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Thursday, June 30, 2005

Altro che modello americano! Pera e Ratzinger hanno ben altro in mente

Un dialogo che, guarda caso, nella pratica va nella direzione opposta al modello americano di religione civile di cui si riempiono la bocca

Ieri, su Il Foglio, Jeff Israely notava l'aspetto che paralizza il mondo laico di fronte alla pretesa della Chiesa di agire nella società come attore politico. Tutti riconosciamo che nella campagna contro i referendum Ruini «non ha sbagliato un colpo», parlando fin dall'inizio ma non troppo spesso, dando l'impressione di non aver imposto quella che è una campagna politica della Cei senza precedenti. Ben sapendo che sulla morale e la vita privata solo una «modesta minoranza di italiani è pronta a seguire i consigli» di una Chiesa retrogada, ha astutamente «lasciato che le forze dell'apatia, della confusione e dei politici opportunisti prendessero il comando».

Per un americano, scrive Israely, «nessuno scandalo se un leader religioso parla della politica partendo dal punto di vista della sua fede». Ma conviene urlare di ingerenza ogni volta il Papa o un vescovo parlano di temi di pubblico interesse? Piuttosto, osserva Israely, «il grosso bastone brandito da Ruini non si trova nel pulpito, ma nelle silenziose stanze da dove ha orchestrato l'approvazione della Legge 40». Alla presentazione del nuovo libro di Ratzinger, Ruini, interpellato da Pera, ha fatto riferimento all'esperienza americana di religiosità civile, ma il compromesso che la Chiesa dovrebbe accettare è «un'autentica separazione tra Stato e Chiesa, a cominciare dall'abolizione del Concordato. Dal punto di vista di un americano, il primo passo è la rispettosa e ordinata rimozione di ogni crocefisso da tutte le aule scolastiche dei tribunali».

Tuttavia, se per Israely Ruini «sembra riconoscerlo», a me è parso esattamente il contrario, cioè che la "sola" religiosità civile del modello americano alla Chiesa vada stretta.

Sull'ambiguità con la quale Ratzinger e Ruini, loro per primi, hanno fatto riferimento al modello di religione civile americana per sostenere la legittimità della Chiesa a intervenire nel dibattito politico, i miei stessi dubbi li esprime oggi Giorgio Rebuffa su il Riformista.
«Qual è dunque il modello americano di cui si parla da noi? Quello del divieto di una "religione favorita"? O riguarda piuttosto il desiderio di suscitare maggior spirito religioso nel nostro paese? O addirittura, come mi sembra talvolta, quello di definire dei precetti comuni, indipendentemente dalle nostre fedi? O anche dalla nostra mancanza di fede, visto che talvolta i predicatori di casa nostra si dichiarano anche "atei"?»
Come ho scritto in questo articolo, per un verso Ratzinger e Ruini, lamentando «l'esclusione di Dio dalla coscienza pubblica» europea, rivendicano per la Chiesa cattolica la stessa rilevanza pubblica e la stessa libertà d'azione "evangelizzatrice" riconosciute alle religioni nella società americana. Una laicità non arroccata su vecchi princìpi dovrebbe convenire, ma del modello americano non si può prendere solo ciò che fa comodo. Infatti, per altro verso, la Chiesa rifiuta il presupposto inderogabile di quel modello: il rapporto a-concordatario fra Stato e chiese.

Anche Rebuffa sembra essersi accorto che «i discorsi che stiamo ascoltando sono una scusa per imporre dei precetti e dei poteri, un modo per "tener buono" ciò che la politica non riesce più a guidare... si sta configurando insomma un uso politico della religione» e allora, se è così, «bisogna sapere che questo è l'esatto contrario del "modello americano"». E bisogna cominciare, per esempio, a mettere in discussione l'8 per mille, come mostrano le parole del giudice della Corte Suprema Hugo Black (da una sentenza del 1947):
«Nessuna imposta, per qualsiasi ammontare, può essere autorizzata per sostenere autorità ed istituzioni religiose, qualsiasi denominazione esse abbiano, o qualsiasi metodo esse usino per l'insegnamento o per la pratica religiosa».
Si dirà: almeno il riferimento alle «radici cristiane» nella nuova Costituzione europea? No, neanche un simile riferimento c'è nella costituzione americana, eppure non per questo i cittadini americani sono meno religiosi o ignorano la propria identità. La Costituzione degli Stati Uniti, nel suo Primo Emendamento (1791), parla chiaro: «Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto».
«Il Bill of Rights comincia dunque con un rigido divieto all'Assemblea legislativa, ai rappresentanti del popolo. Non avrebbe potuto essere diversamente, perché è alla volontà della maggioranza, che bisogna dare le indicazioni più severe e porre i limiti più rigorosi. Ed è alla maggioranza, come è ovvio, che la Costituzione proibisce di istituire una "religione favorita"».
Non solo perché i costituenti americani sapevano che in Europa la Chiesa aveva fatto «largo uso del privilegio religioso per fini temporali», ma anche per evitare discriminazioni fra i cittadini. L'appoggio dello Stato a una religione, sono le parole (Lynch vs. Donnelly, 1984) del giudice della corte Suprema Sandra Day O'Connor, cattolica, nominata da Reagan, «manderebbe un messaggio a tutti coloro che non aderiscono a quella religione, dicendo loro che sono degli outsiders, membri non a pieno titolo della comunità politica; e invierebbe un corrispondente messaggio agli adepti di quella religione: voi siete i beniamini della comunità politica».

Che rimane dunque, del dialogo Pera-Ratzinger? Se Pera chiede alla Chiesa cattolica di accettare la sfida di farsi religione civile sul modello americano, l'ambizioso progetto Ratzinger-Ruini è altro: affermare sì il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica, quindi avere mani libere nella vita politica e istituzionale degli Stati, ma senza rinunciare ai privilegi concordatari, costituendo anzi a partire da essi, dall'Italia, un nuovo modello da esportare in tutta Europa. Pera e Ratzinger si usano a vicenda: l'uno per ottenere il favore degli ambienti cattolici nella corsa al Quirinale, l'altro per far breccia nel mondo laico e poter esercitare ingerenze senza dover mettere in discussione il regime concordatario.

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