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Wednesday, September 30, 2009

Se 30 anni di tentativi di dialogo hanno fallito... regime change

Su il Velino

Contrariamente a quanto si crede, tutte le amministrazioni americane che si sono succedute dalla rivoluzione islamica in avanti hanno parlato, e tentato di instaurare un dialogo, con l'Iran degli ayatollah. Lo sostiene, nel suo editoriale di oggi sul Wall Street Journal, Michael Ledeen, tentando di smentire la convinzione, «quasi universalmente accettata», che accompagna i colloqui dell'amministrazione Obama con l'Iran che avranno luogo domani a Ginevra. Non è vero che le precedenti amministrazioni Usa si siano rifiutate di negoziare con i leader iraniani. La verità, scrive Ledeen, come ha spiegato nell'ottobre scorso il segretario alla Difesa, Robert Gates, alla National Defense University, è che «ogni amministrazione dal 1979 ha teso la mano agli iraniani in un modo o nell'altro, ma tutte hanno fallito».

L'amministrazione Carter ha tentato di stabilire buoni rapporti con la Repubblica islamica offrendo «aiuti, armi e comprensione», ma i colloqui sono finiti con la presa dell'ambasciata americana a Teheran. Anche l'amministrazione Reagan, ricorda Ledeen, ha cercato un «modus vivendi» con l'Iran nel mezzo della guerra con l'Iraq a metà degli anni '80. Funzionari americani di alto livello come Robert McFarlane si sono incontrati segretamente con rappresentanti del governo iraniano, ma questo sforzo è finito con lo scandalo Iran-Contra alla fine del 1986. L'amministrazione Clinton ha abolito le sanzioni imposte dai presidenti Carter e Reagan. Inoltre, sia il presidente Clinton che il segretario di Stato Albright si sono pubblicamente scusati con l'Iran per le colpe del passato, incluso il rovesciamento del governo Mossadegh da parte della Cia e dei servizi britannici nell'agosto del 1953. Un mea culpa ribadito dal presidente Obama nelle sue molteplici aperture di quest'anno.

Persino l'amministrazione Bush jr, «invariabilmente e falsamente accusata di rifiutarsi di parlare ai mullah, ha invece negoziato ampiamente con Teheran». Si sono tenuti, ricorda Ledeen, «dozzine di incontri di cui è stato riferito in pubblico, e almeno una serie molto segreta di negoziati», di cui raramente però la stampa ha parlato. Nel settembre del 2006, sembrava che un accordo fosse stato raggiunto. Il segretario di Stato, Condoleezza Rice, e Nicholas Burns, il suo massimo consigliere per il Medio Oriente, racconta Ledeen, «volarono a New York ad aspettare l'arrivo annunciato di un'ampia delegazione iraniana, per la quale erano stati appositamente concessi circa 300 visti». Il capo negoziatore sul nucleare, Larijani, «avrebbe dovuto annunciare la sospensione dell'arricchimento dell'uranio in cambio della revoca delle sanzioni» da parte Usa. Ma «Larijani e la sua delegazione non sono mai arrivati».

Tutti i presidenti da Carter in poi, oltre ai tentativi di dialogo, andati a vuoto, hanno imposto sanzioni all'Iran di svariati tipi. In questi trent'anni, osserva Ledeen, «i nostri alleati» hanno sempre insistito per continuare negli sforzi diplomatici e non con le sanzioni, finché, nel 2006, anche il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha cominciato ad adottare sanzioni nei confronti di Teheran. «Trent'anni di negoziati e sanzioni non sono riusciti a porre fine al programma nucleare iraniano e alla sua guerra contro l'Occidente. Perché si dovrebbe pensare che funzionino adesso? Un cambiamento in Iran richiede un cambiamento nel governo...».

Anche secondo Robert Kagan, gli Stati Uniti, gli europei e i media dovrebbero lasciare da parte la loro «ossessione» per l'atomica, gli impianti segreti e i missili iraniani, perché «l'obiettivo più fruttuoso è l'indebolimento del regime». Eppure, la grave crisi politica che Teheran attraversa non è nei pensieri occidentali. Le democrazie occidentali tendono a sottovalutare ciò che può accadere quando un regime è spaventato e insicuro. «In tali situazioni - spiega Kagan nel suo editoriale mensile sul Washington Post - la paura più grande di un regime autocratico, storicamente, è che gli oppositori interni possano raccogliere il sostegno delle potenze straniere. La caduta dei dittatori - Marcos nelle Filippine, Somoza in Nicaragua, i comunisti polacchi - è stata di frequente agevolata, in qualche caso in modo decisivo, dall'intervento esterno, attraverso l'appoggio alle forze di opposizioni o le sanzioni contro il governo». E' questa oggi anche la principale «fissazione» del regime iraniano.

Il primo obiettivo del regime dopo le elezioni è stato quello di riprendere il controllo ed evitare interferenze dall'esterno. E Teheran ci è riuscita in «modo egregio», osserva Kagan, «anche con l'aiuto» dell'amministrazione Obama, che si è rivelata, «forse involontariamente, un partner collaborativo», rifiutandosi di «rendere la questione della sopravvivenza del regime parte della sua strategia». Obama ha trattato la crisi come una «distrazione» dal dialogo sul nucleare, «esattamente ciò che i governanti a Teheran vogliono che faccia: concentrarsi sulle atomiche e ignorare l'instabilità del regime». Al contrario, secondo Kagan, «sarebbe meglio che si concentrasse sull'instabilità del regime piuttosto che sul nucleare».

Ahmadinejad e Khamenei vedono il programma nucleare e la loro sopravvivenza al potere «intimamente collegati». Per questo, ciò di cui c'è bisogno è «un tipo di sanzioni capace di aiutare l'opposizione iraniana a far cadere questi governanti ancora vulnerabili», suggerisce Kagan. L'argomento secondo cui le sanzioni rafforzerebbero il sostegno popolare al governo non regge più dopo la crisi innescata dalle elezioni del 12 giugno, che «ha aperto una breccia irreparabile tra il regime e ampia parte della società iraniana, persino del clero». Quando le sanzioni cominceranno ad avere effetto, prevede Kagan, l'opposizione sosterrà che il regime sta portanto l'Iran alla rovina.

Non necessariamente le sanzioni porteranno alla caduta del regime, «ma le probabilità che possa cadere sotto il giusto mix di opposizione interna e pressione esterna sono maggiori delle probabilità che abbandoni volontariamente il suo programma nucleare - forse molto maggiori», conclude Kagan. Se l'amministrazione Obama rivendica il suo «realismo pragmatico», dovrebbe perseguire la politica che «ha maggiori possibilità di successo».

2 comments:

Luciano rangon said...

Da Wikipedia:
Michael Arthur Ledeen (Los Angeles, 1º agosto 1941) è un giornalista e storico statunitense. È membro dell'American Enterprise Institute, noto think tank neoconservatore.

Negli anni '70 si è occupato della storia del fascismo collaborando con Renzo De Felice. In seguito ha continuato a frequentare spesso l'Italia, lavorando anche come consulente per il SISMI.

È implicato in alcuni importanti scandali, come lo scandalo Iran-Contra ed il Nigergate; è stato inoltre accusato di aver collaborato con la P2 di Licio Gelli, nonostante abbia negato qualsiasi implicazione.[senza fonte]
Ho detto tutto.

Cachorro Quente said...

Non conosco bene la storia delle Filippine, ma non mi pare che il caso della Polonia sia paragonabile, nè che quello del Nicaragua sia così utile all'argomentazione di Kagan.