Giuliano Ferrara riesce a metter su una puntata di 8 e mezzo, su eutanasia, testamento biologico e caso Welby, senza invitare, né interpellare, nessuno delle uniche due associazioni politiche favorevoli all'eutanasia, nelle quali, tra l'altro, lo stesso Welby ha un ruolo di primo piano, cosa inconsueta per un malato terminale: la Coscioni e Radicali italiani. Vabbè, passi, ormai su questi temi le trasmissioni di Ferrara sono blindate.
Di tutto si è parlato, infatti, tranne che di eutanasia, tema che costringe radicalmente a confrontarsi con la «proprietà» della vita.
E pensare che all'inizio della discussione questo tema veniva preso di petto proprio dal Cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Sanità, che nei giorni scorsi aveva definito l'eutanasia «una forma di assassinio». Ebbene, il Cardinale arriva subito al punto, spiegando che dobbiamo preliminarmente porci una domanda: «Chi è il padrone della vita? [il vocabolo usato è stato proprio "padrone"] Dio, lo Stato, o l'Individuo?». «Crediamo - aggiunge - che la sofferenza abbia un senso?»
E' dalle risposte a queste domande che dipende il nostro pensare e il nostro agire davanti alla morte e alla sofferenza. Se appartiene a Dio o allo Stato, la vita è un bene indisponibile e io sono solo l'affittuario; se appartiene all'Individuo, allora sono il proprietario e decidere della mia proprietà è un mio diritto. In questo caso, a ciascuno il suo. Invece, se c'è un unico proprietario per tutte le vite in circolazione, cioè Dio, allora tutti dovranno uniformarsi a non disporre della vita che hanno in affitto.
Slendido assist, questo incipit del Cardinale, che consente subito di porre la questione su un binario semplice e comprensibile a tutti. Persino Ferrara ne è attratto e spinge gli interlocutori a esprimersi sulle due domande. Invece, Stefano Rodotà e Ignazio Marino (Ds), laici molto preparati e molto perbene, anziché rispondere alle domande del Cardinale, che invero per dei laici non dovrebbero essere difficili, e su quelle incalzarlo, raccolgono le concilianti aperture di Barragan e si concentrano su accanimento terapeutico e testamento biologico.
La trasmissione fila via liscia in un sorprendente clima di concordia ordinum, le sfumature tra gli ospiti sono impercettibili, tutti sembrano dire cose sensate. Luci e telecamere sono tutte per il «Principe della Chiesa», come lo definisce Ferrara. Gli obiettivi indugiano sul razionale gesticolare della mani, sullo splendente crocefisso dorato che pende sul petto, sui volti incantati e attenti di Rodotà e Marino, che ascoltano il saggio e amorevole eloquio del Cardinale, che parla di amore, arte del morire, accettazione del dolore, di trattamenti «inappropriati», e così via.
L'ipocrisia di Barragan raggiunge il culmine quando, verso la fine, in un impeto di generosità verso i presenti, così rispettosi, accenna che la vita è nientemeno che «proprietà» di tutti e tre: Dio, Stato e Individuo. Già, però ci dev'essere un proprietario meno uguale degli altri se l'ultima parola su di essa spetta a Dio, attraverso lo Stato.
Ma torniamo alla domanda iniziale: «Chi è il padrone della vita? Dio, lo Stato, o l'Individuo?» Ovviamente ognuno è libero di rispondere come vuole, e quindi di comportarsi di conseguenza, ma qui viene il punto. E' sott'inteso che bisogna trovare un accordo tra chi ritiene che la vita sia proprietà dell'Individuo, e chi crede, invece, che appartenga a Dio e che sia, quindi, un bene indisponibile.
Ma c'è un clamoroso non-detto. Tra queste due posizioni c'è un rapporto tremendamente impari. I primi vorrebbero semplicemente poter decidere della propria vita, non obbligare, né convincere della loro scelta chi invece crede che Dio sia il «padrone» della vita e che la sofferenza sia un dono da sopportare. Insomma, liberissimi di morire lentamente e con dolore. I secondi, al contrario, poiché credono la vita un bene indisponibile pretendono di impedire a tutti, anche a chi la pensa diversamente, di disporne, per non far dispiacere a Dio o per non contraddire l'ordine naturale (che poi è culturale) delle cose.
La concezione che il Cardinale Barragan ha della vita e della morte è rispettabilissima, gli si dovrebbe però chiedere perché vuole farla (pre)valere per legge anche su chi ne ha una diversa.
Come si fa - girerei questa domanda a Rodotà e Marino - a starsene lì tranquilli a discutere amabilmente con Ferrara e il suo «Principe della Chiesa» senza smascherare la condizione così impari in cui le due parti si trovano nel negoziare una soluzione legislativa? Se in dibattiti come quelli di ieri sera non viene fuori questa disparità, il pubblico viene imbrogliato. Non di rado, infatti, accade che il "prevaricatore" passi per "illuminato" e "ragionevole", mentre in realtà ti sta sfilando una ad una le libertà dalle tasche.
Sospettiamo che se fosse per il Cardinale Barragan quei trattamenti «inappropriati» che costituiscono «accanimento terapeutico» sarebbero proibiti anche a chi fosse disponibile a conviverci, in modo che la morte sopraggiunga in modo naturale con tutto il dolore che il Signore ha voluto che comportasse, con «l'amore come unica cura palliativa».
4 comments:
ma io capisco una discussione sul testamento biologico trovo meno edificante una sull'eutanasia.come ho già detto + volte non siamo radiosveglie che togli la spian e tutto finisce.no?
Scusa tantissimo il fuoritema, Jim.
Ma c'è davvero un timing sospetto e particolare:
la FNSI indice due gg. di sciopero giornalisti proprio nel giorno di presentazione della finanziaria Prodi-Schioppa...
Una mega velina pro centrosinistra?
Solo una coincidenza?
A pensar male si fa peccato, ma si indovina.
RR sarà l'unica ad informare?
Secondo un medio buon senso il nostro corpo, non dico la vita, non può essere nostro. Se fosse nostro significherebbe che noi lo abbiamo generato, oppure che noi l'abbiamo chiesto ed ottenuto. Il problema posto retoricamente dalla domanda di Ferrara serve a solo a mostrare quanti problemi subentrano nel momento in cui si decide su un tema di trascurare le più banali regole della logica. Sulla vita la conclusione è ancora più ovvia e logica. A meno che non ci troviamo di fronte a qualcheduno che è sia grado di darsi da solo la vita non possiamo logicamente affermare che egli abbia il diritto di togliersela. Il resto è faccenda tra Peppone e Don Camillo.
Ma siete fuori di testa?!? Solo in Italia ci si può chiedere ancora chi è il "proprietario" della vita.
Leggo qualcun o che ha scritto: "Secondo un medio buon senso il nostro corpo, non dico la vita, non può essere nostro. Se fosse nostro significherebbe che noi lo abbiamo generato, oppure che noi l'abbiamo chiesto ed ottenuto".
Da fuori di testa!!!
La mia vita è MIA, solamente MIA!!!
Solo io, per diritto Sovradivino (se mai un dio - minuscolo in quanto sulla questione "MIA vita", egli mi è inferiore - esistesse), solo io dicevo, posso disporre della MIA vita.
Se stato o dio hanno qualcosa da dire in contrario che vengano da me.
Il problema del testamento biologico posso capirlo: dovrebbe essere una sorta di documento/tesserino in cui ogni persona sottoscrive che nessun medico (che considerato il suo giuramento deve "tutelare" a tutti i costi la vita) può accanirsi con terapie/farmaci/macchine in caso di impossibilità a far tornare l'individuo in condizioni di vita "umane" (contrapposto a vegetale).
Questo lo capisco...
Non capisco invece la necessità di continuare a dibattere sull'eutanasia, tantomeno ponendosi la fatidica domanda "chi è il padrone della vita?".
La risposta mi sembra scontata, per dimostrarlo basta un esempio su tutti: se un individuo sano (in corpo) decide di suicidarsi tra le pareti di casa sua, lo può fare tranquillamente; nessuna legge potrà mai imedirgli di farlo, e, in caso di successo, nessuna legge potrà mai condannarlo all'ergastolo! La vita è sua!
Perché dovrebbe essere diverso per un malato terminale, qualora il suddetto malato dimostri di essere in grado di decidere autonomamente cosa fare della propria vita?
Dopotutto ci sono malati terminali per cui la medicina non fa assolutamente nulla a tutela della vita... non ci sono macchine in grado di mantenere in vita un malato terminale di cancro!
Certo nessuno si sognerebbe mai di ammazzare, magari tramite iniezione letale, un malato terminale di cancro; nemmeno se questo avesse 65 anni e pesasse ormai 35 kg, come è successo a mia madre due anni or sono.
In questi casi, l'unica terapia possibile è la terapia del dolore (morfina e assimilati), per far sì che la giusta morte (per quanto possa esserlo) sopraggiunga il più dolcemente possibile.
Mi sembra una colossale ipocrisia e un delitto contro l'Umanità condannare alla vita un malato terminale.
Una condanna disumana per certi malati.
Per me lo sarebbe se mi chiamassi Welby.
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