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Monday, May 24, 2010

Contro l'elogio del processo mediatico

Nel suo intervento di domenica scorsa sul Corriere Piero Ostellino mette bene in luce le autentiche aberrazioni che si leggono e si sentono in questi giorni contro il ddl intercettazioni, ricordando che «i processi, in uno Stato di diritto, si fanno in tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto». Il ddl è criticabile per molti aspetti, infatti, ma sembra che più di qualcuno si sia fatto prendere la mano, arrivando addirittura a teorizzare un presunto diritto a imbastire processi mediatici, impedendo i quali, scrive Fiorenza Sarzanini, «si lede il diritto fondamentale degli indagati di difendersi anche davanti all'opinione pubblica».

Ecco fino a che punto siamo arrivati, all'impudenza di chiamare diritto un linciaggio. Capisco che la Sarzanini vede messa in pericolo una carriera da "buca delle lettere" delle Procure, ma informare il pubblico sull'andamento di un'indagine è cosa ben diversa dal pubblicare gli atti, coperti o meno da segreto, prima della conclusione delle indagini preliminari. Ancora peggio se si tratta di intercettazioni telefoniche, che per loro natura si prestano ad un gioco di taglia e cuci in grado di far apparire un farabutto anche il più puro tra di noi.

Personalmente, ritengo che contro la fuga di notizie bisognerebbe usare la mano pesante nei confronti dei magistrati e non dei giornalisti. Per esempio, sollevandoli automaticamente da un'inchiesta i cui atti coperti da segreto finiscano sui giornali. Sarebbe la punizione più temuta, ma purtroppo richiederebbe modifiche della Costituzione e si griderebbe subito all'attentato contro l'autonomia e l'indipendenza della magistratura.

Non sono comunque ammissibili i veri e propri elogi del processo mediatico che si leggono in questi giorni sul Corriere e su la Repubblica. Il punto è la pubblicazione di atti e intercettazioni già durante le indagini preliminari, a volte prim'ancora che un tale sia iscritto nel registro degli indagati. In una fase dell'azione giudiziaria, cioè, in cui l'unica versione è quella dell'accusa, di cui i giornali si fanno megafoni, anziché sottoporla a vaglio critico. Ricordiamo, infatti, che non esistono solo i Balducci, i Bertolaso, o gli Scajola, ma anche gli Stasi. Possibile che ai giornalisti non venga il sospetto di rendersi strumento di alcuni magistrati (se non complici di vere e proprie manovre politiche), anziché di informare correttamente i cittadini? Facendo trapelare aspetti suggestivi e pruriginosi quei pm montano la stampa, e di conseguenza l'opinione pubblica, contro i loro indagati, spesso per puntellare mediaticamente quadri probatori lacunosi e mettere sotto la pressione della piazza il giudice che dovrà decidere il rinvio a giudizio o meno.

Osserva Luca Ricolfi, su La Stampa:
«I giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini - grazie all'onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti - sono correttamente informati, in cui un'opinione pubblica avvertita e consapevole è in grado di esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori, come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell'opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni... i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo?»
E come fa notare anche Giuliano Ferrara, su Il Foglio...
«Chiunque legga una decina di giornali quotidiani o di settimanali stranieri, in lingua francese, tedesca e inglese, non è mai, si dica mai, mai nella vita, incappato nelle lenzuolate delle intercettazioni di cui si parla, che sono l'oggetto della contesa, che sono il succo dei pezzi e delle paginate pubblicate in italiano dai nostri giornali, e poi sceneggiate con doppiatori, nel modo più suggestivo e drammatico possibile, nelle trasmissioni televisive più sporcificanti del mondo. Mai. E perché? Perché altrove non si intercetta? Perché altrove non si delinque o non si indaga? No, Semplicemente per questo: perché altrove, anche dove esistono mafie e criminalità organizzate, anche dove accadono fenomeni di lobbying e di corruzione politica, non si usa pubblicare lenzuolate di intercettazioni come materiale per l'intorbidimento delle acque, per la grande sputtanopoli che tutto confonde in un generico e demagogico disprezzo per la vita privata delle persone pubbliche».
Lo scetticismo di Ferrara sul «destino» del ddl è anche il nostro, perché...
«Non c'è in Italia una ovvia caratura culturale di rispetto dei diritti della persona, sbattiamo la gente in galera per farla confessare, abbiamo le prigioni piene dì piccola gente in attesa di giudizio e ne siamo fieri, abbiamo liquidato in modo truffaldino una classe dirigente che aveva fatto la Costituzione e la Repubblica, e ora ci ritroviamo con il solito andazzo corruttivo e una pletora di magistrati politicizzati con la fregola del potere. Siamo un paese impazzito».

1 comment:

libertyfighter said...

Ti sei scordato i Moggi.
Le intercettazioni fatte ad minchiam in calciopoli 1 hanno provocato miliardi di danni economici che adesso, col processo in fase avanzata, bisognerebbe cominciare a pensare a chi far pagare.