«E' la sinistra riformista e non la sinistra radicale, la responsabile della crisi del Governo cui abbiamo assistito. Mentre infatti l'identità della sinistra radicale è ben determinata, quella dei riformisti no, e questa è la causa di tutti i problemi del centro-sinistra».
«Abbiamo trascorso la passata legislatura facendo una opposizione insensata e non ci siamo adeguatamente preparati per quando saremmo andati al Governo: l'anti-berlusconismo è stato l'unico punto programmatico di comodo che abbiamo scelto per la nostra politica, e questo di oggi è il risultato. Una cosa è certa: questo Governo, che si presenta alle Camere con un programma tanto minimale quanto vago non durerà».
«Ora mi aspetto che qualcuno tra noi alzi il ditino e assuma la responsabilità dell'accaduto».
Nicola Rossi
Qui siamo d'accordo e, crediamo, anche Bazarov.
Wednesday, February 28, 2007
Rompere con la sinistra «reazionaria»
Finché è Punzi su L'Opinione (2005) a sostenere che il «socialismo è morto»; o su LibMagazine, a sottolineare che, se in nessun paese europeo la sinistra moderna e democratica governa insieme a quella neocomunista, ci sarà pure un motivo... e che, se davvero aspiriamo a riformare la sinistra in senso liberale, dobbiamo capire che il tentativo di portare la sinistra antagonista nell'esperienza di governo è un'anomalia solo italiana e che la resa dei conti con i neocomunisti non va rinviata ma provocata, e passa per il fallimento dell'"utopia prodiana".
Non da oggi, ma anche oggi alla luce della crisi del Governo Prodi, lo sostiene Anthony Giddens: «La sinistra radicale non solo è una variante più avventurosa di riformismo: essa ha altresì una visione completamente diversa del mondo, una che potremmo a ragion veduta definire reazionaria. Gli odierni radicali di sinistra sono conservatori sotto mentite spoglie».
Che conclude: «... i progressisti in Italia devono continuare a perseguire un raggruppamento politico efficiente e integrato. Meglio ancora, un unico Partito Democratico, in grado di arrivare al potere e restarvi, senza più dover dipendere - ammesso che ciò sia possibile - da coalizioni fragili ed effimere, delle quali fanno parte gruppi politici la cui visione appartiene a un mondo ormai scomparso. Questo è un obiettivo da perseguire con rigenerato vigore e rinnovato impegno, qualsiasi cosa accada a breve termine».
Non da oggi, ma anche oggi alla luce della crisi del Governo Prodi, lo sostiene Anthony Giddens: «La sinistra radicale non solo è una variante più avventurosa di riformismo: essa ha altresì una visione completamente diversa del mondo, una che potremmo a ragion veduta definire reazionaria. Gli odierni radicali di sinistra sono conservatori sotto mentite spoglie».
Che conclude: «... i progressisti in Italia devono continuare a perseguire un raggruppamento politico efficiente e integrato. Meglio ancora, un unico Partito Democratico, in grado di arrivare al potere e restarvi, senza più dover dipendere - ammesso che ciò sia possibile - da coalizioni fragili ed effimere, delle quali fanno parte gruppi politici la cui visione appartiene a un mondo ormai scomparso. Questo è un obiettivo da perseguire con rigenerato vigore e rinnovato impegno, qualsiasi cosa accada a breve termine».
Una ricostruzione non corretta
La ricostruzione che ha fatto Marco Pannella sull'esito del vertice di giovedì sera tra Prodi e i segretari di partito dell'Unione sui 12 punti programmatici «non è corretta». Parola di Silvio Sircana, quindi, come recita il punto 11, parola del Governo:
All'uscita dal vertice (22 febbraio, Agi delle 23,09) Pannella dichiara che «ci sono le condizioni per andare avanti» e che «eravamo tutti d'accordo su tutti i punti»; la sera stessa Boselli è ospite a "Porta a Porta", dove spiega che Sdi e radicali avrebbero preferito un Prodi-bis, ma sostiene che i 12 punti rappresentano un grande rilancio e se tra questi non ci sono i "Dico" è solo perché il loro iter in Parlamento è già avviato; la mattina dopo, a Radio Radicale, Pannella parla di «non-convinzione» sua e di Boselli, ma che «ci siamo inchinati a questa soluzione... che il vertice dei segretari dei partiti approvava le proposte, la tattica e gli obiettivi suggeriti da Prodi». E mentre la sera stessa, e l'indomani, Prodi, Sircana, i segretari di tutti gli altri partiti dell'Unione, e, quindi, tutti i giornali, parlano di «accordo unanime», Pannella solo nella conferenza stampa del pomeriggio parla di «momenti molto animati, con forti pressioni nei nostri confronti» e conclude che alla fine si è deciso di «accettare tutti i 12 punti come proposte di Prodi»; La Rosa nel Pugno propone al Capo dello Stato un Prodi-bis, ma solo come preferenza, accettando qualunque altra soluzione fosse stata adottata: il rinvio del medesimo governo, com'era già noto a tutti; domenica sera, il racconto dello «scontro violentissimo».
Mi pare di vedere una certa evoluzione in queste dichiarazioni. Pannella solo dopo ha ritenuto di dover sottolineare di non aver firmato. E solo domenica sera ha raccontato in termini mai usati nei giorni precedenti com'è andata la riunione. Non ha creduto, invece, che quel racconto potesse interessare la stampa la sera stessa del vertice. Oppure, si è accorto di aver sbagliato a non dichiarlo subito e ha cercato di correggersi. Mi pare di concludere che no, non c'è stata sottoscrizione dei 12 punti, ma accordo politico sì. E comunque, più violento fosse stato lo scontro e netto il dissenso, meno "scandalosa", anzi, persino coerente, mi parrebbe la decisione di Capezzone di astenersi. L'astensione sulla fiducia, a rigor di logica, non sarebbe una delle possibili - ripeto: una - conseguenze proprio di quel rifiuto di firmare i 12 punti?
Purtroppo sorge il sospetto che Pannella tentasse di accreditare una linea dura nei confronti di Prodi e dell'Unione che non c'è stata, almeno non nei termini riferiti domenica sera, per placare l'eventuale malcontento della "truppa radicale", che potrebbe riconoscersi nell'astensione di Capezzone.
Di seguito una ricostruzione dei passaggi principali.
«Il portavoce del presidente, al fine di dare maggiore coerenza alla comunicazione, assume il ruolo di portavoce dell'esecutivo».Com'è andata davvero? Ci vorrebbe una registrazione. Entrambi, sia Sircana che Pannella, hanno tutto l'interesse a far passare le loro versioni dei fatti.
All'uscita dal vertice (22 febbraio, Agi delle 23,09) Pannella dichiara che «ci sono le condizioni per andare avanti» e che «eravamo tutti d'accordo su tutti i punti»; la sera stessa Boselli è ospite a "Porta a Porta", dove spiega che Sdi e radicali avrebbero preferito un Prodi-bis, ma sostiene che i 12 punti rappresentano un grande rilancio e se tra questi non ci sono i "Dico" è solo perché il loro iter in Parlamento è già avviato; la mattina dopo, a Radio Radicale, Pannella parla di «non-convinzione» sua e di Boselli, ma che «ci siamo inchinati a questa soluzione... che il vertice dei segretari dei partiti approvava le proposte, la tattica e gli obiettivi suggeriti da Prodi». E mentre la sera stessa, e l'indomani, Prodi, Sircana, i segretari di tutti gli altri partiti dell'Unione, e, quindi, tutti i giornali, parlano di «accordo unanime», Pannella solo nella conferenza stampa del pomeriggio parla di «momenti molto animati, con forti pressioni nei nostri confronti» e conclude che alla fine si è deciso di «accettare tutti i 12 punti come proposte di Prodi»; La Rosa nel Pugno propone al Capo dello Stato un Prodi-bis, ma solo come preferenza, accettando qualunque altra soluzione fosse stata adottata: il rinvio del medesimo governo, com'era già noto a tutti; domenica sera, il racconto dello «scontro violentissimo».
Mi pare di vedere una certa evoluzione in queste dichiarazioni. Pannella solo dopo ha ritenuto di dover sottolineare di non aver firmato. E solo domenica sera ha raccontato in termini mai usati nei giorni precedenti com'è andata la riunione. Non ha creduto, invece, che quel racconto potesse interessare la stampa la sera stessa del vertice. Oppure, si è accorto di aver sbagliato a non dichiarlo subito e ha cercato di correggersi. Mi pare di concludere che no, non c'è stata sottoscrizione dei 12 punti, ma accordo politico sì. E comunque, più violento fosse stato lo scontro e netto il dissenso, meno "scandalosa", anzi, persino coerente, mi parrebbe la decisione di Capezzone di astenersi. L'astensione sulla fiducia, a rigor di logica, non sarebbe una delle possibili - ripeto: una - conseguenze proprio di quel rifiuto di firmare i 12 punti?
Purtroppo sorge il sospetto che Pannella tentasse di accreditare una linea dura nei confronti di Prodi e dell'Unione che non c'è stata, almeno non nei termini riferiti domenica sera, per placare l'eventuale malcontento della "truppa radicale", che potrebbe riconoscersi nell'astensione di Capezzone.
Di seguito una ricostruzione dei passaggi principali.
«Certo, ci mancherebbe altro, ci sono le condizioni per andare avanti. I numeri? Ci sono, ma stasera non abbiamo fatto esercizi aritmetici». Così il leader storico dei radicali, Marco Pannella, lasciando Palazzo Chigi al termine del vertice tra Prodi e tutti i segretari dei partiti dell'Unione. «Alla riunione eravamo tutti d'accordo su tutti i punti», riferendosi al documento programmatico che Prodi ha sottoposto ai leader.
(Agi, 22 febbraio, ore 23,09)
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Il vertice si è concluso con l'approvazione delle 12 "richieste-condizioni" del Professore da parte dei leader dei partiti della coalizione. A renderlo noto è stato il portavoce del premier Silvio Sircana: si tratta di un «accordo unanime».
(la Repubblica, 22 febbraio, ore 23,11)
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Marco Pannella, raccontano, avrebbe insistito per quasi tutta la parte finale della riunione su questo punto: Pannella avrebbe voluto i "Dico" nel documento programmatico di Prodi, ma il premier ha replicato che i "dodici punti" riguardano l'attività futura del Governo, mentre i "Dico" sono stati già approvati dal Consiglio dei Ministri.
(Apcom, 23 febbraio, ore 00,23)
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Il vertice di questa sera è durato più a lungo del previsto, raccontano, per via del problema sollevato da Marco Pannella dell'applicazione della legge elettorale che consentirebbe alla Rosa nel Pugno di ottenere seggi al Senato. Ma il leader radicale non è riuscito a ottenere impegni precisi su questo punto.
(Ansa, 23 febbraio, ore 00,27)
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La sera stessa Boselli è ospite a Porta a Porta, dove spiega che Sdi e radicali avrebbero preferito un Prodi-bis, ma sostiene che i 12 punti rappresentano un grande rilancio e se tra questi non ci sono i "Dico" è solo perché il loro iter in Parlamento è già avviato.
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«Il vertice di ieri si è concluso con una manifesta volontà di blindare in qualche misura la situazione con l'accettazione di 10 o 12 punti programmatici proposti da Prodi, che definirei prudenti, per creare le condizioni per tornare al Senato e tentare di avere quella fiducia che l'altro ieri è venuta a mancare». Lo ha detto il leader radicale Marco Pannella intervenendo questa mattina a Radio Radicale sul vertice di maggioranza di ieri sera. «Non vi sono state - ha aggiunto - a parte la mia e quella di Enrico Boselli non-convinzioni per questa scelta. Ci sembrava che fosse il momento non di blindarsi... Speriamo che non si trattti di una blindatura di un patto tra partiti per impedire il rischio, certo, di un secondo governo Prodi con tutte le possibilità e i rischi di scelta da parte di Prodi... Avremmo preferito un rinnovamento per il rafforzamento della componente e della politica riformatrice, liberale, laica... ma ho trovato, e mi sono inchinato, anche con Boselli, una volontà ferrea da parte di quel vertice di tentare di percorrere una strada diversa da quella che avrei ritenuto più opportuna, e quindi ci siamo inchinati a questa soluzione... che il vertice dei segretari dei partiti approvava le proposte, la tattica e gli obiettivi suggeriti da Prodi».
(Radio Radicale, 23 febbraio, ore 7,41)
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«Abbiamo ribadito al presidente della Repubblica l'indicazione della Rosa nel Pugno per Romano Prodi come presidente del Consiglio qualunque sarà la soluzione che si adotterà: rinvio del governo per la fiducia alle Camere oppure un nuovo incarico. In questa nuova situazione che si è venuta a creare a poco meno di un anno dal voto, preferiremmo che Prodi formasse un nuovo governo, per rafforzare e rilanciare la politica riformatrice e laica del centrosinistra».
(AdnKronos, 23 febbraio, ore 13,00)
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Non la prosecuzione di questo governo con un semplice allargamento della maggioranza a singole personalità, ma un nuovo governo, un Prodi-bis, rafforzando la politica riformatrice e liberale. Dunque, "sì" alla conferma di Prodi, ma fra le due possibilità, governo così com'è, o governo e programma rinnovati, i radicali annunciavano di preferire quest'ultima. «Il problema non è accattare qualche voto individuale in più, ma offrire l'occasione a nuove forze di condividere la politica del governo Prodi. In questo modo potrà rafforzarsi, rinunciando alla prospettiva di un piccolo allargamento per sopravvivere, e puntando invece a rafforzarsi politicamente», spiegava Pannella in una conferenza stampa. Quindi, «no a blindature e arroccamenti», ribadiva Pannella. «Nel vertice di ieri dei segretari io e Boselli - ha raccontato - ci siamo rifiutati di firmare quella sorta di "patto di sangue", anche perché ci è sembrato un atto audace nei confronti del Presidente della Repubblica. Ci sono stati momenti molto animati, con forti pressioni nei nostri confronti. Alla fine si è trovata una soluzione: accettare tutti i 12 punti come proposte di Prodi».
Le agenzie sulla conferenza stampa di venerdì 23 febbraio
(Agi, ore 17,42; Apcom, ore 17,50; Ansa, ore 18,01)
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Giungiamo, dunque, al racconto fatto domenica sera. Secondo la ricostruzione di Pannella, Prodi avrebbe chiesto senza successo ai segretari dell'Unione di mettere la propria firma in calce ai 12 punti, in modo da consegnare al presidente della Repubblica un documento non solo politicamente impegnativo ma anche personalmente sottoscritto. Una richiesta che non ha avuto successo, perché i segretari di Radicali e Sdi, per la Rosa nel Pugno, si sono opposti, così come in generale, è stato detto "no" alla richiesta del premier di diffondere il documento non solo come suo ma dell'unanimità dei segretari del centrosinistra.
Un rifiuto al quale sarebbe seguito uno «scontro durissimo» e «drammatico» con il premier che avrebbe accennato l'atto di abbandonare i lavori del vertice, tornando poi al suo posto e rassegnandosi ad accettare la sola soluzione di compromesso proposta dai leader del centrosinistra: un documento approvato dal vertice e non, come avrebbe voluto Prodi, da ciascuno dei segretari.
Pannella spiega che le sue erano obiezioni di metodo, perché sarebbe stato scorretto mandare l'indomani i gruppi dell'Unione alle consultazioni con in mano un testo già sottoscritto, legando dunque le mani del Presidente; di merito, perché in particolare lo stesso Pannella e Boselli, «con molta forza e durezza», si erano detti contrari non solo alla scelta del rinvio di Prodi alle Camere invece che con un nuovo incarico, ma anche al contenuto dei 12 punti, soprattutto per l'assenza dei "Dico".
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«Nel vertice abbiamo sollevato molte obiezioni che hanno portato a una soluzione di compromesso per cui i 12 punti non sono stati sottoscritti col sangue ma approvati con una evidente riserva».
(Enrico Boselli, Ansa, 26 febbraio, ore 19,05)
Tuesday, February 27, 2007
Questa è o non è «questione sociale»?
Al solito Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera, individua le ambiguità del programma governativo, stavolta dei 12 punti, e richiama al «coraggio di scegliere», consiglio che difficilmente verrà accolto da Prodi, oggi, nel suo discorso per la fiducia. Ma soprattutto sottolinea alcuni temi che mi sembrano rappresentare altrettante questioni sociali che riguardano la vita - letteralmente la vita più che il benessere - di milioni di persone.
«L'aliquota di equilibrio, cioè il contributo che ciascuno di noi dovrebbe pagare per azzerare il deficit dell'Inps, è oggi vicina al 45 per cento (Vedi Brugiavini e Boeri lavoce.info). Come si può chiedere a un giovane di trasferire quasi la metà del proprio salario a chi va in pensione a 57 anni, dopo 35 anni di lavoro, sapendo che lui stesso percepirà una pensione — in rapporto all'ultimo salario — del 20-30 per cento inferiore a quella di chi oggi beneficia dei suoi contributi?» Quindi chiede al Governo:
Poi, cosa si intenda fare, in concreto, anche su scuola e università, sulle liberalizzazioni dei servizi e delle professioni, nei 12 punti non c'è scritto nulla di preciso.
«L'aliquota di equilibrio, cioè il contributo che ciascuno di noi dovrebbe pagare per azzerare il deficit dell'Inps, è oggi vicina al 45 per cento (Vedi Brugiavini e Boeri lavoce.info). Come si può chiedere a un giovane di trasferire quasi la metà del proprio salario a chi va in pensione a 57 anni, dopo 35 anni di lavoro, sapendo che lui stesso percepirà una pensione — in rapporto all'ultimo salario — del 20-30 per cento inferiore a quella di chi oggi beneficia dei suoi contributi?» Quindi chiede al Governo:
«La riforma aggiornerà i "coefficienti di trasformazione" per tenere conto della accresciuta longevità? (Su questo intervento la Cisl, ieri, ha espresso il suo veto). Introdurrà riduzioni attuariali per chi va in pensione prima dei 65 anni? Estenderà a tutti il regime contributivo pro rata, che al momento si applica solo per la parte di contributi versati dopo il 1996 e comunque solo per i lavoratori che in quell'anno avevano meno di 18 anni di contributi?»Anche altre, e altrettanto decisive, sono le ambiguità indicate da Giavazzi nei 12 punti: sulla spesa pubblica, ricordando che gli aumenti salariali nel pubblico impiego sono stati per lo più determinati da «promozioni tutte contrattate col sindacato e decise, tranne rare eccezioni, con criteri basati poco sulla valutazione dei singoli e molto sulla semplice anzianità di servizio». In realtà, aggiungiamo, più che sull'anzianità, sull'appartenenza a questo o a quel sindacato, sull'organicità a questa o a quella corrente partitica, secondo logiche di lottizzazione in totale contrasto con le norme costituzionali sulla Pubblica Amministrazione.
Poi, cosa si intenda fare, in concreto, anche su scuola e università, sulle liberalizzazioni dei servizi e delle professioni, nei 12 punti non c'è scritto nulla di preciso.
A proposito di tabù: l'incesto
Giorni fa si parlava di cosa sia naturale e cosa no, prendendo spunto da una puntata di 8 e mezzo in cui astutamente Ernesto Galli Della Loggia impallinava Ritanna Armeni con una domanda volta a dimostrare come, al pari della Binetti e di Pera sull'omosessualità, anche lei avesse il suo tabù sull'incesto, basato su un analogo concetto di "contro natura".
Ebbene, pare che si apra, in Germania, anche il dibattito sulla depenalizzazione dell'incesto (depenalizzato già in Belgio, Olanda e Francia).
Patrick e Susan Stübing sono fratello e sorella ma si amano e sono pronti a portare il loro caso davanti alla Corte Costituzionale tedesca affinché l'antica legge che proibisce l'incesto sia abolita. Entrambi di Lipsia, rispettivamente di 29 e 24 anni, in questi giorni sono sulle pagine di molti giornali tedeschi: Patrick e Susan hanno iniziato una relazione nel 2000 e oggi hanno 4 figli, 2 handicapppati, tre dei quali adesso sono in affidamento. Una storia certo singolare, perché i due non sono cresciuti insieme e si sono conosciuti in età adulta...
Dal punto di vista scientifico i figli nati da fratelli e sorelle hanno maggiori possibilità di presentare malformazioni e malattie. Ma nessuna legge proibisce a persone anziane, o disabili, o a portatori sani di malattie genetiche, di avere bambini, anche se corrono seri rischi di generare figli malati o con malformazioni fisiche e mentali. Dunque la proibizione dei rapporti incestuosi rappresenta un limite alla libertà sessuale, ma siccome questo limite non viene posto in analoghe situazioni di rischio per il nascituro, ne consegue che si fonda su un tabù morale.
Se fossi in Ritanna Armeni, chiederei a Ferrara una puntata di "vendetta". Quanti si oppongono - e Pera, la Binetti, Galli Della Loggia credo siano fra questi - alle terapie geniche prenatali, a pratiche come l'analisi preimpianto o l'eutanasia infantile, ritenendole forme sfumate di eugenetica, dovrebbero vedere anche nel divieto di incesto, volto a impedire per legge la probabile nascita di bimbi "difettosi", una forma sfumata di eugenetica.
Insomma, pare che non si possa essere contemporaneamente contro l'eugenetica e contro l'incesto. Perché ragionando con lo stesso metro con cui si valutano altre pratiche, vietando l'incesto a causa dell'alta possibilità che vengano generati figli portatori di handicap si compirebbe ugualmente un'operazione eugenetica.
Viceversa, è semplice rimanere coerenti e tranquilli sulle loro posizioni per coloro che hanno nella libertà individuale la bussola di orientamento. Libertà sessuale. Libertà per fratello e sorella di generare figli se è una scelta libera e consapevole; libertà di generare figli anche in presenza di un elevato rischio di prole disabile o malata; libertà di ricorrere alle tecnologie che permettono di evitare di generare figli disabili e malati; libertà di affidarsi al caso o al destino, o a Dio per chi ci crede. Finché la scelta, appunto, rimane individuale, libera e consapevole, non può esserci dietro progetto eugenetico.
Ebbene, pare che si apra, in Germania, anche il dibattito sulla depenalizzazione dell'incesto (depenalizzato già in Belgio, Olanda e Francia).
Patrick e Susan Stübing sono fratello e sorella ma si amano e sono pronti a portare il loro caso davanti alla Corte Costituzionale tedesca affinché l'antica legge che proibisce l'incesto sia abolita. Entrambi di Lipsia, rispettivamente di 29 e 24 anni, in questi giorni sono sulle pagine di molti giornali tedeschi: Patrick e Susan hanno iniziato una relazione nel 2000 e oggi hanno 4 figli, 2 handicapppati, tre dei quali adesso sono in affidamento. Una storia certo singolare, perché i due non sono cresciuti insieme e si sono conosciuti in età adulta...
Dal punto di vista scientifico i figli nati da fratelli e sorelle hanno maggiori possibilità di presentare malformazioni e malattie. Ma nessuna legge proibisce a persone anziane, o disabili, o a portatori sani di malattie genetiche, di avere bambini, anche se corrono seri rischi di generare figli malati o con malformazioni fisiche e mentali. Dunque la proibizione dei rapporti incestuosi rappresenta un limite alla libertà sessuale, ma siccome questo limite non viene posto in analoghe situazioni di rischio per il nascituro, ne consegue che si fonda su un tabù morale.
Se fossi in Ritanna Armeni, chiederei a Ferrara una puntata di "vendetta". Quanti si oppongono - e Pera, la Binetti, Galli Della Loggia credo siano fra questi - alle terapie geniche prenatali, a pratiche come l'analisi preimpianto o l'eutanasia infantile, ritenendole forme sfumate di eugenetica, dovrebbero vedere anche nel divieto di incesto, volto a impedire per legge la probabile nascita di bimbi "difettosi", una forma sfumata di eugenetica.
Insomma, pare che non si possa essere contemporaneamente contro l'eugenetica e contro l'incesto. Perché ragionando con lo stesso metro con cui si valutano altre pratiche, vietando l'incesto a causa dell'alta possibilità che vengano generati figli portatori di handicap si compirebbe ugualmente un'operazione eugenetica.
Viceversa, è semplice rimanere coerenti e tranquilli sulle loro posizioni per coloro che hanno nella libertà individuale la bussola di orientamento. Libertà sessuale. Libertà per fratello e sorella di generare figli se è una scelta libera e consapevole; libertà di generare figli anche in presenza di un elevato rischio di prole disabile o malata; libertà di ricorrere alle tecnologie che permettono di evitare di generare figli disabili e malati; libertà di affidarsi al caso o al destino, o a Dio per chi ci crede. Finché la scelta, appunto, rimane individuale, libera e consapevole, non può esserci dietro progetto eugenetico.
Srebrenica. L'Onu che condanna se stessa
Serbia e Onu hanno quindi pari responsabilità nel genocidio dei bosniaci
Il fatto. La Corte di giustizia dell'Aja ammette, dopo undici anni, che nel 1995 ci fu «genocidio» nei pressi della cittadina bosniaca di Srebrenica. Ma la stessa Corte poi assolve d'ogni specifica responsabilità «legale» la Serbia, quella del regime nazionalcomunista di Milosevic, inventando la scappatoia di un reato collaterale inesistente nei codici di diritto internazionale: la Serbia, in quanto tale, sarebbe incorsa soltanto nel peccato di «omissione di soccorso» nel più efferato massacro di massa europeo dopo la seconda guerra mondiale.
La Repubblica lo chiama «male causal», Enzo Bettiza su La Stampa, da cui abbiamo ripreso la premessa, parla di «beffa del genocidio senza padri»: «Mai, da quando esiste l'Europa democratica, ossequiente dei diritti dell'uomo, la memoria di tanti morti innocenti è stata così palesemente sacrificata e oltraggiata sugli altari della politica internazionale».
L'esito, dal punto di vista giuridico, osserva Antonio Cassese, è che «i sopravvissuti di Srebrenica, per i quali la Bosnia aveva chiesto un indennizzo, non lo avranno. E se Milosevic fosse vivo, sarebbe stato prosciolto dall'accusa di genocidio».
Dal punto di vista storico è Ian Buruma, al Corriere della Sera a indicare le implicazioni della sentenza: «Penso che questa sentenza discolpi Milosevic agli occhi dei serbi e dia ragione a quanti hanno per tutto questo tempo sostenuto, anche in modo disonesto, che Milosevic non aveva alcuna influenza sui serbo-bosniaci». E a spiegare perché i processi internazionali per questi crimini «non sono la soluzione ideale»: «Sarebbe stato meglio che una corte serba giudicasse questi crimini, o come fu in Germania dopo Norimberga».
Oltre al fatto che ci sono voluti undici anni per chiamare il massacro di Srebrenica con il suo vero nome - e la morte che Milosevic ha facilitato non poco le cose - condannando la Serbia per «omissione», in realtà l'Onu ha condannato se stessa, responsabile, l'Onu sì (quindi al pari di Belgrado) di omissione, come ha ricordato Christian Rocca, su Il Foglio.
Il fatto. La Corte di giustizia dell'Aja ammette, dopo undici anni, che nel 1995 ci fu «genocidio» nei pressi della cittadina bosniaca di Srebrenica. Ma la stessa Corte poi assolve d'ogni specifica responsabilità «legale» la Serbia, quella del regime nazionalcomunista di Milosevic, inventando la scappatoia di un reato collaterale inesistente nei codici di diritto internazionale: la Serbia, in quanto tale, sarebbe incorsa soltanto nel peccato di «omissione di soccorso» nel più efferato massacro di massa europeo dopo la seconda guerra mondiale.
La Repubblica lo chiama «male causal», Enzo Bettiza su La Stampa, da cui abbiamo ripreso la premessa, parla di «beffa del genocidio senza padri»: «Mai, da quando esiste l'Europa democratica, ossequiente dei diritti dell'uomo, la memoria di tanti morti innocenti è stata così palesemente sacrificata e oltraggiata sugli altari della politica internazionale».
L'esito, dal punto di vista giuridico, osserva Antonio Cassese, è che «i sopravvissuti di Srebrenica, per i quali la Bosnia aveva chiesto un indennizzo, non lo avranno. E se Milosevic fosse vivo, sarebbe stato prosciolto dall'accusa di genocidio».
Dal punto di vista storico è Ian Buruma, al Corriere della Sera a indicare le implicazioni della sentenza: «Penso che questa sentenza discolpi Milosevic agli occhi dei serbi e dia ragione a quanti hanno per tutto questo tempo sostenuto, anche in modo disonesto, che Milosevic non aveva alcuna influenza sui serbo-bosniaci». E a spiegare perché i processi internazionali per questi crimini «non sono la soluzione ideale»: «Sarebbe stato meglio che una corte serba giudicasse questi crimini, o come fu in Germania dopo Norimberga».
Oltre al fatto che ci sono voluti undici anni per chiamare il massacro di Srebrenica con il suo vero nome - e la morte che Milosevic ha facilitato non poco le cose - condannando la Serbia per «omissione», in realtà l'Onu ha condannato se stessa, responsabile, l'Onu sì (quindi al pari di Belgrado) di omissione, come ha ricordato Christian Rocca, su Il Foglio.
«In realtà sono proprio le Nazioni Unite a essere colpevoli di omissione, se non peggio. Nel 1995 l'Onu non ha impedito, anzi forse ha facilitato, lo sterminio etnico, grazie al lasciapassare che il comando francese e le truppe olandesi diedero alle milizie di Mladic, in una città che era "zona protetta" delle Nazione Unite. Già prima, il Consiglio di sicurezza dell'Onu aveva imposto l'embargo alla vendita delle armi con conseguenze disastrose per le vittime. Gli aggressori, cioè i serbi, non subirono alcun danno da quella decisione, perché avevano a disposizione l'arsenale del vecchio esercito jugoslavo. I bosniaci musulmani, le vittime, senza armi già prima dell'embargo, non si sono potuti difendere. Grazie all'Onu».
Patente radicale ritirata a Capezzone per sorpasso in curva
Fatemi capire: Pannella e Boselli non firmano i 12 punti presentati da Prodi al vertice dei segretari dell'Unione; Pannella in particolare racconta di uno «scontro violentissimo»; Capezzone annuncia la sua astensione sulla fiducia e viene duramente sanzionato dalla Bonino. Ma l'astensione non rientra in una delle possibili espressioni di dissenso logica conseguenza proprio di quel rifiuto di firmare i 12 punti?
D'altronde la posizione di Pannella e dei radicali per un Prodi-bis con maggioranza, governo e programma diversi, rinnovati, è talmente alternativa rispetto a quella espressa dai partiti dell'Unione da non poter passare come una semplice sfumatura. Prima di tutto perché lo stesso Prodi ha sempre ribadito che non avrebbe guidato una maggioranza e un governo diversi. Dunque, si finge. Da una parte si chiede una cosa che si sa benissimo presupporre l'uscita di scena di Prodi e la rottura dell'Unione, dall'altra si dice di volere comunque la conferma di Prodi. Siamo al "Vorremmo ma non possiamo", oppure al "Potremmo, ma non vogliamo"?
Una non-firma senza conseguenze: i radicali voteranno la fiducia. Vi sembra questo un comportamento non dico coerente, ma per lo meno intellegibile? Rispetto al vertice, inoltre, c'è anche un fatto nuovo e ulteriore che riguarda i "Dico": è sempre più verosimile che non siano stati inseriti nei 12 punti per ottenere il voto di Andreotti, come ha dichiarato lo stesso senatore a vita al Corriere della Sera e a La Stampa.
Lo scontro tra i radicali, intanto, pare destinato ad accendersi. Capezzone ha annunciato la sua astensione sulla fiducia, alla Camera: «... non una pistola sul tavolo. Sono stato e sono leale, ma non posso diventare sordo, cieco e muto. Si vuole uscire da questa crisi con una soluzione rabberciata e di retroguardia. Un governo destinato a galleggiare non può che portare danno a tutti». Astensione, dunque, «a meno che il premier non stupisca con le sue dichiarazioni programmatiche». Ci sarebbero solo «due modi. Il primo il recupero, ma vero, dei temi del Dpef, cioè pensioni, sanità, pubblico impiego e finanze locali. Il secondo è il cambiamento della politica di Visco, una politica fiscale che criminalizza le piccole imprese, i cittadini e le famiglie». E sui "Dico"? «Sono un dato eloquente. E' evidente che ci prendono in giro».
Domenica sera già Pannella, a Radio Radicale, aveva criticato la sua scelta, ma ieri mattina è arrivata la sanzione - durissima - della Bonino, una sorta di scomunica "laica": «Questo modo di muoversi mi sembra abbastanza disdicevole...», un «atto di arroganza». Intanto come metodo:
L'accusa, reiterata, nei confronti di Capezzone è quella di "personalismo", che tra i radicali è come il bue che dà del cornuto all'asino. E' vero, Capezzone ha sbagliato ad agire senza condividere le sue motivazioni con il partito o con il gruppo, ma a quanto pare i "personalismi" in casa radicale sono la regola. Ognuno, a cominciare da Pannella, si alza la mattina e prende la sua iniziativa. Non credo che Bernardini, Cappato e D'Elia siano passati per chissà quali consultazioni prima di aprire al Correntone di Mussi e Salvi. Bene così, ma che valga per tutti o per nessuno. Dal mio punto di vista, sarebbe meglio che ci fosse, se non una linea, almeno un coordinamento capace di definire priorità e impegnare su queste tutti, dai leader all'ultimo dei militanti. Tra l'altro, non mi pare che la Rosa nel Pugno, né come partito né come gruppo, funzioni come sede di discussione e di elaborazione di una linea. Sembra più che altro una piccola Casa delle Libertà: ognuno fa come cazzo gli pare.
La Bonino respinge al mittente gli apprezzamenti di Capezzone nei suoi confronti, che lo frenerebbero dall'andare più in là dell'astensione: «Non è di questo che parliamo ma di linee politiche probabilmente diverse. Io sono per continuare a lavorare testardamente per il rafforzamento della politica liberale e riformatrice all'interno di questa coalizione. Daniele se capisco bene, anche se poi su ciò interpellato non ha altre prospettive realistiche da mettere sul piatto, mi pare che si avvii ad una situazione post-prodiana».
Esattamente: la situazione post-prodiana è nelle cose. Tutti, anche (se non per primi) Ds e Margherita, si avviano. Solo i radicali sembrano non aver capito che quella partita è già iniziata. Tra l'altro, una posizione meno appiattita su Prodi della Rosa nel Pugno, o almeno qualche segnale, potrebbe aprire dei canali di comunicazione con socialisti e laici dall'altra parte.
Ritiro della "patente radicale" anche per Capezzone, dunque, ma basta che ci sia qualcuno a guidare la macchina.
D'altronde la posizione di Pannella e dei radicali per un Prodi-bis con maggioranza, governo e programma diversi, rinnovati, è talmente alternativa rispetto a quella espressa dai partiti dell'Unione da non poter passare come una semplice sfumatura. Prima di tutto perché lo stesso Prodi ha sempre ribadito che non avrebbe guidato una maggioranza e un governo diversi. Dunque, si finge. Da una parte si chiede una cosa che si sa benissimo presupporre l'uscita di scena di Prodi e la rottura dell'Unione, dall'altra si dice di volere comunque la conferma di Prodi. Siamo al "Vorremmo ma non possiamo", oppure al "Potremmo, ma non vogliamo"?
Una non-firma senza conseguenze: i radicali voteranno la fiducia. Vi sembra questo un comportamento non dico coerente, ma per lo meno intellegibile? Rispetto al vertice, inoltre, c'è anche un fatto nuovo e ulteriore che riguarda i "Dico": è sempre più verosimile che non siano stati inseriti nei 12 punti per ottenere il voto di Andreotti, come ha dichiarato lo stesso senatore a vita al Corriere della Sera e a La Stampa.
Lo scontro tra i radicali, intanto, pare destinato ad accendersi. Capezzone ha annunciato la sua astensione sulla fiducia, alla Camera: «... non una pistola sul tavolo. Sono stato e sono leale, ma non posso diventare sordo, cieco e muto. Si vuole uscire da questa crisi con una soluzione rabberciata e di retroguardia. Un governo destinato a galleggiare non può che portare danno a tutti». Astensione, dunque, «a meno che il premier non stupisca con le sue dichiarazioni programmatiche». Ci sarebbero solo «due modi. Il primo il recupero, ma vero, dei temi del Dpef, cioè pensioni, sanità, pubblico impiego e finanze locali. Il secondo è il cambiamento della politica di Visco, una politica fiscale che criminalizza le piccole imprese, i cittadini e le famiglie». E sui "Dico"? «Sono un dato eloquente. E' evidente che ci prendono in giro».
Domenica sera già Pannella, a Radio Radicale, aveva criticato la sua scelta, ma ieri mattina è arrivata la sanzione - durissima - della Bonino, una sorta di scomunica "laica": «Questo modo di muoversi mi sembra abbastanza disdicevole...», un «atto di arroganza». Intanto come metodo:
«Quando qualcuno fa parte di un corpo politico, rappresenta in una posizione istituzionale la Rosa nel Pugno, è stato anche segretario dei Radicali italiani, in termini non dico di buona educazione, perché sarebbe già molto, ma trovo sorprendente che si arrivi ad annunciare delle posizioni in un moto irrefrenabile di coscienza senza avere neanche la decenza di affrontare un dibattito con i compagni, nel partito».No, la «cultura radicale non è questa. Non abbiamo i probiviri, ma il lievitare puntualmente delle iniziative a titolo personale non è bene».
L'accusa, reiterata, nei confronti di Capezzone è quella di "personalismo", che tra i radicali è come il bue che dà del cornuto all'asino. E' vero, Capezzone ha sbagliato ad agire senza condividere le sue motivazioni con il partito o con il gruppo, ma a quanto pare i "personalismi" in casa radicale sono la regola. Ognuno, a cominciare da Pannella, si alza la mattina e prende la sua iniziativa. Non credo che Bernardini, Cappato e D'Elia siano passati per chissà quali consultazioni prima di aprire al Correntone di Mussi e Salvi. Bene così, ma che valga per tutti o per nessuno. Dal mio punto di vista, sarebbe meglio che ci fosse, se non una linea, almeno un coordinamento capace di definire priorità e impegnare su queste tutti, dai leader all'ultimo dei militanti. Tra l'altro, non mi pare che la Rosa nel Pugno, né come partito né come gruppo, funzioni come sede di discussione e di elaborazione di una linea. Sembra più che altro una piccola Casa delle Libertà: ognuno fa come cazzo gli pare.
La Bonino respinge al mittente gli apprezzamenti di Capezzone nei suoi confronti, che lo frenerebbero dall'andare più in là dell'astensione: «Non è di questo che parliamo ma di linee politiche probabilmente diverse. Io sono per continuare a lavorare testardamente per il rafforzamento della politica liberale e riformatrice all'interno di questa coalizione. Daniele se capisco bene, anche se poi su ciò interpellato non ha altre prospettive realistiche da mettere sul piatto, mi pare che si avvii ad una situazione post-prodiana».
Esattamente: la situazione post-prodiana è nelle cose. Tutti, anche (se non per primi) Ds e Margherita, si avviano. Solo i radicali sembrano non aver capito che quella partita è già iniziata. Tra l'altro, una posizione meno appiattita su Prodi della Rosa nel Pugno, o almeno qualche segnale, potrebbe aprire dei canali di comunicazione con socialisti e laici dall'altra parte.
«Mi imbarazza ancora di più l'idea che uno l'annunci anche perché lui, e lui solo, ha su questa crisi uno spazio di comunicazione niente meno che a Domenica In... Insomma c'è tutta una serie di dettagli che mi portano a vedere e a vivere questa posizione di Daniele con grande imbarazzo e disagio, perché è un modo di muoversi poco limpido e poco rispettoso del luogo della decisione del dibattito che è Radicali italiani o il gruppo Rosa nel Pugno che l'ha designato alla presidenza della commissione».«Mi viene il dubbio - conclude la Bonino - che lo faccia per smarcarsi alla ricerca vorticosa di un aumento di popolarità... Penso che un passaggio in una casa e in una scuola di cultura radicale avrebbe dovuto produrre frutti diversi a meno che uno sia preso da un vortice di ambizioni personali». Si sa, Capezzone è un ambizioso e un narcisista, ed è una sua debolezza rendersi attaccabile su questo, ma le questioni politiche poste dalla sua astensione sono dannatamente reali e rimangono tutte lì, sul tappeto, in attesa che un Pannella e una Bonino si degnino di considerarle, invece di eluderle scandalizzandosi, anche perché «vortici di ambizioni personali» (che c'è poi di male?) in giro se ne vedono parecchi.
Ritiro della "patente radicale" anche per Capezzone, dunque, ma basta che ci sia qualcuno a guidare la macchina.
Monday, February 26, 2007
L'utopia prodiana al capolinea e la sinistra in ritardo
Il numero XV di LibMagazine è on line con un ricco Speciale "Crisi di Governo". Tra i contributi anche una mia analisi: L'utopia prodiana al capolinea. La sinistra ancora in ritardo con la storia, di cui riporto qualche estratto iniziale:
Ancora 48 ore o qualche mese, ma l'"utopia prodiana" sembra volgere al termine. Ma in cosa consisteva esattamente l'"utopia prodiana"? Nell'idea che l'Ulivo, alleandosi con la sinistra neocomunista e massimalista, potesse non solo "cacciare" Berlusconi e vincere le elezioni, ma anche governare il paese.
"Senza l'ala radicale non si vince, ma con l'ala radicale non si governa". L'impegno dei vertici del centrosinistra negli ultimi undici anni è stato sempre volto a smentire la seconda di queste due proposizioni. Mai si è tentato di smentire la prima. Chi ha detto, infatti, che senza l'ala "radicale" - che qui preferiamo chiamare con il suo nome: "comunista", o "neocomunista" - non si vince? Per undici anni Prodi, come Berlusconi per il centrodestra, è stato l'unico possibile interprete e collante dell'eterogeneità della coalizione. L'altra faccia della medaglia, però, è che il prodismo, nell'arco di questo lungo periodo, ha impedito alla sinistra di fare i conti con se stessa, di accorgersi di quanto fosse ingombrante il suo passato, seppure oggi nella veste di un antagonismo post-ideologico, e quindi di diventare forza di governo...
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Ancora 48 ore o qualche mese, ma l'"utopia prodiana" sembra volgere al termine. Ma in cosa consisteva esattamente l'"utopia prodiana"? Nell'idea che l'Ulivo, alleandosi con la sinistra neocomunista e massimalista, potesse non solo "cacciare" Berlusconi e vincere le elezioni, ma anche governare il paese.
"Senza l'ala radicale non si vince, ma con l'ala radicale non si governa". L'impegno dei vertici del centrosinistra negli ultimi undici anni è stato sempre volto a smentire la seconda di queste due proposizioni. Mai si è tentato di smentire la prima. Chi ha detto, infatti, che senza l'ala "radicale" - che qui preferiamo chiamare con il suo nome: "comunista", o "neocomunista" - non si vince? Per undici anni Prodi, come Berlusconi per il centrodestra, è stato l'unico possibile interprete e collante dell'eterogeneità della coalizione. L'altra faccia della medaglia, però, è che il prodismo, nell'arco di questo lungo periodo, ha impedito alla sinistra di fare i conti con se stessa, di accorgersi di quanto fosse ingombrante il suo passato, seppure oggi nella veste di un antagonismo post-ideologico, e quindi di diventare forza di governo...
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Ufficiale: "Dico" fatti fuori per il voto di Andreotti
Due fatti sono appurati da stamattina. Primo: dietro l'astensione di Andreotti al Senato che ha provocato la crisi del Governo Prodi ci sono davvero i "Dico", come si vociferava nei primi momenti. L'ha ammesso lui stesso, in questa intervista di oggi al Corriere della Sera, in cui racconta: «Il ministro degli Esteri aveva impostato la sua relazione sull'affermazione che la politica della Farnesina è in continuità con i governi precedenti, fatto salvo però il periodo dell'Esecutivo Berlusconi. Ecco, è questo concetto che proprio non mi ha convinto. E poi c'era il clima di Vicenza».
Nessun complotto, dunque, «è un sospetto che in Italia non muore mai, ma è tutto sbagliato», però... Però «le ripeto, io stesso come cattolico, ma anche come persona, ero rimasto molto male impressionato dal fatto che il governo avesse proposto le famiglie omosessuali».
Secondo: Puff, dal documento in dodici punti di Prodi i "Dico" sono spariti e il senatore a vita - ari-puff - annuncia che giovedì voterà la fiducia. «In aula ci sarà un dibattito e alcuni temi che avevano disturbato saranno accantonati. Quindi non dovrebbero esserci difficoltà».
E i radicali? Semplicemente annichiliti. Votano tranquilli la fiducia. Non se la sentono neanche di dare un "segnale politico" che non metta a rischio la fiducia a Prodi.
Nessun complotto, dunque, «è un sospetto che in Italia non muore mai, ma è tutto sbagliato», però... Però «le ripeto, io stesso come cattolico, ma anche come persona, ero rimasto molto male impressionato dal fatto che il governo avesse proposto le famiglie omosessuali».
Secondo: Puff, dal documento in dodici punti di Prodi i "Dico" sono spariti e il senatore a vita - ari-puff - annuncia che giovedì voterà la fiducia. «In aula ci sarà un dibattito e alcuni temi che avevano disturbato saranno accantonati. Quindi non dovrebbero esserci difficoltà».
E i radicali? Semplicemente annichiliti. Votano tranquilli la fiducia. Non se la sentono neanche di dare un "segnale politico" che non metta a rischio la fiducia a Prodi.
Atto ostile
La decisione di incriminare per il rapimento di Abu Omar agenti della Cia e altri funzionari americani è «un atto ostile contro gli Stati Uniti». Lo afferma il Wall Street Journal: «L'Italia e gli Stati Uniti sono alleati nella Nato, ma un'alleanza del genere è senza significato se gli "alleati" prendono l'abitudine di indagare l'uno sull'altro per aver cooperato contro una minaccia comune. La sceneggiata politica dell'Italia sta mettendo in pericolo la Nato, così come le vite di milioni di persone su entrambe le sponde dell'Atlantico».
E' impensabile ritenere che gli agenti della Cia abbiano agito a Milano senza «l'esplicita conoscenza e partecipazione da parte dei servizi di sicurezza italiani». Per questo, averli incriminati è da considerare «un atto ostile contro gli Stati Uniti», perché le pratiche legali internazionali normalmente offrono immunità per questo tipo di attività sul suolo straniero.
E' impensabile ritenere che gli agenti della Cia abbiano agito a Milano senza «l'esplicita conoscenza e partecipazione da parte dei servizi di sicurezza italiani». Per questo, averli incriminati è da considerare «un atto ostile contro gli Stati Uniti», perché le pratiche legali internazionali normalmente offrono immunità per questo tipo di attività sul suolo straniero.
«Se gli agenti della Cia hanno fatto qualcosa di sbagliato tocca alle autorità americane deciderlo. Spataro, un procuratore indipendente, può incriminare tutti gli italiani che vuole. L'aver deciso di perseguire personale del governo degli Stati Uniti, tuttavia, fa di lui un mascalzone».La procura di Milano, inoltre, ha messo in pericolo la vita degli agenti diffondendo le loro identità. Il Governo Prodi avrebbe dovuto respingere in modo netto le richieste di estradizione. Se riceverà il voto di fiducia, «avrà una seconda possibilità di far fronte finalmente ai propri obblighi nei confronti dell'alleanza con gli Usa e di rigettare l'estradizione».
Da Blair-Fortuna-Zapatero a Prodi-Prodi-Prodi
Un «nuovo Governo in cui risultino fortemente ampliate e rafforzate la politica e la componente riformatrici e liberali della maggioranza», auspicavano in un comunicato congiunto Radicali italiani, Associazione Luca Coscioni e Nessuno Tocchi Caino.
Non la prosecuzione di questo governo con un semplice allargamento della maggioranza a singole personalità, ma un nuovo governo, un Prodi-bis, rafforzando la politica riformatrice e liberale. Dunque, "sì" alla conferma di Prodi, ma fra le due possibilità, governo così com'è, o governo e programma rinnovati, i radicali annunciavano di preferire quest'ultima. «Il problema non è accattare qualche voto individuale in più, ma offrire l'occasione a nuove forze di condividere la politica del governo Prodi. In questo modo potrà rafforzarsi, rinunciando alla prospettiva di un piccolo allargamento per sopravvivere, e puntando invece a rafforzarsi politicamente», spiegava Pannella in una conferenza stampa. I radicali preferiscono, ma sono pronti ad adeguarsi.
Sarà per questa "preferenza" senza conseguenze che la posizione radicale non ha incontrato l'attenzione dei media? O sarà perché all'uscita del vertice dei segretari Pannella si dimenticava di raccontare ai giornalisti presenti dello «scontro violentissimo» di cui ha riferito, invece, domenica sera a Radio Radicale?
Tralasciando il fatto che questa posizione giungeva fuori tempo massimo, con almeno un giorno di ritardo, cioè quando al vertice dei segretari dell'Unione una decisione era già stata presa e a poche ore dal termine delle consultazioni al Quirinale, dal punto di vista politico fa acqua da tutte le parti e fa a pugni persino con la logica.
Dirla mezza per non dirla tutta. Ciò che i radicali hanno proposto presuppone l'uscita di scena di Prodi, ma non volendo neanche alluderlo, né solo pensarlo, non hanno potuto che pronunciare frasi contraddittorie.
Quali sono queste «nuove forze» che dovrebbero «condividere la politica del governo Prodi»? Vengono chiamati in causa Rotondi, Tabacci, Follini, il Nuovo Psi, Lombardo. Insomma, poco più che «singole» personalità, tra l'altro le stesse a cui l'Unione si è rivolta per quell'allargamento a uno-due-tre senatori che i radicali sostenevano di non volere. Di queste, solo Follini sembra aver accettato, mentre gli altri in un modo o nell'altro hanno prospettato «larghe intese», o comunque una soluzione senza Prodi.
E' del tutto evidente che qualsiasi serio rafforzamento della politica del Governo Prodi in senso riformatore e liberale vedrebbe peggiorare l'instabilità sul lato sinistro della maggioranza. Inoltre, Rifondazione e Comunisti italiani hanno già avvertito che il programma "non si tocca" e concesso al massimo un allargamento a «singoli» senatori. Se davvero governo e programma fossero così rinnovati da poter raccogliere il consenso di «nuove forze», la sinistra comunista e massimalista non farebbe più parte della maggioranza e a guidare l'Esecutivo non potrebbe più essere Prodi. Prima di tutto perché Prodi stesso ha già chiarito di non essere disponibile a guidare una maggioranza diversa, con un programma e un governo diversi. Romano è sempre ostinato, come nel '98. Tra l'altro, le «nuove forze» che si aggregassero dovrebbero essere tali da sostituire numericamente Rifondazione e Pdci, ma neanche l'Udc sarebbe sufficiente: dunque, siamo alle «larghe intese». Se invece i radicali si riferiscono davvero ai nomi citati, si tratta della campagna acquisti già in corso.
La lealtà a Prodi passa per il rinvio alle Camere del governo così com'è, tutt'al più acquistando qualche senatore. Tutte le altre soluzioni - dalle «larghe intese» al rinnovo in senso liberale del governo e del programma - sono incompatibili con la tenuta della coalizione uscita vittoriosa, anche se di poco, dalle urne. Si tratterebbe di superare la formula "Unione" e il prodismo. E' questo che, senza esplicitarlo, chiedevano i radicali? "Vorremmo, ma non possiamo", oppure "Potremmo, ma non vogliamo"? Sarebbe la stessa cosa che chiedono, in termini centristi, Casini e Tabacci.
L'equivoco di fondo sta nell'errore di lettura iniziale di quella che Pannella chiama l'«utopia prodiana», che è irriformabile, perché si fonda sull'idea che l'Ulivo, alleandosi con la sinistra neocomunista e massimalista, potesse non solo "cacciare" Berlusconi e vincere le elezioni, ma anche governare il paese.
Ma se in nessun paese europeo una sinistra democratica e liberale governa insieme a quella neocomunista ci sarà pure un motivo. In Gran Bretagna Blair ha svecchiato il Labour dopo un decennio di coraggiose scommesse politiche; in Germania il socialdemocratico Schroeder si è rifiutato di allearsi con i Bertinotti di lì ed ha sostanzialmente pareggiato nel confronto con la Merkel. Nei paesi scandinavi, o in Danimarca, Olanda, e anche in Spagna, la sinistra non governa con i comunisti.
Se davvero l'obiettivo è riformare la sinistra in senso liberale, bisogna capire che governare insieme alla sinistra massimalista è un'anomalia solo italiana e che la resa dei conti con i neocomunisti non va rinviata ma provocata. Anche perché, rispetto a una sinistra neocomunista, una sinistra liberale e riformatrice è alternativa almeno quanto lo è rispetto alla destra.
Dunque, essere gli «ultimi giapponesi» di Prodi aveva senso finché si trattava di conquistare l'«alternanza»; perché se una maggioranza di centrosinistra senza Bertinotti e Diliberto è incompatibile con il "prodismo", l'ovvia conseguenza è che la riforma della sinistra in senso democratico e liberale, l'«alternativa», passa per il fallimento dell'«utopia prodiana».
Dopo le elezioni, nei loro rapporti interni alla maggioranza e al Governo, i radicali hanno commesso a mio avviso due errori fondamentali. Primo: appena avuta la certezza che Berlusconi fosse battuto, che l'«alternanza» fosse ottenuta, avrebbero dovuto dimenticarsela come priorità, concentrandosi sull'«alternativa», l'obiettivo proclamato in campagna elettorale. Soprattutto perché l'alternanza da condizione poteva ben presto rivelarsi, come mi pare sia accaduto, un ostacolo all'alternativa, ammesso che per alternativa non s'intenda conservare le poltrone.
Secondo: al di là dei contenuti da sempre loro patrimonio, i radicali non hanno approfondito come stare nella maggioranza, cioè quale dovesse essere il loro ruolo specifico nell'Unione e quale l'atteggiamento nei confronti del Governo Prodi. Un particolare che forse non può incidere di per sé positivamente sulla crescita del soggetto politico, ma certamente può incidere, e molto, negativamente.
L'impegno dei radicali (se non della Rosa nel Pugno, visto che è stata quasi subito congelata) avrebbe dovuto essere quello di attivare e stimolare il conflitto con la sinistra neocomunista e massimalista. Quello «scontro» tra sinistra liberale e neocomunista che Pannella negli ultimi mesi del 2005 ripeteva essere «necessario e salutare», ma che non sono riusciti a innescare, non favorito certo dalle issues cui hanno scelto di dare maggiore rilevanza nella loro attività di questi mesi.
Oggi i radicali dichiarano che la sinistra comunista è «inaffidabile» e chiedono - par di capire anche se provocasse la sua uscita dalla maggioranza - quel rafforzamento della componente riformatrice e liberale al quale loro stessi, dall'inizio, avrebbero dovuto lavorare.
Eppure, non solo autorevoli dirigenti del partito in questi mesi hanno guardato alla sinistra comunista, chi cercando una sponda sui diritti civili o sulla nonviolenza, chi addirittura intravedendo da quelle parti dei liberali o dei laburisti. E c'era persino chi avrebbe voluto essere a Vicenza a manifestare, o sostenere un referendum cittadino sulla base Usa. Si è addirittura "criminalizzato" Capezzone, il cui tentativo, con il tavolo dei «Volenterosi», era proprio quello di rafforzare la politica e la componente riformatrice e liberale della maggioranza. Guardando dove? Certo non dalle parti di Bertinotti, D'Alema e Salvi. Una prospettiva anche quella di allargamento, ma non su esigenze di pallottoliere, come oggi, bensì unendo laicamente personalità di diversa estrazione politico-culturale su obiettivi concreti di riforma. Chi ha voluto vedere nell'impegno di Capezzone un disegno neo-centrista oggi - ironia della sorte - si trova a chiedere a Rotondi, Tabacci, Follini e Lombardo di puntellare la maggioranza al Senato.
La Finanziaria "tassa e spendi"; una politica estera tra realismo e cinismo; l'affossamento dei Pacs; i giochi di potere del premier, il nuovo «capace di tutto», con le banche "amiche", dalla telefonia al nuovo, inquietante, Fondo per le Infrastrutture; e - ricordiamolo - la più grave violazione della legalità degli ultimi anni, la vicenda non ancora risolta degli otto senatori, che colpisce il più delicato momento di una democrazia: la trasformazione dei voti in seggi.
Nel dibattito interno ai radicali c'è il Pannella del «violentissimo scontro» durante il vertice dei segretari dell'Unione, mentre all'esterno una garbata, e senza conseguenze, preferenza per un Prodi-bis e addirittura un entusiasta Boselli a Porta a Porta. La Rosa nel Pugno non esiste che alla Camera, e ha Villetti come leader. Così, invece che Blair-Fortuna-Zapatero, i radicali sembrano aver fatto proprie le parole d'ordine dello Sdi: Prodi-Prodi-Prodi.
E' come se all'indomani delle elezioni si fossero rifiutati di accettare il fatto che la combinazione tra una maggioranza striminzita al Senato e la vittoria elettorale della sinistra massimalista poneva le basi per una fine molto anticipata del Governo Prodi. Talmente anticipata e poco gloriosa, che visto il ruolo marginale che l'oligarchia ulivista aveva riservato ai radicali c'era piuttosto da chiedersi se non fosse il caso di non partecipare al governo e di limitarsi a un leale appoggio esterno, o quanto meno, oggi, è forse il caso di non recitare la parte degli «ultimi giapponesi». Anche perché Prodi, oggi, rappresenta un fattore di congelamento dello status quo della politica italiana, impedendo nuovi possibili scenari, con tutti i loro rischi di ulteriore conservazione ma anche con le sole opportunità di rinnovamento.
E' condivisibile lo scrupolo di non voler apparire "inaffidabili" come i Mastella, i Di Pietro e i Diliberto, ma tra l'inaffidabilità e i trasformismi da una parte, e il rimanere ingabbiati tra Villetti e il tramonto del "prodismo" dall'altra, non poteva trovarsi una via di mezzo, un diverso equilibrio? Non era anche questa la sfida dei radicali nelle istituzioni?
L'unica certezza a questo punto è che Prodi – non importa se dura ancora 48 ore o sei mesi – è "bruciato", ma nessuno si vuole prendere la responsabilità del suo incenerimento. Ds e Margherita lo sanno perfettamente, ma hanno bisogno di circa un anno – meglio con Prodi, ma se non fosse possibile anche senza – prima delle elezioni anticipate, per far partire il progetto del Partito democratico e presentare un nuovo leader, per esempio Veltroni.
E forse in quel nuovo "centro-sinistra" vedremo l'Udc al posto di Rifondazione e Pdci, i cui leader sono molto spaventati dalla crisi. Non può sfuggire, infatti, come un D'Alema spazientito nella sua replica al Senato abbia sfidato i dissenzienti comunisti («è questa la politica internazionale dell’Italia, se non vi piace non votatela») e non si può del tutto escludere che lo abbia fatto per calcolo: se avesse vinto, si sarebbe preso i meriti dello statista, altrimenti avrebbe aperto la fase del dopo-Prodi, com'è poi accaduto. Inoltre, di poche ore fa sono le sue dure parole contro quella «sinistra che non serve al paese», l'apertura al sistema elettorale tedesco, modello caro a Casini, e il retroscena di Francesco Verderami, sul Corriere della Sera, che vede D'Alema e Rutelli uniti dal progetto di un nuovo centrosinistra che vada dai Ds all'Udc.
Sembra questo lo scenario a cui Ds e Margherita stanno lavorando, formalmente per la legge elettorale e le riforme istituzionali, in vista del prossimo, inevitabile, tonfo del Governo Prodi. Tutti, comunque, stanno già giocando la loro partita per il dopo-Prodi, tranne i radicali, gli unici che sembrano non aver ancora capito che quella partita è iniziata.
Non la prosecuzione di questo governo con un semplice allargamento della maggioranza a singole personalità, ma un nuovo governo, un Prodi-bis, rafforzando la politica riformatrice e liberale. Dunque, "sì" alla conferma di Prodi, ma fra le due possibilità, governo così com'è, o governo e programma rinnovati, i radicali annunciavano di preferire quest'ultima. «Il problema non è accattare qualche voto individuale in più, ma offrire l'occasione a nuove forze di condividere la politica del governo Prodi. In questo modo potrà rafforzarsi, rinunciando alla prospettiva di un piccolo allargamento per sopravvivere, e puntando invece a rafforzarsi politicamente», spiegava Pannella in una conferenza stampa. I radicali preferiscono, ma sono pronti ad adeguarsi.
Sarà per questa "preferenza" senza conseguenze che la posizione radicale non ha incontrato l'attenzione dei media? O sarà perché all'uscita del vertice dei segretari Pannella si dimenticava di raccontare ai giornalisti presenti dello «scontro violentissimo» di cui ha riferito, invece, domenica sera a Radio Radicale?
Tralasciando il fatto che questa posizione giungeva fuori tempo massimo, con almeno un giorno di ritardo, cioè quando al vertice dei segretari dell'Unione una decisione era già stata presa e a poche ore dal termine delle consultazioni al Quirinale, dal punto di vista politico fa acqua da tutte le parti e fa a pugni persino con la logica.
Dirla mezza per non dirla tutta. Ciò che i radicali hanno proposto presuppone l'uscita di scena di Prodi, ma non volendo neanche alluderlo, né solo pensarlo, non hanno potuto che pronunciare frasi contraddittorie.
Quali sono queste «nuove forze» che dovrebbero «condividere la politica del governo Prodi»? Vengono chiamati in causa Rotondi, Tabacci, Follini, il Nuovo Psi, Lombardo. Insomma, poco più che «singole» personalità, tra l'altro le stesse a cui l'Unione si è rivolta per quell'allargamento a uno-due-tre senatori che i radicali sostenevano di non volere. Di queste, solo Follini sembra aver accettato, mentre gli altri in un modo o nell'altro hanno prospettato «larghe intese», o comunque una soluzione senza Prodi.
E' del tutto evidente che qualsiasi serio rafforzamento della politica del Governo Prodi in senso riformatore e liberale vedrebbe peggiorare l'instabilità sul lato sinistro della maggioranza. Inoltre, Rifondazione e Comunisti italiani hanno già avvertito che il programma "non si tocca" e concesso al massimo un allargamento a «singoli» senatori. Se davvero governo e programma fossero così rinnovati da poter raccogliere il consenso di «nuove forze», la sinistra comunista e massimalista non farebbe più parte della maggioranza e a guidare l'Esecutivo non potrebbe più essere Prodi. Prima di tutto perché Prodi stesso ha già chiarito di non essere disponibile a guidare una maggioranza diversa, con un programma e un governo diversi. Romano è sempre ostinato, come nel '98. Tra l'altro, le «nuove forze» che si aggregassero dovrebbero essere tali da sostituire numericamente Rifondazione e Pdci, ma neanche l'Udc sarebbe sufficiente: dunque, siamo alle «larghe intese». Se invece i radicali si riferiscono davvero ai nomi citati, si tratta della campagna acquisti già in corso.
La lealtà a Prodi passa per il rinvio alle Camere del governo così com'è, tutt'al più acquistando qualche senatore. Tutte le altre soluzioni - dalle «larghe intese» al rinnovo in senso liberale del governo e del programma - sono incompatibili con la tenuta della coalizione uscita vittoriosa, anche se di poco, dalle urne. Si tratterebbe di superare la formula "Unione" e il prodismo. E' questo che, senza esplicitarlo, chiedevano i radicali? "Vorremmo, ma non possiamo", oppure "Potremmo, ma non vogliamo"? Sarebbe la stessa cosa che chiedono, in termini centristi, Casini e Tabacci.
L'equivoco di fondo sta nell'errore di lettura iniziale di quella che Pannella chiama l'«utopia prodiana», che è irriformabile, perché si fonda sull'idea che l'Ulivo, alleandosi con la sinistra neocomunista e massimalista, potesse non solo "cacciare" Berlusconi e vincere le elezioni, ma anche governare il paese.
Ma se in nessun paese europeo una sinistra democratica e liberale governa insieme a quella neocomunista ci sarà pure un motivo. In Gran Bretagna Blair ha svecchiato il Labour dopo un decennio di coraggiose scommesse politiche; in Germania il socialdemocratico Schroeder si è rifiutato di allearsi con i Bertinotti di lì ed ha sostanzialmente pareggiato nel confronto con la Merkel. Nei paesi scandinavi, o in Danimarca, Olanda, e anche in Spagna, la sinistra non governa con i comunisti.
Se davvero l'obiettivo è riformare la sinistra in senso liberale, bisogna capire che governare insieme alla sinistra massimalista è un'anomalia solo italiana e che la resa dei conti con i neocomunisti non va rinviata ma provocata. Anche perché, rispetto a una sinistra neocomunista, una sinistra liberale e riformatrice è alternativa almeno quanto lo è rispetto alla destra.
Dunque, essere gli «ultimi giapponesi» di Prodi aveva senso finché si trattava di conquistare l'«alternanza»; perché se una maggioranza di centrosinistra senza Bertinotti e Diliberto è incompatibile con il "prodismo", l'ovvia conseguenza è che la riforma della sinistra in senso democratico e liberale, l'«alternativa», passa per il fallimento dell'«utopia prodiana».
Dopo le elezioni, nei loro rapporti interni alla maggioranza e al Governo, i radicali hanno commesso a mio avviso due errori fondamentali. Primo: appena avuta la certezza che Berlusconi fosse battuto, che l'«alternanza» fosse ottenuta, avrebbero dovuto dimenticarsela come priorità, concentrandosi sull'«alternativa», l'obiettivo proclamato in campagna elettorale. Soprattutto perché l'alternanza da condizione poteva ben presto rivelarsi, come mi pare sia accaduto, un ostacolo all'alternativa, ammesso che per alternativa non s'intenda conservare le poltrone.
Secondo: al di là dei contenuti da sempre loro patrimonio, i radicali non hanno approfondito come stare nella maggioranza, cioè quale dovesse essere il loro ruolo specifico nell'Unione e quale l'atteggiamento nei confronti del Governo Prodi. Un particolare che forse non può incidere di per sé positivamente sulla crescita del soggetto politico, ma certamente può incidere, e molto, negativamente.
L'impegno dei radicali (se non della Rosa nel Pugno, visto che è stata quasi subito congelata) avrebbe dovuto essere quello di attivare e stimolare il conflitto con la sinistra neocomunista e massimalista. Quello «scontro» tra sinistra liberale e neocomunista che Pannella negli ultimi mesi del 2005 ripeteva essere «necessario e salutare», ma che non sono riusciti a innescare, non favorito certo dalle issues cui hanno scelto di dare maggiore rilevanza nella loro attività di questi mesi.
Oggi i radicali dichiarano che la sinistra comunista è «inaffidabile» e chiedono - par di capire anche se provocasse la sua uscita dalla maggioranza - quel rafforzamento della componente riformatrice e liberale al quale loro stessi, dall'inizio, avrebbero dovuto lavorare.
Eppure, non solo autorevoli dirigenti del partito in questi mesi hanno guardato alla sinistra comunista, chi cercando una sponda sui diritti civili o sulla nonviolenza, chi addirittura intravedendo da quelle parti dei liberali o dei laburisti. E c'era persino chi avrebbe voluto essere a Vicenza a manifestare, o sostenere un referendum cittadino sulla base Usa. Si è addirittura "criminalizzato" Capezzone, il cui tentativo, con il tavolo dei «Volenterosi», era proprio quello di rafforzare la politica e la componente riformatrice e liberale della maggioranza. Guardando dove? Certo non dalle parti di Bertinotti, D'Alema e Salvi. Una prospettiva anche quella di allargamento, ma non su esigenze di pallottoliere, come oggi, bensì unendo laicamente personalità di diversa estrazione politico-culturale su obiettivi concreti di riforma. Chi ha voluto vedere nell'impegno di Capezzone un disegno neo-centrista oggi - ironia della sorte - si trova a chiedere a Rotondi, Tabacci, Follini e Lombardo di puntellare la maggioranza al Senato.
La Finanziaria "tassa e spendi"; una politica estera tra realismo e cinismo; l'affossamento dei Pacs; i giochi di potere del premier, il nuovo «capace di tutto», con le banche "amiche", dalla telefonia al nuovo, inquietante, Fondo per le Infrastrutture; e - ricordiamolo - la più grave violazione della legalità degli ultimi anni, la vicenda non ancora risolta degli otto senatori, che colpisce il più delicato momento di una democrazia: la trasformazione dei voti in seggi.
Nel dibattito interno ai radicali c'è il Pannella del «violentissimo scontro» durante il vertice dei segretari dell'Unione, mentre all'esterno una garbata, e senza conseguenze, preferenza per un Prodi-bis e addirittura un entusiasta Boselli a Porta a Porta. La Rosa nel Pugno non esiste che alla Camera, e ha Villetti come leader. Così, invece che Blair-Fortuna-Zapatero, i radicali sembrano aver fatto proprie le parole d'ordine dello Sdi: Prodi-Prodi-Prodi.
E' come se all'indomani delle elezioni si fossero rifiutati di accettare il fatto che la combinazione tra una maggioranza striminzita al Senato e la vittoria elettorale della sinistra massimalista poneva le basi per una fine molto anticipata del Governo Prodi. Talmente anticipata e poco gloriosa, che visto il ruolo marginale che l'oligarchia ulivista aveva riservato ai radicali c'era piuttosto da chiedersi se non fosse il caso di non partecipare al governo e di limitarsi a un leale appoggio esterno, o quanto meno, oggi, è forse il caso di non recitare la parte degli «ultimi giapponesi». Anche perché Prodi, oggi, rappresenta un fattore di congelamento dello status quo della politica italiana, impedendo nuovi possibili scenari, con tutti i loro rischi di ulteriore conservazione ma anche con le sole opportunità di rinnovamento.
E' condivisibile lo scrupolo di non voler apparire "inaffidabili" come i Mastella, i Di Pietro e i Diliberto, ma tra l'inaffidabilità e i trasformismi da una parte, e il rimanere ingabbiati tra Villetti e il tramonto del "prodismo" dall'altra, non poteva trovarsi una via di mezzo, un diverso equilibrio? Non era anche questa la sfida dei radicali nelle istituzioni?
L'unica certezza a questo punto è che Prodi – non importa se dura ancora 48 ore o sei mesi – è "bruciato", ma nessuno si vuole prendere la responsabilità del suo incenerimento. Ds e Margherita lo sanno perfettamente, ma hanno bisogno di circa un anno – meglio con Prodi, ma se non fosse possibile anche senza – prima delle elezioni anticipate, per far partire il progetto del Partito democratico e presentare un nuovo leader, per esempio Veltroni.
E forse in quel nuovo "centro-sinistra" vedremo l'Udc al posto di Rifondazione e Pdci, i cui leader sono molto spaventati dalla crisi. Non può sfuggire, infatti, come un D'Alema spazientito nella sua replica al Senato abbia sfidato i dissenzienti comunisti («è questa la politica internazionale dell’Italia, se non vi piace non votatela») e non si può del tutto escludere che lo abbia fatto per calcolo: se avesse vinto, si sarebbe preso i meriti dello statista, altrimenti avrebbe aperto la fase del dopo-Prodi, com'è poi accaduto. Inoltre, di poche ore fa sono le sue dure parole contro quella «sinistra che non serve al paese», l'apertura al sistema elettorale tedesco, modello caro a Casini, e il retroscena di Francesco Verderami, sul Corriere della Sera, che vede D'Alema e Rutelli uniti dal progetto di un nuovo centrosinistra che vada dai Ds all'Udc.
Sembra questo lo scenario a cui Ds e Margherita stanno lavorando, formalmente per la legge elettorale e le riforme istituzionali, in vista del prossimo, inevitabile, tonfo del Governo Prodi. Tutti, comunque, stanno già giocando la loro partita per il dopo-Prodi, tranne i radicali, gli unici che sembrano non aver ancora capito che quella partita è iniziata.
Saturday, February 24, 2007
Andate contro gli scogli, se proprio volete
Praticamente certo il rinvio di Prodi alla Camere. Per ora, acquisito il voto di Follini, come spiega lui stesso al Corriere.
Il clima che si respira però è di quelli in cui nessuno ci crede, ma per tutti è un passaggio obbligato. Ds e Margherita sanno perfettamente che Prodi è "bruciato", ma hanno bisogno di circa un anno - meglio con Prodi, ma se non fosse possibile anche senza - prima delle elezioni anticipate, per far partire il progetto del Partito democratico e presentare un nuovo leader, per esempio Veltroni.
E forse in quel nuovo centro-sinistra vedremo l'Udc al posto di Rifondazione e Pdci.
Quella di Prodi comunque pare una nave che non può essere mandata in pensione, dev'essere mandata contro gli scogli. Chissà che alla fine non sia questo il retropensiero di molti, e pure di Napolitano.
Il clima che si respira però è di quelli in cui nessuno ci crede, ma per tutti è un passaggio obbligato. Ds e Margherita sanno perfettamente che Prodi è "bruciato", ma hanno bisogno di circa un anno - meglio con Prodi, ma se non fosse possibile anche senza - prima delle elezioni anticipate, per far partire il progetto del Partito democratico e presentare un nuovo leader, per esempio Veltroni.
E forse in quel nuovo centro-sinistra vedremo l'Udc al posto di Rifondazione e Pdci.
Quella di Prodi comunque pare una nave che non può essere mandata in pensione, dev'essere mandata contro gli scogli. Chissà che alla fine non sia questo il retropensiero di molti, e pure di Napolitano.
Tramonto del prodismo
E se invece del berlusconismo tramontasse prima il prodismo?
(Notizie Radicali, 12 aprile 2006, commento ai risultati elettorali).
(Notizie Radicali, 12 aprile 2006, commento ai risultati elettorali).
«Quella di Prodi sembra la più classica delle vittorie di Pirro. Dopo le elezioni che dovevano segnare il tramonto definitivo del berlusconismo, a tramontare, già fra qualche mese, potrebbe essere il prodismo».
Friday, February 23, 2007
Ancora 48 ore o sei mesi
Il Presidente Napolitano crederà alle rassicurazioni che in queste ore gli stanno dando gli esponenti dell'Unione sulla tenuta di Prodi al Senato? Dalla risposta a questa domanda dipenderà la decisione di Napolitano. Se gli crederà (e qui ci auguriamo che il Presidente contatti personalmente ciascuno dei senatori che gli saranno stati indicati come "new entry" nella maggioranza), allora rinvierà alle Camere per la fiducia il Governo Prodi così com'è; se non gli crederà, probabilmente indicherà il nome di una personalità autorevole (Dini, Marini, Amato) cui affidare un incarico "esplorativo".
A questo punto Prodi potrebbe chiedere elezioni anticipate, ma l'Ulivo probabilmente si smarcherebbe accettando le «larghe intese» con Berlusconi, Fini e Casini. L'unica certezza è che Prodi - non importa se dura ancora 48 ore o sei mesi - è "bruciato", ma nessuno si vuole prendere la responsabilità del suo incenerimento. Ds e Margherita lo sanno perfettamente, ma hanno bisogno di circa un anno - meglio con Prodi, ma se non fosse possibile anche senza - prima delle elezioni anticipate, per far partire il progetto del Partito democratico e presentare un nuovo leader, per esempio Veltroni.
Tra l'altro, per come D'Alema ha sfidato in Senato i dissenzienti comunisti («è questa la politica internazionale dell'Italia, se non vi piace non votatela») non si può del tutto escludere che, spazientito, non lo abbia fatto per calcolo: se avesse vinto, si sarebbe preso i meriti dello statista, altrimenti avrebbe aperto la fase del dopo-Prodi senza prendersene la responsabilità.
Tutti, comunque, stanno già giocando la loro partita senza Prodi, tranne i radicali, gli unici a non aver ancora capito che quella partita è iniziata.
A questo punto Prodi potrebbe chiedere elezioni anticipate, ma l'Ulivo probabilmente si smarcherebbe accettando le «larghe intese» con Berlusconi, Fini e Casini. L'unica certezza è che Prodi - non importa se dura ancora 48 ore o sei mesi - è "bruciato", ma nessuno si vuole prendere la responsabilità del suo incenerimento. Ds e Margherita lo sanno perfettamente, ma hanno bisogno di circa un anno - meglio con Prodi, ma se non fosse possibile anche senza - prima delle elezioni anticipate, per far partire il progetto del Partito democratico e presentare un nuovo leader, per esempio Veltroni.
Tra l'altro, per come D'Alema ha sfidato in Senato i dissenzienti comunisti («è questa la politica internazionale dell'Italia, se non vi piace non votatela») non si può del tutto escludere che, spazientito, non lo abbia fatto per calcolo: se avesse vinto, si sarebbe preso i meriti dello statista, altrimenti avrebbe aperto la fase del dopo-Prodi senza prendersene la responsabilità.
Tutti, comunque, stanno già giocando la loro partita senza Prodi, tranne i radicali, gli unici a non aver ancora capito che quella partita è iniziata.
Non lascia, anzi raddoppia
Non lascia e «forse raddoppia», avevamo scommesso in un post di qualche giorno fa in cui si spiegava che dietro la decisione di Blair di annunciare il piano di ritiro dall'Iraq non c'era alcun ripensamento strategico sulla guerra e men che meno nessun tradimento della causa democratica.
Ebbene, pare che raddoppi. Oltre ad aver precisato, ieri alla Bbc, che il numero dei soldati dispiegati in Iraq potrebbe anche aumentare, qualore ve ne fosse necessità («we have the full combat capability that is there, so if we are needed to go back in in any set of circumstances, we can»), Blair dovrebbe annunciare al Parlamento l'invio di mille uomini di rinforzo in Afghanistan per contrastare i talebani. Altri mille soldati dovrebbero arrivare dalla Polonia e l'Australia si prepara a raddoppiare il suo impegno da 500 a circa mille uomini.
In Italia, neanche promettendo una conferenza di pace che nessuno vuole e maggiore impegno civile per ingrassare la cooperazione pacifista, il Governo riesce a ottenere la fiducia sulla politica estera. Figurarsi se riesce a dare via libera ai nostri militari in missione in Afghanistan per partecipare ai combattimenti come richiede la Nato.
UPDATE 26 febbraio: Abbiamo la conferma ufficiale: la Gran Bretagna invierà altri 1.400 soldati in Afghanistan, in aggiunta ai 6.300 già schierati, per un totale di 7.700. Parlando ai Comuni il ministro della Difesa Des Browne ha sottolineato che la decisione di inviare rinforzi è stata presa dopo che sono falliti i tentativi di spingere altri Paesi della Nato a dare un contributo maggiore alla guerra in corso in Afghanistan contro i talebani. I soldati saranno dispiegati nel sud, in particolare nella provincia di Helmand, dove i talebani rappresentano una grossa minaccia.
Ebbene, pare che raddoppi. Oltre ad aver precisato, ieri alla Bbc, che il numero dei soldati dispiegati in Iraq potrebbe anche aumentare, qualore ve ne fosse necessità («we have the full combat capability that is there, so if we are needed to go back in in any set of circumstances, we can»), Blair dovrebbe annunciare al Parlamento l'invio di mille uomini di rinforzo in Afghanistan per contrastare i talebani. Altri mille soldati dovrebbero arrivare dalla Polonia e l'Australia si prepara a raddoppiare il suo impegno da 500 a circa mille uomini.
In Italia, neanche promettendo una conferenza di pace che nessuno vuole e maggiore impegno civile per ingrassare la cooperazione pacifista, il Governo riesce a ottenere la fiducia sulla politica estera. Figurarsi se riesce a dare via libera ai nostri militari in missione in Afghanistan per partecipare ai combattimenti come richiede la Nato.
UPDATE 26 febbraio: Abbiamo la conferma ufficiale: la Gran Bretagna invierà altri 1.400 soldati in Afghanistan, in aggiunta ai 6.300 già schierati, per un totale di 7.700. Parlando ai Comuni il ministro della Difesa Des Browne ha sottolineato che la decisione di inviare rinforzi è stata presa dopo che sono falliti i tentativi di spingere altri Paesi della Nato a dare un contributo maggiore alla guerra in corso in Afghanistan contro i talebani. I soldati saranno dispiegati nel sud, in particolare nella provincia di Helmand, dove i talebani rappresentano una grossa minaccia.
I dodici comandamenti
Su questi dodici punti «prioritari e non negoziabili» i partiti dell'Unione si sono impegnati stasera ad appoggiare il Governo Prodi. Della serie: tutto quello su cui dovevamo essere d'accordo dall'inizio e non lo siamo mai stati. In ogni caso, il minimo che potesse fare Prodi era mettere nero su bianco una manciata di punti su cui vincolare in modo chiaro i partiti.
Alcuni punti (1, 3, 9, 10) sono abbastanza concreti da non dare adito ad equivoci. Altri sono fumosi e si prestano ad interpretazioni divergenti e anche contrastanti. «Riordino del sistema previdenziale», per fare un esempio, cosa significa? Abolizione dello scalone, o innalzamento dell'età pensionabile?
L'ultimo punto è un po' ridicolo. Ribadisce che in caso di contrasto l'ultima parola spetta al premier. Sembra ovvio, e ci sorprenderemmo se in Consiglio dei Ministri non fosse stato così dall'inizio. Ma in un sistema parlamentare, come si è visto, quello stesso premier cui spetta l'ultima parola può essere sfiduciato. Ed è questo il problema.
Sulla carta, seppure con le solite ambiguità, è stata delineata una certa intenzione riformatrice, dal connotato più centrista che liberale, ma è legittimo chiedersi come farà la sinistra comunista e massimalista, se non ci è riuscita finora, a non creare problemi a un Governo il cui asse da stasera e dai prossimi giorni potrebbe trovarsi un po' più al centro.
P.S. successone di Pannella e Boselli: mancano i "Dico", chiaramente affossati.
Alcuni punti (1, 3, 9, 10) sono abbastanza concreti da non dare adito ad equivoci. Altri sono fumosi e si prestano ad interpretazioni divergenti e anche contrastanti. «Riordino del sistema previdenziale», per fare un esempio, cosa significa? Abolizione dello scalone, o innalzamento dell'età pensionabile?
L'ultimo punto è un po' ridicolo. Ribadisce che in caso di contrasto l'ultima parola spetta al premier. Sembra ovvio, e ci sorprenderemmo se in Consiglio dei Ministri non fosse stato così dall'inizio. Ma in un sistema parlamentare, come si è visto, quello stesso premier cui spetta l'ultima parola può essere sfiduciato. Ed è questo il problema.
Sulla carta, seppure con le solite ambiguità, è stata delineata una certa intenzione riformatrice, dal connotato più centrista che liberale, ma è legittimo chiedersi come farà la sinistra comunista e massimalista, se non ci è riuscita finora, a non creare problemi a un Governo il cui asse da stasera e dai prossimi giorni potrebbe trovarsi un po' più al centro.
P.S. successone di Pannella e Boselli: mancano i "Dico", chiaramente affossati.
Thursday, February 22, 2007
E adesso? - Prima fase: l'accattonaggio
Ci stanno provando. La nocciolina buttata sul tavolo è un «allargamento della maggioranza ad altri singoli parlamentari». «Accattonaggio», lo bolla Capezzone. Tre-quattro senatori, tra cui Follini e l'autonomista Lombardo. Ma Lombardo ha già fatto sapere di non essere disponibile, Follini e Tabacci mirano alla scomposizione delle coalizioni e persino il senatore Pallaro annuncia che non voterebbe la fiducia. Casini si definisce «non raccattabile» e invoca una «nuova fase politica», che parta dalla consapevolezza che la formula "Ulivo + Sinistra comunista" non regge.
E pensare che sull'allargamento a singoli persino Rifondazione si era ammorbidita. «A condizione che sia sulla base del programma, ma no a governi di larghe intese o istituzionali», dichiarava Giordano. Identica la posizione di Diliberto.
Il Governo è caduto a causa della sinistra comunista e massimalista, ma non dal punto di vista numerico, quanto piuttosto da quello politico. Anche se i due senatori dissidenti avessero votato con la maggioranza non sarebbe stato sufficiente, perché nel contempo con la loro presenza si sarebbe alzato il quorum a 161. Determinanti, invece, i senatori a vita Andreotti e Pininfarina. E determinante, nella loro decisione di voto, la subalternità del Governo alla sinistra comunista, che è dunque causa politica, anche se non numerica, della crisi.
Subito è cominciata a circolare la voce del "complotto" Cossiga-Andreotti-Pininfarina. E' effettivamente curioso - emblematico - il fatto che i tre senatori a vita evochino altrettanti "poteri" entrati in conflitto con il Governo Prodi: Stati Uniti, Vaticano e Confindustria. Ma come giustamente osserva Massimo Franco, rimane «una versione suggestiva», e «un po' troppo di comodo», direi autoconsolatoria.
Ma quale congiura, quale complotto!? L'aula ha le sue dinamiche, il suo imponderabile, soprattutto quando gli argini numerici sono così ristretti. Qualche parola infelice, qualche intervento inopportuno, un certo clima, possono mutare le intenzioni di voto. Ed è una fortuna che sia così, altrimenti sarebbe davvero tutto già prestabilito a tavolino.
L'ostinazione di D'Alema nel voler sottolineare, durante la sua replica, la discontinuità della politica estera del Governo Prodi con quella di Berlusconi, solo per compiacere la sinistra comunista e pacifista, è stato l'elemento scatenante. Proprio nella continuità che aveva creduto di ravvisare nella relazione del ministro degli Esteri, il senatore Andreotti vedeva un motivo valido per dare il suo voto alla mozione della maggioranza.
Inoltre, le dichiarazioni di voto di numerosi senatori di sinistra - non solo Rossi e Turigliatto, e ben più di cinque - i quali, pur dicendosi decisamente contrari alla politica estera illustrata da D'Alema, erano pronti a votare "sì" solo perché non se la sentivano di prendersi la responsabilità di causare una crisi di governo che avrebbe potuto portare di nuovo "le destre" al governo, devono aver fatto il resto, spingendo Andreotti a decidere per un chiarimento.
E pensare che sull'allargamento a singoli persino Rifondazione si era ammorbidita. «A condizione che sia sulla base del programma, ma no a governi di larghe intese o istituzionali», dichiarava Giordano. Identica la posizione di Diliberto.
Il Governo è caduto a causa della sinistra comunista e massimalista, ma non dal punto di vista numerico, quanto piuttosto da quello politico. Anche se i due senatori dissidenti avessero votato con la maggioranza non sarebbe stato sufficiente, perché nel contempo con la loro presenza si sarebbe alzato il quorum a 161. Determinanti, invece, i senatori a vita Andreotti e Pininfarina. E determinante, nella loro decisione di voto, la subalternità del Governo alla sinistra comunista, che è dunque causa politica, anche se non numerica, della crisi.
Subito è cominciata a circolare la voce del "complotto" Cossiga-Andreotti-Pininfarina. E' effettivamente curioso - emblematico - il fatto che i tre senatori a vita evochino altrettanti "poteri" entrati in conflitto con il Governo Prodi: Stati Uniti, Vaticano e Confindustria. Ma come giustamente osserva Massimo Franco, rimane «una versione suggestiva», e «un po' troppo di comodo», direi autoconsolatoria.
Ma quale congiura, quale complotto!? L'aula ha le sue dinamiche, il suo imponderabile, soprattutto quando gli argini numerici sono così ristretti. Qualche parola infelice, qualche intervento inopportuno, un certo clima, possono mutare le intenzioni di voto. Ed è una fortuna che sia così, altrimenti sarebbe davvero tutto già prestabilito a tavolino.
L'ostinazione di D'Alema nel voler sottolineare, durante la sua replica, la discontinuità della politica estera del Governo Prodi con quella di Berlusconi, solo per compiacere la sinistra comunista e pacifista, è stato l'elemento scatenante. Proprio nella continuità che aveva creduto di ravvisare nella relazione del ministro degli Esteri, il senatore Andreotti vedeva un motivo valido per dare il suo voto alla mozione della maggioranza.
Inoltre, le dichiarazioni di voto di numerosi senatori di sinistra - non solo Rossi e Turigliatto, e ben più di cinque - i quali, pur dicendosi decisamente contrari alla politica estera illustrata da D'Alema, erano pronti a votare "sì" solo perché non se la sentivano di prendersi la responsabilità di causare una crisi di governo che avrebbe potuto portare di nuovo "le destre" al governo, devono aver fatto il resto, spingendo Andreotti a decidere per un chiarimento.
«Ho preso questa decisione perché, a cominciare da D'Alema, si era detto che la continuità non andasse riferita alla politica di Berlusconi. Si era ridotto tutto a pro o contro Berlusconi, quindi mi sono chiamato fuori».Casini ha già esposto il suo prezzo: la sua presenza «è incompatibile con la sinistra radicale». Ma non avendo i numeri l'Udc per sostituire quelli della sinistra comunista e massimalista, ciò vorrebbe dire «larghe intese» aperte anche a Forza Italia e An.
Wednesday, February 21, 2007
E adesso?
Da escludere elezioni anticipate (i parlamentari non hanno ancora maturato la pensione e sarebbe un bagno di sangue per il centrosinistra), sul tavolo rimangono due opzioni: Prodi bis o governo istituzionale. Più la prima che la seconda. Ricordiamo che i numeri non consentono di sostituire i voti della sinistra comunista, né della sola Rifondazione comunista, con dei pezzi dell'opposizione. Neanche i voti dei senatori dell'Udc basterebbero.
Dunque, dimissioni del Governo e nuovo incarico. Delle due l'una: o la stessa maggioranza darà la fiducia a un Prodi-bis, a questo punto ancora più fragile del primo (anche perché difficilmente ci sarà D'Alema alla Farnesina); oppure governo istituzionale presieduto da Franco Marini, attuale presidente del Senato, con scadenza a un anno e mezzo o due, soprattutto per varare una nuova legge elettorale.
Da registrare, a margine, la divergenza di vedute tra Pannella e Capezzone. Il primo, entrando a Palazzo Chigi, dichiara che «la soluzione migliore è quella di dare un nuovo incarico a Prodi», in ogni caso facendo in modo di «evitare che la sinistra "radicale" sia di nuovo nelle condizioni di poter affidare la responsabilità di governo al centrodestra»; Capezzone, invece, auspica «uno scatto, un salto di qualità politico. Occorrerebbe che le forze riformatrici sapessero costruire soluzioni nuove. Non paludi, non soluzioni pasticciate, ma intese limpide su obiettivi chiari». Cioè, un governo di larghe intese, non "istituzionale" ma politico, che si impegni però su alcuni obiettivi chiari. Tuttavia, non sembra questa l'aria che tira.
Divergenza di linea sempre negata da Pannella, ma evidente da mesi se si pensa non ai contenuti, ma all'approccio nei confronti del Governo Prodi.
Una cosa sembra certa. Adesso o tra non molto, Prodi è alla cenere.
Dunque, dimissioni del Governo e nuovo incarico. Delle due l'una: o la stessa maggioranza darà la fiducia a un Prodi-bis, a questo punto ancora più fragile del primo (anche perché difficilmente ci sarà D'Alema alla Farnesina); oppure governo istituzionale presieduto da Franco Marini, attuale presidente del Senato, con scadenza a un anno e mezzo o due, soprattutto per varare una nuova legge elettorale.
Da registrare, a margine, la divergenza di vedute tra Pannella e Capezzone. Il primo, entrando a Palazzo Chigi, dichiara che «la soluzione migliore è quella di dare un nuovo incarico a Prodi», in ogni caso facendo in modo di «evitare che la sinistra "radicale" sia di nuovo nelle condizioni di poter affidare la responsabilità di governo al centrodestra»; Capezzone, invece, auspica «uno scatto, un salto di qualità politico. Occorrerebbe che le forze riformatrici sapessero costruire soluzioni nuove. Non paludi, non soluzioni pasticciate, ma intese limpide su obiettivi chiari». Cioè, un governo di larghe intese, non "istituzionale" ma politico, che si impegni però su alcuni obiettivi chiari. Tuttavia, non sembra questa l'aria che tira.
Divergenza di linea sempre negata da Pannella, ma evidente da mesi se si pensa non ai contenuti, ma all'approccio nei confronti del Governo Prodi.
Una cosa sembra certa. Adesso o tra non molto, Prodi è alla cenere.
La notizia è che Blair c'è, e forse raddoppia
Blair ha annunciato oggi, alla Camera dei Comuni, il piano di ritiro dall'Iraq (video): 1.600 uomini «nei prossimi mesi». La presenza inglese nel sud del paese verrà quindi ridotta da 7.100 a 5.500 soldati. L'annuncio avviene in piena sintonia con Washington e con le autorità irachene che assumeranno il controllo della situazione sul campo.
La quale, essendo in questo momento relativamente tranquilla nella zona di competenza del contingente, nella regione di Bassora, permette al premier britannico di annunciare il ritiro con un problematico ma sostanziale mission accomplished. Il ritiro è reso possibile dal successo dell'operazione con la quale gli iracheni sono stati messi nelle condizioni di prendere il comando della sicurezza nella zona di Bassora. La situazione è «difficile e a volte pericolosa», ma il livello delle violenze è crollato e la ricostruzione è in corso. «Bassora non è come la vorremmo, ma il nuovo capitolo nella sua storia adesso può essere scritto dagli iracheni», ha detto Blair.
La permanenza degli altri 5.500 soldati britannici, tra cui ancora forze combattenti, durerà «tanto a lungo quanto sarà necessario, in base al lavoro da compiere». Contribuiranno a rendere sicure le vie di rifornimento e i confini con l'Iran, e sosterranno le forze di sicurezza irachene.
La notizia, forse, non sta tanto nel ritiro, ma nel fatto che sia «leggermente più lento del previsto» e, fanno sapere al Foreign Office, «se le condizioni peggioreranno il processo potrebbe essere ulteriormente rallentato». Il rientro dell'intero contingente è previsto per la fine del 2008, ma dipenderà anche dai nemici, ha avvertito Blair. Quindi, si tratta comunque di un piano graduale, cauto e pragmatico, che non esclude variazioni dei tempi se la situazione sul campo tornerà a peggiorare.
Malvino, ieri sera, nello sfidarmi a scrivere tempestivamente uno «sferzante editoriale», in cui trattassi Blair come Zapatero, «quando questi si macchiò dell'istessa viltà... tradimento alla causa della democrazia mondiale», dev'essere caduto vittima della disinformazione di Corriere.it, che fino a stamattina dava a intendere che in «poche settimane» Blair avrebbe ritirato l'intero contingente.
E' evidente, invece, che dal punto di vista politico dietro la decisione di Blair non c'è alcun ripensamento strategico sulla guerra in Iraq, né un'implicita sconfessione o critica nei confronti degli Stati Uniti. Anzi, non mi meraviglierei se questo annuncio preludesse a un maggiore impegno in Afghanistan.
La quale, essendo in questo momento relativamente tranquilla nella zona di competenza del contingente, nella regione di Bassora, permette al premier britannico di annunciare il ritiro con un problematico ma sostanziale mission accomplished. Il ritiro è reso possibile dal successo dell'operazione con la quale gli iracheni sono stati messi nelle condizioni di prendere il comando della sicurezza nella zona di Bassora. La situazione è «difficile e a volte pericolosa», ma il livello delle violenze è crollato e la ricostruzione è in corso. «Bassora non è come la vorremmo, ma il nuovo capitolo nella sua storia adesso può essere scritto dagli iracheni», ha detto Blair.
La permanenza degli altri 5.500 soldati britannici, tra cui ancora forze combattenti, durerà «tanto a lungo quanto sarà necessario, in base al lavoro da compiere». Contribuiranno a rendere sicure le vie di rifornimento e i confini con l'Iran, e sosterranno le forze di sicurezza irachene.
La notizia, forse, non sta tanto nel ritiro, ma nel fatto che sia «leggermente più lento del previsto» e, fanno sapere al Foreign Office, «se le condizioni peggioreranno il processo potrebbe essere ulteriormente rallentato». Il rientro dell'intero contingente è previsto per la fine del 2008, ma dipenderà anche dai nemici, ha avvertito Blair. Quindi, si tratta comunque di un piano graduale, cauto e pragmatico, che non esclude variazioni dei tempi se la situazione sul campo tornerà a peggiorare.
Malvino, ieri sera, nello sfidarmi a scrivere tempestivamente uno «sferzante editoriale», in cui trattassi Blair come Zapatero, «quando questi si macchiò dell'istessa viltà... tradimento alla causa della democrazia mondiale», dev'essere caduto vittima della disinformazione di Corriere.it, che fino a stamattina dava a intendere che in «poche settimane» Blair avrebbe ritirato l'intero contingente.
E' evidente, invece, che dal punto di vista politico dietro la decisione di Blair non c'è alcun ripensamento strategico sulla guerra in Iraq, né un'implicita sconfessione o critica nei confronti degli Stati Uniti. Anzi, non mi meraviglierei se questo annuncio preludesse a un maggiore impegno in Afghanistan.
A D'Alema riesce la quadratura del cerchio: anzi no!
UPDATE ore 14,49: inaspettatamente ciò che sembrava già tutto messo in sicurezza è franato. La mozione di sostegno alla politica estera del Governo non ha ottenuto il quorum per l'approvazione (160 voti): 158 sì, 136 no, 24 astenuti. Non trattandosi di un voto di fiducia il Governo non ha il dovere di dimettersi, ma questa seduta è stata preceduta dall'autorevole monito del ministro degli Esteri e vicepremier D'Alema: «Senza maggioranza tutti a casa».
La stabilità come unica misura della politica estera del Governo Prodi-D'Alema: non la stabilità internazionale, ma della maggioranza
Una relazione reticente e paludata quella con la quale D'Alema ha illustrato oggi al Senato (video) le linee di politica estera del Governo, che ha mal celato un accordo di massima preesistente con i partiti della sinistra comunista e anti-americana, persino sui toni e i contenuti del discorso del ministro degli Esteri.
D'Alema non è volato alto sui principi. Lo dimostra come ha affrontato le due questioni più controverse all'interno della maggioranza: il ritiro da Kabul «ci isolerebbe»; revocare la decisione sull'ampliamento della base militare di Vicenza «sarebbe un atto ostile nei confronti degli Usa». Atti dovuti per realismo più che per convinzioni ideali e scelte di fondo, così anche la permanenza in Afghanistan diventa un sacrificio in nome del solo "multilateralismo": ci sono tutti, quindi è giusto esserci anche noi.
Pur non volando sui principi, D'Alema è stato comunque acrobatico, dosando abilmente le parole d'ordine della demagogia pacifista e multilateralista, accentuando nei momenti opportuni l'intonazione della voce: l'europeismo, le missioni multinazionali, la cooperazione; la missione in Iraq «basata sulla menzogna»; la conferenza di pace per l'Afghanistan e l'aumento dell'impegno civile, perché «solo stando lì si può contribuire a lavorare per la pace»; il dialogo con i vicentini sulla base Usa.
Ha quindi offerto ai dissidenti della maggioranza molti argomenti per votare sì, ma alla fine, nella sua replica, si è anche permesso la sfrontatezza di sfidarli: «E' il momento delle assunzioni di responsabilità. Chi è favorevole voti sì, ma chi è contrario alla nostra politica estera voti contro. Ora serve chiarezza».
Contributo alla chiarezza l'intervento dell'ex presidente Cossiga: «Invito i senatori della sinistra radicale a votare sì, a sostenere il governo, soprattutto dopo quello che ha detto il ministro degli Esteri da ultimo. Lo dico io che voterò no a questa politica, perché è palese che il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e il ministro della Difesa, hanno le stesse posizioni della sinistra radicale ma per le funzioni che ricoprono non lo possono dichiarare esplicitamente». Insomma, la sinistra "radicale" dorma pure sonni tranquilli con questo governo, ha voluto dire.
La stabilità come unica misura della politica estera del Governo Prodi-D'Alema: non la stabilità internazionale, ma della maggioranza
Una relazione reticente e paludata quella con la quale D'Alema ha illustrato oggi al Senato (video) le linee di politica estera del Governo, che ha mal celato un accordo di massima preesistente con i partiti della sinistra comunista e anti-americana, persino sui toni e i contenuti del discorso del ministro degli Esteri.
D'Alema non è volato alto sui principi. Lo dimostra come ha affrontato le due questioni più controverse all'interno della maggioranza: il ritiro da Kabul «ci isolerebbe»; revocare la decisione sull'ampliamento della base militare di Vicenza «sarebbe un atto ostile nei confronti degli Usa». Atti dovuti per realismo più che per convinzioni ideali e scelte di fondo, così anche la permanenza in Afghanistan diventa un sacrificio in nome del solo "multilateralismo": ci sono tutti, quindi è giusto esserci anche noi.
Pur non volando sui principi, D'Alema è stato comunque acrobatico, dosando abilmente le parole d'ordine della demagogia pacifista e multilateralista, accentuando nei momenti opportuni l'intonazione della voce: l'europeismo, le missioni multinazionali, la cooperazione; la missione in Iraq «basata sulla menzogna»; la conferenza di pace per l'Afghanistan e l'aumento dell'impegno civile, perché «solo stando lì si può contribuire a lavorare per la pace»; il dialogo con i vicentini sulla base Usa.
Ha quindi offerto ai dissidenti della maggioranza molti argomenti per votare sì, ma alla fine, nella sua replica, si è anche permesso la sfrontatezza di sfidarli: «E' il momento delle assunzioni di responsabilità. Chi è favorevole voti sì, ma chi è contrario alla nostra politica estera voti contro. Ora serve chiarezza».
Contributo alla chiarezza l'intervento dell'ex presidente Cossiga: «Invito i senatori della sinistra radicale a votare sì, a sostenere il governo, soprattutto dopo quello che ha detto il ministro degli Esteri da ultimo. Lo dico io che voterò no a questa politica, perché è palese che il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e il ministro della Difesa, hanno le stesse posizioni della sinistra radicale ma per le funzioni che ricoprono non lo possono dichiarare esplicitamente». Insomma, la sinistra "radicale" dorma pure sonni tranquilli con questo governo, ha voluto dire.
Tuesday, February 20, 2007
Anti-concordatari, unitevi
Non solo radicali e socialisti. Gli anti-concordatari sono una parte minoritaria, ma non irrilevante come si crede. Nel mondo cattolico, per esempio, sono molti di più di quanto si creda. Bisogna solo che salti il tappo di conformismo. Anche nella Margherita è rimasto un drappello di liberali, tra i quali Valerio Zanone, che oggi ricorda come «quello del 1984 fu definito dai suoi sostenitori "l'ultimo Concordato", oltre il quale si sarebbe aperta la via della libertà senza privilegi...». Come tutti sappiamo, non è stato così... ancora.
E rimprovera al Manifesto per il Partito democratico, nel quale al Concordato viene tributato un significativo riconoscimento: «... se si vuole abbattere i vecchi steccati e progettare il futuro, non si comprende perché il programma del partito futuro debba trasmettere alla nuova generazione l'ipoteca stipulata da Mussolini nel 1929; fatta propria da Togliatti nel 1947 con quell'articolo 7 che fu definito da Croce "un errore logico e uno scandalo giuridico"...»
Persino un teocon come Marcello Pera, forse preda di una reminiscenza "americana", in un suo intervento su il Giornale avverte che la logica concordataria «mentre abbassa lo Stato da ordinamento pienamente sovrano a semplice ordine che si compone con un altro, trasforma la Chiesa proprio in un ordine, cioè in una istituzione temporale, in un potere politico che tratta e contratta».
Tra i cattolici Vittorio Messori e il vaticanista Giancarlo Zizola, che oggi su l'Unità definisce «opportuna una fase di revisione concordataria», ritenendo che la Chiesa debba «epurare ogni residuo di temporalismo».
Pur di «non confessare la propria diminuita capacità di testimoniare, ci si trova di fronte a questo paradosso della "ricristianizzazione" dell'Italia a forza di decreti legge».
E rimprovera al Manifesto per il Partito democratico, nel quale al Concordato viene tributato un significativo riconoscimento: «... se si vuole abbattere i vecchi steccati e progettare il futuro, non si comprende perché il programma del partito futuro debba trasmettere alla nuova generazione l'ipoteca stipulata da Mussolini nel 1929; fatta propria da Togliatti nel 1947 con quell'articolo 7 che fu definito da Croce "un errore logico e uno scandalo giuridico"...»
Persino un teocon come Marcello Pera, forse preda di una reminiscenza "americana", in un suo intervento su il Giornale avverte che la logica concordataria «mentre abbassa lo Stato da ordinamento pienamente sovrano a semplice ordine che si compone con un altro, trasforma la Chiesa proprio in un ordine, cioè in una istituzione temporale, in un potere politico che tratta e contratta».
Tra i cattolici Vittorio Messori e il vaticanista Giancarlo Zizola, che oggi su l'Unità definisce «opportuna una fase di revisione concordataria», ritenendo che la Chiesa debba «epurare ogni residuo di temporalismo».
«L'ambito religioso e quello politico non devono sovrapporsi, perché in questo modo si mette a rischio la missione di una chiesa che deve essere prima di tutto chiesa, e non "chiesa di Stato"».Un cattolico liberale come Antonio Rosmini, ricorda Zizola, «riteneva che la chiesa non avesse bisogno di potere e privilegi, ma solo di libertà». Invece, nel ricorso a «mezzi impropri», politici e lobbistici, il vaticanista vede il segno di una crisi della Chiesa, «la difficoltà, in questo momento, di andare oltre una rimasticatura sull'etica o su paradigmi pre-scientifici... Ci si concentra in un tentativo di pressione per provare a sfondare sul piano politico, tralasciando le vie lunghe della testimonianza. È anche un indice di una difficoltà interna. Tramutare la perdita di flusso nella morale corrente, in una pressione sul pubblico, sulla politica, sugli strumenti concordatari».
Pur di «non confessare la propria diminuita capacità di testimoniare, ci si trova di fronte a questo paradosso della "ricristianizzazione" dell'Italia a forza di decreti legge».
I confini della laicità...
Parole chiare, come al solito, quelle di Gian Enrico Rusconi, che oggi, su La Stampa, avverte come alla luce delle pressioni della Chiesa sui "Dico", «a partire da un certo momento, nella sfera pubblica, non c'è più ricerca di intesa ma strategie miranti ad imporre il riconoscimento delle proprie convinzioni». E «non dovrebbe essere così», perché «lo Stato è laico proprio perché non pretende dai cittadini identità di credenze in campo etico-religioso, ma reciproco rispetto e considerazione dei differenti convincimenti, sempre aperti al confronto. Il laico accetta una certa dissimmetria tra moralità privata ed etica pubblica; ammette che i propri criteri morali e di giudizio non coincidono e non esauriscono i criteri di moralità e di giudizio di altri, ed evita valutazioni che diffamano moralmente chi la pensa in modo diverso. La diffamazione morale di comportamenti difformi, che non siano lesivi della libertà altrui, è virtualmente una minaccia alla democrazia».
Questa osservazione non significa che si sta negando «il diritto del credente di far valere le sue convinzioni secondo la logica della cittadinanza democratica». Quotidianamente il credente «che si attiene alle indicazioni della Chiesa, avanza la richiesta che la sua verità (sui temi della famiglia, ad esempio) sia riconosciuta come momento costitutivo della sua stessa identità di cittadino, sotto pena di sottrarre al sistema politico la sua lealtà». Di fronte a questa richiesta il laico «deve innanzitutto ribadire il principio secondo cui il credente può introdurre nel discorso pubblico, e quindi nel processo deliberativo, tesi che non disconoscano e non limitino l'autonomia di giudizio e comportamento degli altri cittadini che hanno convinzioni diverse o contrarie dalle sue».
«Naturalmente - ricorda Rusconi - vale anche il reciproco. Ma quando il credente-di-chiesa si atteggia, talvolta, a vittima e protesta di essere discriminato nell'esercizio del suo diritto di costruire una "società buona" secondo i suoi criteri, dovrebbe innanzitutto ricordare che l'edificio politico-legislativo delle società democratiche e secolarizzate, in cui vive, non lede in nulla l'autonomia, la libertà di espressione, di pratica e di testimonianza del suo credere». Certo, in una democrazia laica «tutti i cittadini, credenti, non credenti e diversamente credenti confrontano i loro argomenti, affermano le loro identità e rivendicano il diritto di orientare liberamente la loro vita», ma «senza ledere l'analogo diritto degli altri». Un equilibrio «difficile», garantito da un insieme di procedure decisionali volte a «impedire il prevalere autoritativo di talune pretese di verità o di comportamento su altre».
Questa osservazione non significa che si sta negando «il diritto del credente di far valere le sue convinzioni secondo la logica della cittadinanza democratica». Quotidianamente il credente «che si attiene alle indicazioni della Chiesa, avanza la richiesta che la sua verità (sui temi della famiglia, ad esempio) sia riconosciuta come momento costitutivo della sua stessa identità di cittadino, sotto pena di sottrarre al sistema politico la sua lealtà». Di fronte a questa richiesta il laico «deve innanzitutto ribadire il principio secondo cui il credente può introdurre nel discorso pubblico, e quindi nel processo deliberativo, tesi che non disconoscano e non limitino l'autonomia di giudizio e comportamento degli altri cittadini che hanno convinzioni diverse o contrarie dalle sue».
«Naturalmente - ricorda Rusconi - vale anche il reciproco. Ma quando il credente-di-chiesa si atteggia, talvolta, a vittima e protesta di essere discriminato nell'esercizio del suo diritto di costruire una "società buona" secondo i suoi criteri, dovrebbe innanzitutto ricordare che l'edificio politico-legislativo delle società democratiche e secolarizzate, in cui vive, non lede in nulla l'autonomia, la libertà di espressione, di pratica e di testimonianza del suo credere». Certo, in una democrazia laica «tutti i cittadini, credenti, non credenti e diversamente credenti confrontano i loro argomenti, affermano le loro identità e rivendicano il diritto di orientare liberamente la loro vita», ma «senza ledere l'analogo diritto degli altri». Un equilibrio «difficile», garantito da un insieme di procedure decisionali volte a «impedire il prevalere autoritativo di talune pretese di verità o di comportamento su altre».
Quel velo di paura che ci impedisce di vedere i fatti
Splendida riflessione di Luca Ricolfi sulla umana (e diabolica) «necessità assoluta di erigere una barriera verso i fatti, verso la verità, verso la conoscenza diretta dell'altro, sia esso una persona, un movimento, una comunità, o semplicemente una proposta politica. Se mi informo, se ascolto, se dialogo, se guardo con i miei occhi, allora metto a repentaglio le mie credenze, le mie convinzioni, i miei ideali... Vogliamo salvare tutto dei nostri miti, per riuscirci ci sentiamo costretti a nascondere i fatti, infine da questo disprezzo della verità facciamo scaturire le più orrende tragedie. Che alimentano altri miti, altri demoni, altre tragedie. È possibile uscirne?»
Più di Blair poté la Thatcher
Giudizio avventato o intuizione "bruciante", quella di Marcello Sorgi sul blairismo? Lo sapremo fra qualche anno.
«La sensazione è che più che dalle riforme scolastiche pensate dai "professorini" dei "think-tank" blairiani, la vera spinta alla mobilità sociale della Vecchia Inghilterra sia venuta prima, dalla durissima ristrutturazione economica e sindacale imposta dalla Thatcher nei suoi sedici anni. Quella politica della "Lady di ferro", guardata con sospetto in Europa, quando non considerata con disprezzo "macelleria sociale", ha invece prodotto una scossa vitale in tutte le componenti della società inglese. E in questo senso, si scoprirà dopo, Blair e i suoi, dieci anni fa, hanno trovato la strada spianata».
Mathieu doppia versione
Strana intervista quella di Repubblica, ieri, al filosofo Vittorio Mathieu, uno dei firmatari del controppello di Ferrara ai vescovi italiani: «Non vedo il pericolo che la Chiesa eserciti una coercizione sulla politica. I deputati, per loro natura, non hanno vincolo di mandato. Se la Chiesa dicesse: vota in un certo modo, altrimenti è peccato o sei scomunicato, sarebbe controproducente».
Viene da chiedersi dove abbia vissuto il signor Mathieu negli ultimi anni. La Chiesa sta esattamente dicendo ai parlamentari di votare «in un certo modo», altrimenti (alla scomunica ancora non ci sono arrivati) si commette un «atto gravemente immorale». Mathieu stesso, non un laicista, definisce inopportuna una simile circostanza. Ma si tratta dello stesso Mathieu che ha firmato il contrappello di Ferrara e Socci? Avrà sbagliato appello... forse doveva firmare quello dei cattolici democratici.
Inoltre, rivela un particolare inquietante. Al giornalista che gli chiede se non ritenga singolare che in Italia, appena si critica il pontefice, ci sia «una schiera di politici che gridano: si vuole tappare la bocca al Papa», risponde così:
Viene da chiedersi dove abbia vissuto il signor Mathieu negli ultimi anni. La Chiesa sta esattamente dicendo ai parlamentari di votare «in un certo modo», altrimenti (alla scomunica ancora non ci sono arrivati) si commette un «atto gravemente immorale». Mathieu stesso, non un laicista, definisce inopportuna una simile circostanza. Ma si tratta dello stesso Mathieu che ha firmato il contrappello di Ferrara e Socci? Avrà sbagliato appello... forse doveva firmare quello dei cattolici democratici.
Inoltre, rivela un particolare inquietante. Al giornalista che gli chiede se non ritenga singolare che in Italia, appena si critica il pontefice, ci sia «una schiera di politici che gridano: si vuole tappare la bocca al Papa», risponde così:
«Un po' meraviglia anche me. In Italia c'è forse una sensibilità eccessiva. Mi ricordo che una volta un mio articolo al Giornale fu tagliato per un accenno di critica al Papa. "Ragioni di spazio", mi dissero. Non era vero. Poi confessarono che la gente protestava se si criticava il pontefice. C'era più libertà con Dante, che definiva Bonifacio XVIII "principe dei nuovi farisei"».Punto e a capo.
Monday, February 19, 2007
Ernesto Rossi, i Radicali e il Pci
Si è sviluppato su Notizie Radicali un interessante dibattito sull'eredità storica e politica di Ernesto Rossi, di cui giorni fa ricorreva il 40° anniversario della morte.
A polemizzare con Bandinelli e Vecellio è il prof. Pier Vincenzo Uleri, al quale non è piaciuta la letterina di Bandinelli a Il Foglio, nella quale veniva declassato a «volatile commemorazione» un incontro tenutosi a Firenze con gli autori di tre libri sulla figura di Rossi. Dunque, ha duramente replicato:
Insomma, al di là degli screzi, la questione centrale sembra politica: i rapporti dei Radicali con il Pci. Premetto che non sono uno storico e non conosco approfonditamente il pensiero e le vicende politiche di Rossi, ma non mi sembra questione da poco, visto che Ernesto Rossi scriveva:
Terminillo (Rieti) 5 agosto 1963 - Caro Pannella,... condivido quasi tutte le vostre idee: ma io sono molto più preoccupato di quanto non dimostriate di esserlo voi, di non "lavorare per il re di Prussia". I dirigenti comunisti se ne fregano dei principi dell'89; se ne fregano della difesa dello stato laico, non hanno un attimo di esitazione a seminarci per la strada se viene una nuova parola d'ordine da Mosca: sono i "gesuiti moderni": il loro unico, vero, permanente obiettivo è la grandezza della Chiesa (della Urss). (...) "Si può anche mangiare la zuppa col diavolo - dicono gli inglesi - ma occorre adoperare un cucchiaio col manico molto lungo". Mi pare che voi non teniate sempre conto sufficiente di questa esigenza: fate troppo credito alla buona fede democratica dei dirigenti comunisti. In tutti i modi non è per questo motivo che non me la sento di accettare il Suo cortese invito di sfogarmi sul bollettino di Agenzia Radicale. ... Anche questa volta avete fatto il passo più lungo della gamba. Non vorrei dispiacere a Parri e a Piccardi, dando la mia collaborazione ad un bollettino che puo far nascere equivoci per il simbolo e per la parola "radicale" che continua ad usare. (...)
Ernesto Rossi
Parole superate, direte voi, dopo la caduta del Muro nell'89 e la fine dell'Urss. I dirigenti oggi ex comunisti non hanno più «parole d'ordine da Mosca», né come obiettivo la «grandezza della Chiesa Urss». Eppure... eppure qualche cosa non torna. E non torna perché non è un caso se il Presidente Napolitano, credendo di fare un'apertura saggia e ragionevole, non ha suggerito di «tener conto», nella stesura della legge sui Dico, delle preoccupazioni dei cittadini italiani di religione cattolica, ma di quelle «espresse dal Pontefice e dalle alte gerarchie». E' la logica dell'art. 7 della Costituzione, del togliattiano "non si governa contro la Chiesa", ad essere inscritto nel Dna pcista.
Anche oggi gli ex comunisti si mettono facilmente d'accordo con la ex sinistra democristiana quando si tratta di mortificare il pensiero laico e liberale. In economia come sui diritti civili. E' questo, ancora e sempre di più, il problema italiano.
Nonostante siano mutate le condizioni storiche che suggerirono a Rossi quel pessimismo, gli eredi diretti di quel Pci «se ne fregano» ancora della difesa dello Stato laico, si dimostrano ancora i «gesuiti moderni», si barcamenano tra le domande di maggiore libertà personale che provengono da una società secolarizzata e in veloce evoluzione da una parte, e le «preoccupazioni», i diktat, che giungono dalle gerarchie ecclesiastiche dall'altra. Avendo a che fare con entrambe in modo strumentale. Continuano a considerare le libertà dei cittadini e la laicità dello Stato come «sovrastrutture» sacrificabili di fronte alla necessità, che risponde a una mera logica di potere, di riuscire nella riedizione della sola formula oligarchica che li può proiettare al governo del paese: quella del compromesso storico catto-comunista.
Come dimostrano limpidamente un editoriale di Ezio Mauro e altri interventi di qualche giorno fa, la loro unica preoccupazione è non far saltare «l'alleanza tra i cattolici democratici e gli ex comunisti che è al centro della storia dell'Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico». Se oggi la Chiesa "scomunica" i cattolici democratici e passa "a destra", loro che se ne fanno? Come recuperano l'aggancio ai "mondi" e ai "poteri cattolici"?
Probabilmente Ernesto Rossi non immaginava il disfacimento dell'Urss e a ragione non si fidava di condividere il fronte della difesa dello Stato laico con i comunisti, il cui pensiero strettamente dogmatico era per definizione in antitesi con la laicità. Ma chi l'avrebbe mai detto che in Italia neanche vent'anni dopo il 1989 saremmo riusciti ad avere una sinistra moderna, laica, liberale? Era la strada che Pannella può rivendicare di aver indicato a Togliatti e al Pci fin dalla lettera aperta a Paese Sera, e per tutti questi decenni fino al progetto della Rosa nel Pugno. Eppure, ancora oggi, sembra non esserci niente da fare.
All'ultimo Comitato di Radicali italiani, nel mio intervento mi sono permesso, in un passaggio colpevolmente superficiale, di evocare una lettura sugli anni '60 e '70: «Mentre conquistavamo il divorzio e l'aborto si stava di fatto socializzando l'economia e dilatando a dismisura il debito pubblico, ponendo le basi per il definitivo rafforzamento del regime partitocratico». Nazionalizzazioni, casse integrazione e "socializzazioni delle perdite", carrozzoni burocratici e Statuto dei lavoratori. Fatti realmente accaduti, nonostante i radicali, fedeli alla lezione di Ernesto Rossi, già allora non mancavano di denunciarli.
Dunque, fu da ingenui scommettere che dalle battaglie per i diritti civili potesse emergere un rapporto con i comunisti volto alla costruzione di una nuova sinistra, democratica, laica e liberale? Piuttosto che riuscire a riformare la "vecchia" sinistra, la straordinaria e per molti versi contraddittoria mobilitazione per i diritti civili fu egemonizzata dal Pci, che arrivò per ultimo e in modo strumentale su quel fronte, ma finì col metterci sopra il suo cappello, secondo il metodo, consolidato tra i partiti comunisti, dell'assimilare per neutralizzare.
Quella di Pannella e dei radicali è la storia della costante ricerca, da coerenti anticomunisti democratici, da una parte di parlare con il "popolo della sinistra", per smascherare un Pci che rappresentava quel popolo contraddicendone le istanze reali di modernità, e dall'altra di interloquire con gli stessi vertici comunisti sempre perseguendo l'obiettivo di una rigenerazione in senso democratico e liberale della sinistra.
Da parte del Pci - poi Pds e Ds - fin dagli anni '60 è proseguito invece il riflesso dell'annientamento dell'immagine e della conoscenza dei radicali, proprio per la sintonia potenziale che avrebbero potuto avere con il "popolo della sinistra", cui è stata sempre trasmessa nient'altro che demonizzazione nei confronti dei liberali, degli Einaudi, dei Rossi.
Fu davvero troppo corto, quindi, il manico di quel cucchiaio di cui parlava Ernesto Rossi nella lettera del '63? Si è lavorato "per il re di Prussia"?
L'ultimo tentativo, quello della Rosa nel Pugno, cui è stato "concesso" di aggregarsi all'Unione per inglobare quel 2% di voto radicale necessario a vincere le elezioni, è stato stroncato dai Ds, sia manovrando contro di essa i congegni elettoralistici, sia avvalendosi della pusillaminità dello Sdi. Delle cronache di questi giorni fanno parte il fragile e sbiadito compromesso dei Dico, le uscite "togliattiane" e filo-concordatarie di Napolitano e Fassino, i Nicola Rossi e i Debenedetti con il loro «sogno di una sinistra liberale già finito», il cinismo e il realismo della politica estera dalemiana.
Oggi che i radicali condividono responsabilità di governo con la vecchia sinistra di sempre, esposti al logoramento e all'ulteriore erosione del loro elettorato a causa di condizioni loro imposte soprattutto da Prodi e dai Ds, non c'è il concreto rischio, dopo decenni di tenace "ricerca", di fare la fine dei menscevichi? Volendo tirare delle conclusioni, viene da chiedersi, con il prof. Uleri: «Col senno del prima e del poi, avevano ragione Mario Pannunzio, Rossi e l'anonimo autore di un fondo de "Il Mondo" titolato "L'alleanza dei cretini", o Pannella, Spadaccia, Bandinelli etc. etc?»
P.S. All'intervento di Uleri, Bandinelli ha reagito con intellettuale distacco, Vecellio con una replica sprezzante. Spadaccia, invece, inviando una sua vecchia relazione. Poco abituati a ricevere solide obiezioni come quella di Uleri?
A polemizzare con Bandinelli e Vecellio è il prof. Pier Vincenzo Uleri, al quale non è piaciuta la letterina di Bandinelli a Il Foglio, nella quale veniva declassato a «volatile commemorazione» un incontro tenutosi a Firenze con gli autori di tre libri sulla figura di Rossi. Dunque, ha duramente replicato:
«Non mi convince l'idea di Bandinelli secondo la quale le iniziative dei Radicali sarebbero un quotidiano "approfondimento... fedele delle battaglie di quel grande maestro" per cui non sarebbe necessario e utile organizzare incontri per ricordare e ripensare la figura del maestro. Non ho titolo per giudicare se sia vero che le battaglie dei Radicali sono un "fedele... approfondimento", ma temo che sia solo un modo per mettere la bandiera del Partito Radicale sulla figura e la memoria di Ernesto Rossi».A Vecellio, invece, fa notare che «non ha davvero alcuna rilevanza storica e politica sapere oggi cosa si dissero Rossi, Marco Pannella e Gianfranco Spadaccia sul Terminillo». Piuttosto, osserva Uleri, «sarebbe necessario discutere del come e perché Rossi non aderì al Partito Radicale di Pannella, Bandinelli, dei fratelli Aloisio e Giuliano Rendi, Spadaccia, Sergio Stanzani, Massimo Teodori etc. etc.; una o più ragioni (giuste o sbagliate) ci saranno pure state. E se nel 1963, a distanza di quattro anni dalla lettera di Pannella a "Paese Sera", Rossi ritorna sulla questione della prospettiva dei rapporti tra Radicali e Pci (esprimendo la preoccupazione "di non lavorare per il re di Prussia"), una ragione ci sarà pure stata».
Insomma, al di là degli screzi, la questione centrale sembra politica: i rapporti dei Radicali con il Pci. Premetto che non sono uno storico e non conosco approfonditamente il pensiero e le vicende politiche di Rossi, ma non mi sembra questione da poco, visto che Ernesto Rossi scriveva:
Terminillo (Rieti) 5 agosto 1963 - Caro Pannella,... condivido quasi tutte le vostre idee: ma io sono molto più preoccupato di quanto non dimostriate di esserlo voi, di non "lavorare per il re di Prussia". I dirigenti comunisti se ne fregano dei principi dell'89; se ne fregano della difesa dello stato laico, non hanno un attimo di esitazione a seminarci per la strada se viene una nuova parola d'ordine da Mosca: sono i "gesuiti moderni": il loro unico, vero, permanente obiettivo è la grandezza della Chiesa (della Urss). (...) "Si può anche mangiare la zuppa col diavolo - dicono gli inglesi - ma occorre adoperare un cucchiaio col manico molto lungo". Mi pare che voi non teniate sempre conto sufficiente di questa esigenza: fate troppo credito alla buona fede democratica dei dirigenti comunisti. In tutti i modi non è per questo motivo che non me la sento di accettare il Suo cortese invito di sfogarmi sul bollettino di Agenzia Radicale. ... Anche questa volta avete fatto il passo più lungo della gamba. Non vorrei dispiacere a Parri e a Piccardi, dando la mia collaborazione ad un bollettino che puo far nascere equivoci per il simbolo e per la parola "radicale" che continua ad usare. (...)
Ernesto Rossi
Parole superate, direte voi, dopo la caduta del Muro nell'89 e la fine dell'Urss. I dirigenti oggi ex comunisti non hanno più «parole d'ordine da Mosca», né come obiettivo la «grandezza della Chiesa Urss». Eppure... eppure qualche cosa non torna. E non torna perché non è un caso se il Presidente Napolitano, credendo di fare un'apertura saggia e ragionevole, non ha suggerito di «tener conto», nella stesura della legge sui Dico, delle preoccupazioni dei cittadini italiani di religione cattolica, ma di quelle «espresse dal Pontefice e dalle alte gerarchie». E' la logica dell'art. 7 della Costituzione, del togliattiano "non si governa contro la Chiesa", ad essere inscritto nel Dna pcista.
«Non si riesce a governare se non siamo scelti dalla Chiesa e dalla Dc. Se facciamo polemiche troppo gravi li compattiamo, le loro differenze non esplodono».Da questa logica è del tutto assente - anche se così, spesso, ci viene presentata - il proposito di non "spaccare" l'Italia tra laici e cattolici, di preservare la coesione della società italiana come se fosse un valore assoluto, come se lo richiedesse una sorta di responsabilità istituzionale nei confronti dell'unità repubblicana. Si tratta, invece, di un compromesso di potere tra "poteri".
Anche oggi gli ex comunisti si mettono facilmente d'accordo con la ex sinistra democristiana quando si tratta di mortificare il pensiero laico e liberale. In economia come sui diritti civili. E' questo, ancora e sempre di più, il problema italiano.
Nonostante siano mutate le condizioni storiche che suggerirono a Rossi quel pessimismo, gli eredi diretti di quel Pci «se ne fregano» ancora della difesa dello Stato laico, si dimostrano ancora i «gesuiti moderni», si barcamenano tra le domande di maggiore libertà personale che provengono da una società secolarizzata e in veloce evoluzione da una parte, e le «preoccupazioni», i diktat, che giungono dalle gerarchie ecclesiastiche dall'altra. Avendo a che fare con entrambe in modo strumentale. Continuano a considerare le libertà dei cittadini e la laicità dello Stato come «sovrastrutture» sacrificabili di fronte alla necessità, che risponde a una mera logica di potere, di riuscire nella riedizione della sola formula oligarchica che li può proiettare al governo del paese: quella del compromesso storico catto-comunista.
Come dimostrano limpidamente un editoriale di Ezio Mauro e altri interventi di qualche giorno fa, la loro unica preoccupazione è non far saltare «l'alleanza tra i cattolici democratici e gli ex comunisti che è al centro della storia dell'Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico». Se oggi la Chiesa "scomunica" i cattolici democratici e passa "a destra", loro che se ne fanno? Come recuperano l'aggancio ai "mondi" e ai "poteri cattolici"?
Probabilmente Ernesto Rossi non immaginava il disfacimento dell'Urss e a ragione non si fidava di condividere il fronte della difesa dello Stato laico con i comunisti, il cui pensiero strettamente dogmatico era per definizione in antitesi con la laicità. Ma chi l'avrebbe mai detto che in Italia neanche vent'anni dopo il 1989 saremmo riusciti ad avere una sinistra moderna, laica, liberale? Era la strada che Pannella può rivendicare di aver indicato a Togliatti e al Pci fin dalla lettera aperta a Paese Sera, e per tutti questi decenni fino al progetto della Rosa nel Pugno. Eppure, ancora oggi, sembra non esserci niente da fare.
All'ultimo Comitato di Radicali italiani, nel mio intervento mi sono permesso, in un passaggio colpevolmente superficiale, di evocare una lettura sugli anni '60 e '70: «Mentre conquistavamo il divorzio e l'aborto si stava di fatto socializzando l'economia e dilatando a dismisura il debito pubblico, ponendo le basi per il definitivo rafforzamento del regime partitocratico». Nazionalizzazioni, casse integrazione e "socializzazioni delle perdite", carrozzoni burocratici e Statuto dei lavoratori. Fatti realmente accaduti, nonostante i radicali, fedeli alla lezione di Ernesto Rossi, già allora non mancavano di denunciarli.
Dunque, fu da ingenui scommettere che dalle battaglie per i diritti civili potesse emergere un rapporto con i comunisti volto alla costruzione di una nuova sinistra, democratica, laica e liberale? Piuttosto che riuscire a riformare la "vecchia" sinistra, la straordinaria e per molti versi contraddittoria mobilitazione per i diritti civili fu egemonizzata dal Pci, che arrivò per ultimo e in modo strumentale su quel fronte, ma finì col metterci sopra il suo cappello, secondo il metodo, consolidato tra i partiti comunisti, dell'assimilare per neutralizzare.
Quella di Pannella e dei radicali è la storia della costante ricerca, da coerenti anticomunisti democratici, da una parte di parlare con il "popolo della sinistra", per smascherare un Pci che rappresentava quel popolo contraddicendone le istanze reali di modernità, e dall'altra di interloquire con gli stessi vertici comunisti sempre perseguendo l'obiettivo di una rigenerazione in senso democratico e liberale della sinistra.
Da parte del Pci - poi Pds e Ds - fin dagli anni '60 è proseguito invece il riflesso dell'annientamento dell'immagine e della conoscenza dei radicali, proprio per la sintonia potenziale che avrebbero potuto avere con il "popolo della sinistra", cui è stata sempre trasmessa nient'altro che demonizzazione nei confronti dei liberali, degli Einaudi, dei Rossi.
Fu davvero troppo corto, quindi, il manico di quel cucchiaio di cui parlava Ernesto Rossi nella lettera del '63? Si è lavorato "per il re di Prussia"?
L'ultimo tentativo, quello della Rosa nel Pugno, cui è stato "concesso" di aggregarsi all'Unione per inglobare quel 2% di voto radicale necessario a vincere le elezioni, è stato stroncato dai Ds, sia manovrando contro di essa i congegni elettoralistici, sia avvalendosi della pusillaminità dello Sdi. Delle cronache di questi giorni fanno parte il fragile e sbiadito compromesso dei Dico, le uscite "togliattiane" e filo-concordatarie di Napolitano e Fassino, i Nicola Rossi e i Debenedetti con il loro «sogno di una sinistra liberale già finito», il cinismo e il realismo della politica estera dalemiana.
Oggi che i radicali condividono responsabilità di governo con la vecchia sinistra di sempre, esposti al logoramento e all'ulteriore erosione del loro elettorato a causa di condizioni loro imposte soprattutto da Prodi e dai Ds, non c'è il concreto rischio, dopo decenni di tenace "ricerca", di fare la fine dei menscevichi? Volendo tirare delle conclusioni, viene da chiedersi, con il prof. Uleri: «Col senno del prima e del poi, avevano ragione Mario Pannunzio, Rossi e l'anonimo autore di un fondo de "Il Mondo" titolato "L'alleanza dei cretini", o Pannella, Spadaccia, Bandinelli etc. etc?»
P.S. All'intervento di Uleri, Bandinelli ha reagito con intellettuale distacco, Vecellio con una replica sprezzante. Spadaccia, invece, inviando una sua vecchia relazione. Poco abituati a ricevere solide obiezioni come quella di Uleri?
Saturday, February 17, 2007
Il vestito a taglia unica di Stato sta sempre più stretto
Che splendidi liberal-conservatori Ostellino e Martino. Nel senso migliore del termine, non come quel reazionario di Pera.
«Che cosa sono i Dico?». Se lo chiede Piero Ostellino oggi nella sua column sul Corriere.
Direi ineccepibili parole, ma a parlare sono liberal-conservatori. Sarei pronto a sottoscriverle, ma come si fa - chiedo - a non vedere che prim'ancora che nei Dico sta nell'istituto del matrimonio civile la «luciferina presunzione di imporre a tutti un vestito della stessa taglia»? E a non vedere che è quella "taglia unica" che oggi sta stretta sempre a più cittadini? Perché Ostellino e Martino non chiedono che lo Stato faccia un passo indietro dagli affari di famiglia e lasci agli interessati piena libertà contrattuale anche nel matrimonio?
In che misura il loro - nell'escludere il matrimonio, come istituto riconosciuto e regolato dallo Stato, dal loro ragionamento - può essere definito un riflesso conservatore? Come risolverebbero, da liberali, il problema delle coppie omosessuali, che a differenza di quelle etero non potrebbero neanche contrarre matrimonio? Non vedono alcuna discriminazione in questo?
Se i matrimoni sono in calo e le coppie che scelgono la convivenza aumentano esponenzialmente, forse l'istituto giuridico "matrimonio", con il progressivo mutare della società, è divenuto troppo rigido, o comunque è percepito come tale. Il problema sorge proprio dal fatto che già oggi viene imposto a tutti «un vestito della stessa taglia»! Non i Dico, ma il matrimonio tradizionale. Ed è comprensibile che le nuove coppie di conviventi si sentano discriminate e reclamino di essere riconosciute. Esercitano la libertà contrattuale invocata da Ostellino e Martino, rinnovandola quotidianamente, ma per lo Stato quei contratti non valgono nulla rispetto al "vestito a taglia unica" del matrimonio civile. Dunque, con quell'istituto «l'intrusione dello Stato negli affari privati degli Individui» è già una realtà. E' quell'intervento il "peccato originale", la fonte delle discriminazioni a cui oggi si chiede di porre rimedio.
Ed è la concezione assistenziale di un welfare rivolto alle categorie e non ai singoli individui in difficoltà che come discriminazione "in positivo" finisce per creare conflitti anziché risolverli.
Quel vestito sta stretto a sempre più cittadini nella nostra società di oggi. Dunque, o se ne creano di taglie diverse, o si permette a ciascuno di farselo su misura, senza una taglia unica di Stato. Si tratterebbe di "privatizzare" il matrimonio e ogni forma di convivenza, come sostengo nel mio articolo «Pacs, un approccio libertario», pubblicato su LibMagazine, e come spiegava Stefano Magni alcune settimane fa su L'Opinione.
«Che cosa sono i Dico?». Se lo chiede Piero Ostellino oggi nella sua column sul Corriere.
«Per un liberale, sono un'intrusione dello Stato negli affari privati degli Individui. Sono un'ulteriore manifestazione della vocazione collettivista, comunitaria, antindividualista della cultura politica nazionale che ha le sue radici nella stessa Costituzione della Repubblica. Sono la prova che i cittadini sono sempre percepiti come "comunità" invece che come singoli Individui. Sono la testimonianza dell'incapacità di una parte della classe politica di riconoscere il pluralismo, la soggettività, la diversità dei casi della vita. Sono la sua inclinazione a ridurre pluralismo, soggettività, diversità a omogeneità e a omologazione. I Dico non sono un allargamento degli ambiti di libertà. Sono piuttosto il misconoscimento dell'autonoma libertà di scelta individuale in nome del populismo e del paternalismo di Stato».E così Antonio Martino, su Libero, al quale si associa Ostellino:
«Non vedo proprio perché tutti i casi possibili di non matrimonio debbano essere regolamentati per legge... Ritengo che queste situazioni, tutte quelle possibili e che non ricadono certo sotto un'unica fattispecie, debbano essere affidate a quello che è uno dei principi fondamentali del liberalismo, la libertà di contratto... Se si seguisse questo elementare principio di civiltà liberale, sono certo che le regole adottate dai conviventi sarebbero molto diverse a seconda dei casi. Perché, invece, abbiamo la luciferina presunzione di imporre a tutti un vestito della stessa taglia? Perché non lasciamo che a decidere in base a quali regole convivere siano gli stessi interessati, che conoscono meglio di chiunque altro cosa sia meglio adottare nel loro interesse? (...) Se due adulti consenzienti vogliono stipulare un contratto su qualcosa che riguarda soltanto loro, che diritto ha lo Stato di impedirglielo? Solo nel caso in cui un accordo ha implicazioni per soggetti terzi esiste, in generale, lo spazio per una disciplina legislativa».«Così parla un liberale», conclude Ostellino: «... la moltiplicazione dei diritti si risolve, sul lato dell'autonomia individuale, nell'arbitraria estensione del potere regolatore dello Stato e, su quello sociale, in un costoso allargamento del welfare a nuovi soggetti, con aggravio per la finanza pubblica».
Direi ineccepibili parole, ma a parlare sono liberal-conservatori. Sarei pronto a sottoscriverle, ma come si fa - chiedo - a non vedere che prim'ancora che nei Dico sta nell'istituto del matrimonio civile la «luciferina presunzione di imporre a tutti un vestito della stessa taglia»? E a non vedere che è quella "taglia unica" che oggi sta stretta sempre a più cittadini? Perché Ostellino e Martino non chiedono che lo Stato faccia un passo indietro dagli affari di famiglia e lasci agli interessati piena libertà contrattuale anche nel matrimonio?
In che misura il loro - nell'escludere il matrimonio, come istituto riconosciuto e regolato dallo Stato, dal loro ragionamento - può essere definito un riflesso conservatore? Come risolverebbero, da liberali, il problema delle coppie omosessuali, che a differenza di quelle etero non potrebbero neanche contrarre matrimonio? Non vedono alcuna discriminazione in questo?
Se i matrimoni sono in calo e le coppie che scelgono la convivenza aumentano esponenzialmente, forse l'istituto giuridico "matrimonio", con il progressivo mutare della società, è divenuto troppo rigido, o comunque è percepito come tale. Il problema sorge proprio dal fatto che già oggi viene imposto a tutti «un vestito della stessa taglia»! Non i Dico, ma il matrimonio tradizionale. Ed è comprensibile che le nuove coppie di conviventi si sentano discriminate e reclamino di essere riconosciute. Esercitano la libertà contrattuale invocata da Ostellino e Martino, rinnovandola quotidianamente, ma per lo Stato quei contratti non valgono nulla rispetto al "vestito a taglia unica" del matrimonio civile. Dunque, con quell'istituto «l'intrusione dello Stato negli affari privati degli Individui» è già una realtà. E' quell'intervento il "peccato originale", la fonte delle discriminazioni a cui oggi si chiede di porre rimedio.
Ed è la concezione assistenziale di un welfare rivolto alle categorie e non ai singoli individui in difficoltà che come discriminazione "in positivo" finisce per creare conflitti anziché risolverli.
Quel vestito sta stretto a sempre più cittadini nella nostra società di oggi. Dunque, o se ne creano di taglie diverse, o si permette a ciascuno di farselo su misura, senza una taglia unica di Stato. Si tratterebbe di "privatizzare" il matrimonio e ogni forma di convivenza, come sostengo nel mio articolo «Pacs, un approccio libertario», pubblicato su LibMagazine, e come spiegava Stefano Magni alcune settimane fa su L'Opinione.
Né radicali, né nonviolenti, ma comunisti
«Siate radicali ma non violenti». Sta nell'appello lanciato ieri da Bertinotti ai manifestanti di Vicenza l'offensiva politico-lessicale, a cui la stampa e le tv - dalle cronache ai più attenti editorialisti, come Stefano Folli - stanno irresponsabilmente dando cassa di risonanza, per proiettare sulla sinistra comunista (vetero- o neo-) un'immagine più presentabile, più attraente.
A questa offensiva, e non alla supposta congiura anti-radicale del Corriere, Pannella e i Radicali dovrebbero prestare attenzione. Se non si può pretendere che il termine "radicale" non sia usato per indicare un atteggiamento, un comportamento, e non solo una storia e un'identità politica precisa, non si può però neanche dare per scontato che sia usato come sinonimo di estremismo e massimalismo.
La radicalità di una riforma non equivale a massimalismo. E il termine "radicale" è anche politicamente il contrario di "conservatore". E la sinistra comunista sempre più appare, nella sua identità e nelle sue politiche, conservatrice, quando non reazionaria. Dunque, non chiamateli né radicali, né nonviolenti, ma per il nome e per il cognome che loro stessi si sono scelti: comunisti e pacifisti.
A questa offensiva, e non alla supposta congiura anti-radicale del Corriere, Pannella e i Radicali dovrebbero prestare attenzione. Se non si può pretendere che il termine "radicale" non sia usato per indicare un atteggiamento, un comportamento, e non solo una storia e un'identità politica precisa, non si può però neanche dare per scontato che sia usato come sinonimo di estremismo e massimalismo.
La radicalità di una riforma non equivale a massimalismo. E il termine "radicale" è anche politicamente il contrario di "conservatore". E la sinistra comunista sempre più appare, nella sua identità e nelle sue politiche, conservatrice, quando non reazionaria. Dunque, non chiamateli né radicali, né nonviolenti, ma per il nome e per il cognome che loro stessi si sono scelti: comunisti e pacifisti.
Anche gli sloveni criticano Napolitano
Dopo la violenta e strumentale (in funzione anti-europeista?) reazione del presidente croato Mesic alle parole del Presidente Napolitano sulle foibe, adesso si viene a sapere che in modo più civile, con toni moderati, con una lettera privata inoltrata al nostro Capo dello Stato nel riserbo dei canali diplomatici, anche il presidente sloveno Drnovsek ha protestato.
Top secret il contenuto della lettera slovena, e di quella di replica, sempre privata, di Napolitano, ma sarebbe un testo duro, molto lungo e articolato.
«Non possiamo, noi croati e sloveni — ha commentato Borut Pahor, leader della sinistra — essere le vittime della riconciliazione nazionale italiana».
Parole comprensibili, visto che - come osservavo in un precedente post - nel suo "coraggioso" discorso il Napolitano ha parlato di «disegno annessionistico» genericamente «slavo», di un'Italia mutilata nella sua regione orientale», tacendo per ipocrita pudore di chiamare in causa non slavi o latini, neri o bianchi, ma i fascisti e i comunisti dell'una dell'altra parte, le forze nazional-comuniste titine.
Top secret il contenuto della lettera slovena, e di quella di replica, sempre privata, di Napolitano, ma sarebbe un testo duro, molto lungo e articolato.
«Non possiamo, noi croati e sloveni — ha commentato Borut Pahor, leader della sinistra — essere le vittime della riconciliazione nazionale italiana».
Parole comprensibili, visto che - come osservavo in un precedente post - nel suo "coraggioso" discorso il Napolitano ha parlato di «disegno annessionistico» genericamente «slavo», di un'Italia mutilata nella sua regione orientale», tacendo per ipocrita pudore di chiamare in causa non slavi o latini, neri o bianchi, ma i fascisti e i comunisti dell'una dell'altra parte, le forze nazional-comuniste titine.
Friday, February 16, 2007
Ségolène offre ai francesi un'amaca
Un altro endorsement solidamente fondato per Nicolas Sarkozy è quello di Antonio Polito, che vede nell'avversaria Ségolène un «simbolismo paternalista», una specie di «complesso dello Stato Rosso». Pur non avendo mai pronunciato in due ore di discorso d'investitura la parola "socialismo", osserva, «il suo programma poggia solidamente sull'idea, così antica e così socialista, che ci debba pensare lo Stato».
Basta dare un'occhiata alle proposte: aumento del 20% del salario minimo, fissato per legge a 1.500 euro; confermate le 35 ore; aumento delle pensioni; sussidio di disoccupazione al 90% del salario per un anno (l'«amaca», non il «trampolino»!); abolizione del Cne, il "Contratto di nuova occupazione" per la flessibilità del lavoro; cure mediche gratuite per tutti fino a 16 anni; pillole contraccettive disponibili a costo zero per le donne fino a 25 anni; alloggi assicurati ai non abbienti con interventi di edilizia popolare e requisizioni di case vuote da almeno due anni.
Insomma, «tutto il contrario di Kennedy. Lì dove Kennedy invitava gli americani a domandarsi che cosa loro potevano fare per l'America, Ségolène elenca ai francesi che cosa la Francia può fare per loro. E promettere a un paese sofferente di una seria difficoltà ad adeguarsi alla società del rischio che ci penserà lo stato; raccontare a una nazione di cui pure si lamenta l'alto debito pubblico che ci sono le risorse per finanziare l'Eldorado, è un modo, per l'appunto, per metterlo a nanna tranquillo, e fargli dimenticare gli incubi della "mondialisation". Nanny-State, lo chiamano gli inglesi: lo stato-balia».
Del "fenomeno" Sarkozy si occupa invece un libro di Massimo Nava ("Il francese di ferro", Einaudi), che lo paragona alla «Iron Lady» degli anni '80, la Thatcher. Anche Sarkozy promette alla Francia un salutare shock, «rotture» e aperture, per far uscire il paese dall'immobilismo interno e internazionale; fonda la sua politica sulla responsabilità, sul merito e sulla libertà; si pone in netta discontinuità con la versione «impolverata e statica» del gollismo chirachiano, delle vecchie classi dirigenti, antiamericane e antiliberali.
La sua «tolleranza zero» verso il crimine e il teppismo si basa innanzitutto sulla responsabilità individuale, per cui ognuno paga per quello che fa, senza poterne dare colpa alla società, ma anche sulla «discriminazione attiva» per integrare gli immigrati, per farli sentire "cittadini" e quindi individualmente responsabili.
In economia, meno Stato e più privato. Sembrerebbe andare in soffitta, quindi, l'"eccezionalismo francese", fatto di dirigismo e colbertismo, assistenzialimo e protezionismo, sostituito dalla riscoperta della competizione e del merito, all'interno come all'estero.
Basta dare un'occhiata alle proposte: aumento del 20% del salario minimo, fissato per legge a 1.500 euro; confermate le 35 ore; aumento delle pensioni; sussidio di disoccupazione al 90% del salario per un anno (l'«amaca», non il «trampolino»!); abolizione del Cne, il "Contratto di nuova occupazione" per la flessibilità del lavoro; cure mediche gratuite per tutti fino a 16 anni; pillole contraccettive disponibili a costo zero per le donne fino a 25 anni; alloggi assicurati ai non abbienti con interventi di edilizia popolare e requisizioni di case vuote da almeno due anni.
Insomma, «tutto il contrario di Kennedy. Lì dove Kennedy invitava gli americani a domandarsi che cosa loro potevano fare per l'America, Ségolène elenca ai francesi che cosa la Francia può fare per loro. E promettere a un paese sofferente di una seria difficoltà ad adeguarsi alla società del rischio che ci penserà lo stato; raccontare a una nazione di cui pure si lamenta l'alto debito pubblico che ci sono le risorse per finanziare l'Eldorado, è un modo, per l'appunto, per metterlo a nanna tranquillo, e fargli dimenticare gli incubi della "mondialisation". Nanny-State, lo chiamano gli inglesi: lo stato-balia».
Del "fenomeno" Sarkozy si occupa invece un libro di Massimo Nava ("Il francese di ferro", Einaudi), che lo paragona alla «Iron Lady» degli anni '80, la Thatcher. Anche Sarkozy promette alla Francia un salutare shock, «rotture» e aperture, per far uscire il paese dall'immobilismo interno e internazionale; fonda la sua politica sulla responsabilità, sul merito e sulla libertà; si pone in netta discontinuità con la versione «impolverata e statica» del gollismo chirachiano, delle vecchie classi dirigenti, antiamericane e antiliberali.
La sua «tolleranza zero» verso il crimine e il teppismo si basa innanzitutto sulla responsabilità individuale, per cui ognuno paga per quello che fa, senza poterne dare colpa alla società, ma anche sulla «discriminazione attiva» per integrare gli immigrati, per farli sentire "cittadini" e quindi individualmente responsabili.
In economia, meno Stato e più privato. Sembrerebbe andare in soffitta, quindi, l'"eccezionalismo francese", fatto di dirigismo e colbertismo, assistenzialimo e protezionismo, sostituito dalla riscoperta della competizione e del merito, all'interno come all'estero.
Angelo, non Angiolo
Giorni fa, su Il Foglio (15 febbraio), comparivano due appelli rivolti ai vescovi italiani riguardanti la nota ufficiale preannunciata dal Cardinale Ruini sul voto dei parlamentari cattolici in merito al disegno di legge sui "Dico".
Il primo appello, da parte dei cattolici democratici (prime firme Alberigo e Melloni) implorava i vescovi di non imporre ai parlamentari cattolici il rifiuto della legge sui "diritti dei conviventi" e di equilibrare le loro prese di posizione. Il secondo, chiamato "contrappello" (promosso, tra gli altri, da Ferrara, Socci e Amicone), chiedeva ai vescovi di mantenere «chiara e libera la loro impostazione di dottrina e di cultura morale in tema di legislazione familiare», ritenendo «ingiusta ogni forma di intimidazione intellettuale contro l'autonomia del pensiero religioso» e «improprio, sintomo di un uso politico della sfera religiosa», l'appello dei cattolici democratici, frutto di «un pensiero illiberale e veteroconcordatario che intende censurare con argomenti obliqui la libertà religiosa e la sua funzione sociale».
Il giorno dopo (16 febbraio) Il Foglio chiedeva ad alcuni opinionisti di commentare i due appelli. Di seguito le risposte di un editorialista del Corriere della Sera e di un radicale doc.
«[Penso] ci sia qualcos'altro, e per questo voglio prima leggere la nota che uscirà dalla Conferenza episcopale. Perché non ci si sta rivolgendo ai cattolici in generale, ma ai parlamentari, e se davvero si minacciano sanzioni in caso di voto favorevole alla legge sulle coppie di fatto, allora la questione è molto delicata perché tocca gli accordi concordatari. Io vorrei vivere in America, vorrei che non ci fosse nessun concordato, penso che la chiesa abbia il sacrosanto diritto di rivolgersi ai credenti su tutte le questioni che la toccano, e i laici che negano questo diritto non hanno capito bene che cos'è la libertà».
(Angelo Panebianco)
«E' sacrosanto quanto contenuto nel controappello, cioè che i vescovi devono mantenere chiara la loro impostazione di dottrina e di cultura in tema di legislazione familiare. E' giustissimo che occupino uno spazio pubblico nella vita della comunità, sono assolutamente d'accordo. Ma la supplica ai vescovi è decorosa, utile, accettabilissima, non è un tentativo d'imposizione ma una richiesta di attenzione, e del resto lo spazio pubblico deve anche accettare la pubblica critica».
(Angiolo Bandinelli)
Il primo appello, da parte dei cattolici democratici (prime firme Alberigo e Melloni) implorava i vescovi di non imporre ai parlamentari cattolici il rifiuto della legge sui "diritti dei conviventi" e di equilibrare le loro prese di posizione. Il secondo, chiamato "contrappello" (promosso, tra gli altri, da Ferrara, Socci e Amicone), chiedeva ai vescovi di mantenere «chiara e libera la loro impostazione di dottrina e di cultura morale in tema di legislazione familiare», ritenendo «ingiusta ogni forma di intimidazione intellettuale contro l'autonomia del pensiero religioso» e «improprio, sintomo di un uso politico della sfera religiosa», l'appello dei cattolici democratici, frutto di «un pensiero illiberale e veteroconcordatario che intende censurare con argomenti obliqui la libertà religiosa e la sua funzione sociale».
Il giorno dopo (16 febbraio) Il Foglio chiedeva ad alcuni opinionisti di commentare i due appelli. Di seguito le risposte di un editorialista del Corriere della Sera e di un radicale doc.
«[Penso] ci sia qualcos'altro, e per questo voglio prima leggere la nota che uscirà dalla Conferenza episcopale. Perché non ci si sta rivolgendo ai cattolici in generale, ma ai parlamentari, e se davvero si minacciano sanzioni in caso di voto favorevole alla legge sulle coppie di fatto, allora la questione è molto delicata perché tocca gli accordi concordatari. Io vorrei vivere in America, vorrei che non ci fosse nessun concordato, penso che la chiesa abbia il sacrosanto diritto di rivolgersi ai credenti su tutte le questioni che la toccano, e i laici che negano questo diritto non hanno capito bene che cos'è la libertà».
(Angelo Panebianco)
«E' sacrosanto quanto contenuto nel controappello, cioè che i vescovi devono mantenere chiara la loro impostazione di dottrina e di cultura in tema di legislazione familiare. E' giustissimo che occupino uno spazio pubblico nella vita della comunità, sono assolutamente d'accordo. Ma la supplica ai vescovi è decorosa, utile, accettabilissima, non è un tentativo d'imposizione ma una richiesta di attenzione, e del resto lo spazio pubblico deve anche accettare la pubblica critica».
(Angiolo Bandinelli)
Thursday, February 15, 2007
E' il momento di approfittare delle difficoltà iraniane
«Se non fossi presidente della Camera, andrei alla manifestazione di sabato a Vicenza contro l'allargamento della base americana». Ma dire così è come esserci andati...
Mentre Bertinotti dà l'ennesima prova di scorrettezza istituzionale, chissà cosa avrà stavolta da ridire D'Alema di Bush, che in un discorso all'American Enterprise Insitute ha annunciato l'offensiva di primavera contro i Talebani ed è tornato a ribadire la richiesta di un maggiore impegno degli alleati in Afghanistan, con più uomini e meno limiti operativi.
Ma l'attenzione di questi giorni è puntata sull'Iran. Avevamo sottolineato, quando Bush presentò il suo nuovo piano per l'Iraq, quanto oltre l'invio di circa 20mila soldati fosse centrale la novità strategica: tornare a combattere sul terreno le varie milizie e, soprattutto, affrontare l'influenza destabilizzante dell'Iran.
Finalmente Bush si è convinto di qualcosa che ha sempre sostenuto Michael Ledeen, cioè che sia impensabile risolvere qualsiasi crisi in Medio Oriente, dal Libano al conflitto israelo-palesinese, per non parlare del confinante Iraq, senza prima sciogliere il nodo iraniano.
Così la Casa Bianca ha finito di autocensurarsi e sempre più apertamente, in un crescendo, accusa l'Iran di armare le milizie irachene con l'obiettivo di destabilizzare il paese a vantaggio degli sciiti radicali e di provocare il ritiro americano. «Sappiamo che queste bombe arrivano dall'Iran, sappiamo che la Forza Al Quds fa parte del governo ma non sappiamo se chi guida il governo è a conoscenza dell'invio di esplosivi», ha denunciato Bush, aggiungendo: «Non so davvero dire cosa sia peggio, se ne sono a conoscenza o meno».
Il presidente Bush sembra finalmente convinto - anche perché si è aperta a Teheran la lotta per la successione a Khamenei, gravemente malato - che l'Iran sia destabilizzabile da una parte attraverso le sanzioni e il blocco economico, finanziario, bancario, dall'altra fornendo appoggio agli oppositori interni, alla diffusa ribellione studentesca e ai moti di protesta dei lavoratori e delle minoranze etniche. Anche se non è da escludere un blitz di "fine mandato" contro le installazioni nucleari, contro il regime iraniano Washington non pensa a una soluzione di forza, a una nuova guerra, ma a operazioni di destabilizzazione interna tramite l'intelligence e la diplomazia, sfruttando le sue stesse crepe.
Non è ancora chiaro se l'amministrazione Usa abbia apertamente optato per il regime change, ma la destabilizzazione conviene in ogni caso.
Riguardo il dossier nucleare iraniano usciamo da una settimana in cui uno scoop del Financial Times ha portato alla luce in Europa quello che Franco Venturini oggi, sul Corriere, ha chiamato «partito della rassegnazione davanti alla bomba atomica iraniana».
Pochi giorni fa il presidente francese Chirac si era lasciato scappare di bocca che in fondo uno o due ordigni in mano a Teheran non sarebbero così preoccupanti, poiché quand'anche li utilizzasse la capitale iraniana verrebbe rasa al suolo all'istante. Non potendo escludere che il regime degli ayatollah, una volta ottenute le bombe, attacchi davvero Israele, Chirac evidentemente ritiene accettabile che Stati Uniti o Israele ricorrano al loro arsenale nucleare provocando milioni di vittime. Uno scenario per scongiurare il quale non varrebbe la pena sacrificare qualche accordo commerciale.
Intervenendo sempre sul Financial Times, i due analisti Reuel Marc Gerecht e Gary Schmitt, dell'American Enterprise Insitute, avvertono gli europei: se volete davvero evitare una nuova guerra, siate disposti a sacrificare i vostri rapporti commerciali con Teheran e accettate di imporre le sanzioni che, viste le precarie condizioni economiche iraniane, potrebbero rivelarsi fatali al regime degli ayatollah.
Gli Stati Uniti hanno inviato nel Golfo una nuova portaerei, deciso di fermare le infiltrazioni iraniane in Iraq, interrompere il flusso di contante delle banche iraniane, e andare avanti nel proporre un rigido regime di sanzioni contro Teheran alle Nazioni Unite. Insomma, si comincia a fare sul serio.
Le pressioni su Teheran aumentano e rischiano di avere un effetto destabilizzante sul regime. E' ovvio quindi, che l'oligarchia iraniana stia cominciando a farsi due conti sui risultati di una politica aggressiva come quella del presidente Ahmadinejad, che sembra sempre più criticato e indebolito. Accantonata per il momento la solita retorica minacciosa, cominciano a filtrare verso l'esterno segnali di moderazione e pragmatismo. Potrebbero significare un'inedita attitudine al dialogo, ma anche rivelarsi i soliti diversivi tattici per alleggerire la pressione e tentare di evitare altri danni all'economia, ulteriore benzina sul fuoco del dissenso interno.
In ogni caso, sembra questo il momento propizio per affondare il colpo delle sanzioni, tentare la spallata al regime, l'unico modo realistico per scongiurare una nuova guerra.
Mentre Bertinotti dà l'ennesima prova di scorrettezza istituzionale, chissà cosa avrà stavolta da ridire D'Alema di Bush, che in un discorso all'American Enterprise Insitute ha annunciato l'offensiva di primavera contro i Talebani ed è tornato a ribadire la richiesta di un maggiore impegno degli alleati in Afghanistan, con più uomini e meno limiti operativi.
Ma l'attenzione di questi giorni è puntata sull'Iran. Avevamo sottolineato, quando Bush presentò il suo nuovo piano per l'Iraq, quanto oltre l'invio di circa 20mila soldati fosse centrale la novità strategica: tornare a combattere sul terreno le varie milizie e, soprattutto, affrontare l'influenza destabilizzante dell'Iran.
Finalmente Bush si è convinto di qualcosa che ha sempre sostenuto Michael Ledeen, cioè che sia impensabile risolvere qualsiasi crisi in Medio Oriente, dal Libano al conflitto israelo-palesinese, per non parlare del confinante Iraq, senza prima sciogliere il nodo iraniano.
Così la Casa Bianca ha finito di autocensurarsi e sempre più apertamente, in un crescendo, accusa l'Iran di armare le milizie irachene con l'obiettivo di destabilizzare il paese a vantaggio degli sciiti radicali e di provocare il ritiro americano. «Sappiamo che queste bombe arrivano dall'Iran, sappiamo che la Forza Al Quds fa parte del governo ma non sappiamo se chi guida il governo è a conoscenza dell'invio di esplosivi», ha denunciato Bush, aggiungendo: «Non so davvero dire cosa sia peggio, se ne sono a conoscenza o meno».
Il presidente Bush sembra finalmente convinto - anche perché si è aperta a Teheran la lotta per la successione a Khamenei, gravemente malato - che l'Iran sia destabilizzabile da una parte attraverso le sanzioni e il blocco economico, finanziario, bancario, dall'altra fornendo appoggio agli oppositori interni, alla diffusa ribellione studentesca e ai moti di protesta dei lavoratori e delle minoranze etniche. Anche se non è da escludere un blitz di "fine mandato" contro le installazioni nucleari, contro il regime iraniano Washington non pensa a una soluzione di forza, a una nuova guerra, ma a operazioni di destabilizzazione interna tramite l'intelligence e la diplomazia, sfruttando le sue stesse crepe.
Non è ancora chiaro se l'amministrazione Usa abbia apertamente optato per il regime change, ma la destabilizzazione conviene in ogni caso.
Riguardo il dossier nucleare iraniano usciamo da una settimana in cui uno scoop del Financial Times ha portato alla luce in Europa quello che Franco Venturini oggi, sul Corriere, ha chiamato «partito della rassegnazione davanti alla bomba atomica iraniana».
Pochi giorni fa il presidente francese Chirac si era lasciato scappare di bocca che in fondo uno o due ordigni in mano a Teheran non sarebbero così preoccupanti, poiché quand'anche li utilizzasse la capitale iraniana verrebbe rasa al suolo all'istante. Non potendo escludere che il regime degli ayatollah, una volta ottenute le bombe, attacchi davvero Israele, Chirac evidentemente ritiene accettabile che Stati Uniti o Israele ricorrano al loro arsenale nucleare provocando milioni di vittime. Uno scenario per scongiurare il quale non varrebbe la pena sacrificare qualche accordo commerciale.
Intervenendo sempre sul Financial Times, i due analisti Reuel Marc Gerecht e Gary Schmitt, dell'American Enterprise Insitute, avvertono gli europei: se volete davvero evitare una nuova guerra, siate disposti a sacrificare i vostri rapporti commerciali con Teheran e accettate di imporre le sanzioni che, viste le precarie condizioni economiche iraniane, potrebbero rivelarsi fatali al regime degli ayatollah.
«Do the Europeans really want to prevent a war between the US or Israel and Iran? If they had to choose between curtailing trade with the Islamic republic, or seeing either America or Israel preventatively strike Iran's nuclear facilities, which would London, Paris and Berlin prefer?»Stati Uniti e Israele «non desiderano attaccare l'Iran», ma se gli europei precludono l'opzione delle sanzioni economiche e finanziarie, «le probabilità di attacchi aumenteranno in modo significativo».
Gli Stati Uniti hanno inviato nel Golfo una nuova portaerei, deciso di fermare le infiltrazioni iraniane in Iraq, interrompere il flusso di contante delle banche iraniane, e andare avanti nel proporre un rigido regime di sanzioni contro Teheran alle Nazioni Unite. Insomma, si comincia a fare sul serio.
Le pressioni su Teheran aumentano e rischiano di avere un effetto destabilizzante sul regime. E' ovvio quindi, che l'oligarchia iraniana stia cominciando a farsi due conti sui risultati di una politica aggressiva come quella del presidente Ahmadinejad, che sembra sempre più criticato e indebolito. Accantonata per il momento la solita retorica minacciosa, cominciano a filtrare verso l'esterno segnali di moderazione e pragmatismo. Potrebbero significare un'inedita attitudine al dialogo, ma anche rivelarsi i soliti diversivi tattici per alleggerire la pressione e tentare di evitare altri danni all'economia, ulteriore benzina sul fuoco del dissenso interno.
In ogni caso, sembra questo il momento propizio per affondare il colpo delle sanzioni, tentare la spallata al regime, l'unico modo realistico per scongiurare una nuova guerra.
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