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Sunday, June 26, 2005

Regime Change! E' l'unico commento onesto

Il nuovo presidente iraniano AhmadinejadNon facciamoci ingannare da letture che ci scoraggiano dal sostenere le forze della rivoluzione democratica in Iran facendoci credere che il popolo sostiene il regime

C'è una sola parola per definire commenti ed editoriali come quello di Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi: irresponsabile. L'esito delle elezioni iraniane rappresenta di tutto fuorché una sconfitta dell'Occidente, o di Bush, come apprendiamo dall'articolo. Semplicemente perché non si è trattato di elezioni democratiche, ma di una «lotta di potere interna a una elite di tiranni». E' vero, «irregolarità» vi sono state anche nelle lodate elezioni in Iraq e Afghanistan, ma è disonesto paragonarle alle elezioni iraniane.

Non stiamo parlando di qualche scheda in più, né di violenze o aiuti del potere a vantaggio del candidato uscito vincitore; non stiamo parlando insomma, dei brogli denunciati dallo sconfitto Rafsanjani, ma stiamo parlando di un regime che ha fatto fuori tutti i candidati ritenuti scomodi. E' ingenuo ritenere che da queste elezioni «l'intero Occidente» dovesse aspettarsi «un'affermazione della spinta modernizzatrice», una «secolarizzazione progressiva della società e della politica», una «liberalizzazione dell'economia». E' dunque assurdo parlare ora di «bruciante battuta d'arresto». Arresto rispetto a quale movimento? E' assurdo commentare elezioni-farsa attraverso un'ottica occidentale, come se fossero state elezioni democratiche con giusto qualche irrilevante irregolarità, dove tutto sommato è il popolo ad avere scelto liberamente.

L'errore, innanzitutto logico, sta nell'accreditare una lettura per cui le elezioni iraniane costituirebbero un nuovo banco di prova per quell'effetto domino alla base della strategia americana di democratizzazione del Medio Oriente. Ma al contrario delle elezioni in Afghanistan, Iraq e Libano, le elezioni iraniane non potevano esserlo, semplicemente perché non erano elezioni. Alla vigilia del primo voto in Iran, il presidente Bush non auspicava il successo di alcun candidato "riformatore" (non ce n'erano), ma denunciava il fallimento di elezioni messe in scena da un regime che non rispetta standard minimi di democrazia.

Non siamo di fronte all'espressione di una volontà popolare. Invece, sapevamo fin dall'inizio, da quando il Consiglio dei Guardiani ha escluso il 90% dei candidati dalla competizione elettorale, che chiunque avesse vinto sarebbe stata l'espressione della volontà del regime e che saremmo stati qui a commentare quella volontà, la volontà - certo inquietante - di quella parte uscita vittoriosa dalla faida interna. Non siamo di fronte a un popolo che scegliendo e legittimando la tirannia (un vero e proprio ossimoro) provoca una «battuta d'arresto» in una regione in cui iracheni, libanesi e afgani hanno scelto la democrazia.

E' esattamente la lettura che gli ayatollah vogliono far passare. «Scoraggiarci dal sostenere le forze della rivoluzione democratica in Iran» facendoci credere che il popolo sostiene il regime. Prima del voto ci aveva messi in guardia Michael Ledeen da quelle che sarebbero state le sirene post-elettorali di autorevoli commentatori.

L'unico commento possibile di queste elezioni sta in due parole: regime change. L'aspetto positivo infatti, lo riconosce lo stesso Venturini, è che a differenza di quanto accaduto con l'elezione di Khatami, stavolta «nessuna coalizione di elettori riformisti si è tappata il naso per sbarrare la strada all'ultraconservatore». Come sempre lucida e puntuale l'analisi di Magdi Allam.
«Il voto rappresenta in effetti la spaccatura formale tra la società civile, uomini e donne che patrocinano il sogno della libertà e della democrazia, e il regime teocratico che s'impone come una cappa asfissiante dal 1979. E' essenzialmente un voto di sfiducia nella possibilità di riformare la teocrazia dall'interno».
Se invece avessero scelto di turarsi il naso, avrebbe vinto Rafsanjani. Se per gli stessi iraniani la vittoria dell'uno o dell'altro era indifferente, perché la sconfitta di Rafsanjani dovrebbe essere una nostra "sconfitta"? Il favorito Rafsanjani, il conservatore realista del regime, paga i suoi cattivi rapporti con la Guida Suprema Khamenei. Non era il candidato riformista o moderato, come sciaguratamente abbiamo letto su alcuni giornali e siti di news, ma «una vecchia volpe più volte presidente del Parlamento e dello Stato... interamente organico e funzionale alla teocrazia». Avremmo sbagliato a riporre in lui speranze di cambiamento che neanche gli iraniani vi hanno riposto.
«La gente non è più disposta a farsi prendere in giro. Se gli iraniani hanno ritirato la fiducia riposta in Khatami, pur riconoscendogli un'onestà intellettuale e una integrità morale, perché mai avrebbero dovuto scommettere su un personaggio che incarna l'ambiguità e il doppiogiochismo politico? La lezione di fondo di queste elezioni è che la maggioranza degli iraniani, di cui i due terzi hanno meno di trent'anni, ha maturato la consapevolezza che il problema dei problemi è la teocrazia stessa e che non è possibile riformarla dall'interno. Oggi controllando la Presidenza della Repubblica in aggiunta al Parlamento, la teocrazia si è ricompattata con la "guida spirituale" che incarna i massimi poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Il regime teocratico ormai domina tutto. Ma ha perso la fiducia della maggioranza degli iraniani. Khamenei ha doppiamente ragione: non solo non è un giorno di festa ma siamo alla vigilia di una imprevedibile resa dei conti».
Forse si tradurrà addirittura in un vantaggio per le forze democratiche iraniane l'elezione-farsa del candidato ultraconservatore Ahmadinejad. Il regime mostra il suo vero volto, non si nasconde, è più odioso, più facile da denunciare e da combattere. Alla luce di questa interpretazione del voto, l'Occidente dovrebbe sostenere con maggiore determinazione e mezzi i movimenti di opposizione democratica in Iran, facilitare l'accesso della popolazione a una informazione il più possibile libera e aperta all'esterno, impegnarsi a far circolare le idee, così da indebolire ulteriormente la base sociale su cui si regge il regime. Sul piano delle relazioni diplomatiche, l'Occidente non dovrebbe legittimare le autorità iraniane con il «dialogo», perché scoraggerebbe quegli iraniani che si battono per la libertà rafforzando il regime.

Emblematiche le prime reazioni. Francia e Russia invitano il neo-presidente a proseguire il «dialogo» sul programma nucleare. Tutto qui. Per gli Stati Uniti è un voto contro la voglia di libertà in tutta la regione. Il ministro degli Esteri britannico Jack Straw denuncia «gravi irregolarità». Schroeder ci va piano, con la debole espressione «notevoli carenze». Niente di nuovo.

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