come nel 2000, un fatto politico di carattere nazionale, altrimenti si sarebbe finiti come nelle disfatte di Bolzano e dell'Abruzzo, dove il danno di immagine dell'1, o dello 0, non è stato lieve. Su candidature individuali nelle liste delle altre coalizioni non c'è stato alcun veto. Insomma, di cosa parliamo?

Torniamo a Della Vedova, che ci ha detto: l'errore è stato fare il referendum. Che sia la stessa principale e unica risposta di Rutelli ai Ds è un segno che denota «l'inconsistenza assoluta della proposta» di Della Vedova. In casa radicale, sarà un difetto per carità, ma si è abituati a parlare e discutere di lotte, di iniziative, di proposte, anche di ipotesi di... ma non di posizionamenti. Banalmente, chiamiamola critica costruttiva. Non si tratta di referendum sacro e radicali che non possono essere che referendari a tutti i costi. Contro la legge 40, se non il referendum che cosa? A questo Della Vedova non ha mai risposto se non con il ritornello delle alleanze.

La strategia di Rutelli, dalla quale Pannella ha messo in guardia Della Vedova, è la tipica strategia inclusiva da cui devono guardarsi i radicali: Rutelli dà alla Margherita la funzione di raccogliere i laici e i cattolici disponibili a battere Berlusconi. Punto. Lo stesso discorso vale per l'altra coalizione. Per questo l'ospitalità dei radicali in una delle due coalizioni deve rappresentare un fatto politico valorizzato, utile innanzitutto per quella coalizione: una scelta dettata da esigenze politiche. Per esempio, guardando a oggi, le difficoltà di Ds e Sdi fra sinistra radicale e l'accoppiata Prodi-Rutelli.

La scelta di campo fra le due coalizioni per i radicali non potrà mai essere preventiva, pena l'autoconsegna. Primo, perl'analisi che fa Pannella della situazione del regime in Italia: «L'illegalità della vita istituzionale e politica del nostro Paese è ormai un fatto compiuto, non più solo in fieri... uno stesso sistema politico articolato in due poli antropologicamente uniti». Non c'è, nella partitocrazia, da una parte il meglio e dall'altra il peggio. Le due coalizioni sono due facce della stessa medaglia, due cosche della mafiosità partitocratica: da una parte i corleonesi, dall'altra i palermitani. Si può non essere d'accordo con questa analisi - secondo le dinamiche che ho cercato di spiegare in questo articolo. E infatti i radicali che invece sostengono la necessità di una scelta di campo preventiva, Della Vedova con il centrodestra, altri, per esempio Cappato, con il centrosinistra, non condividono questa analisi e Pannella lo sa: «In modo maggioritario qui da noi si coglie quel tanto di strumentalizzabile nella mia posizione... "così si fa questo accordo"».

Essi compiono una scelta di valore, non di lotta, di obiettivi. E mentre i valori ciascuno ha i propri e rimangono tali, sugli obiettivi possono convergere forze politiche diverse che di volta in volta trovano un determinato obiettivo compatibile con i propri valori. E' l'unità laica delle forze: ciascuno con il suo motivo laicamente si incontra su un obiettivo. Cosa c'è di più pragmatico del "tratto di strada assieme"? Della Vedova, nei confronti della coalizione che predilige, ha mai saputo avviare, o almeno proporre, un "tratto di strada assieme" su un obiettivo concreto? Di qui l'inconsistenza della proposta dellavedoviana, che è solo posizione.

A cosa sono serviti, cosa hanno prodotto in termini di battaglie radicali, gli "innesti" radicali verso destra o verso sinistra tentati nel corso degli ultimi decenni? Calderisi, Teodori, Taradash da una parte, Negri, Rutelli, Aglietta dall'altra: risultato nessuno. Qui ha ragione Zarqawi, l'entrismo non produce nulla: o si tratta di usare l'appartenenza radicale per piazzarsi bene in vista nella politica italiana, un uso legittimo per il quale non serve portarsi dietro un partito, o al massimo ti usano come bandierina liberale.

La seconda ragione è tattica, e nessuno ha saputo ancora trovare una risposta: «Nel momento in cui andiamo da Prodi o da chiunque altro - chiede Pannella, lo chiede davvero - premesso che abbiamo fatto la nostra scelta di campo e siete voi, quello che viene dopo non conta più un cazzo... qual è la forza contrattuale, cosa mettiamo nel negoziato, al di là di 4 o 40 posti?». Se non deve essere un'autoconsegna, cosa c'è di altro? «La prospettiva eventuale della scelta di campo radicale è la materia prima di un possibile accordo, ma se questa invece è già acquisita in partenza, mi si spieghi...». L'unica possibilità è che i prescelti dicano: "Vedete, i radicali quelli seri sono già con noi senza condizioni perché riconoscono che i nostri programmi sono buoni". «Se esiste l'acquisizione di già della presenza radicale all'Unione o ai Ds, non servirà né a Turci né ai Ds». Di nuovo il fatto politico, l'ingresso dei radicali come fatto politico che "serve" alle forze politiche con le quali si conclude l'accordo, qualsiasi esse siano. «Se ci sono scelte altre che sembrano poco solide, destinate a divenire scoria subito, lo ritengo qualcosa che nuoce a tutti».

Veniamo ai referendum. Il "capo" non ha mai dato nulla di perso in partenza. Pannella vedeva l'avvicinarsi di una «catastrofe», ma non ineluttabile: se solo per 5 giorni soprattutto i Ds si fossero liberati dai condizionamenti poteva accadere di tutto. Mentre lo scontro politico provocava «nausea» nei confronti della politica, il referendum veniva marginalizzato, anche per merito di un dibattito «specialistico e idolatrico», appassionato ma solo su alcuni aspetti. L'impegno personale e generoso di Fassino non bastava a rendere l'idea di «un grande scontro ideale, una grande contrapposizione di valori, che nella politica laica devono essere impliciti ad obiettivi legislativi che non si confondano con i valori, che abbiano il senso laico, tollerante, non definitivo, questo sì relativo e relativista». I valori sono stati messi in campo solo dal fronte astensionista, mentre i referendari tentavano di erudire gli elettori.

L'elevato tasso di anticlericalismo della campagna è stata l'altra critica avanzata da Della Vedova. Il richiamo all'art. 98 del testo unico sulle consultazioni elettorali è stato l'aspetto più discusso. In questo articolo ho cercato di spiegare perché non la ritengo una norma illiberale. Dato un regime concordatario fra Stato e Chiesa, quella norma vieta ai ministri di culto, nell'esercizio delle proprie funzioni (quindi non in ogni circostanza), di indurre all'astensione. L'intenzione del legislatore è chiara e nient'affatto illiberale: data una capillare presenza di strutture ecclesiastiche sul territorio italiano, l'appello astensionista avrebbe dato luogo a forme di controllo sociale del voto. La norma tutela il principio della segretezza del voto, e quindi la libertà di coscienza del cittadino, primi fra tutti suore, parroci, credenti, limitando in casi specifici la libertà d'espressione dei pubblici ufficiali. Nel caso delle cariche dello Stato addirittura la norma fu estesa ai referendum nel '70, per proteggere il referendum contro il divorzio da possibili appelli all'astensione da parte di cariche istituzionali.
Accetteremmo le pressioni di un datore di lavoro che ci "indichi" per chi o cosa votare? O quelle di un professore universitario durante un esame? O del nostro sergente se fossimo soldati? Ci ribelleremmo tutti, perché in quelle pressioni non potremmo riscontrare alcuna libertà d'espressione, quanto, piuttosto, un ricatto implicito, l'eventualità concreta che a seguito di una nostra scelta elettorale non protetta dalla segretezza dell'urna (il mero presentarsi al seggio) ci verrebbe comminata una "sanzione".
Premesso che è quanto meno discutibile definire illiberale la norma, si può discutere dell'opportunità di usare questo delicato argomento in campagna elettorale, ma Pannella non si è fatto scrupolo di ricorrere allo sciopero della sete per il plenum di una Corte costituzionale che ritiene «la suprema cupola della mafiosità partitocratica». E in questo caso la prima preoccupazione è stata la libertà di religiosi e credenti. La legge può apparire sbagliata, da cambiare e non invocare, solo se ci si muove in una logica a-concordataria, mentre conserva tutta la sua ragion d'essere in un regime concordatario. Detto questo, non si chiedeva l'arresto del prete di montagna, ma che la magistratura aprisse procedimenti giustificando eventuali archiviazioni, in modo da sgombrare il campo da possibili irregolarità formali. Di fronte alla violazione collettiva e reiterata di una norma, un liberale che fa? Chiude gli occhi perché è tollerante? E' questa la tolleranza? E ammesso e non concesso che la norma fosse davvero illiberale, un radicale non ricorre anche all'(auto)denuncia per combatterla.

Piuttosto, pare che un radicale sia "politicamente corretto" solo se moderato, altrimenti viene additato come illiberale. Evidentemente è sconveniente esprimere un tasso ritenuto eccessivo di anticlericalismo, liberismo, libertarismo. Con questi distinguo ho l'impressione che si cerchi di individuare una tipologia di radicale «perbene», quindi «conforme», disposto a riconoscere che sì, è radicale, ma fino a un certo punto, non con certi toni disdicevoli.

Alla base, nota La Radice, c'è un «cattivo uso di due termini: moderato e liberale... Anche e soprattutto un liberale può definirsi moderato (e può essere cattolico) ma non nei termini usati dalla CdL o dal gruppo margheritino e mastelliano». A quanto pare infatti, il liberale va scansato quando non è moderato, quando eccede in liberismo, in libertarismo, persino in liberalismo, che «per molti politici italiani significherebbe la fine della burocrazia, del corporativismo, dell'egemonia culturale», e ovviamente quando eccede in anticlericalismo. Eppure «l'anticlericalismo religioso» dei radicali è «anti gestione della rivelazione rivendicata da una gerarchia anche mondana e secolare». Il cristianesimo, e il cattolicesimo liberale, hanno una storia anticlericale. «Il risorgimento non ce l'avrebbe fatta se fosse stato solo mazziniano e garibaldino». Il cattolicesimo liberale fu persino scomunicato per il suo essere anticlericale.

Con questo lungo post di cui mi scuso credo di aver risposto alle varie sollecitazioni sull'intervento di Della Vedova all'Assemblea dei Mille, senza voler sostenere che nella campagna referendaria non siano stati fatti errori e che dall'esito del voto non debba venire una riflessione profonda. Ho cercato di offire il mio contributo con questo post.
L'assenza e l'indifferenza degli italiani, che in queste proporzioni non possiamo mettere in conto neanche alla campagna astensionista, hanno toccato un livello tale da farci rabbrividire e chiedere in quale paese viviamo. Ce lo dobbiamo chiedere, perché non lo sappiamo. E in politica non è un particolare. Chi dovrebbe saper colmare la distanza del dibattito politico dalla realtà sociale del paese? E' inevitabile e obbligatorio per gli sconfitti «cercare di intercettare e di comprendere» le motivazioni dell'elettorato.
«Radicali prima, poi rosa nel pugno, poi antiproibizionisti, poi federalisti, poi gandhiani, poi radicali italiani, poi lucacoscioni, poi scienziati uniti e chi ne ha più ne metta». In termini di marketing politico e comunicazione siano benvenuti tutti gli studi, ma stringi-stringi si chiama partito d'opinione. Per l'amor di Dio, Salvio, senza tirare in ballo i comizi di Bossi sempre pieni, è anche vero che, come dici, le troppe lamentele hanno finito «col far passare il messaggio del lamento e non della lotta... tralasciando quasi del tutto la motivazione del voto: la libertà».

12 comments:

Anonymous said...

ti risponderò con parole non mie. e alquanto vecchiotte.

"Di fatto, se esteriormente, nel costume, nel corretto anglicismo, l’élite si presentava come liberale, nell’intimo era romantico-reazionaria, convinta di possedere, per diritto divino, il segreto ineffabile della “personalità” e di doverlo difendere come un Graal. Aveva più fiducia in formule mistiche, un po’ sacrileghe, e nelle relative congreghe, che in una religione della libertà la quale presupponeva il dovere di misurarsi con la bassezza dei compiti quotidiani, con il “limite”, privo di seducenti sfumature, della realtà. Allenata a tutti i possibili esercizi intellettuali, era pronta a giocare con tutto, financo con qualche grazioso atteggiamento comunista, ma non a riconoscersi per quello che era, un fenomeno squisitamente collettivo, che dava l’esempio di un conformismo sottile e penetrante, e agiva prevalentemente sull’inconscio".
(1964)

Anonymous said...

OTTIMO!

e così resta tutto, come al solito, difficilissimo!

ma è la verità, la realtà delle cose. Non ho davvero nulla da eccepire.
Lunga vita a Pannella!!!

Anonymous said...

Ottimo, Fede.
Grazie per aver raccolto.
Ti risponderò a pezzettini, perché una risposta complessiva richiederebbe un volumetto di almeno 50 pagine ;-)
Allora.

"quella norma vieta ai ministri di culto, nell'esercizio delle proprie funzioni (quindi non in ogni circostanza), di indurre all'astensione".

Non è vero. Questo è una patacca che è stata spacciata da Ainis e raccolta dai radicali con una frettolosità che denota un pericoloso atteggiamento della serie "tutto fa brodo", sul quale è bene fermarsi a riflettere quanto prima.
L'articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera non afferma affatto che il ministro di culto è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni semplicemente se induce gli elettori all'astensione "nell'esercizio delle proprie funzioni".
C'è un ulteriore requisito, ed è assolutamente fondamentale: "abusando delle proprie attribuzioni".
Il ministro di culto che fa propaganda astensionista commette quel reato solo se lo fa non solo nell’esercizio delle proprie attribuzioni (cioè amministrando i sacramenti, ecc.), ma anche “abusandone”.

A dire il vero in un primo momento, nel gennaio 1946 nel riformare la disciplina delle elezioni comunali (si trattava di ricostruire i Comuni dopo il regime dei Podestà) era stata davvero introdotta nell’ordinamento repubblicano una norma molto più intransigente, che stabiliva, quella sì, quella pena per "i ministri di un culto che, con allocuzioni o discorsi in luoghi destinati al culto o in riunioni di carattere religioso, si adoperano ad indurrre gli elettori all'astensione” (Decreto legislativo Luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, art.74).
Quella sì che era la versione “hard” della norma come la vorrebbe Ainis: sanzionava come reato il semplice fatto della propaganda astensionista in chiesa.
Solo che subito dopo intervenne un ripensamento: a maerzo dello stesso anno, nel Decreto legislativo Luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, contenente le “Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea Costituente”, il legislatore inserì un Articolo 70 formulato nella nuova versione poi adottata anche per le elezioni politiche e successivamente estesa ai referendum: quella, appunto, ora riversta nel vigente art.98.
Ed è è significativo che, contestualmente, questa diversa formulazione sia andata a sostituire quella più dura inizialmente prevista anche nela testo sulle elezioni comunali (sicché la versione “hard” non fu mai applicata).

Allora: seguendo quella che viene comunemente definita la “interpretazione storica” della norma, salta all’occhio il “ripensamento” del legislatore che, dopo aver inizialmente considerato di rendere sempre punibile il semplice fatto di un prete che, con discorsi in chiesa o comunque o in riunioni di carattere religioso, avesse invitato a non votare, optò poi per un divieto vistosamente “ridimensionato”, limitato al solo caso del prete che avesse tentato di indurre una persona a non votare “ABUSANDO DELLE PROPRIE ATTRIBUZIONI e nell'esercizio di esse”. Si pensi, ad esempio, al parroco che minacci i fedeli di negare l’assoluzione nel confessionale qualora “pecchino” votando al referendum.

E infatti la Terza Sezione della Cassazione penale, con sentenza del 13 giugno 1984, ritenne che:

“NON commette il reato di cui all'art. 98 d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (sull'elezione della Camera dei deputati), applicabile anche ai referendum - che punisce, tra gli altri, il ministro di qualsiasi culto che, abusando delle proprie attribuzioni e nell'esercizio di esse, si adopera, fra le altre cose, a vincolare i suffragi degli elettori - il ministro del culto cattolico, il quale nell'interno della chiesa affigga manifesti che, limitandosi a richiamare il valore della vita e ad affermare che essa ha inizio all'atto del concepimento, invitino gli elettori, SENZA ALCUNA MENZIONE DI CONSEGUENTI VANTAGGI O DANNI, NEPPURE DI CARATTERE SPIRITUALE, a votare in favore del referendum tendente a limitare i casi di aborto (cosiddetto referendum minimale) e contro quello sostanzialmente tendente ad estenderli (cosiddetto referendum radicale). L'art.98 citato, infatti, NON vieta ai pubblici ufficiali ed agli altri soggetti equiparati, tra i quali i ministri del culto, QUALSIASI forma di propaganda elettorale”
(la sentenza, che io sappia, è l’unica che la Cassazione abbia pronunciato su questa norma).

(segue...)

JimMomo said...

Ammetto che la frase "abusando delle proprie attribuzioni" mi è sfuggita, ma il punto politico della questione non cambia.

Ho scritto più di un pezzo sull'argomento (questo e quest'altro), proprio sottolineando che condizione necessaria per la violazione della norma era "la menzione di conseguenti vantaggi o danni, anche di carattere spirituale"
L'ho spiegata così la norma: «Un generico appello all'astensione non è punibile, lo devono proferire un'autorità pubblica o un ministro di culto nell'esercizio delle loro funzioni, ma deve anche contenere un ricatto, il danno cui si va incontro disobbedendo... non possono "indurre" all'astensione, o meglio, non possono farlo sostenendo che disobbedire a tale indicazione equivale a commettere un peccato per il quale doversi sentire in colpa».

«Quale sarebbe il danno "minacciato" a cui ci esponiamo recandoci alle urne il 12 e il 13 giugno? Nel caso dei religiosi dissenzienti il danno è implicito ma molto concreto: rischiano di esser sbattuti ai confini, di veder decurtati stipendi e pensioni. Per i credenti laici il ricatto è spirituale, nella misura in cui il recarsi alle urne viene definito come un peccato per cui provare colpa... E il peccato, la colpa, sono le "sanzioni spirituali" cui molti vescovi hanno fatto riferimento esplicito per religiosi e fedeli che intendano disobbedire».

Ebbene, ci sono stati prima e dopo il voto notizie di allontanamenti e licenziamenti;
Le dichiarazioni di un ministro: traditore o stupido il cattolico che vota;
Tettamanzi e molti altri vescovi: indicazione «vincolante», che solo per «gravi motivi» si potrebbe disattendere «senza sentirsi in qualche modo a disagio o in colpa».
Ora, dice Pannella, possibile che non un magistrato abbia ritenuto quanto meno opportuno aprire un'inchiesta, anche solo per poi chiuderla motivando il perché?

«Se durante una sessione di esami universitari ce la stessimo facendo sotto e il professore ci esortasse caldamente a votare per Berlusconi, o a votare "Sì" ai referendum, non sarebbe forse un abuso della sua posizione, non lo percepiremmo come un sopruso, un ricatto? Se il nostro datore di lavoro ci pagasse per andare a votare ai referendum, o ci spiegasse con accuratezza di particolari che per il bene dell'azienda e di noi dipendenti dovremmo votare per Berlusconi, non sarebbe un comportamento intimidatorio?

Nel caso queste esortazioni giungano dalle gerarchie di una Chiesa la cosa si fa più delicata. Se nelle mani del professore c'è l'esito del nostro esame e nelle mani del datore di lavoro ci sono il nostro impiego e la nostra paga, per i credenti nelle mani di vescovi e parroci c'è la loro anima, il loro rapporto con Dio, qualcosa che tocca nel profondo le coscienze. Quando un'autorità religiosa di qualsiasi grado esercita pressioni per determinare un nostro comportamento politico, per ottenere la nostra "obbedienza", si avvale – volutamente o no – di una posizione di forza acquisita grazie alla nostra stessa fede nell'origine divina di quell'autorità. Non possiamo definire questo un abuso di potere spirituale?

Su un fedele cui viene intimato di conformarsi alle direttive politiche di autorità che trovano la propria origine in Dio incombono, in modo più o meno conscio, i fantasmi della scomunica, del peccato, dell'esclusione dalla comunità religiosa di cui si sente parte. Un silenzioso ricatto spirituale. Persino il timore di essere escluso dalla salvezza eterna, nel caso si recasse alle urne, gioca un ruolo importante nel ridurlo all'"obbedienza". E' questo l'aspetto simoniaco di questa campagna astensionista della Cei. Un tempo la salvezza veniva comprata con i propri averi, oggi con la sottomissione, il più delle volte inconsapevole, a indicazioni politiche che nulla hanno a che fare con i dogmi della Fede».

Anonymous said...

Fede, così diventa un'arrampicata sugli specchi.
Io sono cattolico praticante e non mi sono mai sentito minacciato di alcunché.
E ho votato sì con massima serenità.

Anonymous said...

(Ale,la "minaccia" era per il clero votante perchè dipendente dalla gerarchia,non per i cattolici in generale)
Che dire ? Se avessimo organizzato un congresso radical-webbico avresti vinto con questo post unitario e di sintesi.Io almeno ti avrei votato perchè condivido la realtà della ricostruzione storica che hai fatto,ed il realismo(questo si) del progetto politico dell'ospitalità specie nella parte in cui vi è la riproposizione della intelligente domanda pannelliana riguardo il potere contrattuale inesistente che avremmo dando per scontato, precontato ed apriori l'adesione ad uno dei due poli gemelli.Ed indistinguibili anche per me.Ca vans dire che ho apprezzato moltissimo la netta condanna del dellavedovismo.Che sembra voler dire tanto ma che ,stringi stringi,non dice ai sensi della politica e della logica un granchè.
Almeno ai radicali,s'intende.
Post godibile,scritto bene e non era facile.
Saluti

Anonymous said...

Ah, la "minaccia" era per il clero votante e non per i cattolici in generale?
Mh.
Mi pare si stia facendo un po' di confusione.
Per intenderci: qui nella mia città, a Verona, è successo un fatto che mi è molto spiaciuto: la sospensione dall'insegnamento (attenzione: dall'insegnamento) di un frate cappuccino docente di telogia che affermava la mia stessa opinione:
http://www.radicali.it/view.php?id=37178
Mi fa incazzare 'sta cosa, certo; però questo era naturale, prevdeibile e financo "legittimo" in questa chiesa così com'è. Nessun abuso: le norme vigenti lo rendono assolutamente legittimo. Finché la chiesa non cambierà (e, giustamente, lo farà solo se i cattolici si batteranno per questo, ed io sono disponibile a battermi per questo in quanto cattolico, non in quanto radicale), è suo diritto che chi insegna teologia in un Istituto Teologico riconosciuto sia tenuto all'ortodossia. E questo a prescindere, totalmente, dai proclami della CEI sull'astensione. Non c'entra nulla.

Ripeto: stiamo in guardia dal "tutto fa brodo"...

Anonymous said...

Sarà anche diritto della Chiesa regolarsi al suo interno imponendo la linea dall'alto verso il basso.Gli interna corporis del cattolicesimo son problemi estranei allo Stato italiano.Il problema è che c'è quella norma:o la si rispetta,o la si abroga.L'intervento della magistratura sarebbe servito almeno a dare una interpretazione aggiornata.Che poi sia stato un intervento utile e saggio,ognun la pensa diversamente.Non esiste,comunque,un fronte forcaiolo tra i radicali.Per formazione congenita,da queste parti le galere sono il male assoluto.

Anonymous said...

Caro Fede,
lo sai che la penso diversamente da te, ma mi fa veramente piacere poterne parlare con te, Salvio e Tombolini.
Io intendo addirittura allargare il discorso (così come del resto avete fatto voi tre) ... per aesso intervengo sulla singola questione, ma spero che il dibattito proseguirà!

Anonymous said...

l'anonimo sono io!!
INOZ!!!!

Anonymous said...

"Il problema è che c'è quella norma: o la si rispetta,o la si abroga".

1) La norma in questione è un divieto, che non è stato violato.
Forse a qualcuno sfugge che "le attribuzioni" del minustro del culto cattolico non sono sancite dalla legge italiana (ci mancherebbe), ma dal diritto canonico. Se mi citate un solo caso in cui tali attribuzioni sono state abusate, bene. Altrimenti continuiamo a dissertare del nulla.

2) "o la si rispett o la si abroga" varrebbe per decine di migliaia di norme vigenti, dal regolamento prerepubblicano che prevede la presenza di unorologio a lancette nelle aule scolastiche, all'art.39 della Costituzione. Quindi la campagna su una di queste miriadi di norme piuttsto che su un'altra è politica, non giuridica. Non esiste l'obbligatorietà dell'azione politica radicale...

salvio said...

Grazie per la risposta innanzitutto. Un piccolo elenco di cose da chiarire:

1) il discorso "duri e puri" era riferitio a Tombolini che scrive che su "alcune di esse (le cose radicali, ndr) non sono disponibile a cedere neanche di mezzo millimetro"
Quello che scrive sempre Tombolini ovvero "intruppiamoci a qualsiasi costo in uno dei due poli" in fondo era proprio il senso dell'ospitalità. Non chiediamo molto, ma fateci entrare nell'agone politico.

2) Non puoi pensare seriamente che chi vota in lomardia possa fregare qualcosa di sapere che i radicali siano presenti o meno in altre regioni. Il tuo ragionamento sull'1% massimo ottenibile mi lascia alquanto perplesso. Anzi: con tutta la visibilità ottenuta potevamo avere anche ben più del 3%.

3) mi fa piacere tu sia d'accordo con il "basta lamenti"

4) e quindi, che si fa per il futuro?