E' opinione diffusa tra i commentatori che la presidenza Obama sarà caratterizzata da un maggiore pragmatismo e realismo in politica estera rispetto all'idealismo neoconservatore che ha ispirato Bush, soprattutto nei suoi primi quattro anni. Tuttavia, una svolta realista è stata già in parte visibile nel suo secondo mandato. Eppure, chi avrebbe interpretato tale svolta, il segretario di stato uscente Condoleezza Rice, difende il regime change in Iraq e rivendica i risultati dell'impegno di Bush per la promozione della democrazia in Medio Oriente. E lo fa proprio in casa del think tank realista per eccellenza, il Council on Foreign Relations.
La promozione della democrazia è qualcosa cui gli Stati Uniti devono «restare coerenti», perché «i nostri valori e i nostri interessi sono inestricabilmente legati». Certo, «a volte bisognerà trattare con regimi autoritari, o con regimi amici che non hanno fatto i progressi che ci aspettavamo, ma se non fossero gli Stati Uniti ad avere come stella polare la fine della tirannia e a farsi guidare dal principio che ogni uomo, donna o bambino ha il diritto di vivere in una società democratica, queste cose uscirebbero dall'agenda internazionale».
Merito di Bush e della sua insistenza se «il dibattito in Medio Oriente è profondamente diverso oggi da com'era pochi anni fa». La Rice si dice convinta che «il regime change verrà dall'interno» e che gli Usa potranno al massimo «aiutare e rafforzare la società civile, le forze democratiche, responsabilizzando i governi quando applicano misure repressive contro queste forze». Insomma, gli Usa non saranno in grado di cambiare ogni regime nel mondo. «Ma quando c'è una situazione come quella in Iraq, se ti sei impegnato in un regime change per motivi di sicurezza, allora penso che hai il dovere di insistere perché ciò che segua sia democratico». E così, rivendica la Rice, «non abbiamo fatto la cosa più facile in Iraq, rimuovere Saddam e mettere al suo posto un altro uomo forte», ma intrapreso «la via più difficile, aiutare gli iracheni a sviluppare istituzioni democratiche», che «ora stanno iniziando ad attecchire».
La possibilità dell'apertura di una sezione di interessi americana a Teheran, da molti interpretata come ritorno alla realpolitik e apertura al dialogo con l'Iran, «è sempre stata finalizzata al popolo iraniano, ai nostri sforzi per raggiungerlo e comunicare con esso, a rendere più facile ottenere visti per gli Stati Uniti», ha tenuto invece a precisare la Rice: «Nel contesto di una politica di fermezza contro il regime, una sezione di interessi come piattaforma per mantenere i contatti con il popolo iraniano ha un senso».
Infine, i complicati rapporti con il Cremlino, con il quale «abbiamo avuto una cooperazione molto buona sui temi globali». I problemi sono emersi altrove, ha ammesso la Rice. La Russia è convinta che le spetti un «ruolo speciale sulla sua periferia» e di poter «dettare» le politiche alle repubbliche ex sovietiche oggi indipendenti. «La nostra idea è che esse abbiano il diritto a una politica indipendente, sia negli affari interni che esteri». I buoni rapporti degli Usa con Georgia, Ucraina, o in Asia centrale, in nessun modo dovrebbero essere visti come una minaccia agli interessi russi. L'unità di intenti tra Stati Uniti ed Europa «ha impedito alla Russia di centrare i suoi obiettivi strategici» in Georgia, ha rivendicato la Rice: «Non ne ha raggiunto nemmeno uno». La democrazia e il governo georgiani sono sopravvissuti. L'economia non è crollata. In Abkhazia e Ossezia del Sud i russi hanno il sostegno solo del Nicaragua e di Hamas. La loro politica dei riconoscimenti è stata «un fallimento». Adesso i popoli si chiedono che genere di partner sia la Russia.
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