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Friday, June 24, 2005

Dellavedoviana/2 (per tutti i blogger radicali)

La precisazione inoltrata via e-mail da Benedetto Della Vedova alla dirigenza radicale - il commento che Ale. Tap. ha lasciato qui - sull'interpretazione dell'art. 98 del testo unico sulle consultazioni elettorali era già comparsa su un paio di miei articoli, uno per Notizie Radicali (26 maggio), l'altro per L'opinione (6 giugno).
Non incide di un millimetro sulla motivazione politica del richiamo fatto da Pannella e altri a quell'articolo durante la campagna. Non solo: non è utile, perché solo collaterale, a cogliere il nodo politico che divide Della Vedova da Pannella, che riguarda, piuttosto, il diverso approccio rispetto alla questione alleanze (leggi Dellavedoviana).

Siamo d'accordo e lo diciamo da tempo: un generico appello all'astensione non è punibile, lo devono proferire un'autorità pubblica o un ministro di culto. Lo devono fare nell'esercizio delle loro funzioni e abusandone, con un "ricatto", menzionando il danno cui si va incontro disobbedendo. Per poter dire di essere di fronte a un reato occorre, dice la Cassazione, la «menzione di conseguenti vantaggi o danni, anche di carattere spirituale». Dunque, occorre capire se durante la campagna si sia o no verificata questa fattispecie.

Nel caso dei religiosi dissenzienti il danno è implicito ma molto concreto: rischiano di esser sbattuti ai confini, di veder decurtati stipendi e pensioni. Per i credenti laici il danno è spirituale, nella misura in cui il recarsi alle urne viene definito come un peccato per cui provare colpa... E il peccato, la colpa, sono le "sanzioni spirituali" cui molti vescovi e parroci (certo non tutti) hanno fatto riferimento esplicito per religiosi e fedeli che intendessero disobbedire. Inoltre, data una capillare presenza di strutture ecclesiastiche sul territorio italiano, l'appello astensionista ha dato luogo a forme di controllo sociale del voto. Siamo certi che tutto questo non abbia in alcuna circostanza avuto luogo? Ebbene, le notizie in nostro possesso, e di dominio pubblico, dicono il contrario.

La norma può apparire sbagliata, da cambiare e non invocare, solo se ci si muove in una logica a-concordataria, mentre conserva tutta la sua ragion d'essere in un regime concordatario. Non è illiberale. La norma tutela la libertà di coscienza del cittadino (primi fra tutti suore, parroci, credenti), quindi il principio della segretezza del voto, limitando in casi specifici la libertà d'espressione dei pubblici ufficiali. Se durante una sessione di esami universitari l'indicazione di voto, o di non voto, la facesse il professore? Se il nostro datore di lavoro ci spiegasse con accuratezza di particolari che per il bene dell'azienda e di noi dipendenti dovremmo votare in un certo modo, o non votare affatto? Non sarebbe abusare delle proprie funzioni, un sopruso, un ricatto?

Nel caso tali esortazioni giungano dalle gerarchie di una Chiesa la cosa si fa più delicata. Se nelle mani del professore c'è l'esito del nostro esame e nelle mani del datore di lavoro ci sono il nostro impiego e la nostra paga, per i credenti nelle mani di vescovi e parroci c'è la loro anima, il loro rapporto con Dio, qualcosa che tocca nel profondo le coscienze, persino la salvezza. Quando un'autorità religiosa di qualsiasi grado esercita pressioni per determinare un comportamento politico, per ottenere "obbedienza", si avvale - volutamente o no - di una posizione di forza acquisita grazie alla nostra stessa fede nell'origine divina di quell'autorità.

I fantasmi della scomunica, del peccato, dell'esclusione dalla comunità religiosa di cui ci si sente parte - tutti "danni spirituali" - sono lì, in un silenzioso ricatto spirituale. E' questo l'aspetto simoniaco di questa campagna astensionista della Cei. Un tempo la salvezza veniva comprata con i propri averi, oggi con la sottomissione, il più delle volte inconsapevole, a indicazioni politiche che nulla hanno a che fare con i dogmi della Fede. Quanti fedeli abbiano seguito le indicacazioni della Cei è materia di discussione, io credo certamente una minoranza di cattolici praticanti, ma ciò non sposta il problema politico che quella campagna ha aperto, quello del rapporto fra Stato e Chiesa.

Detto questo, veniamo alla questione politica interna: qual è l'accusa che Benedetto rivolge a Pannella e a parte del fronte referandario: aver invocato una legge che ritiene illiberale (ma non lo è)? Un'intepretazione restrittiva della legge? Nessuno ha sporto denunce o chiesto l'arresto dei preti. Veniva chiesto un controllo di legalità su singole e presunte violazioni, che la magistratura aprisse procedimenti, giustificando anche eventuali archiviazioni.
«I processi - scrive Giuseppe Rossodivita - si fanno proprio per questo, per accertare se un determinato comportamento abbia integrato o no, unitamente all'elemento soggettivo, una determinata fattispecie penale e penso che noi non ci dobbiamo dolere dell'assenza di condanne, ma ci dobbiamo dolere dell'assenza di qualsiasi accertamento, ci dobbiamo dolere, cioè, che in una situazione più che sospetta, nessuno abbia sentito la necessità di andare ad accertare con lo strumento del processo e con le garanzie del processo, se fossero stati consumati, o no, dei reati».
Dove sta scritto che i liberali non denunciano, che non invocano l'applicazione di norme esistenti? Di fronte alla violazione collettiva e reiterata di una norma, un liberale che fa? Chiude gli occhi perché è tollerante? E' questa la tolleranza? Ammesso e non concesso che la norma fosse davvero illiberale, un radicale non ricorre anche all'(auto)denuncia per combatterla? Pannella non si è fatto scrupolo di ricorrere allo sciopero della sete per il plenum di una Corte costituzionale che ritiene «la suprema cupola della mafiosità partitocratica».

No, l'interpretazione della legge, come emerso già nella campagna, è la medesima, semmai le critiche di Benedetto sembrano fare riferimento a motivi di opportunità politica del tirare fuori questi argomenti e di individuare nella Chiesa un avversario. Ma quando la Chiesa sceglie di divenire attore politico, sta nelle cose che risulti nostro avversario, non come religione, ma come potere che sostiene determinate soluzioni legislative.

Piuttosto, sembra che un radicale può essere accettato solo se moderato, "politicamente corretto", altrimenti viene additato come illiberale. Evidentemente è sconveniente esprimere un tasso ritenuto eccessivo di anticlericalismo, liberismo, libertarismo. Con questi distinguo temo che si cerchi di individuare una tipologia di radicale «perbene», quindi «conforme», disposto a riconoscere che sì, è radicale, ma fino a un certo punto, non oltre certi limiti, e che oltre certi toni è disdicevole andare.

2 comments:

michele said...

Bravo. Sottoscrivo in tutto e per tutto. Sembra quasi non scritto da te per quanto è preciso e chiaro ;-))

Anonymous said...

No, per favore, non buttiamola in caciara con la solita storia dei "perbene" e "permale". Se la mettiamo così, qualsiasi critica è liquidabile a priori, senza coglierne le potenizalità costruttive!

Nel merito: la storia del "ricatto spirituale" non regge perché la Chiesa non prevede sanzione, NEMMENO SPIRITUALE, per chi voti difformemente dagli orientamenti "suggeriti".
Porta Pia non è stata affatto inutile, come un quotidiano comunista titola stamattina istericamente: i cattolici sono liberi di fare il cazzo che vogliono, e lo fanno.
Non esiste coercizione, perché non esiste sanzione; parlare di ricatto spirituale mi pare configuri una caricatura, co comunque una pericolosa forzatura, che non ha riscontro enlla realtà.

Chi ha seguito le indicazioni della Chiesa lo ha fatto perché concordava, non certo perché temeva (questa è la realtà, per quanto io posso vedere e toccare attorno a me).

E soprattutto, sarebbe grottesco arrampicarsi su questa tesi dopo che per mesi, giustamente, ci siamo raccontati quasi ossessivamente la storia (quella sì, vera, per quanto io posso quotidianamente vedere e toccare) dello "SCISMA SOMMERSO".

Si possono dire queste cose o si passa per perbenisti?

ale tap