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Friday, September 29, 2006

La guerra in Iraq ha davvero alimentato il terrorismo?

Il Portavoce della Casa Bianca Tony Snow mostra le pagine desecretate del NIEChe fosse solo l'ultimo episodio della "guerra" della Cia - da sempre nell'agenzia è maggioritario l'approccio "realista", scettico nei confronti della dottrina Bush - contro l'amministrazione, o che fosse uno scoop di un giornale liberal destinato a infiammare la campagna elettorale per il Congresso, fatto sta che un rapporto di ben 16 agenzie d'intelligence, coordinate dal National Intelligence Council, di cui il New York Times ha anticipato alcune conclusioni, sembrava rivelare che la guerra in Iraq non avesse indebolito, ma alimentato il terrorismo: dando nuove motivazioni agli estremisti, offrendo un nuovo luogo di reclutamento e generando una nuova generazione di jihadisti in grado di riprodursi rapidamente.

Ovviamente, da noi la stampa, ma anche qualche emittente radiofonica di solito attenta, ha preso per oro colato le indiscrezioni raccolte dal New York Times da fonti anonime della Cia. Ma quanto gli stralci pubblicati corrispondevano al senso del rapporto? Poco, sembra, visto che il presidente Bush ha subito deciso di desecretare le conclusioni, quattro pagine sulle trenta dell'intero documento, del National Intelligence Estimate 2006.

Com'era facilmente prevedibile, quelle pagine contengono molti giudizi, valutazioni complesse, che a volte si completano, a volte sembrano contraddirsi. Insomma, c'è un po' di tutto ed è facile estrarre ciò che conviene per sostenere le proprie tesi, tentazione che si fa quasi irresistibile in campagna elettorale.

Christian Rocca, su Il Foglio, traccia un quadro più obiettivo e completo di quello che si è letto su altri giornali, che hanno voluto vedere nel rapporto la prova definitiva che la guerra in Iraq fu un grosso sbaglio.
«Il testo invece dice una cosa diversa: il fronte centrale di questa battaglia contro il jihad, cioè l'Iraq, ovviamente ha creato una nuova generazione di guerrasantieri, i quali se saranno percepiti come i vincitori saranno in grado di ispirare nuovi militanti pronti a combattere altrove. Al contrario, se i jihadisti lasceranno l'Iraq da sconfitti, nel mondo ci saranno meno terroristi disponibili a continuare questa guerra santa. L'intelligence quindi riconosce la crescente e reale minaccia terroristica causata dall'aver fatto diventare l'Iraq il fronte centrale della guerra, ma asserisce che, se il mondo libero riuscirà a sconfiggere in loco il jihad iracheno, le prospettive di sicurezza globali saranno più rosee».
In pratica, osserva Rocca, «queste conclusioni sembrano una sconfessione della politica del ritiro dall'Iraq, più che della decisione di invaderlo» e di portare in Medio Oriente il fronte della guerra al terrorismo.

Il documento non tratta della guerra in Iraq come argomento principale, e su di essa non scrive un giudizio definitivo. Anzi, conferma i successi delle operazioni antiterrorismo, ribadisce la reale pericolosità della minaccia e sposa in pieno la strategia di lungo termine di Bush per vincere la guerra: la democrazia e le riforme politiche in Medio Oriente. Certo, il NIE dice che la guerra in Iraq è, ad oggi, la principale causa dei jihadisti, ma ciò che non dice - e non può dire - è che prima e oltre l'Iraq il terrosimo sia cresciuto a causa delle politiche americane.

Occorre comprendere, sottolinea il blog Early Warning, sul Washington Post, che «non ci troviamo di fronte a un terrorismo causato dalla guerra in Iraq, né stiamo combattendo migliaia, se non milioni, di jihadisti, a causa di incomprensioni sulla bontà dell'America. Stiamo combattendo a causa dell'America stessa».
«La jihad in Iraq sta formando una nuova generazione di leader e militanti... Il conflitto in Iraq è diventato la cause célèbre per i jihadisti. Questo conflitto sta alimentando un profondo rancore nei confronti degli Usa all'interno del mondo islamico e costituisce il brodo di coltura ideale dei sostenitori del movimento jihadista».
E' questo il passaggio del NIE che inchioderebbe la politica dell'amministrazione. Ma l'Iraq, in un altro passaggio, risulta essere solo uno dei quattro fattori di diffusione del terrorismo, e il meno sistemico. Inoltre, il documento è chiarissimo nel sostenere che ad avere l'effetto di alimentare il terrorismo e il reclutamento è la sensazione, la strana speranza, che l'America possa essere sconfitta. Per questo, dare segni di cedimento, o, peggio, ritirarsi, sarebbe la peggior soluzione.

Sempre Early Warning conclude che «la semplicistica storiella che i Democratici stanno propagandando riguarda solo l'Iraq: ritirare le truppe, battere i Repubblicani, riordinare la politica estera dando diritti umani ai prigionieri ed essendo più carini nel mondo - e voilà - il terrorismo passa». Purtroppo non è così. Agli occhi dei jihadisti, e di molta parte del mondo, gli Stati Uniti sono in Iraq dal 1991. In altre parole, anche la situazione in Iraq e in Medio Oriente prima della guerra era vista dai fondamentalisti come motivo sufficiente a giustificare la violenza contro l'America. La guerra al terrorismo dovrebbe essere combattuta altrove piuttosto che in Iraq? Ebbene, quell'altrove diverrebbe comunque la cause célèbre per i jihadisti.

Strano, anzi, che il rapporto non citi il conflitto israelo-palestinese come fonte di tensione e motivazione per i jihadisti, o almeno come fattore nel globale sentimento anti-americano. Mark Goldblatt, su National Review, ci ricorda quali sono gli altri nostri "errori" che alimentano il terrorismo:
«Anche il sostegno dell'America a Israele fu citato da Osama per giustificare la sua jihad terrorista. Dovremmo ritirare quel sostegno? E la nostra tolleranza verso, per usare le parole di Osama, «atti immorali di fornicazione, omosessualità, inebrianti, il gioco d'azzardo e le speculazioni»? Se la nostra «immoralità» viene utilizzata da Al Qaeda per reclutare terroristi, dovremmo allora andarci già pesante con Snoop Dogg, Will and Grace, Budweiser, Las Vegas, e Citibank? E cosa dire del nostro ostinato rifiuto di convertirci all'Islam - agli occhi di Osama, forse, la più grave delle provocazioni? Dovremmo allora rinunciare alla nostra eredità giudaico-cristiana, o abbandonare la separazione fra Stato e Chiesa e adottare la sharia per sfuggire all'ira di al Qaeda?»
Dobbiamo scordarci, conclude Goldblatt, dell'idea che siamo noi le radici della causa del terrorismo. E' l'Islam, non l'America, «che deve cambiare affinché il terrorismo islamico abbia fine».

Mike Allen, sul Time, osserva che, «scorrendolo velocemente», il testo diffuso del NIE «suona molto come un discorso del Presidente Bush: è essenziale vincere in Iraq. La democrazia è l'antidoto al terrorismo. I terroristi stanno cercando di ucciderci». In molti passaggi, come questo, si ribadiscono concetti ripetutamente espressi dal presidente nei suoi discorsi:
«Se nei prossimi cinque anni si riuscirà a dare impulso alle iniziative per l'avvio delle riforme democratiche nella maggioranza dei Paesi islamici, la partecipazione politica attiva della popolazione finirà con ogni probabilità per scavare un solco tra violenti e moderati. Ciò non di meno, le stesse riforme e le transizioni potenzialmente destabilizzanti che le accompagneranno finiranno per creare nuove opportunità per i jihadisti».
«E' la "freedom agenda" del Presidente — nota Allen - la sua convinzione che la democrazia in Medio Oriente renderebbe davvero più sicuri gli americani».

Lee Smith, sul Weekly Standard, non si dice stupito: è ovvio che una guerra contro degli estremisti porti qualcuno a divenire più estremista. Si veda, per esempio, la reazione dell'intera regione alla guerra di Israele contro Hezbollah. Ma anche il discorso del Papa in Germania è servito agli islamisti come pretesto per incendiare e assassinare... Così come la pubblicazione delle vignette danesi su Maometto, la distruzione di una copia del Corano a Guantanamo, e il film di Theo van Gogh in Olanda.

«Non si tratta di persone razionali, ma di fanatici suicidi in cerca di un teatro dove mettere in pratica i loro già radicali impulsi». E tutto sommato, conclude Smith, «aprire un fronte in Iraq, nel cuore del Medio Oriente, lontano dalle città e dai cittadini americani, dove i soldati americani possono uccidere gli estremisti, non è un'idea così malvagia». Un elemento che non è mai stato aggiunto alle motivazioni ufficiali della guerra in Iraq, ma il cui peso strategico sulla decisione finale non è da sottovalutare. Aprire un fronte aperto con i jihadisti, a "casa loro", significa attirarne la quantità maggiore possibile, impegnarne, ed eleminarne, un numero rilevante.

4 comments:

Anonymous said...

"Aprire un fronte aperto con i jihadisti, a "casa loro", significa attirarne la quantità maggiore possibile, impegnarne, ed eleminarne, un numero rilevante."

L'unico vero - e sacrosanto, lodevole, stragiusto - motivo della guerra irachena spiegato in quattro e quattr'otto. Certo, poi c'è la spendibilità presso le diplomazie straniere e l'opinione pubblica globale di una base ideale "missionaria", ma il cuore della strategia (sì: strategia) americana è quello suddetto. Peraltro si tratta di un orientamento molto coerente con la linea pro-life, altrove sposata in modo decisamente più lineare da Bush - ancorché qualche superficiale tartufo lo voglia appendere ad un'inesistente contraddizione in termini a sfondo eticheggiante.
La politica estera del presidente amricano, infatti, risparmia vite in prospettiva. Come ne risparmiò - fatte le dovute proporzioni - l'atomica su Hiroshima/Nagasaki: duecentomila morti subito anziché un milione (secondo certe stime, anche di più) proseguendo a combattere con armi convenzionali.

Anonymous said...

Ne ho lette di cagate fotoniche nella mia vita, ma la tua, Ismael le batte tutte.

Anonymous said...

Lo spessore della tua raffinata controargomentazione, in effetti, mi induce ad una profonda riflessione. Grazie.

Grendel said...

Ma c'è ancora qualcuno che piglia il NYT per oro colato? Oltre ai soliti noti, intendo...