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Wednesday, December 03, 2008

Il mondo dovrebbe fare ciò che il Pakistan non riesce a fare

New Delhi non ha dubbi: dietro gli attentati di Mumbai c'è un gruppo terroristico pachistano, attivo in Kashmir e legato ad al Qaida, il cui nome è Lashkar-e-Taiba. L'unico terrorista catturato dalle forze speciali indiane ha ammesso di essere pachistano e di farne parte. Come anticipavo ieri, il Lashkar-e-Taiba, "L'esercito dei puri", è il braccio armato di un'organizzazione religiosa pachistana al quale i servizi segreti pachistani (ISI) hanno fornito durante gli anni '90 istruzioni e fondi per operare in Kashmir. Dopo l'11 settembre, inserito dagli Stati Uniti nella lista dei gruppi terroristici e messo al bando da Islamabad, il gruppo è entrato in clandestinità, frazionandosi in diverse sigle e smettendo di rivendicare gli attentati. Il Lashkar-e-Taiba è sospettato di essere dietro l'attacco del dicembre 2001 al Parlamento di New Delhi e le bombe sui treni che nel 2006 provocarono oltre 200 morti.

E inevitabilmente cresce la tensione tra India e Pakistan. Da una parte, il governo indiano ha bisogno di agire; dall'altra, il governo pachistano è sotto pressione, perché è stato ormai accertato che i terroristi provenivano dal Pakistan, dove hanno goduto degli appoggi necessari a pianificare gli attacchi e ad addestrarsi.

Come osservavo ieri, gli attentati di Mumbai hanno scosso l'India, ma chi ne esce più indebolito e delegittimato è il governo di Islamabad, impotente, incapace di riportare sotto il suo controllo territori di confine dai quali gruppi armati islamisti, probabilmente in combutta con settori dei servizi segreti e dell'esercito, conducono quasi indisturbati il loro jihad, influenzando la politica estera pachistana. Intere aree ai confini occidentali con l'Afghanistan sono rifugi sicuri per i Talebani e al Qaeda, e per questo fonte di tensioni con Kabul e Washington; gli attentati della scorsa settimana aggiungono ulteriore tensione, questa volta ai confini orientali con l'India.

In un'intervista al Financial Times, il nuovo presidente pachistano, Asif Alì Zardari, si era rivolto al premier indiano Singh quasi implorandolo di «opporsi ad attacchi contro il governo» di Islamabad anche qualora dall'inchiesta fossero emerse responsabilità di elementi pachistani: «Anche se i militanti fossero legati a Lashkar-e-Taiba, contro chi pensate che noi stiamo combattendo?». Zardari voleva così far capire che considera i terroristi nemici comuni sia all'India che al Pakistan. «Entità non statali ci hanno già trascinato in diverse guerre... dobbiamo rimanere tutti uniti per contrastare questa minaccia». Ma India e Pakistan «non possono farsi prendere in ostaggio da attori non statali».

Zardari e il suo governo non sostengono i terroristi, ma cosa si può fare perché il mondo non sia ostaggio di attori non statali che operano dal territorio di uno stato e sono la creatura dei servizi segreti di quello stato? Se lo è chiesto, sul Washington Post, Robert Kagan, secondo il quale occorre «internazionalizzare la risposta»:
«La comunità internazionale dichiari che alcune zone del Pakistan sono ingovernabili e costituiscono una minaccia alla sicurezza internazionale. Una forza internazionale collabori con i pachistani per sradicare le basi dei terroristi dal Kashmir e dalle aree tribali. In questo modo si eviterebbe una nuova guerra tra India e Pakistan e il governo pachistano salverebbe la faccia, dal momento che la comunità internazionale lo aiuterebbe a ristabilire la sua autorità su tutto il territorio».
Non è una decisione che il governo pachistano può prendere alla leggera, perché verrebbe accusato dagli integralisti islamici di essere "servo" degli americani. Ma secondo Kagan una forza internazionale dovrebbe intervenire anche senza il consenso di Islamabad, violando la sovranità del Pakistan. «Non dovrebbero poter rivendicare la propria sovranità quegli stati incapaci di controllare un territorio da cui vengono lanciati attacchi terroristici». Se c'è una responsabilità che giustifica un intervento per impedire catastrofi umanitarie, dev'esserci anche la responsabilità di proteggere uno stato dagli attacchi lanciati da un territorio confinante, sia pure da attori non statali. Nel caso del Pakistan, anche se il governo civile non è coinvolto, la complicità dell'esercito e dell'ISI con i terroristi fa cadere ogni richiamo alla sovranità.

L'amministrazione Bush, ricorda Kagan, «per anni ha tentato di collaborare con l'esercito e il governo pachistano nella lotta al terrorismo, fornendo miliardi di dollari in aiuti e armamenti avanzati», ma dopo gli attentati di Mumbai questa cooperazione «dev'essere giudicata fallimentare». L'esercito e i servizi segreti «sono rimasti più interessati ad aumentare la propria influenza in Afghanistan tramite i Talebani e a combattere l'India in Kashmir tramite i gruppi terroristici».

Ma il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, chiede Kagan, «autorizzerebbe un'azione simile»? La Cina è stata «un alleato e un protettore» del Pakistan, e la Russia «potrebbe avere le sue ragioni per opporsi». Non gli piace l'idea di «abbattere il muro della sovranità nazionale», per questo ha bloccato le pressioni sul Sudan, sull'Iran e su altri stati criminali. Ma questo, osserva Kagan, «sarebbe un altro test per capire se la Cina e la Russia, presunti alleati nella guerra al terrorismo, sono davvero interessate a combattere il terrorismo fuori dai loro confini». Che l'intervento venga preso in considerazione alle Nazioni Unite, potrebbe essere sufficiente per ottenere la cooperazione volontaria del Pakistan». In ogni caso sarebbe per gli Stati Uniti e l'Europa un'occasione per «cominciare ad affermare il principio che il Pakistan e altri stati che ospitano i terroristi non dovrebbero sentire garantita la propria sovranità».

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