Sempre più preoccupati per essersi messi nelle mani di Prodi, i leader dell'Ulivo per ora tentano la riduzione del danno, ma già pensano a come liberarsene
No caro Letta, questa non ce la beviamo. Lo gnè gnè sulle tv del premier, sulla «delinquenza» politica di cui sareste vittime, è patetica. Anche perché vi siete incastrati da soli. Le intenzioni che il centrodestra vi attribuisce le ho sentite con le mie orecchie dai vostri leader (non solo Bertinotti, ma tutti, nessuno escluso) nelle ultime due settimane, cercando, poi, di ritrattare alla vista delle brutte. All'inizio pareva implicito, nei dati esposti da Prodi, l'aumento delle tasse persino sui titoli già emessi. Poi il saggio dietro-front. Il balletto di cifre sulla soglia della tassa di successione, tra i 180 e i 500 mila euro, vi inchioda. E adesso c'è Fassino che parla di «incentivi per contratti a tempo determinato», mentre Prodi ha parlato di alzare le tasse sul lavoro a tempo determinato per finanziare il taglio contribuitivo sul tempo indeterminato e come rimedio contro la precarietà.
Il rischio per l'Unione è che le ultime fasi della campagna si giochino sul tema più congeniale a Berlusconi per il recupero di elettori delusi e indecisi.
Nel column di stamani su il Riformista, Cingolani è il primo cui sento fare un discorso serio, a conferma di quanto scrivevo nel post di ieri, oggi articolo su Notizie Radicali. Premette: «Bisogna ammettere che l'errore (la gaffe, lo scivolone, il pasticcio chiamatelo come meglio preferite) c'è stato. Un triplice errore: di comunicazione, di disciplina di coalizione e di contenuti». Le buona proposta iniziale, tagliare il costo del lavoro, «si è incagliata in due scogli: il primo è come coprire il costo e il secondo riguarda le pensioni. L'idea di proporre una operazione a costo zero, con la coperta così corta, finisce per mettere a nudo i piedi se si vuol proteggere la testa». Infatti, «dire che la tassazione delle rendite finanzia la detassazione del lavoro non quadra. O si tartassano non solo le grandi fortune; ma i patrimoni diffusi, oppure il gettito ricavato è troppo esiguo. Colpire i risparmi e le case non ha senso politico ed è un boomerang economico. Dunque, bisogna per forza di cose tirare in ballo la spesa pubblica».
Ecco la parolina magica: spesa pubblica, e una riforma previdenziale coraggiosa. Come avvertiva l'esperto Ocse, tagliare il costo del lavoro è «un obiettivo molto seducente, ma è più difficile a dire che a fare, in quanto significa ridurre le spese sociali». Quindi, al di là dei conti che dà Letta stamani a il Riformista, s'è capito che l'Unione vuole dare da una parte e togliere dall'altra. Se non si è disposti a intaccare la spesa pubblica e riformare la previdenza, allora meglio liberalizzare lavoro, servizi e professioni, come chiede la Rosa nel Pugno con Giavazzi.
E pur sostenendo Prodi, bisogna dare atto al Corriere della Sera di grande correttezza nel non correre in soccorso del cavallo (o brocco) su cui ha puntato. Il giornale di oggi si apre con l'editoriale di Di Vico, non esattamente quel «delinquente» politico di Tremonti. Sommessamente fa notare che «una condotta assennata avrebbe dovuto portare l'Ulivo a fidelizzare i nuovi elettori fornendo al voto di protesta una risposta in positivo. Così non è stato e in queste settimane il ceto medio transfuga, che continua a risparmiare più che altrove, non ha ascoltato dai leader del centrosinistra né una proposta dettagliata nei numeri né uno slogan efficace ma una Babele di voci e di cifre». Utilmente ricorda che al giorno d'oggi l'elettore deideologizzato «è a personalità sociale multipla», «di volta in volta risparmiatore, consumatore o proprietario di case».
«Se la politica per sua natura deve governare le paure degli elettori, l'Unione non è stata in grado finora di compiere quest'elementare esercizio e anzi i suoi leader hanno spaventato l'elettorato con annunci contraddittori. Sulle tasse si può decidere, a ridosso delle urne, di essere evasivi o più onestamente di prendere impegni precisi, il centrosinistra ha percorso la terza via: dare numeri incoerenti e diventare suo malgrado "il partito delle tasse" (...) E le tasse possono diventare per il Professore la trappola dell'ultimo giro, la tagliola in cui rischia di rimanere imprigionato il piede dell'atleta che viene da una lunga corsa condotta in testa».
Tagliola in cui loro malgrado rischiano di finire anche i radicali, il cui elettorato non è certo contento di ingoiare le tasse di Prodi e Visco.
Eppure, l'impressione che si riceve leggendo alcuni restroscena, e fra le righe delle ultime dichiarazioni di Fassino e Rutelli, è che i leader dell'Ulivo stiano cercando di creare una sorta di cordone sanitario intorno al «matto», che sembra ormai fuori controllo. Sempre più preoccupati per essersi messi nelle mani di tale brocco, per ora tentano la riduzione del danno, ma già pensano a come liberarsene, e l'incertezza è su chi sia il primo a chiamare la neuro.
E' la scenografia del retroscena della Meli oggi sempre sul Corriere: «L'inquietudine corre sui cellulari dei leader dei partiti dell'Ulivo. C'è preoccupazione perche all'esterno rischia di arrivare un messaggio che per il centrosinistra può essere controproducente: l'Unione corre il pericolo di passare come il partito delle tasse. Gli ultimi sondaggi riservati sembrano dar ragione a questi timori... Una, due, tre telefonate: "Romano, meglio che siamo cauti, non insistiamo troppo su Bot e tasse successione". Ma dall'altro capo del telefono il Professore non intende ragione».
Appunto, ha perso la ragione, e pure la «pazienza». Sta preparando per il duello tv con Berlusconi un «discorso verità», in cui «snocciolerà cifre e dati». Berlusconi non vede l'ora.
Friday, March 31, 2006
Sorpresa Zapatero!
Statali, addio posto fisso. Sorpresa in Spagna: puniti «inefficienza e assenteismo»
Il mio giudizio su molte delle politiche di Zapatero è estremamente negativo. La politica estera innanzitutto; la questione basca; i matrimoni gay che potevano essere introdotti, come ha fatto Blair, senza pulizia linguistica e culturale. Un esempio negativo. Però già avevo in qualche modo intuito che sull'economia la musica era diversa. Che tutto il lavoro liberale fatto da Aznar non veniva buttato al vento, ma che da lì si partiva.
Capirete la meraviglia quando ieri m'imbatto, leggendo Il Messaggero, in queste parole: «E' finita la storia che i pubblici dipendenti considerino il posto di lavoro a vita, prescindendo da come svolgono la loro attività». Il licenziamento per bassa produttività o per comportamenti quali l'assenteismo durante le ore lavorative diventa possibile. Parole non di un liberista selvaggio, di un massacratore sociale, ma di Jordi Sevilla, ministro per la Pubblica Amministrazione del governo socialista di Zapatero, di cui in Italia la nostra sinistra, da Diliberto a Paolo Cento, ha un'immagine distorta, basata solo sui buoni rapporti con Cuba.
Parole pesanti perché pronunciate con tutta l'ufficialità di un intervento alla Camera dei Deputati, rivolgendosi al Partito popolare di Rajoy affinché non si opponga al varo dello Statuto del Pubblico dipendente, la nuova legge-quadro che intende introdurre nella gestione della burocrazia criteri imprenditoriali e, pertanto, anche la possibilità di licenziare in base alla produttività. Lo Statuto, ha spiegato Sevilla, «significherà innanzi tutto introdurre una grande novità: che i pubblici dipendenti rispondano continuamente del loro lavoro, che la continua valutazione obiettiva costituisca un elemento chiave della modernizzazione», fino alle estreme conseguenze per cui «la permanenza nel posto di lavoro dipenderà da come questo sarà svolto». Un ministro socialista. Chapeau. Addirittura in un sondaggio via Internet, di El Mundo, la possibilità di licenziare i dipendenti pubblici ha raccolto l'83 per cento di consensi.
Tutto si potrà dire di Zapatero, ma io parole come queste le devo ancora sentire dalla nostra sinistra (e non le ho sentite neanche mai dalla destra) e spero che la Rosa nel Pugno non si faccia sfuggire l'occasione per esercitare il suo ruolo modernizzatore dando così sostanza allo slogan che si è scelta: Fortuna-Blair-Zapatero.
Sono mesi che nei miei post, e in alcune lettere su il Riformista, sostengo proprio che occorre abbattare il tabù dell'impiego statale. Se licenziare si può nel privato, licenziare si deve a maggior ragione nel pubblico, dove è il denaro di tutta la comunità a essere investito e dove quindi lo spreco è ancora più inaccettabile dal punto di vista della moralità politica.
Il mio giudizio su molte delle politiche di Zapatero è estremamente negativo. La politica estera innanzitutto; la questione basca; i matrimoni gay che potevano essere introdotti, come ha fatto Blair, senza pulizia linguistica e culturale. Un esempio negativo. Però già avevo in qualche modo intuito che sull'economia la musica era diversa. Che tutto il lavoro liberale fatto da Aznar non veniva buttato al vento, ma che da lì si partiva.
Capirete la meraviglia quando ieri m'imbatto, leggendo Il Messaggero, in queste parole: «E' finita la storia che i pubblici dipendenti considerino il posto di lavoro a vita, prescindendo da come svolgono la loro attività». Il licenziamento per bassa produttività o per comportamenti quali l'assenteismo durante le ore lavorative diventa possibile. Parole non di un liberista selvaggio, di un massacratore sociale, ma di Jordi Sevilla, ministro per la Pubblica Amministrazione del governo socialista di Zapatero, di cui in Italia la nostra sinistra, da Diliberto a Paolo Cento, ha un'immagine distorta, basata solo sui buoni rapporti con Cuba.
Parole pesanti perché pronunciate con tutta l'ufficialità di un intervento alla Camera dei Deputati, rivolgendosi al Partito popolare di Rajoy affinché non si opponga al varo dello Statuto del Pubblico dipendente, la nuova legge-quadro che intende introdurre nella gestione della burocrazia criteri imprenditoriali e, pertanto, anche la possibilità di licenziare in base alla produttività. Lo Statuto, ha spiegato Sevilla, «significherà innanzi tutto introdurre una grande novità: che i pubblici dipendenti rispondano continuamente del loro lavoro, che la continua valutazione obiettiva costituisca un elemento chiave della modernizzazione», fino alle estreme conseguenze per cui «la permanenza nel posto di lavoro dipenderà da come questo sarà svolto». Un ministro socialista. Chapeau. Addirittura in un sondaggio via Internet, di El Mundo, la possibilità di licenziare i dipendenti pubblici ha raccolto l'83 per cento di consensi.
Tutto si potrà dire di Zapatero, ma io parole come queste le devo ancora sentire dalla nostra sinistra (e non le ho sentite neanche mai dalla destra) e spero che la Rosa nel Pugno non si faccia sfuggire l'occasione per esercitare il suo ruolo modernizzatore dando così sostanza allo slogan che si è scelta: Fortuna-Blair-Zapatero.
Sono mesi che nei miei post, e in alcune lettere su il Riformista, sostengo proprio che occorre abbattare il tabù dell'impiego statale. Se licenziare si può nel privato, licenziare si deve a maggior ragione nel pubblico, dove è il denaro di tutta la comunità a essere investito e dove quindi lo spreco è ancora più inaccettabile dal punto di vista della moralità politica.
... a meno che l'avversario non sia Berlusconi
«In un paese normale Prodi avrebbe già perso». Avevo intitolato così, ieri, un post molto critico nei confronti di Prodi e dei leader dell'Unione per essersi fatti chiudere nell'angolo, come pugili suonati, dell'issue più congeniale a Berlusconi, quello delle tasse. Un lettore, Domiziano, che ringrazio, mi ha fatto notare che quella frase andava completata: «... a meno che l'avversario non sia Berlusconi». Accolgo in pieno l'emendamento e ci intitolo questo post, il seguito ideale del precedente.
Mettiamola così. Cosa succede in un esasperato tiro alla fune se uno dei due contendenti molla un po' la presa? L'altro rischia di rovinare a terra. Ciò che è successo è che nonostante una campagna condotta all'attacco, cercando di recuperare i "suoi" delusi, Berlusconi sui contenuti ha mantenuto un basso profilo e Prodi s'è rovinato con le sue mani innanzitutto dal punto di vista comunicativo. Questo non vuol dire però che nel centrodestra s'intravede una politica economica liberale. O comunque, rispetto al 2001 (per non parlare del '94), la tendenza, persino nel linguaggio di Berlusconi (chi sente più «libertà d'intrapresa»?) va verso la progressiva dispersione della spinta riformatrice in senso liberale.
Anche il centrodestra promette, nero su bianco, più spesa pubblica, e alcune misure insopportabilmente assistenziali: le pensioni sociali a 800 euro; la carta oro per gli anziani; il sussidio bebè, anche se di entità minore di quello prodiano, ma compensato dalla nebulosa idea del "quoziente famigliare". Il tutto facendo bene attenzione a non dire da dove si prendono i soldi. Cartolarizzazioni, hanno detto, privatizzazioni, riduzione degli sprechi. Un po' vago: cosa si vuole privatizzare, visto che in questi anni, con una maggioranza schiacciante, non s'è fatto? Prodi, diciamolo, ha voluto fare il "corretto", ma ha dato i numeri e da tutta la coalizione è cominciato a trasudare vecchiume statalista.
Anche il centrodestra è stato, tra l'altro, a un passo dall'introdurre una tassazione ben più pesante delle rendite finanziarie, al 24%, proposta da Alemanno per An, dall'Udc, e in parte dalla Lega. Per poco non gli riuscì di convincere Forza Italia, ma è ragionevole presumere che, se di nuovo al governo, torneranno alla carica, aiutati anche da una leadership di Berlusconi presumibilmente via via più indebolita.
Prima di redistribuire ricchezza, occorre produrla. E' questo, guarda caso, il problema dell'Italia e il grande tema in tutte le società moderne. A redistribuire, in un modo o nell'altro, chi più chi meno, sono bravi tutti, ma a sostenere lo sviluppo, addirittura a rilanciare un paese fermo? Il tema invece resta fuori dalla nostra campagna elettorale. Entrambe le coalizioni s'impegnano a spiegare come spenderanno soldi che non ci sono. Esistono due modi: dare da una parte, togliere dall'altra; indebitarsi.
L'unico modo serio per spostare risorse in un settore ritenuto strategico sarebbe quello di intaccare la spesa pubblica e previdenziale, che a beneficio di pochi iper-tutelati azzerano la mobilità sociale e tengono fermo il paese. Chi non fosse disposto dovrebbe per lo meno impegnarsi nelle liberalizzazioni, le riforme a costo zero, come chiede la Rosa nel Pugno con l'"agenda" Giavazzi. Non essendoci soldi che permettano di abbassare le tasse da una parte senza contemporaneamente alzarle da un'altra, o senza ridurre la spesa, meglio cercare di scuotere il paese cambiando e semplificando le regole del mercato del lavoro, dei servizi e delle professioni.
Il problema l'ha capito Roberto Perotti, con il suo editoriale di ieri su Il Sole24Ore: «Chiunque vinca, anche nella prossima legislatura non assisteremo alla nascita di un welfare state moderno in Italia, che affronti con competenza il problema dei veri poveri. Per questo sono necessarie risorse che possono venire solo da una riduzione della spesa per le pensioni e per il personale pubblico, entrambe tra le più alte d'Europa. E nessun governo di destra o di sinistra lo farà mai. Sono necessarie anche competenze specifiche: non si improvvisano dall'oggi al domani programmi di welfare to work efficaci, soprattutto se vengono concepiti e attuati da persone che non comprendono o non accettano l'economia di mercato».
Sulla tassazione delle rendite finanziarie la pensiamo come Oscar Giannino. Non siamo contrari per principio all'aliquota unica, ad armonizzare i trattamenti fiscali di tutti i redditi, ma perché non si portano tutti al 12,5%? Perché, appunto, si vogliono aumentare le tasse e non diminuirle. E nel nostro paese un solo cent che finisce nel carrozzone senza riforme è un cent buttato. Abbiate il pudore di non chiamarla giustizia sociale.
Ci sarebbero soluzioni eque, ricorda Giannino, ma guarda caso «i sostenitori dell'aggravio sui Bot non abbracciano alcuna delle due soluzioni indicate: né flat tax, né dichiarazione unica di tutti i redditi» come negli Stati Uniti. «E' un modo di tosare la lana laddove è più facile raderla, per reperire risorse allo Stato. Niente però che abbia a che fare con la giustizia sociale».
Intanto l'Australia va, con l'approvazione della nuova legge sul lavoro e i rapporti industriali annunciata nell'ottobre scorso, di cui avevo parlato in questo post. Su Il Sole24Ore leggiamo: «Contrattazione individuale al posto di quella collettiva, sostanziale annullamento del potere dei sindacati, forti limitazioni al diritto di sciopero, ampia libertà di licenziamento senza giusta causa» per le aziende con meno di cento dipendenti.
Mi sta particolarmente a cuore il principio della libertà contrattuale, uno dei cardini del libero mercato, qui in Italia praticamente soffocato. Agli antipodi (in tutti i sensi) hanno introdotto cinque requisiti minimi di contrattazione universale: salario minimo orario (che saranno fissati da una Fair Pay Commission), quattro settimane di ferie all'anno, dieci giorni di malattia, 12 mesi di congedo parentale non retribuito e una settimana lavorativa di 38 ore. Il resto potrà essere discusso caso per caso. Quella dei requisiti minimi universali, anche se non con un assetto così liberista, è comunque la proposta di Boeri per liberalizzare la contrattazione.
Mettiamola così. Cosa succede in un esasperato tiro alla fune se uno dei due contendenti molla un po' la presa? L'altro rischia di rovinare a terra. Ciò che è successo è che nonostante una campagna condotta all'attacco, cercando di recuperare i "suoi" delusi, Berlusconi sui contenuti ha mantenuto un basso profilo e Prodi s'è rovinato con le sue mani innanzitutto dal punto di vista comunicativo. Questo non vuol dire però che nel centrodestra s'intravede una politica economica liberale. O comunque, rispetto al 2001 (per non parlare del '94), la tendenza, persino nel linguaggio di Berlusconi (chi sente più «libertà d'intrapresa»?) va verso la progressiva dispersione della spinta riformatrice in senso liberale.
Anche il centrodestra promette, nero su bianco, più spesa pubblica, e alcune misure insopportabilmente assistenziali: le pensioni sociali a 800 euro; la carta oro per gli anziani; il sussidio bebè, anche se di entità minore di quello prodiano, ma compensato dalla nebulosa idea del "quoziente famigliare". Il tutto facendo bene attenzione a non dire da dove si prendono i soldi. Cartolarizzazioni, hanno detto, privatizzazioni, riduzione degli sprechi. Un po' vago: cosa si vuole privatizzare, visto che in questi anni, con una maggioranza schiacciante, non s'è fatto? Prodi, diciamolo, ha voluto fare il "corretto", ma ha dato i numeri e da tutta la coalizione è cominciato a trasudare vecchiume statalista.
Anche il centrodestra è stato, tra l'altro, a un passo dall'introdurre una tassazione ben più pesante delle rendite finanziarie, al 24%, proposta da Alemanno per An, dall'Udc, e in parte dalla Lega. Per poco non gli riuscì di convincere Forza Italia, ma è ragionevole presumere che, se di nuovo al governo, torneranno alla carica, aiutati anche da una leadership di Berlusconi presumibilmente via via più indebolita.
Prima di redistribuire ricchezza, occorre produrla. E' questo, guarda caso, il problema dell'Italia e il grande tema in tutte le società moderne. A redistribuire, in un modo o nell'altro, chi più chi meno, sono bravi tutti, ma a sostenere lo sviluppo, addirittura a rilanciare un paese fermo? Il tema invece resta fuori dalla nostra campagna elettorale. Entrambe le coalizioni s'impegnano a spiegare come spenderanno soldi che non ci sono. Esistono due modi: dare da una parte, togliere dall'altra; indebitarsi.
L'unico modo serio per spostare risorse in un settore ritenuto strategico sarebbe quello di intaccare la spesa pubblica e previdenziale, che a beneficio di pochi iper-tutelati azzerano la mobilità sociale e tengono fermo il paese. Chi non fosse disposto dovrebbe per lo meno impegnarsi nelle liberalizzazioni, le riforme a costo zero, come chiede la Rosa nel Pugno con l'"agenda" Giavazzi. Non essendoci soldi che permettano di abbassare le tasse da una parte senza contemporaneamente alzarle da un'altra, o senza ridurre la spesa, meglio cercare di scuotere il paese cambiando e semplificando le regole del mercato del lavoro, dei servizi e delle professioni.
Il problema l'ha capito Roberto Perotti, con il suo editoriale di ieri su Il Sole24Ore: «Chiunque vinca, anche nella prossima legislatura non assisteremo alla nascita di un welfare state moderno in Italia, che affronti con competenza il problema dei veri poveri. Per questo sono necessarie risorse che possono venire solo da una riduzione della spesa per le pensioni e per il personale pubblico, entrambe tra le più alte d'Europa. E nessun governo di destra o di sinistra lo farà mai. Sono necessarie anche competenze specifiche: non si improvvisano dall'oggi al domani programmi di welfare to work efficaci, soprattutto se vengono concepiti e attuati da persone che non comprendono o non accettano l'economia di mercato».
Sulla tassazione delle rendite finanziarie la pensiamo come Oscar Giannino. Non siamo contrari per principio all'aliquota unica, ad armonizzare i trattamenti fiscali di tutti i redditi, ma perché non si portano tutti al 12,5%? Perché, appunto, si vogliono aumentare le tasse e non diminuirle. E nel nostro paese un solo cent che finisce nel carrozzone senza riforme è un cent buttato. Abbiate il pudore di non chiamarla giustizia sociale.
Ci sarebbero soluzioni eque, ricorda Giannino, ma guarda caso «i sostenitori dell'aggravio sui Bot non abbracciano alcuna delle due soluzioni indicate: né flat tax, né dichiarazione unica di tutti i redditi» come negli Stati Uniti. «E' un modo di tosare la lana laddove è più facile raderla, per reperire risorse allo Stato. Niente però che abbia a che fare con la giustizia sociale».
Intanto l'Australia va, con l'approvazione della nuova legge sul lavoro e i rapporti industriali annunciata nell'ottobre scorso, di cui avevo parlato in questo post. Su Il Sole24Ore leggiamo: «Contrattazione individuale al posto di quella collettiva, sostanziale annullamento del potere dei sindacati, forti limitazioni al diritto di sciopero, ampia libertà di licenziamento senza giusta causa» per le aziende con meno di cento dipendenti.
Mi sta particolarmente a cuore il principio della libertà contrattuale, uno dei cardini del libero mercato, qui in Italia praticamente soffocato. Agli antipodi (in tutti i sensi) hanno introdotto cinque requisiti minimi di contrattazione universale: salario minimo orario (che saranno fissati da una Fair Pay Commission), quattro settimane di ferie all'anno, dieci giorni di malattia, 12 mesi di congedo parentale non retribuito e una settimana lavorativa di 38 ore. Il resto potrà essere discusso caso per caso. Quella dei requisiti minimi universali, anche se non con un assetto così liberista, è comunque la proposta di Boeri per liberalizzare la contrattazione.
Thursday, March 30, 2006
Chi è il matto?
Manfredo da Milano o Romano da Bologna?
Prodi stamattina a Radio Anch'io ha dato del matto a un ascoltatore (Ascolta). Poi la pubblicità in cui i suoi accompagnatori devono averlo redarguito; immaginiamo la moglie sobbalzare a questo linguaggio "truculento" del consorte (che il mite Romano stia cominciando a sentire lo stress della campagna?). Fatto sta che poi si è fantozzianamente scusato (Ascolta)
Una decina di minuti più tardi, a un paese che si sta con difficoltà liberando dei baby pensionati, prospetta addirittura il grande traguardo sociale dei baby pensionatini (Ascolta). Di seguito la trascrizione letterale:
«... Non se ne parla perché c'è tutto questo dibattito concentrato sullo zero zero virgola due di fisco e non si parla mai delle nostre proposte riguardo alla politica familiare. Cioè, il problema non è solo dare alla luce un figlio... cioè un bonus quando nasce, il problema è far crescere il bambino, e noi abbiamo una proposta che è molto importante. Cioè, noi oggi abbiamo gli assegni familiari che sono soltanto per i lavoratori dipendenti e sono piuttosto modesti, poi abbiamo degli aiuti fiscali che però non toccano i quindici milioni di italiani più poveri, perché non pagano imposte, e poi abbiamo l'assegno per il terzo figlio che il nostro governo fece.
Adesso bisogna unificarle, e le vogliamo unificare, la proposta è, in duemila e cinquecento euro all'anno per ogni bambino fino all'età di diciotto anni. Quindi non solo un assegno quando uno nasce ma accompagnarlo fino a diciotto anni. Le risorse che oggi abbiamo... (...) Questo è un aiuto per i bambini. Cioè, da zero a diciotto anni, duecento euro al mese, penso che arriviamo a duemila e cinquecento euro all'anno, di assegni familiari per tutti, esclusa ovviamente la fascia più ricca, ma a livello molto elevato. Ora abbiamo le risorse, subito, per dar questo assegno ai bambini da zero a tre anni, immediatamente, e spingeremo perché si arrivi il più presto possibile fino a diciotto anni. Sono duecentosettanta milioni di euro ogni anno. Non è una cifra folle, e quindi io credo che si riuscirà abbastanza in fretta ad accompagnare la crescita di un bambino con un aiuto di duecento euro al mese fino a diciotto anni».
Facciamo due conticini, per vedere chi è il matto.
Prima Fase («immediatamente»): assegno di 2.500 euro l'anno ai bimbi da zero a tre anni.
562 mila nati (dati Istat 2004) moltiplicati per tre anni fanno almeno 1 milione 686 mila (senza calcolare la tendenza all'incremento annuo delle nascite) a cui garantire i 2.500 euro. Prodi precisa «esclusa ovviamente la fascia più ricca, ma a livello molto elevato». Secondo il candidato premier il costo annuo è di 270 milioni di euro l'anno, cifra che però, divisa per i 2.500 euro pro-baby promessi fanno 108 mila baby-pensionatini. Anche aggiungendo le risorse reperibili dagli attuali assegni familiari e sgravi fiscali, dovremmo a questo punto supporre che la maggior parte del milione e mezzo di bimbi rimasti fuori abbiano avuto la fortuna di esser nati in famiglie ricchissime. Il che sarebbe in lieve contrasto con l'immagine del paese messo in ginocchio dal governo Berlusconi, ma vabbè...
Seconda Fase («il più presto possibile»): assegno di 2.500 euro l'anno ai ragazzi da zero a 18 anni (sì, avete letto bene, 18).
Considerando un tasso di crescita zero, stima al massimo favorevole per le casse dello stato, ma catastrofica per la natalità, i 562 mila nati l'anno (dati Istat 2004) vanno moltiplicati per 18 e fanno 10 milioni 116 mila ragazzi cui garantire il sussidio. Tralasciando l'esclusione per «la fascia più ricca, ma a livello molto elevato», il costo annuo per lo stato si avvicinerebbe alla cifra di euro 25.290.000.000, quasi 50 mila miliardi delle vecchie lire. Ma si sa, i ricchissimi sono la maggior parte, quindi le casse dello stato sono salve.
Chi è il matto?
featuring: Calvin Campbell; blogsharing La fuitina
Prodi stamattina a Radio Anch'io ha dato del matto a un ascoltatore (Ascolta). Poi la pubblicità in cui i suoi accompagnatori devono averlo redarguito; immaginiamo la moglie sobbalzare a questo linguaggio "truculento" del consorte (che il mite Romano stia cominciando a sentire lo stress della campagna?). Fatto sta che poi si è fantozzianamente scusato (Ascolta)
Una decina di minuti più tardi, a un paese che si sta con difficoltà liberando dei baby pensionati, prospetta addirittura il grande traguardo sociale dei baby pensionatini (Ascolta). Di seguito la trascrizione letterale:
«... Non se ne parla perché c'è tutto questo dibattito concentrato sullo zero zero virgola due di fisco e non si parla mai delle nostre proposte riguardo alla politica familiare. Cioè, il problema non è solo dare alla luce un figlio... cioè un bonus quando nasce, il problema è far crescere il bambino, e noi abbiamo una proposta che è molto importante. Cioè, noi oggi abbiamo gli assegni familiari che sono soltanto per i lavoratori dipendenti e sono piuttosto modesti, poi abbiamo degli aiuti fiscali che però non toccano i quindici milioni di italiani più poveri, perché non pagano imposte, e poi abbiamo l'assegno per il terzo figlio che il nostro governo fece.
Adesso bisogna unificarle, e le vogliamo unificare, la proposta è, in duemila e cinquecento euro all'anno per ogni bambino fino all'età di diciotto anni. Quindi non solo un assegno quando uno nasce ma accompagnarlo fino a diciotto anni. Le risorse che oggi abbiamo... (...) Questo è un aiuto per i bambini. Cioè, da zero a diciotto anni, duecento euro al mese, penso che arriviamo a duemila e cinquecento euro all'anno, di assegni familiari per tutti, esclusa ovviamente la fascia più ricca, ma a livello molto elevato. Ora abbiamo le risorse, subito, per dar questo assegno ai bambini da zero a tre anni, immediatamente, e spingeremo perché si arrivi il più presto possibile fino a diciotto anni. Sono duecentosettanta milioni di euro ogni anno. Non è una cifra folle, e quindi io credo che si riuscirà abbastanza in fretta ad accompagnare la crescita di un bambino con un aiuto di duecento euro al mese fino a diciotto anni».
Facciamo due conticini, per vedere chi è il matto.
Prima Fase («immediatamente»): assegno di 2.500 euro l'anno ai bimbi da zero a tre anni.
562 mila nati (dati Istat 2004) moltiplicati per tre anni fanno almeno 1 milione 686 mila (senza calcolare la tendenza all'incremento annuo delle nascite) a cui garantire i 2.500 euro. Prodi precisa «esclusa ovviamente la fascia più ricca, ma a livello molto elevato». Secondo il candidato premier il costo annuo è di 270 milioni di euro l'anno, cifra che però, divisa per i 2.500 euro pro-baby promessi fanno 108 mila baby-pensionatini. Anche aggiungendo le risorse reperibili dagli attuali assegni familiari e sgravi fiscali, dovremmo a questo punto supporre che la maggior parte del milione e mezzo di bimbi rimasti fuori abbiano avuto la fortuna di esser nati in famiglie ricchissime. Il che sarebbe in lieve contrasto con l'immagine del paese messo in ginocchio dal governo Berlusconi, ma vabbè...
Seconda Fase («il più presto possibile»): assegno di 2.500 euro l'anno ai ragazzi da zero a 18 anni (sì, avete letto bene, 18).
Considerando un tasso di crescita zero, stima al massimo favorevole per le casse dello stato, ma catastrofica per la natalità, i 562 mila nati l'anno (dati Istat 2004) vanno moltiplicati per 18 e fanno 10 milioni 116 mila ragazzi cui garantire il sussidio. Tralasciando l'esclusione per «la fascia più ricca, ma a livello molto elevato», il costo annuo per lo stato si avvicinerebbe alla cifra di euro 25.290.000.000, quasi 50 mila miliardi delle vecchie lire. Ma si sa, i ricchissimi sono la maggior parte, quindi le casse dello stato sono salve.
Chi è il matto?
featuring: Calvin Campbell; blogsharing La fuitina
In un paese normale Prodi avrebbe già perso
In un paese normale, durante una campagna elettorale normale, la confusione sul taglio del cuneo fiscale e il suo finanziamento tramite "armonizzazioni" fiscali sarebbe costato a Prodi l'elezione. E sarebbe stato giusto, perché la cialtroneria si paga. Non so chi sia, ma stringerei volentieri la mano al suo advisor elettorale. Senza che Berlusconi si esponesse a promettere "meno tasse per tutti", sono due settimane che i leader dell'Unione s'impegnano, con un certo successo, a dimostrare la fondatezza del teorema preferito del premier, cioè che la sinistra è garanzia di più tasse e più stato.
Ci sono volute due settimane per chiarire che l'aumento delle aliquote sarà solo per Bot e Cct di nuova emissione, ma così gli introiti saranno insufficienti a coprire il promesso taglio del cuneo fiscale. Anche sulla reintroduzione della tassa di successione, è sempre più chiaro quali siano questi grandi patrimoni e ricchi ereditieri di cui colpire l'"immorale" rendita: le famiglie che vivono in una casa di proprietà. Non ha importanza la cifra esatta, perché quelle che si sentono, da 180 mila a 500 mila euro, corrispondono sempre al valore di un'abitazione più o meno grande in città come Roma e Milano. Fossero anche 1 milione di euro, tra prima casa, casa di villeggiatura e qualche risparmio, vi sembrano questi i ricchi da colpire? A me sembra il classico ceto medio, quello che ormai vota anche a sinistra.
Le ultime fasi della campagna elettorale si giocheranno quindi sul tema più congeniale al centrodestra per il recupero del suo elettorato deluso e indeciso. Uno scivolone che rischia di rimanere nella storia delle campagne elettorali italiane al pari del famoso primo duello televisivo che sbarrò la strada a Nixon contro Kennedy negli Stati Uniti.
Ma procediamo con ordine. Anche se non ne ho scritto, ho seguito le varie fasi della vicenda. Si parte dal primo duello televisivo con Berlusconi. In quell'occasione, nonostante la reticenza di Prodi nell'indicare cifre e coperture del taglio di 5 punti del costo del lavoro, una linea apparve definita: tassazione delle rendite finanziarie; armonizzazione del peso contributivo tra lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato; lotta all'evasione fiscale.
Lotta all'evasione
Quest'ultima voce fa da jolly, è buona per tutte le stagioni. Oltre a essere inadeguata, per tempi e quantità, al reperimento delle somme necessarie, anche perché richiede comunque l'investimento di altre risorse, nel nostro paese una seria lotta all'evasione rimarrà priva di ogni credibilità finché le aliquote rimarranno a tal punto elevate per cui evasione e lavoro nero sono condizioni indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo di tante piccole-medie imprese e, quindi, non vengono percepite con sufficiente riprovazione dalla comunità.
Rendite finanziarie
Le prime due voci fanno tremare i polsi. Chi investe i risparmi in azioni e obbligazioni, Bot e altro, non gode di una rendita, bensì di un compenso per aver posticipato il suo consumo ed essersi assunto un rischio. E' questo il motivo per cui l'aliquota fiscale di questi investimenti è più bassa, al 12,5%, di quella dei conti correnti bancari, al 27%. Questi ultimi sono liquidità, mentre Bot, obbligazioni e fondi gestiti sono risparmio. La diversa aliquota è di stimolo e premio fiscale per le rinunce di chi risparmia e rischia.
Il termine «rendita» evoca nella mente del pubblico un guadagno ottenuto senza sforzo, improduttivo, moralmente discutibile e quindi da tassare pesantemente. Invece, risparmiare, come tutti sappiamo, comporta un sacrificio, la rinuncia a consumare oggi nella speranza di poter consumare, un po' di più, un domani. Quindi, tassare le cosiddette rendite finanziarie portandole al 19 o 20% vuol dire tassare il risparmio, tassare il nostro futuro indebolendo la nostra capacità di consumo futuro.
E' realistico, come si sente dire, che a essere colpiti saranno i grandi capitali e le grandi speculazioni? No, perché chi ha dei risparmi, frutto del proprio lavoro (già tassato a monte con l'Irpef) non è in grado di crearsi una fiduciaria statica ad Andorra, Lussemburgo, Montecarlo, Svizzera, e non scamperà all'inasprimento della tassazione, mentre chi ha accumulato grandi capitali, anche evadendo il fisco, potrà continuare ad agire come sempre, attraverso trust e scudi fiscali specificamente progettati da advisor profumatamente retribuiti.
D'altra parte, la corrispettiva riduzione promessa, dal 27 al 20%, della trattenuta secca sui conti correnti bancari non bilancia il maltolto, visto che le banche non passano al cliente i benefici di una riduzione dei costi in modo così automatico e sollecito col quale gli addebitano eventuali aumenti.
Inoltre, tutto ciò potrebbe non bastare. Il gettito ricavato da "armonizzazioni" che escludessero Bot e Cct già emessi è incerto, ma comunque inadeguato (un quinto del necessario) a coprire un taglio sensibile del cuneo fiscale, con danno per la classe media, che percepirebbe solo l'aumento di tasse sul risparmio. Abbassare il costo del lavoro, avverte il direttore del centro di politica e di amministrazione fiscale dell'Ocse Jeffrey Owens, è «un obiettivo molto seducente, ma è più difficile a dire che a fare, in quanto significa ridurre le spese sociali». Ipotesi però subito respinta da Tiziano Treu (Margherita): «Ci mancherebbe altro. È evidente che non può essere toccata la spesa sociale, ma noi pensiamo di reperire le risorse altrove». E' questo «altrove» che spaventa. Ecco il punto: una riduzione credibile, perché significativa, del costo del lavoro passa necessariamente per una riduzione della spesa sociale e previdenziale, e non semplicemente per una redistribuzione del carico fiscale, cioè per più tasse da prelevare da altre fonti.
Chi non fosse disposto a intaccare la spesa dovrebbe per lo meno impegnarsi nelle liberalizzazioni, come chiede la Rosa nel Pugno con l'"agenda" Giavazzi. Non essendoci soldi che permettano di abbassare le tasse da una parte senza contemporaneamente alzarle da un'altra, o senza ridurre la spesa, meglio cercare di scuotere il paese cambiando e semplificando le regole del mercato del lavoro, dei servizi e delle professioni.
Armonizzazione contributiva
L'armonizzazione fiscale tra rendite finanziarie e conti corrente coprirebbe solo un quinto della riduzione di 5 punti del cuneo contributivo sul lavoro, che costa dieci miliardi. Gli altri quattro quinti verrebbero ricavati con aumenti di contributi previdenziali sul lavoro parasubordinato e sugli altri contratti della legge Biagi. Il cuneo scende da una parte, sale dall'altra.
Sotto l'eufemismo «armonizzazione» contributiva si nasconde infatti un'altra pericolosissima misura. Se per diminuire il costo del lavoro a tempo indeterminato si aumenta quello del lavoro a tempo determinato, gli effetti positivi della prima misura verranno compensati da quelli negativi della seconda. Soprattutto, si vanno a colpire i giovani alle prime esperienze lavorative, la cui assunzione anche a tempo determinato o a progetto richiederebbe alle aziende costi quasi identici a un'assunzione a tempo indeterminato. Anziché venire assunti a tempo indeterminato - si eliminerebbe così, ci viene detto, la precarietà - l'effetto sarebbe, in un periodo di stagnazione, quello di non venire proprio assunti o di venire assunti in nero.
Sia le politiche di centrosinistra (con Treu) che di centrodestra (Legge Biagi) hanno dimostrato che è valida la direzione opposta, quella cioè volta a far emergere lavoro nero e a creare nuova occupazione flessibile, allargando il più possibile la base imponibile. Invece, equiparare le due aliquote contributive al 25%, significa tassare i figli, o chiunque non abbia le super-tutele del posto fisso, per favorire i padri, o chiunque sia già nel recinto degli iper-protetti. Da ultima è giunta la presa di posizione di Montezemolo, per il quale la Legge Biagi «non va toccata, ma completata», anche con gli ammortizzatori sociali. Che Confindustria si prepari a sostenere la Rosa nel Pugno?
Tassa di successione
Per non parlare dell'ipotesi di reintroduzione della tassa di successione, un vero e proprio autogol. Limitatamente ai «grandi patrimoni», ci viene detto, ma poi si parla di una soglia di 500 mila euro, cioè ormai il valore di un appartamento di media grandezza e in buona posizione in una grande città come Roma o Milano. Vogliamo alzare la soglia a 1 milione di euro? Avremo un patrimonio costituito dall'appartamento di prima, da una modesta casa in una località di villeggiatura, e da un po' di risparmi in banca. Facciamo un 2 milioni di euro, aggiungendo a quanto detto una piccola attività commerciale. Sarebbero questi i ricchi ereditieri che si meritano la tassa di successione? A me sembra piuttosto che così si colpisca il ceto medio produttivo. Anche qui, è facile capire il perché. La verità è che si pensa di puntare su questa tassa per delle significative entrate, mentre se ci si limitasse davvero alle grandi fortune il gettito sarebbe quasi simbolico.
Ci sono volute due settimane per chiarire che l'aumento delle aliquote sarà solo per Bot e Cct di nuova emissione, ma così gli introiti saranno insufficienti a coprire il promesso taglio del cuneo fiscale. Anche sulla reintroduzione della tassa di successione, è sempre più chiaro quali siano questi grandi patrimoni e ricchi ereditieri di cui colpire l'"immorale" rendita: le famiglie che vivono in una casa di proprietà. Non ha importanza la cifra esatta, perché quelle che si sentono, da 180 mila a 500 mila euro, corrispondono sempre al valore di un'abitazione più o meno grande in città come Roma e Milano. Fossero anche 1 milione di euro, tra prima casa, casa di villeggiatura e qualche risparmio, vi sembrano questi i ricchi da colpire? A me sembra il classico ceto medio, quello che ormai vota anche a sinistra.
Le ultime fasi della campagna elettorale si giocheranno quindi sul tema più congeniale al centrodestra per il recupero del suo elettorato deluso e indeciso. Uno scivolone che rischia di rimanere nella storia delle campagne elettorali italiane al pari del famoso primo duello televisivo che sbarrò la strada a Nixon contro Kennedy negli Stati Uniti.
Ma procediamo con ordine. Anche se non ne ho scritto, ho seguito le varie fasi della vicenda. Si parte dal primo duello televisivo con Berlusconi. In quell'occasione, nonostante la reticenza di Prodi nell'indicare cifre e coperture del taglio di 5 punti del costo del lavoro, una linea apparve definita: tassazione delle rendite finanziarie; armonizzazione del peso contributivo tra lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato; lotta all'evasione fiscale.
Lotta all'evasione
Quest'ultima voce fa da jolly, è buona per tutte le stagioni. Oltre a essere inadeguata, per tempi e quantità, al reperimento delle somme necessarie, anche perché richiede comunque l'investimento di altre risorse, nel nostro paese una seria lotta all'evasione rimarrà priva di ogni credibilità finché le aliquote rimarranno a tal punto elevate per cui evasione e lavoro nero sono condizioni indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo di tante piccole-medie imprese e, quindi, non vengono percepite con sufficiente riprovazione dalla comunità.
Rendite finanziarie
Le prime due voci fanno tremare i polsi. Chi investe i risparmi in azioni e obbligazioni, Bot e altro, non gode di una rendita, bensì di un compenso per aver posticipato il suo consumo ed essersi assunto un rischio. E' questo il motivo per cui l'aliquota fiscale di questi investimenti è più bassa, al 12,5%, di quella dei conti correnti bancari, al 27%. Questi ultimi sono liquidità, mentre Bot, obbligazioni e fondi gestiti sono risparmio. La diversa aliquota è di stimolo e premio fiscale per le rinunce di chi risparmia e rischia.
Il termine «rendita» evoca nella mente del pubblico un guadagno ottenuto senza sforzo, improduttivo, moralmente discutibile e quindi da tassare pesantemente. Invece, risparmiare, come tutti sappiamo, comporta un sacrificio, la rinuncia a consumare oggi nella speranza di poter consumare, un po' di più, un domani. Quindi, tassare le cosiddette rendite finanziarie portandole al 19 o 20% vuol dire tassare il risparmio, tassare il nostro futuro indebolendo la nostra capacità di consumo futuro.
E' realistico, come si sente dire, che a essere colpiti saranno i grandi capitali e le grandi speculazioni? No, perché chi ha dei risparmi, frutto del proprio lavoro (già tassato a monte con l'Irpef) non è in grado di crearsi una fiduciaria statica ad Andorra, Lussemburgo, Montecarlo, Svizzera, e non scamperà all'inasprimento della tassazione, mentre chi ha accumulato grandi capitali, anche evadendo il fisco, potrà continuare ad agire come sempre, attraverso trust e scudi fiscali specificamente progettati da advisor profumatamente retribuiti.
D'altra parte, la corrispettiva riduzione promessa, dal 27 al 20%, della trattenuta secca sui conti correnti bancari non bilancia il maltolto, visto che le banche non passano al cliente i benefici di una riduzione dei costi in modo così automatico e sollecito col quale gli addebitano eventuali aumenti.
Inoltre, tutto ciò potrebbe non bastare. Il gettito ricavato da "armonizzazioni" che escludessero Bot e Cct già emessi è incerto, ma comunque inadeguato (un quinto del necessario) a coprire un taglio sensibile del cuneo fiscale, con danno per la classe media, che percepirebbe solo l'aumento di tasse sul risparmio. Abbassare il costo del lavoro, avverte il direttore del centro di politica e di amministrazione fiscale dell'Ocse Jeffrey Owens, è «un obiettivo molto seducente, ma è più difficile a dire che a fare, in quanto significa ridurre le spese sociali». Ipotesi però subito respinta da Tiziano Treu (Margherita): «Ci mancherebbe altro. È evidente che non può essere toccata la spesa sociale, ma noi pensiamo di reperire le risorse altrove». E' questo «altrove» che spaventa. Ecco il punto: una riduzione credibile, perché significativa, del costo del lavoro passa necessariamente per una riduzione della spesa sociale e previdenziale, e non semplicemente per una redistribuzione del carico fiscale, cioè per più tasse da prelevare da altre fonti.
Chi non fosse disposto a intaccare la spesa dovrebbe per lo meno impegnarsi nelle liberalizzazioni, come chiede la Rosa nel Pugno con l'"agenda" Giavazzi. Non essendoci soldi che permettano di abbassare le tasse da una parte senza contemporaneamente alzarle da un'altra, o senza ridurre la spesa, meglio cercare di scuotere il paese cambiando e semplificando le regole del mercato del lavoro, dei servizi e delle professioni.
Armonizzazione contributiva
L'armonizzazione fiscale tra rendite finanziarie e conti corrente coprirebbe solo un quinto della riduzione di 5 punti del cuneo contributivo sul lavoro, che costa dieci miliardi. Gli altri quattro quinti verrebbero ricavati con aumenti di contributi previdenziali sul lavoro parasubordinato e sugli altri contratti della legge Biagi. Il cuneo scende da una parte, sale dall'altra.
Sotto l'eufemismo «armonizzazione» contributiva si nasconde infatti un'altra pericolosissima misura. Se per diminuire il costo del lavoro a tempo indeterminato si aumenta quello del lavoro a tempo determinato, gli effetti positivi della prima misura verranno compensati da quelli negativi della seconda. Soprattutto, si vanno a colpire i giovani alle prime esperienze lavorative, la cui assunzione anche a tempo determinato o a progetto richiederebbe alle aziende costi quasi identici a un'assunzione a tempo indeterminato. Anziché venire assunti a tempo indeterminato - si eliminerebbe così, ci viene detto, la precarietà - l'effetto sarebbe, in un periodo di stagnazione, quello di non venire proprio assunti o di venire assunti in nero.
Sia le politiche di centrosinistra (con Treu) che di centrodestra (Legge Biagi) hanno dimostrato che è valida la direzione opposta, quella cioè volta a far emergere lavoro nero e a creare nuova occupazione flessibile, allargando il più possibile la base imponibile. Invece, equiparare le due aliquote contributive al 25%, significa tassare i figli, o chiunque non abbia le super-tutele del posto fisso, per favorire i padri, o chiunque sia già nel recinto degli iper-protetti. Da ultima è giunta la presa di posizione di Montezemolo, per il quale la Legge Biagi «non va toccata, ma completata», anche con gli ammortizzatori sociali. Che Confindustria si prepari a sostenere la Rosa nel Pugno?
Tassa di successione
Per non parlare dell'ipotesi di reintroduzione della tassa di successione, un vero e proprio autogol. Limitatamente ai «grandi patrimoni», ci viene detto, ma poi si parla di una soglia di 500 mila euro, cioè ormai il valore di un appartamento di media grandezza e in buona posizione in una grande città come Roma o Milano. Vogliamo alzare la soglia a 1 milione di euro? Avremo un patrimonio costituito dall'appartamento di prima, da una modesta casa in una località di villeggiatura, e da un po' di risparmi in banca. Facciamo un 2 milioni di euro, aggiungendo a quanto detto una piccola attività commerciale. Sarebbero questi i ricchi ereditieri che si meritano la tassa di successione? A me sembra piuttosto che così si colpisca il ceto medio produttivo. Anche qui, è facile capire il perché. La verità è che si pensa di puntare su questa tassa per delle significative entrate, mentre se ci si limitasse davvero alle grandi fortune il gettito sarebbe quasi simbolico.
Wednesday, March 29, 2006
Comunismo uguale nazismo. Si può dire?
Era quella la scena da riprendere ma le telecamere erano altrove. E Berlusconi stavolta ha ragione, sulla conduzione di Floris, ieri sera, a Ballarò. E' in corso un'accesa polemica tra la Bonino e Bertinotti, sulla condanna del nazismo, che ha preso avvio dal precedente battibecco tra Emma e il premier, ma lo scontro non viene ripreso dalle telecamere. Bertinotti non può sopportare che la Bonino equipari il comunismo al nazismo e si ribella.
Floris fa su e giù per lo studio, li ignora, lancia l'intervento del «solito esperto neutrale» e chiede ad alta voce, alla regia, di abbassare l'audio. A quel punto Berlusconi si alza dalla sedia, lo prende sotto braccio, lo strattona quasi, sino ad un angolo dello studio, ma Emma non lascia la scena al Cav. e va anche lei da Floris. Quella che segue è la trascrizione letterale dello scambio. (qui il video)
Floris: «Giustamente l'onorevole Bonino, che alla battaglia per i diritti civili in Cina ha dedicato gran parte della sua attività politica, vuole un tempo per replicare...»
Berlusconi: «Adesso si lamenta perché ho ricordato una verità storica...»
Bonino: «Quella comunista, come quella nazista...»
Berlusconi: «Esatto. E lei si fa scandalo?...»
Floris a questo punto li interrompe e prende la parola per far intervenire sulle tasse un tributarista in collegamento, ma da qui parte, appena udibile, la polemica Bonino-Bertinotti, inquadrati mentre discutono da una telecamera sul soffitto dello studio. Il segretario di Rifondazione reagisce quando la Bonino equipara il comunismo al nazismo.
Bertinotti (alla Bonino): «Questa è la tua opinione, questa è la tua opinione. In questo paese tu vivi perché i comunisti hanno fatto la resistenza. Tu, tu, vivi...»
Bonino (a Bertinotti): «Ma sto parlando della Cina, oh...»
Bertinotti: «I comunisti sono i comunisti, mia cara, mia cara!»
Bonino (a Bertinotti): «Ma c'era il dossier della Cina» (?)
Berlusconi (a Floris): «Sta succedendo una cosa interessante. Stavano litigando il signor Bertinotti e la signora Bonino...».
Floris chiede a voce alta alla regia di abbassare l'audio in studio per calmare gli animi e poter dare la parola al tributarista in collegamento.
Berlusconi si alza in piedi, prende Floris sotto braccio: «Il fatto interessante, glielo insegno (rivolto a Floris), era quello che sta succedendo tra la signora Bonino e il signor Bertinotti».
Anche la Bonino raggiunge i due al centro dello studio.
Berlusconi: «Glielo spiega Emma?».
«Floris è un fazioso, anche i cameraman a Ballarò fanno le inquadrature da faziosi», dirà poi il premier commentando l'accaduto, non avendo tutti i torti. E' evidente che Floris ha inteso tutelare l'immagine dell'Unione facendo in modo che non fosse evidente una divisione fin troppo ovvia sul comunismo tra la Bonino e Bertinotti, cosa che invece faceva gongolare Berlusconi.
Eppure, da questo momento di manipolazione mediatica non ne sono usciti avvantaggiati i radicali, che hanno invece tutto l'interesse a dimostrare che essersi schierati con l'Unione non li ha resi meno anti-comunisti di prima. Nel pomeriggio dice la sua anche Pannella, anche se non è chiaro se si riferisse al singolo episodio o in generale.
«Potrebbe essere un esempio di conduzione "santoriale", di disonestà e parzialità nell'informazione televisiva. Esperti stanno visionando la registrazione della puntata per verificare che non ci siano state irregolarità e favoritismi nell'attribuzione dei tempi e nell'uso di telecamere e microfoni. Alla luce di questo si deciderà se rivolgersi ad autorità garante o autorità giudiziaria».
Floris fa su e giù per lo studio, li ignora, lancia l'intervento del «solito esperto neutrale» e chiede ad alta voce, alla regia, di abbassare l'audio. A quel punto Berlusconi si alza dalla sedia, lo prende sotto braccio, lo strattona quasi, sino ad un angolo dello studio, ma Emma non lascia la scena al Cav. e va anche lei da Floris. Quella che segue è la trascrizione letterale dello scambio. (qui il video)
Floris: «Giustamente l'onorevole Bonino, che alla battaglia per i diritti civili in Cina ha dedicato gran parte della sua attività politica, vuole un tempo per replicare...»
Berlusconi: «Adesso si lamenta perché ho ricordato una verità storica...»
Bonino: «Quella comunista, come quella nazista...»
Berlusconi: «Esatto. E lei si fa scandalo?...»
Floris a questo punto li interrompe e prende la parola per far intervenire sulle tasse un tributarista in collegamento, ma da qui parte, appena udibile, la polemica Bonino-Bertinotti, inquadrati mentre discutono da una telecamera sul soffitto dello studio. Il segretario di Rifondazione reagisce quando la Bonino equipara il comunismo al nazismo.
Bertinotti (alla Bonino): «Questa è la tua opinione, questa è la tua opinione. In questo paese tu vivi perché i comunisti hanno fatto la resistenza. Tu, tu, vivi...»
Bonino (a Bertinotti): «Ma sto parlando della Cina, oh...»
Bertinotti: «I comunisti sono i comunisti, mia cara, mia cara!»
Bonino (a Bertinotti): «Ma c'era il dossier della Cina» (?)
Berlusconi (a Floris): «Sta succedendo una cosa interessante. Stavano litigando il signor Bertinotti e la signora Bonino...».
Floris chiede a voce alta alla regia di abbassare l'audio in studio per calmare gli animi e poter dare la parola al tributarista in collegamento.
Berlusconi si alza in piedi, prende Floris sotto braccio: «Il fatto interessante, glielo insegno (rivolto a Floris), era quello che sta succedendo tra la signora Bonino e il signor Bertinotti».
Anche la Bonino raggiunge i due al centro dello studio.
Berlusconi: «Glielo spiega Emma?».
«Floris è un fazioso, anche i cameraman a Ballarò fanno le inquadrature da faziosi», dirà poi il premier commentando l'accaduto, non avendo tutti i torti. E' evidente che Floris ha inteso tutelare l'immagine dell'Unione facendo in modo che non fosse evidente una divisione fin troppo ovvia sul comunismo tra la Bonino e Bertinotti, cosa che invece faceva gongolare Berlusconi.
Eppure, da questo momento di manipolazione mediatica non ne sono usciti avvantaggiati i radicali, che hanno invece tutto l'interesse a dimostrare che essersi schierati con l'Unione non li ha resi meno anti-comunisti di prima. Nel pomeriggio dice la sua anche Pannella, anche se non è chiaro se si riferisse al singolo episodio o in generale.
«Potrebbe essere un esempio di conduzione "santoriale", di disonestà e parzialità nell'informazione televisiva. Esperti stanno visionando la registrazione della puntata per verificare che non ci siano state irregolarità e favoritismi nell'attribuzione dei tempi e nell'uso di telecamere e microfoni. Alla luce di questo si deciderà se rivolgersi ad autorità garante o autorità giudiziaria».
Nostra Ucraina. Un arancione non deluso
Caro direttore, da arancione non sono deluso e mi sono scaldato per Minsk. Le analisi di questi giorni sembrano confondere piani diversi. L'errore di fondo è far coincidere l'esito della "rivoluzione arancione" con le sorti elettorali di uno dei suoi artefici. Sognavamo l'Ucraina democratica o solo filo-occidentale? O tutt'e due le cose? Per quanto sia brutto il successo dei filo-russi, comunque al 30%, oggi il loro peso politico si misura con consensi reali, non con la forza. Le elezioni, per oltre 2 mila osservatori, sono state libere e corrette. Oggi alternanza, libera espressione della volontà popolare, dialettica parlamentare, istituzionalizzazione delle crisi, danno sostanza alla democrazia ucraina. Certo, è ancora fragile ed esposta a influenze esterne, ma un ritorno al passato è improbabile. Uno studio dell'autorevole Freedom House dimostra che è tipico delle rivoluzioni nonviolente che il fronte democratico si divida una volta avviata la transizione alla democrazia. Le forze civiche e politiche che avevano fatto fronte comune contro il regime si presentano divise alle elezioni, ma ciò non pregiudica il processo democratico, è anzi fisiologico. Se invece la nostra preoccupazione è squisitamente geopolitica, è sottrarre l'Ucraina all'influenza russa, allora il problema è un altro: è l'Europa, pronta a tendere una mano ma anche a ritirarla, totalmente priva di qualsiasi politica estera.
E' vero che l'emancipazione dalla Russia è un processo molto complicato, che non può avvenire con le sole forze nazionali, ma non è pensabile - per la loro storia, la cultura e la posizione geografica - che a Kiev e a Minsk si governi contro o senza Mosca. Dunque, anche qui il problema, a lungo termine, è la democrazia in Russia. Solo con una Russia compiutamente democratica le ex repubbliche sovietiche potranno intrattenervi buoni rapporti di interdipendenza, e non di subalternità, che non mettano a rischio il loro assetto democratico. Sapevamo che a Minsk non era la volta buona, Lukashenko è più forte di quanto lo fosse Kuchma (ha un più stretto controllo sui media e nell'insignificante Parlamento bielorusso non c'è alcuna opposizione democratica), ma la strada intrapresa è quella giusta e c'è da essere ottimisti, soprattutto se l'Occidente lavora unito.
Per la prima volta in Bielorussia migliaia di persone «hanno trionfato sulla paura»; esiste un'opposizione, è visibile, consapevole di sé, capace di organizzarsi, ha i suoi leader, è nonviolenta e ha l'appoggio di Europa e Stati Uniti. Non è stata la volta buona, ma qualcosa di buono ha avuto inizio. Che sia l'inizio della fine per Lukashenko?
E' vero che l'emancipazione dalla Russia è un processo molto complicato, che non può avvenire con le sole forze nazionali, ma non è pensabile - per la loro storia, la cultura e la posizione geografica - che a Kiev e a Minsk si governi contro o senza Mosca. Dunque, anche qui il problema, a lungo termine, è la democrazia in Russia. Solo con una Russia compiutamente democratica le ex repubbliche sovietiche potranno intrattenervi buoni rapporti di interdipendenza, e non di subalternità, che non mettano a rischio il loro assetto democratico. Sapevamo che a Minsk non era la volta buona, Lukashenko è più forte di quanto lo fosse Kuchma (ha un più stretto controllo sui media e nell'insignificante Parlamento bielorusso non c'è alcuna opposizione democratica), ma la strada intrapresa è quella giusta e c'è da essere ottimisti, soprattutto se l'Occidente lavora unito.
Per la prima volta in Bielorussia migliaia di persone «hanno trionfato sulla paura»; esiste un'opposizione, è visibile, consapevole di sé, capace di organizzarsi, ha i suoi leader, è nonviolenta e ha l'appoggio di Europa e Stati Uniti. Non è stata la volta buona, ma qualcosa di buono ha avuto inizio. Che sia l'inizio della fine per Lukashenko?
Bonino leader di carattere
Mentre nel post qua sotto qualcuno nei commenti cerca di buttarla in caciara a caccia dell'ago nel pagliaio, e mentre qualcuno reagisce "di pancia", perché quando ti «tradiscono gli amici il dolore è più forte» (anche se a me non è chiaro chi ha tradito chi), provo a buttare giù in questo post qualche riflessione sulla performance della Bonino al confronto a quattro di stasera a Ballarò (con Berlusconi, Bertinotti e Rotondi).
Il punto di forza della Bonino è stato senz'altro, al di là dei contenuti, il carattere, l'immagine di una leader donna che tiene testa a Berlusconi. Capace di raggiungerlo quando con un colpo di teatro il premier s'è alzato e s'è affiancato a Floris per continuare a parlare. Ecco, su questo, al di là di come ciascuno interpreti i vari scambi polemici, mi pare possano concordare in molti.
Nel merito, ho trovato efficace la critica al governo da posizioni liberali, cioè chiedendo conto di quelle riforme economiche liberali, a "costo zero", non fatte (nonostante la schiacciante maggioranza); delle tendenze protezionistiche; della difesa degli ordini e delle corporazioni; in generale, del tradimento delle aspettative di molti elettori che nel 2001 avevano sperato nella "rivoluzione liberale". «Non penso che lei sia Belzebù ma con le possibilità che aveva, provi a dire "non ci siamo riusciti" e non che va tutto bene. Presidente in che paese vive?».
E non sarà diventato un settimanale bolscevico, se Newsweek, che titola «Perché Silvio non sorride più?», sostiene che il premier avrebbe tradito in economia proprio «Reagan e la Thacher».
Va detto però che Berlusconi è parso parare abbastanza bene i colpi volti a sottrargli elettori delusi, più con la grinta e sottolineando le contraddizioni degli avversari che smontando nello specifico le critiche mosse dalla Bonino.
Di laicità quasi non s'è parlato, e io temevo che si eccedesse, ma forse un po' ci voleva, anche se Floris ha impostato la trasmissione su tutt'altro, con le immancabili chicche di faziosità che si sono immancabilmente trasformate in assist per il Cavaliere, che ha rispolverato la sua immagine di vittima e imprenditore di successo.
Come previsto, Berlusconi ha attaccato la Bonino sulle divisioni con Bertinotti e sui voti radicali che fanno eleggere parlamentari, pare una sessantina, dell'estrema sinistra. Proprio ciò che con questa legge elettorale non può dirsi: votare Rosa nel Pugno contribuisce certo alla vittoria di Prodi, ma innanzitutto ad eleggere direttamente parlamentari radicali e socialisti. Peccato non aver replicato che anche Berlusconi ha i suoi Bertinotti: gli Alemanno, la Lega, e l'Udc, che si sono opposti con successo a ogni politica liberale e che proposero solo qualche mese fa esattamente la stessa tassazione sulle rendite finanziarie su cui in questi giorni sta scivolando Prodi (l'ha fatto notare Floris, ma non è la stessa cosa).
L'unico altro appunto che si può muovere alla Bonino - a una performance complessivamente positiva, più per l'immagine di forza trasmessa, lo ripeto, che per i contenuti inevitabilmente sacrificati nella solita rissa televisiva - è l'aver un po' sacrificato, nel suo turno di parola conclusivo, una specie di appello di voto alla Rosa nel Pugno che fosse incisivo e spiegasse con calma e senza inutili diplomazie, il suo ruolo nell'Unione come luogo di lotta di alternativa liberale e laica.
Nonostante fosse difficile, nella solita trasmissione polarizzata su Berlusconi, aprire un fronte polemico con Bertinotti, vi è stato anche spazio per l'accenno a quel ruolo. Ruolo di una forza che punta «a una grande riforma, a un profondo rinnovamento della sinistra in senso laico e liberale». Certo, poteva essere spiegato meglio, con minore circospezione nei confronti di Bertinotti, individuando dell'Unione le componenti conservatrici da contrastare (i comunisti e i clerico-solidaristi, quelli del compromessino storico Ds-Margherita).
Il punto di forza della Bonino è stato senz'altro, al di là dei contenuti, il carattere, l'immagine di una leader donna che tiene testa a Berlusconi. Capace di raggiungerlo quando con un colpo di teatro il premier s'è alzato e s'è affiancato a Floris per continuare a parlare. Ecco, su questo, al di là di come ciascuno interpreti i vari scambi polemici, mi pare possano concordare in molti.
Nel merito, ho trovato efficace la critica al governo da posizioni liberali, cioè chiedendo conto di quelle riforme economiche liberali, a "costo zero", non fatte (nonostante la schiacciante maggioranza); delle tendenze protezionistiche; della difesa degli ordini e delle corporazioni; in generale, del tradimento delle aspettative di molti elettori che nel 2001 avevano sperato nella "rivoluzione liberale". «Non penso che lei sia Belzebù ma con le possibilità che aveva, provi a dire "non ci siamo riusciti" e non che va tutto bene. Presidente in che paese vive?».
E non sarà diventato un settimanale bolscevico, se Newsweek, che titola «Perché Silvio non sorride più?», sostiene che il premier avrebbe tradito in economia proprio «Reagan e la Thacher».
Va detto però che Berlusconi è parso parare abbastanza bene i colpi volti a sottrargli elettori delusi, più con la grinta e sottolineando le contraddizioni degli avversari che smontando nello specifico le critiche mosse dalla Bonino.
Di laicità quasi non s'è parlato, e io temevo che si eccedesse, ma forse un po' ci voleva, anche se Floris ha impostato la trasmissione su tutt'altro, con le immancabili chicche di faziosità che si sono immancabilmente trasformate in assist per il Cavaliere, che ha rispolverato la sua immagine di vittima e imprenditore di successo.
Come previsto, Berlusconi ha attaccato la Bonino sulle divisioni con Bertinotti e sui voti radicali che fanno eleggere parlamentari, pare una sessantina, dell'estrema sinistra. Proprio ciò che con questa legge elettorale non può dirsi: votare Rosa nel Pugno contribuisce certo alla vittoria di Prodi, ma innanzitutto ad eleggere direttamente parlamentari radicali e socialisti. Peccato non aver replicato che anche Berlusconi ha i suoi Bertinotti: gli Alemanno, la Lega, e l'Udc, che si sono opposti con successo a ogni politica liberale e che proposero solo qualche mese fa esattamente la stessa tassazione sulle rendite finanziarie su cui in questi giorni sta scivolando Prodi (l'ha fatto notare Floris, ma non è la stessa cosa).
L'unico altro appunto che si può muovere alla Bonino - a una performance complessivamente positiva, più per l'immagine di forza trasmessa, lo ripeto, che per i contenuti inevitabilmente sacrificati nella solita rissa televisiva - è l'aver un po' sacrificato, nel suo turno di parola conclusivo, una specie di appello di voto alla Rosa nel Pugno che fosse incisivo e spiegasse con calma e senza inutili diplomazie, il suo ruolo nell'Unione come luogo di lotta di alternativa liberale e laica.
Nonostante fosse difficile, nella solita trasmissione polarizzata su Berlusconi, aprire un fronte polemico con Bertinotti, vi è stato anche spazio per l'accenno a quel ruolo. Ruolo di una forza che punta «a una grande riforma, a un profondo rinnovamento della sinistra in senso laico e liberale». Certo, poteva essere spiegato meglio, con minore circospezione nei confronti di Bertinotti, individuando dell'Unione le componenti conservatrici da contrastare (i comunisti e i clerico-solidaristi, quelli del compromessino storico Ds-Margherita).
Tuesday, March 28, 2006
Appunti per Emma
[Premessa] Ieri sera, a Porta a Porta, Boselli è uscito letteralmente massacrato dal confronto con Pera. Prim'ancora che un problema di contenuti, è un problema di preparazione culturale. Tutto è sostenibile, argomentabile, a patto di conoscere la materia. Invece, non riesce ad andare più in là del proprio compitino sui Pacs (il compagno che può asssisterti all'ospedale) e la scuola pubblica (no soldi alla scuola privata). Tormentoni ripetuti i quali non sa più come riempire il resto del tempo di trasmissione. Quando si affrontano altri temi, quando quelli dove s'è preparato il compitino vengono presi per un altro verso, oppure quando c'è da appprofondire, si perde e si mostra del tutto impreparato.
Così aderisce senza accorgersene alla logica della Bossi-Fini sull'immigrazione (il problema è solo azzeccare la quota giusta); così balbetta più volte quando Pera gli pone una semplicissima domanda (cosa fare con i clandestini eccedenti la quota); così non corregge Pera quando lo accusa di volere i matrimoni gay alla Zapatero (si propongono i Pacs alla Aznar); così riesce a esondare sulla scuola pubblica (dicendosi contrario - senza neanche accorgersene - anche alle scuole private parificate) mettendo in bocca agli interlocutori cose non dette nella foga di ripetere il compitino; e così via... [/premessa]
Stasera Emma Bonino sarà a Ballarò. Un'occasione irripetibile, perché avrà di fronte Berlusconi, anche se stasera ci sono i Quarti di Champion's Juve contro Arsenal. Ci saranno anche Bertinotti e Rotondi. Di solito Emma non delude. Tentiamo però di buttare giù qualche appunto, pur sapendo che non avrà modo di leggerlo.
Pannella ha più volte ripetuto che la Rosa nel Pugno è in grado di sottrarre elettori delusi al centrodestra. E' l'occasione giusta per dimostrarlo: attenuare i toni sulla laicità (comunque mai dare l'impressione di indugiare o voler deviare la discussione su quei temi), accentuarli sulla modernizzazione socio-economica. Dov'è finita la "rivoluzione liberale" promessa da Berlusconi?
Scontata la tattica di Berlusconi: "Signora Bonino io la stimo, ma come fa ad andare con questa sinistra, la "rivoluzione liberale" la vuole fare con Bertinotti?".
Ribattere: se in cinque anni neanche Berlusconi, con la sua schiacciante maggioranza, c'è riuscito (anzi ha aumentato la spesa pubblica senza diminuire le tasse) significa che anche nel centrodestra ci sono, ben nascosti, dei Bertinotti che comandano (Alemanno per esempio? I leghisti?), o peggio, che i "poteri forti" contro cui oggi tanto strilla non li ha neanche sfiorati.
Smontare sia Prodi che Berlusconi sulle promesse elettorali in economia (sussidi bebè; taglio del cuneo fiscale): basta prendere in giro gli elettori, i soldi non ci sono. Al contempo trasmettere ottimismo ragionevole: far ripartire il paese si può, con le riforme "a costo zero" di Giavazzi. L'idea guida, e forte, del rilancio a "costo zero" può scaldare cuori e menti dei telespettatori.
Non temere di aprire un fronte polemico con Bertinotti: «compagno di merende» e miglior nemico di Berlusconi; non farsi scavalcare sulla laicità, perché Fausto è scaltro e su quel terreno sa di dover inseguire.
Perché la Rosa nel Pugno? Unico fronte di lotta aperto per un'alternativa laica e liberale e per una Riforma in senso liberale e blairiana della sinistra. Altrove, nel centrodestra, ogni spazio di lotta liberale s'è chiuso. «Non c'è garanzia di mandare via Berlusconi senza una Riforma di una sinistra che è vecchia quanto Berlusconi. La Rosa nel Pugno afferma che occorre questa Riforma e per ottenerla occorre liberare la capacità di giudizio e di voto del popolo Ds e dei credenti». (Pannella, 26 marzo 2006)
La Rosa nel Pugno quindi come luogo dello scontro con le altre componenti dell'Unione, quella comunista dei Diliberto e dei Bertinotti, quella catto-comunista del compromessino storico Ds-Margherita.
Così aderisce senza accorgersene alla logica della Bossi-Fini sull'immigrazione (il problema è solo azzeccare la quota giusta); così balbetta più volte quando Pera gli pone una semplicissima domanda (cosa fare con i clandestini eccedenti la quota); così non corregge Pera quando lo accusa di volere i matrimoni gay alla Zapatero (si propongono i Pacs alla Aznar); così riesce a esondare sulla scuola pubblica (dicendosi contrario - senza neanche accorgersene - anche alle scuole private parificate) mettendo in bocca agli interlocutori cose non dette nella foga di ripetere il compitino; e così via... [/premessa]
Stasera Emma Bonino sarà a Ballarò. Un'occasione irripetibile, perché avrà di fronte Berlusconi, anche se stasera ci sono i Quarti di Champion's Juve contro Arsenal. Ci saranno anche Bertinotti e Rotondi. Di solito Emma non delude. Tentiamo però di buttare giù qualche appunto, pur sapendo che non avrà modo di leggerlo.
Pannella ha più volte ripetuto che la Rosa nel Pugno è in grado di sottrarre elettori delusi al centrodestra. E' l'occasione giusta per dimostrarlo: attenuare i toni sulla laicità (comunque mai dare l'impressione di indugiare o voler deviare la discussione su quei temi), accentuarli sulla modernizzazione socio-economica. Dov'è finita la "rivoluzione liberale" promessa da Berlusconi?
Scontata la tattica di Berlusconi: "Signora Bonino io la stimo, ma come fa ad andare con questa sinistra, la "rivoluzione liberale" la vuole fare con Bertinotti?".
Ribattere: se in cinque anni neanche Berlusconi, con la sua schiacciante maggioranza, c'è riuscito (anzi ha aumentato la spesa pubblica senza diminuire le tasse) significa che anche nel centrodestra ci sono, ben nascosti, dei Bertinotti che comandano (Alemanno per esempio? I leghisti?), o peggio, che i "poteri forti" contro cui oggi tanto strilla non li ha neanche sfiorati.
Smontare sia Prodi che Berlusconi sulle promesse elettorali in economia (sussidi bebè; taglio del cuneo fiscale): basta prendere in giro gli elettori, i soldi non ci sono. Al contempo trasmettere ottimismo ragionevole: far ripartire il paese si può, con le riforme "a costo zero" di Giavazzi. L'idea guida, e forte, del rilancio a "costo zero" può scaldare cuori e menti dei telespettatori.
Non temere di aprire un fronte polemico con Bertinotti: «compagno di merende» e miglior nemico di Berlusconi; non farsi scavalcare sulla laicità, perché Fausto è scaltro e su quel terreno sa di dover inseguire.
Perché la Rosa nel Pugno? Unico fronte di lotta aperto per un'alternativa laica e liberale e per una Riforma in senso liberale e blairiana della sinistra. Altrove, nel centrodestra, ogni spazio di lotta liberale s'è chiuso. «Non c'è garanzia di mandare via Berlusconi senza una Riforma di una sinistra che è vecchia quanto Berlusconi. La Rosa nel Pugno afferma che occorre questa Riforma e per ottenerla occorre liberare la capacità di giudizio e di voto del popolo Ds e dei credenti». (Pannella, 26 marzo 2006)
La Rosa nel Pugno quindi come luogo dello scontro con le altre componenti dell'Unione, quella comunista dei Diliberto e dei Bertinotti, quella catto-comunista del compromessino storico Ds-Margherita.
Oscar per Christian: l'eugenetica non c'entra
Chi scrive conosce e stima Christian Rocca quanto apprezza e sostiene l'associazione Luca Coscioni. Non dunque per banale questione di polemica elettoralistica, ma come tutti seduti a un comune tavolo di famiglia, a propria volta non comprende bene come Rocca dia ai radicali dei «propagandisti», in materia del protocollo di Groeningen che disciplina i tre casi di possibilità di applicazione di eutanasia infantile. La tesi sostenuta da chi ha orrore del protocollo olandese lo identifica con la possibilità di praticare eugenetica, e detta così è giocoforza secondario poi se a giudizio di famiglie e collegi medici ciò possa essere ipoteticamente volto a fini razziali, religiosi o di qualunque altro tipo. Ma il problema invece è di ordine diverso. Nei rarissimi casi nei quali sinora si è posto il problema in Olanda - cioè di bambini non comunque destinati a morte per le patologie che li avevano colpiti, ma affetti da gravissime patologie per le quali la sopravvivenza è confinata dietro terapie intensive alle sole funzioni vitali coadiuvate extracorporee senza coscienza di sé - mai una sola volta la richiesta è stata accolta per handicap come quelli che gli accusatori dei radicali spacciano come prassi nazista. Chi scrive negli anni ha di molto esteso la concezione di funzioni vitali in presenza delle quali nel testamento biologico di ultime volontà del paziente continuare a disporre la persistenza delle terapie. E ha un rispetto assoluto della concezione della vita propria dei cattolici. Detto questo, il protocollo olandese ha a che fare con la dignità della morte contro l'accanimento terapeutico, cosa del tutto diversa dal diritto al suicidio e dall'eugenetica. Per chi scrive, su questo i radicali non sono cialtroni.
Oscar Giannino (il Riformista, 28 marzo 2006)
Oscar Giannino (il Riformista, 28 marzo 2006)
Monday, March 27, 2006
Veto di Berlusconi su Emma Bonino a Ballarò
Alla fine, Lorsignori acconsentono...
La denuncia lanciata nel corso dello spazio di approfondimento pomeridiano condotto da Maria Latella su Sky Tg24. Emma Bonino doveva essere tra gli ospiti, insieme a Berlusconi, di una puntata di Ballarò, martedì. «Ma questa mattina mi hanno detto che il presidente del Consiglio ha posto un veto a una mia presenza». Quello di Berlusconi è un atteggiamento «strabiliante». Il premier, ha osservato l'esponente radicale, «evidentemente» preferisce «come compagni di merende elettorali Diliberto e Bertinotti» e «con qualche sforzo poteva accettare Enrico Boselli». Ma il segretario dello Sdi «ha giustamente pensato di rifiutare perché non è che il premier - ha spiegato la Bonino - si sceglie anche con chi parlare».
«Il presidente si trova a suo agio a discutere, si fa per dire, con i comunisti, mentre ha qualche difficoltà a confrontarsi con una laica liberale o liberalsocialista seria». Inoltre, il premier dimostra «qualche problema con le donne di carattere in politica. In un momento di rara eleganza mi ha definita la "costola di Pannella", che come definizione non era male». Insomma, «questo modo di fare, per cui uno è protagonista nella vita istituzionale e si sceglie anche gli antagonisti, francamente non mi pare una delle cose accettabili di una politica, di una campagna elettorale».
Fonte: RadioRadicale.it
E poi dicono che sono i radicali piagnoni. Dopo cinque anni di Berlusconi questo paese è più povero e meno libero.
UPDATE: Dopo le polemiche, in serata è arrivata la nota di Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e portavoce del premier, che ha confermato la presenza del Cavaliere al programma di Floris, con la Bonino: «Sì, martedì sera sarà a Ballarò». (gli altri ospiti Fausto Bertinotti, Emma Bonino e Gianfranco Rotondi)
La denuncia lanciata nel corso dello spazio di approfondimento pomeridiano condotto da Maria Latella su Sky Tg24. Emma Bonino doveva essere tra gli ospiti, insieme a Berlusconi, di una puntata di Ballarò, martedì. «Ma questa mattina mi hanno detto che il presidente del Consiglio ha posto un veto a una mia presenza». Quello di Berlusconi è un atteggiamento «strabiliante». Il premier, ha osservato l'esponente radicale, «evidentemente» preferisce «come compagni di merende elettorali Diliberto e Bertinotti» e «con qualche sforzo poteva accettare Enrico Boselli». Ma il segretario dello Sdi «ha giustamente pensato di rifiutare perché non è che il premier - ha spiegato la Bonino - si sceglie anche con chi parlare».
«Il presidente si trova a suo agio a discutere, si fa per dire, con i comunisti, mentre ha qualche difficoltà a confrontarsi con una laica liberale o liberalsocialista seria». Inoltre, il premier dimostra «qualche problema con le donne di carattere in politica. In un momento di rara eleganza mi ha definita la "costola di Pannella", che come definizione non era male». Insomma, «questo modo di fare, per cui uno è protagonista nella vita istituzionale e si sceglie anche gli antagonisti, francamente non mi pare una delle cose accettabili di una politica, di una campagna elettorale».
Fonte: RadioRadicale.it
E poi dicono che sono i radicali piagnoni. Dopo cinque anni di Berlusconi questo paese è più povero e meno libero.
UPDATE: Dopo le polemiche, in serata è arrivata la nota di Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e portavoce del premier, che ha confermato la presenza del Cavaliere al programma di Floris, con la Bonino: «Sì, martedì sera sarà a Ballarò». (gli altri ospiti Fausto Bertinotti, Emma Bonino e Gianfranco Rotondi)
Risveglio dagli incubi su Groningen. Gli olandesi non sono nazisti
Nazisti, bastardi, cialtroni. Parlare di nazismo ed eugenetica, usare termini come «handicappati gravi» e «razza», affrontando il tema dell'eutanasia neonatale olandese, è totalmente fuori luogo. Mi limiterò a tentare di spiegare perché l'uso di ciascuno di questi termini non è appropriato. E' a questa tattica spregiudicata e propagandistica che i laicisti cosiddetti «bastardi» hanno reagito nei giorni scorsi, prima che alla contrarietà in sé alla pratica dell'eutanasia neonatale. Dunque, non intendo discutere del merito, ma di come non si è voluto impostare un dibattito serio e intellettualmente onesto.
L'eutanasia può essere ritenuta, con argomenti più o meno condivisibili, ma comunque nel merito, finanche "incivile", a seconda della concezione che si ha della compassione, del dolore, della vita e della morte. Forse il protocollo olandese è incauto, eccessivo, spericolato, lascia perplessi su questo o quel punto, ma l'importante è partire dalle cose quali esse sono.
«Dei 200.000 bambini che nascono nei Paesi Bassi ogni anno, circa 1000 muoiono nel primo anno di vita. Per circa 600 di questi neonati, la morte è preceduta da una decisione medica relativa alla fine della vita». Con questa frase si apre un articolo del pediatra olandese Verhagen sull'autorevole New England Journal of Medicine. Il caso nasce quando Il Foglio, il 9 marzo scorso, ci fa un lungo articolo, riportando (strano), le uniche righe di abstract disponibili "in chiaro" ai non iscritti (iscrizione a pagamento).
Giovanardi abbocca e sostiene più volte che in Olanda vengono uccisi neonati handicappati, down, sordomuti o dalla spina dorsale bifida. Parole sue, letterali. E' una bugia. Nessun bambino disabile viene gettato dalla rupe. Il riferimento a quelle particolari categorie di disabilità tende a presentare agli occhi di chi ascolta, o legge, una realtà distorta della casistica cui è possibile applicare il protocollo di Groningen. Parlando di handicappati, anche di «handicappati gravi», vengono in mente condizioni di disabilità con le quali quotidianamente tutti noi siamo abituati a confrontarci. Sappiamo che sono casi molto tristi, che la qualità della vita di queste persone, spesso anche per la nostra indifferenza, è ben peggiore della nostra, ma nessuno si sognerebbe di definirle vite indegne d'essere vissute.
Quei disabili, tra l'altro, nei paesi del Nord come l'Olanda usufruiscono di un elevato standard di servizi, e di superamento delle barriere architettoniche, che in Italia i nostri concittadini si sognano. E' quindi fuorviante per i neonati cui si pratica l'eutanasia in Olanda parlare di handicappati, anche ammesso e non concesso che tecnicamente lo siano. La chiameremo prima sottile mistificazione. Si tratta invece di casi estremi - sono le cifre a dirci che sono rarissimi - con malformazioni tali da rendere la breve vita di quei neonati un inferno senza la minima speranza. La stragrande maggioranza di noi non ha mai visto probabilmente niente del genere e non ne è mai prima d'ora venuta a conoscenza. Eppure esistono autentiche beffe della natura neanche lontanamente immaginabili.
Torniamo all'articolo incriminato. Dei circa 1000 neonati che muoiono nel primo anno di vita, per 600 «la morte è preceduta da una decisione medica relativa alla fine della vita». Questi 600 si possono dividere in tre gruppi.
Nel primo, i neonati che «non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza... che moriranno appena nati, nonostante le cure migliori disponibili. Questi bambini presentano patologie gravi, quali l'ipoplasia renale e polmonare». Nel secondo, i neonati che «sono sottoposti a terapia intensiva», «con gravi malformazioni cerebrali o con gravi ed estesi danni ad altri organi causati da ipossemia». Anche se «sopravvivono oltre il periodo di cure intensive essi hanno una prognosi estremamente negativa e una qualità di vita estremamente bassa». Le terapie intensive infatti «non rappresentano un fine in sé», diventano accanimento terapeutico se non producono miglioramenti e prospettive accettabili. Per i neonati dei primi due gruppi, che insieme fanno circa 580 casi dei 600 registrati all'anno, non si può parlare neanche di eutanasia, ma di rifiuto dell'accanimento terapeutico. Siamo qui a discuterne solo perché oggi esistono macchine di cui qualche anno fa non disponevamo.
Chiarendo questo cade la seconda mistificazione, quella grossolana. Ferrara e Meotti, nella puntata di 8 e mezzo passata alla storia, si ostinavano a ripetere che tutti quei 600 (il 60% dei neonati morti entro il primo anno di vita) fossero handicappati uccisi dai medici. Il terzo gruppo è dei neonati cui viene praticata l'eutanasia attiva, circa 20 l'anno (4 nell'ospedale di Groningen dal 2002 al 2005). Sono questi, certamente, i casi che Verhagen definisce «più difficili da definire in astratto». Talmente rari ed estremi che occorre valutare caso per caso. Questi neonati non dipendono dalle macchine, ma hanno «prognosi senza speranza», senza possibilità di alcun miglioramento. La loro aspettativa di vita è «molto limitata» e di gravi sofferenze, «continue e insopportabili», impossibili da alleviare. Di qui la «cattiva qualità di vita», ma non parliamo di un ritardato o di un sordomuto.
Neonati con idrocefalo o senza cervello. Per fare l'esempio della spina dorsale bifida, lo stesso Verhagen dice che il 99% di essi sono trattabili e possono condurre una vita soddisfacente. Nell'1% di casi si hanno le forme più gravi, in cui si aggiungono tali e tante malformazioni da rendere inutile qualsiasi trattamento. Sono tali da impedire la respirazione, da richiedere 60 interventi in un anno solo per rimediare temporaneamente alle complicazioni, e da dover tenere il paziente costantemente anestetizzato per il dolore. Sono per lo più i genitori, in lacrime, a chiedere di porre fine a tali sofferenze.
Anche in questi casi si procede con il parere unanime dell'équipe pediatrica e di uno specialista esterno, oltre che con il consenso di entrambi i genitori e il controllo dell'autorità giudiziaria. «In caso di eutanasia, la morte non può essere certificata come "naturale". Il medico deve informare il medico legale (Coroner), che esamina il cadavere e ne informa il procuratore distrettuale il quale analizza il caso alla luce della normativa e della giurisprudenza applicabile...» Finora è sempre stato deciso per la non perseguibilità dei medici.
Sono autentici drammi. Non illudiamoci che in Italia e in altri paesi non esistano. Rimangono clandestini e oggi i neonati hanno meno garanzie da noi che in Olanda, con tutte le direttive assai precise e stringenti sui comportamenti da tenere fissate dal protocollo di Groningen. Si tratta quindi di porre delle regole, dei paletti, dei limiti appunto. E se è per questo le proposte radicali sono ancora più garantiste delle leggi olandesi.
Siamo alla terza e alla quarta mistificazione. L'accusa di nazismo è facilmente confutabile, visto che handicappati, omosessuali e persone appartenenti a razze ritenute "inferiori" venivano soppressi contro la volontà loro e dei loro genitori.
Ma lo è anche quella di eugenetica. C'è da dire, come prima cosa, che non tutte le malattie e le malformazioni che portano all'eutanasia neonatale in Olanda sono provocate da fattori genetici. Poi, qualsiasi programma eugenetico deve innanzitututto essere imposto dallo Stato, basarsi sulla coercizione, e non su una libera scelta della famiglia, non potendosi permettere che il minimo gene sfugga al controllo. Deve altresì riguardare anche la procreazione. Non basta infatti sopprimere l'handicappato o il malato. Occorre assicurarsi che i portatori dei geni difettosi, i genitori, non procreino; neanche figli sani. Anche per questi motivi l'eugenetica come l'avevano teorizzata i nazisti, prima che raccapricciante dal punto di vista umano, è ridicola, un assurdo, dal punto di vista scientifico.
Sono argomenti serviti, in questo scorcio di dibattito su un tema così doloroso e drammatico, a offrire un ritratto disumanizzante del proprio avversario politico e culturale. Ma con questi argomenti si finisce con l'avvicinarsi troppo a chi, in nome del valore supremo della Vita, fa presto a definire nazisti gli americani per Guantanamo, la guerra in Iraq, o la pena di morte. E ce ne sono già troppi in giro che ragionano così.
L'eutanasia può essere ritenuta, con argomenti più o meno condivisibili, ma comunque nel merito, finanche "incivile", a seconda della concezione che si ha della compassione, del dolore, della vita e della morte. Forse il protocollo olandese è incauto, eccessivo, spericolato, lascia perplessi su questo o quel punto, ma l'importante è partire dalle cose quali esse sono.
«Dei 200.000 bambini che nascono nei Paesi Bassi ogni anno, circa 1000 muoiono nel primo anno di vita. Per circa 600 di questi neonati, la morte è preceduta da una decisione medica relativa alla fine della vita». Con questa frase si apre un articolo del pediatra olandese Verhagen sull'autorevole New England Journal of Medicine. Il caso nasce quando Il Foglio, il 9 marzo scorso, ci fa un lungo articolo, riportando (strano), le uniche righe di abstract disponibili "in chiaro" ai non iscritti (iscrizione a pagamento).
Giovanardi abbocca e sostiene più volte che in Olanda vengono uccisi neonati handicappati, down, sordomuti o dalla spina dorsale bifida. Parole sue, letterali. E' una bugia. Nessun bambino disabile viene gettato dalla rupe. Il riferimento a quelle particolari categorie di disabilità tende a presentare agli occhi di chi ascolta, o legge, una realtà distorta della casistica cui è possibile applicare il protocollo di Groningen. Parlando di handicappati, anche di «handicappati gravi», vengono in mente condizioni di disabilità con le quali quotidianamente tutti noi siamo abituati a confrontarci. Sappiamo che sono casi molto tristi, che la qualità della vita di queste persone, spesso anche per la nostra indifferenza, è ben peggiore della nostra, ma nessuno si sognerebbe di definirle vite indegne d'essere vissute.
Quei disabili, tra l'altro, nei paesi del Nord come l'Olanda usufruiscono di un elevato standard di servizi, e di superamento delle barriere architettoniche, che in Italia i nostri concittadini si sognano. E' quindi fuorviante per i neonati cui si pratica l'eutanasia in Olanda parlare di handicappati, anche ammesso e non concesso che tecnicamente lo siano. La chiameremo prima sottile mistificazione. Si tratta invece di casi estremi - sono le cifre a dirci che sono rarissimi - con malformazioni tali da rendere la breve vita di quei neonati un inferno senza la minima speranza. La stragrande maggioranza di noi non ha mai visto probabilmente niente del genere e non ne è mai prima d'ora venuta a conoscenza. Eppure esistono autentiche beffe della natura neanche lontanamente immaginabili.
Torniamo all'articolo incriminato. Dei circa 1000 neonati che muoiono nel primo anno di vita, per 600 «la morte è preceduta da una decisione medica relativa alla fine della vita». Questi 600 si possono dividere in tre gruppi.
Nel primo, i neonati che «non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza... che moriranno appena nati, nonostante le cure migliori disponibili. Questi bambini presentano patologie gravi, quali l'ipoplasia renale e polmonare». Nel secondo, i neonati che «sono sottoposti a terapia intensiva», «con gravi malformazioni cerebrali o con gravi ed estesi danni ad altri organi causati da ipossemia». Anche se «sopravvivono oltre il periodo di cure intensive essi hanno una prognosi estremamente negativa e una qualità di vita estremamente bassa». Le terapie intensive infatti «non rappresentano un fine in sé», diventano accanimento terapeutico se non producono miglioramenti e prospettive accettabili. Per i neonati dei primi due gruppi, che insieme fanno circa 580 casi dei 600 registrati all'anno, non si può parlare neanche di eutanasia, ma di rifiuto dell'accanimento terapeutico. Siamo qui a discuterne solo perché oggi esistono macchine di cui qualche anno fa non disponevamo.
Chiarendo questo cade la seconda mistificazione, quella grossolana. Ferrara e Meotti, nella puntata di 8 e mezzo passata alla storia, si ostinavano a ripetere che tutti quei 600 (il 60% dei neonati morti entro il primo anno di vita) fossero handicappati uccisi dai medici. Il terzo gruppo è dei neonati cui viene praticata l'eutanasia attiva, circa 20 l'anno (4 nell'ospedale di Groningen dal 2002 al 2005). Sono questi, certamente, i casi che Verhagen definisce «più difficili da definire in astratto». Talmente rari ed estremi che occorre valutare caso per caso. Questi neonati non dipendono dalle macchine, ma hanno «prognosi senza speranza», senza possibilità di alcun miglioramento. La loro aspettativa di vita è «molto limitata» e di gravi sofferenze, «continue e insopportabili», impossibili da alleviare. Di qui la «cattiva qualità di vita», ma non parliamo di un ritardato o di un sordomuto.
Neonati con idrocefalo o senza cervello. Per fare l'esempio della spina dorsale bifida, lo stesso Verhagen dice che il 99% di essi sono trattabili e possono condurre una vita soddisfacente. Nell'1% di casi si hanno le forme più gravi, in cui si aggiungono tali e tante malformazioni da rendere inutile qualsiasi trattamento. Sono tali da impedire la respirazione, da richiedere 60 interventi in un anno solo per rimediare temporaneamente alle complicazioni, e da dover tenere il paziente costantemente anestetizzato per il dolore. Sono per lo più i genitori, in lacrime, a chiedere di porre fine a tali sofferenze.
Anche in questi casi si procede con il parere unanime dell'équipe pediatrica e di uno specialista esterno, oltre che con il consenso di entrambi i genitori e il controllo dell'autorità giudiziaria. «In caso di eutanasia, la morte non può essere certificata come "naturale". Il medico deve informare il medico legale (Coroner), che esamina il cadavere e ne informa il procuratore distrettuale il quale analizza il caso alla luce della normativa e della giurisprudenza applicabile...» Finora è sempre stato deciso per la non perseguibilità dei medici.
Sono autentici drammi. Non illudiamoci che in Italia e in altri paesi non esistano. Rimangono clandestini e oggi i neonati hanno meno garanzie da noi che in Olanda, con tutte le direttive assai precise e stringenti sui comportamenti da tenere fissate dal protocollo di Groningen. Si tratta quindi di porre delle regole, dei paletti, dei limiti appunto. E se è per questo le proposte radicali sono ancora più garantiste delle leggi olandesi.
Siamo alla terza e alla quarta mistificazione. L'accusa di nazismo è facilmente confutabile, visto che handicappati, omosessuali e persone appartenenti a razze ritenute "inferiori" venivano soppressi contro la volontà loro e dei loro genitori.
Ma lo è anche quella di eugenetica. C'è da dire, come prima cosa, che non tutte le malattie e le malformazioni che portano all'eutanasia neonatale in Olanda sono provocate da fattori genetici. Poi, qualsiasi programma eugenetico deve innanzitututto essere imposto dallo Stato, basarsi sulla coercizione, e non su una libera scelta della famiglia, non potendosi permettere che il minimo gene sfugga al controllo. Deve altresì riguardare anche la procreazione. Non basta infatti sopprimere l'handicappato o il malato. Occorre assicurarsi che i portatori dei geni difettosi, i genitori, non procreino; neanche figli sani. Anche per questi motivi l'eugenetica come l'avevano teorizzata i nazisti, prima che raccapricciante dal punto di vista umano, è ridicola, un assurdo, dal punto di vista scientifico.
Sono argomenti serviti, in questo scorcio di dibattito su un tema così doloroso e drammatico, a offrire un ritratto disumanizzante del proprio avversario politico e culturale. Ma con questi argomenti si finisce con l'avvicinarsi troppo a chi, in nome del valore supremo della Vita, fa presto a definire nazisti gli americani per Guantanamo, la guerra in Iraq, o la pena di morte. E ce ne sono già troppi in giro che ragionano così.
Saturday, March 25, 2006
La sfida a Lukashenko. Ultime notizie da Minsk
Repressione brutale a Minsk. Ore 17,55 ore locali.
E' finita, la polizia di Lukashenko ha represso e disperso la folla. Altre centinaia di dimostranti arrestati, molti dei quali portati via sanguinanti o in barella. Un numero imprecisato di feriti e forse un morto. Notizie ancora incerte sui due leader dell'opposizione democratica: Kozulin sarebbe stato arrestato, ma non Milinkevich. La repressione è stata guidata da Dzmitry Paulichenka, sospettato di rapimento e omicidio di oppositori dalla comunità internazionale.
Ore 16,20 ore locali.
Si è scatenata una brutale repressione da parte delle forze speciali di Lukashenko. Lacrimogeni e fumogeni sparati sulla folla; cariche; caccia all'uomo fin dentro i palazzi; un manifestante sarebbe stato ucciso. Arrestato e picchiato il leader dell'opposizione Kozulin.
Milinkevich aveva annunciato la nascita di un Movimento di Liberazione nazionale bielorusso, per la libertà, la verità e la giustizia. Un movimento che unisce tutte le forze democratiche bielorusse. «Lotteremo per libere elezioni, senza Lukashenko! Falsando i risultati elettorali il regime ha avvicinato la sua fine. Vinceremo! siamo la maggioranza! La dittatura cadrà! Teme la verità. Siamo un popolo libero. Vinceremo: la verità, la legge e la giustizia sono dalla nostra parte!»
**********
Migliaia di persone si erano incamminate fin dalle prime ore di stamani per raggiungere piazza d'Ottobre, a Minsk, dove era stata convocata nei giorni scorsi una «grande e pacifica manifestazione» dal leader dell'opposizione Aleksandr Milinkevic. Ma com'era prevedibile hanno trovato bloccato ogni accesso. Lo sgombro del presidio democratico sulla piazza, avvenuto due notti fa, ha permesso alle forze speciali di chiudere la zona.
I dimostranti hanno rotto un primo cordone della polizia ma non sono riusciti a entrare sulla vasta piazza d'Ottobre perché si sono trovati di fronte gli agenti dello Spetznaz, le forze speciali di Lukashenko, e le transenne metalliche. Al grido «Zhive Belarus!» (viva la Bielorussia), si sono diretti compatti verso Yanka Kupala Park, dove si è trasferita la manifestazione con Kozulin e Milinkevich, che si alternano nel parlare alla folla. Pare siano in 10-15 mila. Qualcuno parla di oltre 20 mila.
Parte di loro si è poi diretta verso il carcere di via Okrastina, dove sono detenuti centinaia di oppositori arrestati nei giorni scorsi. La polizia però è intervenuta caricando e sparando gas lacrimogeni e fumogeni. Grande confusione e notizie contrastanti sul numero dei feriti e degli arrestati, tra cui anche Kozulin e Milinkevich. Notizie non confermate parlano anche di un manifestante ucciso dalla polizia, colpito alla testa.
Aggiornamenti sui blog Br23, Neeka's e Rush Mush. In black out Charter 97.
E' finita, la polizia di Lukashenko ha represso e disperso la folla. Altre centinaia di dimostranti arrestati, molti dei quali portati via sanguinanti o in barella. Un numero imprecisato di feriti e forse un morto. Notizie ancora incerte sui due leader dell'opposizione democratica: Kozulin sarebbe stato arrestato, ma non Milinkevich. La repressione è stata guidata da Dzmitry Paulichenka, sospettato di rapimento e omicidio di oppositori dalla comunità internazionale.
Ore 16,20 ore locali.
Si è scatenata una brutale repressione da parte delle forze speciali di Lukashenko. Lacrimogeni e fumogeni sparati sulla folla; cariche; caccia all'uomo fin dentro i palazzi; un manifestante sarebbe stato ucciso. Arrestato e picchiato il leader dell'opposizione Kozulin.
Milinkevich aveva annunciato la nascita di un Movimento di Liberazione nazionale bielorusso, per la libertà, la verità e la giustizia. Un movimento che unisce tutte le forze democratiche bielorusse. «Lotteremo per libere elezioni, senza Lukashenko! Falsando i risultati elettorali il regime ha avvicinato la sua fine. Vinceremo! siamo la maggioranza! La dittatura cadrà! Teme la verità. Siamo un popolo libero. Vinceremo: la verità, la legge e la giustizia sono dalla nostra parte!»
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Migliaia di persone si erano incamminate fin dalle prime ore di stamani per raggiungere piazza d'Ottobre, a Minsk, dove era stata convocata nei giorni scorsi una «grande e pacifica manifestazione» dal leader dell'opposizione Aleksandr Milinkevic. Ma com'era prevedibile hanno trovato bloccato ogni accesso. Lo sgombro del presidio democratico sulla piazza, avvenuto due notti fa, ha permesso alle forze speciali di chiudere la zona.
I dimostranti hanno rotto un primo cordone della polizia ma non sono riusciti a entrare sulla vasta piazza d'Ottobre perché si sono trovati di fronte gli agenti dello Spetznaz, le forze speciali di Lukashenko, e le transenne metalliche. Al grido «Zhive Belarus!» (viva la Bielorussia), si sono diretti compatti verso Yanka Kupala Park, dove si è trasferita la manifestazione con Kozulin e Milinkevich, che si alternano nel parlare alla folla. Pare siano in 10-15 mila. Qualcuno parla di oltre 20 mila.
Parte di loro si è poi diretta verso il carcere di via Okrastina, dove sono detenuti centinaia di oppositori arrestati nei giorni scorsi. La polizia però è intervenuta caricando e sparando gas lacrimogeni e fumogeni. Grande confusione e notizie contrastanti sul numero dei feriti e degli arrestati, tra cui anche Kozulin e Milinkevich. Notizie non confermate parlano anche di un manifestante ucciso dalla polizia, colpito alla testa.
Aggiornamenti sui blog Br23, Neeka's e Rush Mush. In black out Charter 97.
Friday, March 24, 2006
A Minsk la notte della repressione
Appena l'attenzione è calata, e i riflettori si sono spenti, ecco la repressione che finora il regime si era ben guardato dal mettere in atto. Voci insistenti di un imminente sgombro erano circolate tra i manifestanti anche durante le notti precedenti, senza mai concretizzarsi. Le squadre anti-sommossa di Lukashenko sono entrate in azione alle 3,30 di questa notte. Il presidio democratico in piazza d'Ottobre, nel centro di Minsk, è stato attaccato e letteralmente spazzato via da un centinaio di agenti.
Alle 3,00 circa dieci autobus e mezzi della polizia si sono posizionati intorno alla piazza. Un cordone di poliziotti ha recintato l'intera area e tutti i giornalisti sono stati spinti all'esterno del cordone. I dimostranti, che in centinaia (3-400) avevano deciso di trascorrere anche questa notte all'addiaccio nella mini tendopoli, sono stati tutti arrestati. Fatti salire sugli autobus e i cellulari della polizia, si dice che siano stati trasportati nel carcere di via Okrestina, dove già erano detenuti centinaia di manifestanti arrestati in piccoli gruppi nei giorni scorsi.
Sulla piazza sono rimaste una ventina di tende, distrutte. Ogni traccia di vita del presidio è stato cancellato dai poliziotti. Bulldozer e trattori hanno rimosso le tende e tutto il resto: sciarpe, guanti, zaini, bandiere nazionali, poster, generatori, coperte, attrezzi, piatti. Tutto ciò che è rimasto a terra è stato subito raccolto e portato via dagli spazzini.
Un reporter dell'AP ha riferito che circa duecento manifestanti non hanno opposto resistenza, mentre gli agenti hanno dovuto lottare con una cinquantina di irriducibili. Ma tutta l'operazione sarebbe durata non più di un quarto d'ora. «Con questo la rivoluzione è finita», ha dichiarato soddisfatto il colonnello Yuri Podobed.
I giovani arrestati, secondo quanto riporta Charter 97, sono stati insultati, minacciati e picchiati già all'interno dei mezzi della polizia e molti avevano il volto tumefatto. Si ha notizia anche dell'uso di qualche sostanza contro i manifestanti; alcuni lamentano che all'interno di uno dei camion bianchi sia stato usato anche del gas.
Tra gli arrestati anche il figlio di Milinkevich e due nipoti dell'altro candidato dell'opposizione, Kozulin, che ha commentato: «I nervi delle autorità hanno ceduto. I poliziotti sono venuti qui in piena notte, per avere meno testimoni possibile».
Giunto davanti alla prigione, Milinkevic ha rilanciato la sfida al regime: «Andiamo avanti con quello che avevamo previsto per il 25 marzo», ha detto, invitando alla grande e pacifica manifestazione a Minsk annunciata già nei giorni scorsi. «Questo potere non conosce che una lingua, quella della repressione. L'ha dimostrato ancora una volta. Mi aspettavo questo ogni notte».
Altre foto
La prima azione di forza del regime per porre fine alla protesta dell'opposizione giunge, come una chiara intimidazione, alla vigilia della grande manifestazione annunciata da Milinkevich per sabato 25 marzo. Lukashenko cerca così di far tornare quella paura che era di colpo svanita nelle migliaia di persone che avevano partecipato alle manifestazioni di piazza delle notti scorse. Questo è il momento di far sentire forte e chiara ai bielorussi la voce dell'Europa e degli Stati Uniti.
Proprio oggi il Riformista pubblica una mia lettera sulla piazza di Minsk troppo lontana dagli sguardi delle nostre televisioni.
Caro direttore, a proposito di piazze. Ce n'è una, ai confini dell'Europa, a Minsk, che da alcune notti si riempie di migliaia di giovani dimostranti, nonostante il gelo, il buio, l'assenza di mezzi pubblici, i blocchi e le minacce del regime. Rock band e poesie, bandiere bielorusse, dell'Ue e del movimento giovanile Zubr. L'atmosfera festosa. In centinaia trascorrono la notte all'addiaccio, al presidio democratico. Quattro gatti, ma possono graffiare. Preferisco quella piazza alle nostre. Sabato prossimo, 25 marzo, una grande e pacifica manifestazione. Promettevano una protesta «lunga e potente». Lo è stata, ma le chance di successo rimangono molto esigue. La strategia del regime è di basso profilo, conta sull'esaurimento spontaneo della protesta. Una repressione lenta e discreta, con arresti, blocco degli accessi e dei rifornimenti, sequestro di tende e altri materiali utili. Eppure, per la prima volta in Bielorussia migliaia di persone «hanno trionfato sulla paura»; esiste un'opposizione, è visibile, consapevole di sé, capace di organizzarsi, ha i suoi leader, è non violenta e ha l'appoggio di Europa e Stati Uniti. Non sarà la volta buona, ma qualcosa di buono ha avuto inizio. Che sia l'inizio della fine per Lukashenko?
Interviste: Milinkevich; Dell'Arciprete e Kessler
Blog sulla Bielorussia: Publius Pundit; Rush Mush; Neeka's Backlog; Blogging Belarus; Andrei Khrpavistski; br23; The Being Had Times; Tobias Ljungvall
Altre foto su Yahoo News
Alle 3,00 circa dieci autobus e mezzi della polizia si sono posizionati intorno alla piazza. Un cordone di poliziotti ha recintato l'intera area e tutti i giornalisti sono stati spinti all'esterno del cordone. I dimostranti, che in centinaia (3-400) avevano deciso di trascorrere anche questa notte all'addiaccio nella mini tendopoli, sono stati tutti arrestati. Fatti salire sugli autobus e i cellulari della polizia, si dice che siano stati trasportati nel carcere di via Okrestina, dove già erano detenuti centinaia di manifestanti arrestati in piccoli gruppi nei giorni scorsi.
Sulla piazza sono rimaste una ventina di tende, distrutte. Ogni traccia di vita del presidio è stato cancellato dai poliziotti. Bulldozer e trattori hanno rimosso le tende e tutto il resto: sciarpe, guanti, zaini, bandiere nazionali, poster, generatori, coperte, attrezzi, piatti. Tutto ciò che è rimasto a terra è stato subito raccolto e portato via dagli spazzini.
Un reporter dell'AP ha riferito che circa duecento manifestanti non hanno opposto resistenza, mentre gli agenti hanno dovuto lottare con una cinquantina di irriducibili. Ma tutta l'operazione sarebbe durata non più di un quarto d'ora. «Con questo la rivoluzione è finita», ha dichiarato soddisfatto il colonnello Yuri Podobed.
I giovani arrestati, secondo quanto riporta Charter 97, sono stati insultati, minacciati e picchiati già all'interno dei mezzi della polizia e molti avevano il volto tumefatto. Si ha notizia anche dell'uso di qualche sostanza contro i manifestanti; alcuni lamentano che all'interno di uno dei camion bianchi sia stato usato anche del gas.
Tra gli arrestati anche il figlio di Milinkevich e due nipoti dell'altro candidato dell'opposizione, Kozulin, che ha commentato: «I nervi delle autorità hanno ceduto. I poliziotti sono venuti qui in piena notte, per avere meno testimoni possibile».
Giunto davanti alla prigione, Milinkevic ha rilanciato la sfida al regime: «Andiamo avanti con quello che avevamo previsto per il 25 marzo», ha detto, invitando alla grande e pacifica manifestazione a Minsk annunciata già nei giorni scorsi. «Questo potere non conosce che una lingua, quella della repressione. L'ha dimostrato ancora una volta. Mi aspettavo questo ogni notte».
Altre foto
La prima azione di forza del regime per porre fine alla protesta dell'opposizione giunge, come una chiara intimidazione, alla vigilia della grande manifestazione annunciata da Milinkevich per sabato 25 marzo. Lukashenko cerca così di far tornare quella paura che era di colpo svanita nelle migliaia di persone che avevano partecipato alle manifestazioni di piazza delle notti scorse. Questo è il momento di far sentire forte e chiara ai bielorussi la voce dell'Europa e degli Stati Uniti.
Proprio oggi il Riformista pubblica una mia lettera sulla piazza di Minsk troppo lontana dagli sguardi delle nostre televisioni.
Caro direttore, a proposito di piazze. Ce n'è una, ai confini dell'Europa, a Minsk, che da alcune notti si riempie di migliaia di giovani dimostranti, nonostante il gelo, il buio, l'assenza di mezzi pubblici, i blocchi e le minacce del regime. Rock band e poesie, bandiere bielorusse, dell'Ue e del movimento giovanile Zubr. L'atmosfera festosa. In centinaia trascorrono la notte all'addiaccio, al presidio democratico. Quattro gatti, ma possono graffiare. Preferisco quella piazza alle nostre. Sabato prossimo, 25 marzo, una grande e pacifica manifestazione. Promettevano una protesta «lunga e potente». Lo è stata, ma le chance di successo rimangono molto esigue. La strategia del regime è di basso profilo, conta sull'esaurimento spontaneo della protesta. Una repressione lenta e discreta, con arresti, blocco degli accessi e dei rifornimenti, sequestro di tende e altri materiali utili. Eppure, per la prima volta in Bielorussia migliaia di persone «hanno trionfato sulla paura»; esiste un'opposizione, è visibile, consapevole di sé, capace di organizzarsi, ha i suoi leader, è non violenta e ha l'appoggio di Europa e Stati Uniti. Non sarà la volta buona, ma qualcosa di buono ha avuto inizio. Che sia l'inizio della fine per Lukashenko?
Interviste: Milinkevich; Dell'Arciprete e Kessler
Blog sulla Bielorussia: Publius Pundit; Rush Mush; Neeka's Backlog; Blogging Belarus; Andrei Khrpavistski; br23; The Being Had Times; Tobias Ljungvall
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Thursday, March 23, 2006
Trionfo di giovanardismo su TocqueVille
Laicità, liberalismo, democrazia. Praticamente su tutto si registrano le «involuzioni tocquevilliane» che preoccupano anche 1972. Ci sono certi giorni però che il carattere regressivo dell'aggregatore accelera in modo sconfortante. Oggi aprendo l'homepage ci troviamo di fronte un post giovanardiano sul tema dell'eutanasia (tra l'altro pubblicato ieri). Un post che rivela l'ignoranza più totale dell'argomento di cui si parla e la mistificazione - seppure ho motivo di ritenere inconsapevole in questo caso - che viene operata sul tema. I toni apparentemente concilianti con cui il post si apre non traggano in inganno, perché in fondo non si fa che reiterare l'accusa di nazismo rivolta da Carlo Giovanardi agli olandesi per le leggi di cui si sono democraticamente dotati per far uscire dalla clandestinità e regolare situazioni drammatiche a volte risolte in modo discutibile.
«Indipendentemente dalle opinioni personali, il rischio insormontabile è quello di essere strumentalizzati da ambo le parti». Da queste parole ti aspetteresti un'opinone terzista o, come si dice, bipartisan. Invece, ci si accorge presto che il timore di venire «strumentalizzati da ambo le parti» è puro vezzo, viste le conclusioni cui giunge l'autore. Entrando nel merito viene premesso un magnanimo e rassicurante «A mio parere si può essere favorevoli o contrari – come il sottoscritto – alla pratica dell'eutanasia...». Beh, ringraziamo di cuore per la concessione, ma se la partenza sembra cauta, quasi per introdurci a una riflessione seria, peccato che poche righe più avanti si usa la clava. Mi si dice che, certo, posso essere favorevole, ma mi merito l'etichetta del nazista. Bel modo.
Spieghiamo subito all'amico Giuseppe che una cosa è dirsi contrari all'eutanasia, ben altra è dare del nazista a un popolo da cui dovremmo prendere lezioni di liberalismo e democrazia. Soprattutto un ministro, per il ruolo istituzionale che ricopre, dovrebbe evitare di offendere nazioni amiche. E' questa gaffe, non l'opinione (scontata) di Giovanardi, ad aver fatto notizia.
Le «radici» di questi tempi c'entrano sempre come i cavoli a merenda, quindi le lasciamo perdere, perché il discorso ci porterebbe lontano, come rinuncio in partenza a cercare di capire come una canzone sia capace di "rammollire" il nostro occidente. Bah.
Il presupposto da cui parte il ragionamento del post è «che compito dei medici sia la cura del paziente, non la sua dolce morte». Sul concetto di "cura" ci si dovrebbe soffermare un istante. Non sempre un medico può curare il paziente nel senso di guarirlo e salvarlo, ma è sempre possibile, e a quel punto doveroso, curarlo nel senso di prendersene cura, anche accompagnandolo verso una morte dignitosa. Detto questo, per parlare seriamente di eutanasia, e casomai dividersi, occorre innanzitutto l'onestà intellettuale di disfarsi di qualsiasi accusa di nazismo ed eugenetica. La propaganda lasciamola ai ministri o agli atei devoti; non ce ne rendiamo, caro Giuseppe, inconsapevoli strumenti.
Tutto ha inizio dalla colossale falsità di voler sostenere che in Olanda vengono soppressi bambini handicappati e down, sordomuti o dalla spina dorsale bifida. E' una bugia. Nessun bambino inabile viene gettato da una rupe. Il solo fatto di credere che un popolo civile, democratico e liberale come quello olandese possa ricorrere a simili pratiche vuol dire o essere completamente obnubilati dalla disinformazione, o voler propagandisticamente offrire un ritratto disumanizzante del proprio avversario politico. Se qualcuno fosse davvero convinto che in Olanda vi siano leggi naziste, spero ardentemente che non si limiti alle passerelle televisive.
I neonati a cui viene praticata l'eutanasia sono destinati, a causa di malformazioni incurabili, a morte certa entro giorni, o settimane, che trascorrono in inenarrabili sofferenze senza possiblità di essere mitigate. In 580 casi dei 600 registrati all'anno si tratta di rifiuto dell'accanimento terapeutico (neonati destinati a morire nonostante l'aiuto delle macchine, o che sono tenuti in vita dalle macchine, ma con prognosi disperata e senza possiblità di miglioramento). Sono casi cui ci troviamo di fronte solo perché oggi esistono macchine di cui qualche anno fa non disponevamo. Solo in 20 casi sui 600 si è praticata l'eutanasia attiva. Questi neonati non sono dipendenti dalle macchine, ma hanno prognosi altrettanto disperata, sono senza possiblità di miglioramento e vivono sofferenze insopportabili. Si tratta soprattutto dell'1% dei casi in cui la spina bifida non è curabile.
Questi sono gli autentici drammi di fronte a cui genitori e medici si trovano. Drammi spesso risolti - anche in Italia, non illudiamoci - clandestinamente e quindi senza la necessaria cautela. Si tratta quindi di porre delle regole, dei paletti, appunto, dei limiti all'attuale situazione fuori controllo.
Questa è già una prima differenza sostanziale con il nazismo, che terminava vite umane anche per imperfezioni minori e se appartenenti a razze ritenute inferiori, nella convinzione che ciò potesse migliorare la razza ariana. Per eseguire i loro scopi i nazisti mentivano ai genitori, promettendo cure miracolose, quando non li obbligavano. Il programma, questa è la seconda sostanziale differenza, era imposto dallo Stato. D'altra parte, l'eugenetica come l'avevano teorizzata i nazisti, prima che raccapricciante dal punto di vista umano, si è rivelata ridicola, un assurdo, dal punto di vista scientifico. Gli americani erano già arrivati a questa conclusione.
Anche possedendo scarse nozioni scientifiche si può comprendere che non è possibile eseguire un programma eugenetico sopprimendo l'handicappato o il malato. Occorre assicurarsi che i portatori dei geni difettosi, i genitori, non procreino. Di tutta evidenza ciò è impossibile anche per uno stato totalitario, quindi figuriamoci per un paese democratico. Inoltre, il controllo genetico, di tutti i miliardi di variabili, è ormai un mito nei termini posti dai nazisti. Lo stesso concetto di razza non ha confini scientificamente rintracciabili.
Altra cosa sono i grandi passi che la scienza sta compiendo per la cura, in fase embrionica o addirittura fetale, di malattie genetiche. Ma nessuno scienziato serio può affermare di poter arrivare a eliminare completamente dalla faccia della terra una certa malattia genetica o, peggio, un singolo carattere. Tanto meno per mezzo dell'eutanasia. E in un senso lato ogni volta che scegliamo un partner compiamo, è provato dal punto di vista biologico, un atto eugenetico guidato dai nostri sensi e dal nostro istinto. Ma questi sono temi che ci porterebbero lontani.
E comunque, senza un programma statale imposto, senza coercizione, non si può parlare di eugenetica. La scelta di praticare l'eutanasia a un neonato non potrebbe essere lasciata ai genitori; e impiantarsi un embrione nell'utero non potrebbe essere una libera scelta della donna.
Infatti, in Olanda, a prendere la drammatica decisione dell'eutanasia sono i genitori del neonato, con il parere unanime di tre medici della struttura e uno esterno, e l'avallo del magistrato. Tutto sotto un rigido protocollo. Ci sono molte più garanzie in questo modo che lasciare che tutto si svolga nella clandestinità. Si tratta di situazioni eticamente di confine, drammatiche e dolorose. Sempre meglio che siano i genitori a essere messi nelle condizioni di prendere una decisione e non una burocrazia, attivamente o per inerzia. Rimango sempre convinto che il dono della coscienza, dell'etica e della responsabilità apppartenga all'individuo e non allo stato.
Se non si comprendono queste minime differenze vuol dire che la cultura democratica ce la teniamo proprio sotto i tacchi.
Naturalmente si può discutere sull'eutanasia dividendosi su diversi criteri e concezioni di compassione, di cura, di vita e di morte, ma non si possono lanciare a vanvera accuse di nazismo semplicemente perché si ignora il tema o si vuole fare propaganda.
Vorrei sapere, tanto per capire di cosa stiamo parlando, se a TocqueVille un post che definisse gli americani nazisti per Guantanamo o la pena di morte, e vi assicuro che ce n'è di gente che lo pensa, troverebbe posto in apertura dell'homepage. No, lo dico tanto per sapere, perché questo è il terreno scivoloso su cui l'aggregatore ex-liberale si sta incamminando.
«Indipendentemente dalle opinioni personali, il rischio insormontabile è quello di essere strumentalizzati da ambo le parti». Da queste parole ti aspetteresti un'opinone terzista o, come si dice, bipartisan. Invece, ci si accorge presto che il timore di venire «strumentalizzati da ambo le parti» è puro vezzo, viste le conclusioni cui giunge l'autore. Entrando nel merito viene premesso un magnanimo e rassicurante «A mio parere si può essere favorevoli o contrari – come il sottoscritto – alla pratica dell'eutanasia...». Beh, ringraziamo di cuore per la concessione, ma se la partenza sembra cauta, quasi per introdurci a una riflessione seria, peccato che poche righe più avanti si usa la clava. Mi si dice che, certo, posso essere favorevole, ma mi merito l'etichetta del nazista. Bel modo.
Spieghiamo subito all'amico Giuseppe che una cosa è dirsi contrari all'eutanasia, ben altra è dare del nazista a un popolo da cui dovremmo prendere lezioni di liberalismo e democrazia. Soprattutto un ministro, per il ruolo istituzionale che ricopre, dovrebbe evitare di offendere nazioni amiche. E' questa gaffe, non l'opinione (scontata) di Giovanardi, ad aver fatto notizia.
Le «radici» di questi tempi c'entrano sempre come i cavoli a merenda, quindi le lasciamo perdere, perché il discorso ci porterebbe lontano, come rinuncio in partenza a cercare di capire come una canzone sia capace di "rammollire" il nostro occidente. Bah.
Il presupposto da cui parte il ragionamento del post è «che compito dei medici sia la cura del paziente, non la sua dolce morte». Sul concetto di "cura" ci si dovrebbe soffermare un istante. Non sempre un medico può curare il paziente nel senso di guarirlo e salvarlo, ma è sempre possibile, e a quel punto doveroso, curarlo nel senso di prendersene cura, anche accompagnandolo verso una morte dignitosa. Detto questo, per parlare seriamente di eutanasia, e casomai dividersi, occorre innanzitutto l'onestà intellettuale di disfarsi di qualsiasi accusa di nazismo ed eugenetica. La propaganda lasciamola ai ministri o agli atei devoti; non ce ne rendiamo, caro Giuseppe, inconsapevoli strumenti.
Tutto ha inizio dalla colossale falsità di voler sostenere che in Olanda vengono soppressi bambini handicappati e down, sordomuti o dalla spina dorsale bifida. E' una bugia. Nessun bambino inabile viene gettato da una rupe. Il solo fatto di credere che un popolo civile, democratico e liberale come quello olandese possa ricorrere a simili pratiche vuol dire o essere completamente obnubilati dalla disinformazione, o voler propagandisticamente offrire un ritratto disumanizzante del proprio avversario politico. Se qualcuno fosse davvero convinto che in Olanda vi siano leggi naziste, spero ardentemente che non si limiti alle passerelle televisive.
I neonati a cui viene praticata l'eutanasia sono destinati, a causa di malformazioni incurabili, a morte certa entro giorni, o settimane, che trascorrono in inenarrabili sofferenze senza possiblità di essere mitigate. In 580 casi dei 600 registrati all'anno si tratta di rifiuto dell'accanimento terapeutico (neonati destinati a morire nonostante l'aiuto delle macchine, o che sono tenuti in vita dalle macchine, ma con prognosi disperata e senza possiblità di miglioramento). Sono casi cui ci troviamo di fronte solo perché oggi esistono macchine di cui qualche anno fa non disponevamo. Solo in 20 casi sui 600 si è praticata l'eutanasia attiva. Questi neonati non sono dipendenti dalle macchine, ma hanno prognosi altrettanto disperata, sono senza possiblità di miglioramento e vivono sofferenze insopportabili. Si tratta soprattutto dell'1% dei casi in cui la spina bifida non è curabile.
Questi sono gli autentici drammi di fronte a cui genitori e medici si trovano. Drammi spesso risolti - anche in Italia, non illudiamoci - clandestinamente e quindi senza la necessaria cautela. Si tratta quindi di porre delle regole, dei paletti, appunto, dei limiti all'attuale situazione fuori controllo.
Questa è già una prima differenza sostanziale con il nazismo, che terminava vite umane anche per imperfezioni minori e se appartenenti a razze ritenute inferiori, nella convinzione che ciò potesse migliorare la razza ariana. Per eseguire i loro scopi i nazisti mentivano ai genitori, promettendo cure miracolose, quando non li obbligavano. Il programma, questa è la seconda sostanziale differenza, era imposto dallo Stato. D'altra parte, l'eugenetica come l'avevano teorizzata i nazisti, prima che raccapricciante dal punto di vista umano, si è rivelata ridicola, un assurdo, dal punto di vista scientifico. Gli americani erano già arrivati a questa conclusione.
Anche possedendo scarse nozioni scientifiche si può comprendere che non è possibile eseguire un programma eugenetico sopprimendo l'handicappato o il malato. Occorre assicurarsi che i portatori dei geni difettosi, i genitori, non procreino. Di tutta evidenza ciò è impossibile anche per uno stato totalitario, quindi figuriamoci per un paese democratico. Inoltre, il controllo genetico, di tutti i miliardi di variabili, è ormai un mito nei termini posti dai nazisti. Lo stesso concetto di razza non ha confini scientificamente rintracciabili.
Altra cosa sono i grandi passi che la scienza sta compiendo per la cura, in fase embrionica o addirittura fetale, di malattie genetiche. Ma nessuno scienziato serio può affermare di poter arrivare a eliminare completamente dalla faccia della terra una certa malattia genetica o, peggio, un singolo carattere. Tanto meno per mezzo dell'eutanasia. E in un senso lato ogni volta che scegliamo un partner compiamo, è provato dal punto di vista biologico, un atto eugenetico guidato dai nostri sensi e dal nostro istinto. Ma questi sono temi che ci porterebbero lontani.
E comunque, senza un programma statale imposto, senza coercizione, non si può parlare di eugenetica. La scelta di praticare l'eutanasia a un neonato non potrebbe essere lasciata ai genitori; e impiantarsi un embrione nell'utero non potrebbe essere una libera scelta della donna.
Infatti, in Olanda, a prendere la drammatica decisione dell'eutanasia sono i genitori del neonato, con il parere unanime di tre medici della struttura e uno esterno, e l'avallo del magistrato. Tutto sotto un rigido protocollo. Ci sono molte più garanzie in questo modo che lasciare che tutto si svolga nella clandestinità. Si tratta di situazioni eticamente di confine, drammatiche e dolorose. Sempre meglio che siano i genitori a essere messi nelle condizioni di prendere una decisione e non una burocrazia, attivamente o per inerzia. Rimango sempre convinto che il dono della coscienza, dell'etica e della responsabilità apppartenga all'individuo e non allo stato.
Se non si comprendono queste minime differenze vuol dire che la cultura democratica ce la teniamo proprio sotto i tacchi.
Naturalmente si può discutere sull'eutanasia dividendosi su diversi criteri e concezioni di compassione, di cura, di vita e di morte, ma non si possono lanciare a vanvera accuse di nazismo semplicemente perché si ignora il tema o si vuole fare propaganda.
Vorrei sapere, tanto per capire di cosa stiamo parlando, se a TocqueVille un post che definisse gli americani nazisti per Guantanamo o la pena di morte, e vi assicuro che ce n'è di gente che lo pensa, troverebbe posto in apertura dell'homepage. No, lo dico tanto per sapere, perché questo è il terreno scivoloso su cui l'aggregatore ex-liberale si sta incamminando.
Un'altra notte di presidio democratico a Minsk
Ci sono ancora circa 25 tende al presidio democratico nel centro di Minsk. Alcune centinaia di dimostranti stanno trascorrendo anche questa notte all'addiaccio. E al buio, perché le autorità hanno spento l'abituale illuminazione sulla piazza. Nonostante il gelo l'atmosfera è festosa, riferisce Charter 97.
Anche nella serata di ieri, alla solita ora, superando i blocchi della polizia, alcune migliaia di persone hanno affollato la piazza. Milinkevich, che si recherà anche stanotte alla tendopoli, si è di nuovo rivolto alle persone convenute, invitandole a resistere, a non abbandonare il presidio fino a sabato, l'atteso giorno della grande manifestazione.
Ha reso noto che i rettori delle università polacche hanno promesso di ammettere agli studi tutti gli studenti bielorussi che saranno espulsi a causa delle loro attività politiche.
Milinkevich ha aggiunto di aver ricevuto una telefonata dalle istituzioni dell'Unione europea, da Bruxelles. Stanno compilando le liste di coloro che hanno partecipato alla falsificazione delle elezioni, che hanno licenziato persone per aver partecipato alle manifestazioni e che hanno espulso studenti. A queste persone verrà impedito di entrare nei paesi membri dell'Ue.
Inoltre, è stata letta in piazza la lista dei nomi degli attivisti, oltre un centinaio, arrestati in questi giorni.
I candidati dell'opposizione avevano promesso che la protesta sarebbe stata «lunga a potente». E lo è stata. Ma le chance che il suo esito sia simile alle rivoluzioni "colorate" di Kiev e Tblisi rimangono molto esigue. Oltre 10 mila persone hanno affollato piazza d'Ottobre la notte della chiusura dei seggi, domenica. Erano circa la metà lunedì. Martedì e mercoledì sono tornate in 6-7 mila. Milinkevich ha annunciato una grande, ben organizzata e pacifica manifestazione per sabato prossimo, 25 marzo, giorno in cui ricorre l'anniversario della prima, breve indipendenza della Repubblica bielorussa dalla Russia (1918), ma ha invitato tutti a tornare al presidio ogni sera fino a sabato.
Sarà la prova di forza decisiva. Il suo successo dipenderà dalle reali possibilità che avrà la gente di raggiungere fisicamente la piazza, il cui accesso è filtrato dalla polizia fin dalla mattina. La strategia di contrasto scelta finora dalle autorità è di basso profilo, conta sull'esaurimento spontaneo della protesta, ma dimostra comunque una certa efficacia. Una "repressione" lenta e discreta, con arresti, blocco degli accessi e dei "rifornimenti", sequestro di tende e altri materiali utili ai dimostranti.
Sarà comunque l'inizio della lotta, ha fatto capire Milinkevich.
Per la prima volta migliaia di persone «hanno trionfato sulla paura»; Lukashenko non potrà più governare con gli stessi metodi di prima.
Un'opposizione esiste, è visibile, ha consapevolezza di sé, è capace di organizzarsi, ha i suoi leader, è nonviolenta e ha l'appoggio internazionale. Non pochi passi avanti sono stati compiuti rispetto a un anno fa, quando 3-400 persone furono picchiate e arrestate dalla polizia per aver manifestato il 25 marzo.
Interviste: Milinkevich; Dell'Arciprete e Kessler
Blog sulla Bielorussia: Publius Pundit; Rush Mush; Neeka's Backlog; Blogging Belarus; Andrei Khrpavistski; br23; The Being Had Times; Tobias Ljungvall
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Anche nella serata di ieri, alla solita ora, superando i blocchi della polizia, alcune migliaia di persone hanno affollato la piazza. Milinkevich, che si recherà anche stanotte alla tendopoli, si è di nuovo rivolto alle persone convenute, invitandole a resistere, a non abbandonare il presidio fino a sabato, l'atteso giorno della grande manifestazione.
Ha reso noto che i rettori delle università polacche hanno promesso di ammettere agli studi tutti gli studenti bielorussi che saranno espulsi a causa delle loro attività politiche.
Milinkevich ha aggiunto di aver ricevuto una telefonata dalle istituzioni dell'Unione europea, da Bruxelles. Stanno compilando le liste di coloro che hanno partecipato alla falsificazione delle elezioni, che hanno licenziato persone per aver partecipato alle manifestazioni e che hanno espulso studenti. A queste persone verrà impedito di entrare nei paesi membri dell'Ue.
Inoltre, è stata letta in piazza la lista dei nomi degli attivisti, oltre un centinaio, arrestati in questi giorni.
I candidati dell'opposizione avevano promesso che la protesta sarebbe stata «lunga a potente». E lo è stata. Ma le chance che il suo esito sia simile alle rivoluzioni "colorate" di Kiev e Tblisi rimangono molto esigue. Oltre 10 mila persone hanno affollato piazza d'Ottobre la notte della chiusura dei seggi, domenica. Erano circa la metà lunedì. Martedì e mercoledì sono tornate in 6-7 mila. Milinkevich ha annunciato una grande, ben organizzata e pacifica manifestazione per sabato prossimo, 25 marzo, giorno in cui ricorre l'anniversario della prima, breve indipendenza della Repubblica bielorussa dalla Russia (1918), ma ha invitato tutti a tornare al presidio ogni sera fino a sabato.
Sarà la prova di forza decisiva. Il suo successo dipenderà dalle reali possibilità che avrà la gente di raggiungere fisicamente la piazza, il cui accesso è filtrato dalla polizia fin dalla mattina. La strategia di contrasto scelta finora dalle autorità è di basso profilo, conta sull'esaurimento spontaneo della protesta, ma dimostra comunque una certa efficacia. Una "repressione" lenta e discreta, con arresti, blocco degli accessi e dei "rifornimenti", sequestro di tende e altri materiali utili ai dimostranti.
Sarà comunque l'inizio della lotta, ha fatto capire Milinkevich.
Per la prima volta migliaia di persone «hanno trionfato sulla paura»; Lukashenko non potrà più governare con gli stessi metodi di prima.
Un'opposizione esiste, è visibile, ha consapevolezza di sé, è capace di organizzarsi, ha i suoi leader, è nonviolenta e ha l'appoggio internazionale. Non pochi passi avanti sono stati compiuti rispetto a un anno fa, quando 3-400 persone furono picchiate e arrestate dalla polizia per aver manifestato il 25 marzo.
Interviste: Milinkevich; Dell'Arciprete e Kessler
Blog sulla Bielorussia: Publius Pundit; Rush Mush; Neeka's Backlog; Blogging Belarus; Andrei Khrpavistski; br23; The Being Had Times; Tobias Ljungvall
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Wednesday, March 22, 2006
Le ragioni degli studenti francesi
Se la protesta degli studenti universitari francesi, che hanno occupato la Sorbona e messo a soqquadro Parigi, non fosse di quella violenza cieca ed eversiva, che trova alimento nel substrato ideologico post-neo-comunista e anti-liberale in cui quei ragazzi, nelle università francesi come in molte italiane, vengono fatti crescere, vi sarebbero le condizioni per unirsi al loro malcontento e criticare la legge sul primo impiego proposta da De Villepin.
La normativa che si vorrebbe introdurre consente a un datore di lavoro di licenziare senza giustificazione i giovani assunti con età inferiore ai 26 anni entro un periodo di due anni. Quella del governo francese è una risposta sbagliata a un problema reale. Soprattutto è una risposta che per mantenere i privilegi ai molti penalizza i pochi, i giovani. In Francia, come in Italia, la rigidità del mercato del lavoro, la mancanza della cosiddetta flessibilità in uscita, è la causa principale di una scarsa mobilità sociale e delle difficoltà per i giovani di inserirsi nel mondo del lavoro.
L'effetto della legge di De Villepin sarebbe certamente quello di incentivare le assunzioni di giovani, perché per qualsiasi motivo, entro due anni, le aziende potrebbero disfarsene. Al tempo stesso però le aziende sarebbero incentivate a sostituire, indipendentemente dalle necessità o dalle capacità individuali, i giovani che si avviano alla scadenza dei due anni con nuovi assunti. Si creano in questo modo due mercati del lavoro paralleli. Il primo, maggioritario e chiuso, riservato agli adulti, iperprotetti; il secondo, minoritario e precario, di giovani trattati da paria.
E' dello stesso avviso André Glucksmann, intervistato qualche giorno fa dal Correre della Sera: «... non è affatto un passo liberale verso l'apertura del mercato del lavoro. Al contrario, il Cpe è una misura insufficiente che non riuscirà a creare nuova occupazione ma perpetuerà le garanzie e i privilegi dei lavoratori adulti già inseriti. Sembra l'inizio di una riforma, in realtà è una mossa conservatrice. (...) dopo 30 anni di immobilismo di destra e di sinistra, all'improvviso vuole fare pagare la fattura solo ai giovani, gli unici licenziabili a piacere. Tutti gli altri lavoratori conservano i privilegi...»
Una situazione, quella francese, che ricorda da vicino quella italiana: «Successivi governi di destra e sinistra hanno ignorato una disoccupazione cronica al 10%, e ora ciascun giovane ha la prospettiva di pagare la pensione a tre 60enni, poi di saldare la montagna di debito pubblico accumulata dallo Stato, e in più potrà essere mandato a casa in ogni momento. È un' umiliazione. Occorre una riforma complessiva e organica, non scaricare solo sugli studenti tutto il peso di un fallimento».
Consapevole che i viziati studenti parigini reagirebbero con altrettanta violenza, la soluzione più efficace, e più equa oltre che liberale, è la libertà di licenziamento estesa a tutto il mercato del lavoro, senza alcuna discriminazione di età, di settore, o di anzianità.
I recenti scontri a Parigi ci mostrano quindi come spesso il conflitto generazionale, pur comprensibile, prenda una strada sbagliata, addirittura opposta a quella del cambiamento. Da un certo punto di vista è comprensibile che i giovani pretendano il posto sicuro e gli stessi privilegi che hanno i loro padri. Ma d'altra parte non si rendono conto, imbevuti come sono di cultura statalista e anti-capitalista, che così facendo svolgono essi stessi un ruolo di conservazione di un sistema sociale che non regge più, iniquo oltre che improduttivo.
La normativa che si vorrebbe introdurre consente a un datore di lavoro di licenziare senza giustificazione i giovani assunti con età inferiore ai 26 anni entro un periodo di due anni. Quella del governo francese è una risposta sbagliata a un problema reale. Soprattutto è una risposta che per mantenere i privilegi ai molti penalizza i pochi, i giovani. In Francia, come in Italia, la rigidità del mercato del lavoro, la mancanza della cosiddetta flessibilità in uscita, è la causa principale di una scarsa mobilità sociale e delle difficoltà per i giovani di inserirsi nel mondo del lavoro.
L'effetto della legge di De Villepin sarebbe certamente quello di incentivare le assunzioni di giovani, perché per qualsiasi motivo, entro due anni, le aziende potrebbero disfarsene. Al tempo stesso però le aziende sarebbero incentivate a sostituire, indipendentemente dalle necessità o dalle capacità individuali, i giovani che si avviano alla scadenza dei due anni con nuovi assunti. Si creano in questo modo due mercati del lavoro paralleli. Il primo, maggioritario e chiuso, riservato agli adulti, iperprotetti; il secondo, minoritario e precario, di giovani trattati da paria.
E' dello stesso avviso André Glucksmann, intervistato qualche giorno fa dal Correre della Sera: «... non è affatto un passo liberale verso l'apertura del mercato del lavoro. Al contrario, il Cpe è una misura insufficiente che non riuscirà a creare nuova occupazione ma perpetuerà le garanzie e i privilegi dei lavoratori adulti già inseriti. Sembra l'inizio di una riforma, in realtà è una mossa conservatrice. (...) dopo 30 anni di immobilismo di destra e di sinistra, all'improvviso vuole fare pagare la fattura solo ai giovani, gli unici licenziabili a piacere. Tutti gli altri lavoratori conservano i privilegi...»
Una situazione, quella francese, che ricorda da vicino quella italiana: «Successivi governi di destra e sinistra hanno ignorato una disoccupazione cronica al 10%, e ora ciascun giovane ha la prospettiva di pagare la pensione a tre 60enni, poi di saldare la montagna di debito pubblico accumulata dallo Stato, e in più potrà essere mandato a casa in ogni momento. È un' umiliazione. Occorre una riforma complessiva e organica, non scaricare solo sugli studenti tutto il peso di un fallimento».
Consapevole che i viziati studenti parigini reagirebbero con altrettanta violenza, la soluzione più efficace, e più equa oltre che liberale, è la libertà di licenziamento estesa a tutto il mercato del lavoro, senza alcuna discriminazione di età, di settore, o di anzianità.
I recenti scontri a Parigi ci mostrano quindi come spesso il conflitto generazionale, pur comprensibile, prenda una strada sbagliata, addirittura opposta a quella del cambiamento. Da un certo punto di vista è comprensibile che i giovani pretendano il posto sicuro e gli stessi privilegi che hanno i loro padri. Ma d'altra parte non si rendono conto, imbevuti come sono di cultura statalista e anti-capitalista, che così facendo svolgono essi stessi un ruolo di conservazione di un sistema sociale che non regge più, iniquo oltre che improduttivo.
Involuzioni tocquevilliane. Né le prime né le ultime
1972 le chiama «involuzioni tocquevilliane». Non sono le prime e non sono, temo, le ultime. Dal fronte della laicità a quello del liberalismo, fino alla politica estera, l'involuzione sembra netta e progressiva. In questo caso specifico si tratta dei primi vagiti di rivoluzione democratica in Bielorussia - di cui tanto abbiamo parlato - dopo le elezioni "farsa" che hanno riconfermato al potere l'ultimo dittatore d'Europa, Lukashenko.
Secondo i 2twins c'è da scegliere: o si appoggia la democrazia in Bielorussia, gettando così la Russia di Putin tra le braccia della Cina, o si fa finta di niente contando sul fatto che l'orso russo si accontenti di tenersi stretto Lukashenko. Conclusione: teniamoci buono Putin. Poche volte l'analisi dei 2twins è stata così approssimativa. Non mi sembra che Mosca aspetti le mosse dell'Occidente, in Bielorussia o altrove, per "sigillare" patti con la Cina o con l'Iran. Premesso che al centro mettiamo i diritti politici dei bielorussi, non sta scritto da nessuna parte che una Bielorussia democratica debba rappresentare un danno per gli interessi russi. Mosca ha questa visione dei rapporti con i suoi vicini perché conserva una forma di potere autoritaria. La Russia cesserà quindi di essere un problema per sé e per l'Occidente solo quando si sarà definitivamente avviata verso la democrazia.
Oltre al post in cui dà voce a un meccanico fan di Lukashenko, basta scorrere alcune delle categorie del blog Poganka per accorgersi di essere di fronte a un bollettino del Cremlino. Prezioso e informatissimo, ma, diciamo, convinto di svolgere un'importante missione: difendere Putin da un vasto complotto internazionale ordito ai suoi danni dalle capitali occidentali. Anche sulle vicende bielorusse, la sua non è una difesa di Lukashenko, ma di Putin, che, a quanto ci dice, con il dittatore bielorusso non c'entra niente (?).
Dei problemi di TocqueVille avevo parlato qualche giorno fa, ma più nella chiave del rischio «bagno di mediocrità», con una homepage che sembra farsi amplificatore di un pensiero unico, di un coro da stadio, anziché luogo di circolazione di idee e di pensiero critico.
Secondo i 2twins c'è da scegliere: o si appoggia la democrazia in Bielorussia, gettando così la Russia di Putin tra le braccia della Cina, o si fa finta di niente contando sul fatto che l'orso russo si accontenti di tenersi stretto Lukashenko. Conclusione: teniamoci buono Putin. Poche volte l'analisi dei 2twins è stata così approssimativa. Non mi sembra che Mosca aspetti le mosse dell'Occidente, in Bielorussia o altrove, per "sigillare" patti con la Cina o con l'Iran. Premesso che al centro mettiamo i diritti politici dei bielorussi, non sta scritto da nessuna parte che una Bielorussia democratica debba rappresentare un danno per gli interessi russi. Mosca ha questa visione dei rapporti con i suoi vicini perché conserva una forma di potere autoritaria. La Russia cesserà quindi di essere un problema per sé e per l'Occidente solo quando si sarà definitivamente avviata verso la democrazia.
Oltre al post in cui dà voce a un meccanico fan di Lukashenko, basta scorrere alcune delle categorie del blog Poganka per accorgersi di essere di fronte a un bollettino del Cremlino. Prezioso e informatissimo, ma, diciamo, convinto di svolgere un'importante missione: difendere Putin da un vasto complotto internazionale ordito ai suoi danni dalle capitali occidentali. Anche sulle vicende bielorusse, la sua non è una difesa di Lukashenko, ma di Putin, che, a quanto ci dice, con il dittatore bielorusso non c'entra niente (?).
Dei problemi di TocqueVille avevo parlato qualche giorno fa, ma più nella chiave del rischio «bagno di mediocrità», con una homepage che sembra farsi amplificatore di un pensiero unico, di un coro da stadio, anziché luogo di circolazione di idee e di pensiero critico.
Limaccioso
Il commento più indovinato alla decisione del sindaco di Bologna Cofferati di vietare la piazza alla Fiamma Tricolore per un comizio elettorale («Sono tutte occupate») l'ho letto da Celine. «Crea un clima limaccioso». Così Pannella sul divieto: «Cofferati mi delude un po', io credevo che fosse un avversario di grande respiro. Ahimé, non mi pare».
A Padova invece una piazza che ospitasse la Fiamma s'è trovata anche se per le solite minacce dei Disobbedienti («E' nostra intenzione impedire il raduno dei fascisti») il prefetto ha deciso di sbattere i "fascisti" in periferia.
Siamo al paradosso: i dirigenti della Fiamma che denunciano «la deriva illiberale e antidemocratica» del nostro paese. Verrebbe da sorridere se non occorresse riconoscere che hanno ragione. Sono l'unico partito in Italia, ammesso alle elezioni, cui è negato il diritto civile e politico di manifestare pacificamente. Le autorità, anziché garantire la sicurezza dei manifestanti e proteggerli da eventuali aggressioni, negano le autorizzazioni, legittimando in questo modo le minacce e le azioni degli squadristi di sinistra.
Lo squadrismo di sinistra, anche i recenti fatti di Genova lo dimostrano, è dilagante. E' il frutto dell'ininterrotto collateralismo culturale e ideologico della sinistra parlamentare, che non solo continua a chiudere un occhio sui "compagni che sbagliano", ma premia i leader dell'antagonismo violento portandoli in Parlamento.
Siamo di nuovo di fronte alla possibilità concreta di una nuova guerra fra opposti estremismi, ma la novità rispetto agli anni '70 è che i "neri" chiedono di poter manifestare liberamente e pacificamente, mentre i "rossi" vogliono impedirglielo anche ricorrendo alla violenza.
A Padova invece una piazza che ospitasse la Fiamma s'è trovata anche se per le solite minacce dei Disobbedienti («E' nostra intenzione impedire il raduno dei fascisti») il prefetto ha deciso di sbattere i "fascisti" in periferia.
Siamo al paradosso: i dirigenti della Fiamma che denunciano «la deriva illiberale e antidemocratica» del nostro paese. Verrebbe da sorridere se non occorresse riconoscere che hanno ragione. Sono l'unico partito in Italia, ammesso alle elezioni, cui è negato il diritto civile e politico di manifestare pacificamente. Le autorità, anziché garantire la sicurezza dei manifestanti e proteggerli da eventuali aggressioni, negano le autorizzazioni, legittimando in questo modo le minacce e le azioni degli squadristi di sinistra.
Lo squadrismo di sinistra, anche i recenti fatti di Genova lo dimostrano, è dilagante. E' il frutto dell'ininterrotto collateralismo culturale e ideologico della sinistra parlamentare, che non solo continua a chiudere un occhio sui "compagni che sbagliano", ma premia i leader dell'antagonismo violento portandoli in Parlamento.
Siamo di nuovo di fronte alla possibilità concreta di una nuova guerra fra opposti estremismi, ma la novità rispetto agli anni '70 è che i "neri" chiedono di poter manifestare liberamente e pacificamente, mentre i "rossi" vogliono impedirglielo anche ricorrendo alla violenza.
L'importanza di Calderoli
Quando l'ex ministro leghista ammette che la legge elettorale è una «porcata» fatta per danneggiare la sinistra, che va subito cambiata, che se ne vergogna ma è giusto che i cittadini lo sappiano per giudicarlo;
quando spiega che tutto sommato Milosevic e Saddam erano gli unici in grado di governare i loro popoli, ancora immaturi per la democrazia, esprimendo così ciò che molti in cuor loro pensano ma non hanno il coraggio di dire - o hanno il pudore di non dire;
quando osserva che dopo le parole del cardinale Ruini è evidente che il cristiano votando a sinistra si schiera «dalla parte del peccato e del demonio».
Calderoli, essendo persona semplice ma non stupida, non perde tempo a sottilizzare. Che la Chiesa si sia schierata «sui contenuti e non sui partiti» che differenza fa? Non si fanno nomi e cognomi, ma l'identikit tracciato da Ruini è fin troppo preciso. Calderoli s'è fatto bene i suoi calcoli e aiuta anche noi a farceli. Da una parte un centrodestra compatto sui «contenuti irrinunciabili», dall'altra una sinistra che se proprio volete votarla mi raccomando di non andare più in là di Margherita e Udeur. L'ex ministro leghista ha capito meglio di molta parte della sinistra, e di molti editorialisti, che il messaggio della Cei è una vera e propria dichiarazione di voto. Altro che meno male, nessuna ingerenza, come abbiamo letto su il Riformista. Non s'illudano i Ds, con la loro patetica rincorsa alle sottane ruiniane, di muovere a compassione qualche alto prelato nelle stanze vaticane.
Questa è l'importanza di Calderoli. A sinistra dovrebbero ascoltarlo di più, ha il dono della semplicità. Quando la politica vi sembra complicata, prestategli ascolto e saprete come orientarvi.
quando spiega che tutto sommato Milosevic e Saddam erano gli unici in grado di governare i loro popoli, ancora immaturi per la democrazia, esprimendo così ciò che molti in cuor loro pensano ma non hanno il coraggio di dire - o hanno il pudore di non dire;
quando osserva che dopo le parole del cardinale Ruini è evidente che il cristiano votando a sinistra si schiera «dalla parte del peccato e del demonio».
Calderoli, essendo persona semplice ma non stupida, non perde tempo a sottilizzare. Che la Chiesa si sia schierata «sui contenuti e non sui partiti» che differenza fa? Non si fanno nomi e cognomi, ma l'identikit tracciato da Ruini è fin troppo preciso. Calderoli s'è fatto bene i suoi calcoli e aiuta anche noi a farceli. Da una parte un centrodestra compatto sui «contenuti irrinunciabili», dall'altra una sinistra che se proprio volete votarla mi raccomando di non andare più in là di Margherita e Udeur. L'ex ministro leghista ha capito meglio di molta parte della sinistra, e di molti editorialisti, che il messaggio della Cei è una vera e propria dichiarazione di voto. Altro che meno male, nessuna ingerenza, come abbiamo letto su il Riformista. Non s'illudano i Ds, con la loro patetica rincorsa alle sottane ruiniane, di muovere a compassione qualche alto prelato nelle stanze vaticane.
Questa è l'importanza di Calderoli. A sinistra dovrebbero ascoltarlo di più, ha il dono della semplicità. Quando la politica vi sembra complicata, prestategli ascolto e saprete come orientarvi.
Tuesday, March 21, 2006
Si schieri con chi vuole, ma senza i nostri soldi
Per alcuni giornali, tra cui il Riformista, la notizia è che la Chiesa, con la prolusione pronunciata ieri dal Cardinale Ruini, non s'è schierata, o tutt'al più che s'è schierata «sui contenuti ma non sui partiti». A me questa pare una non-notizia. Si spaccia l'ovvio per qualcosa di inatteso, anzi un pericolo scampato, nel tentativo, fallito, di stemperare gli animi laicisti: "Visto? La Chiesa non entra a gamba tesa, non c'è ingerenza". Ma lo possiamo tirare questo sospiro di sollievo che ci invitano a tirare?
Era realistico ipotizzare che la Cei dicesse: "I buoni cattolici votino Udc, Margherita, An, o Forza Italia"? No, non era realistico. Davvero qualcuno credeva Ruini persona tanto rozza da citare per nome e cognome candidati e partiti da votare? Davvero così poco il pastore stima il suo gregge? «Sarebbe stato ingenuo o sciocco attendersi un qualche, sia pur tenue o implicito, segnale di parte», scrive oggi Gian Enrico Rusconi su La Stampa.
Il presidente della Cei infatti, come previsto, esponendo un vero e proprio programma di legislatura, rimanda all'ingerenza di sempre, definendo alcuni contenuti «irrinunciabili» per il «buon cattolico», sia esso elettore o eletto. Un «catalogo» che di fatto è «un potente discriminatore», che indica precisamente i criteri su cui misurare con il bilancino i programmi dei partiti. Attenendosi al suo «catalogo», e alla Nota dottrinale dell'ex Sant'Uffizio cui Ruini rimanda, il «buon cattolico» è facilitato nel trovare il partito che fa al caso suo. Non rimane che sovrapporre il programma della Cei a ciascuno dei programmi dei partiti, proprio come due fogli da disegno. Laddove i disegni risultino maggiormente coincidenti si può mettere la croce, certi di adempiere così al compito del «buon cattolico».
Non è questa un'indicazione di voto? Se non nome e cognome, almeno l'identikit del candidato e del partito è tracciato. E aggiunge Rusconi, riferendosi alle condanne di Ruini verso le regioni che stanno introducendo normative sulle coppie di fatto: «La Chiesa ha tutto il diritto di esporre e promuovere le sue tesi. Nessuno la ostacola nel discorso pubblico. Ma quando entra in gioco la deliberazione politica - a qualunque livello - la Chiesa deve accettare con rispetto - non semplicemente tollerare - le procedure attraverso cui i cittadini e i loro legittimi rappresentanti prendono decisioni dissonanti dalla sua dottrina. Questo non è un dettaglio secondario. O una questione di stile. E' la sostanza stessa del riconoscimento della laicità dello Stato...».
Fatta salva la libertà della Chiesa di schierarsi, vorrei solo che non lo facesse con i miliardi di euro di nostre tasse. E' questo il punto che non comprende Panebianco nell'editoriale di oggi: «... appena la Chiesa si esprime, c'e subito chi contesta la legittimità delle sue prese di posizione. Non sarebbe più semplice, e più civile, lasciare perdere l'armamentario anticlericale, riconoscere alla Chiesa il pieno diritto di formulare i suoi giudizi, così come l'altrettanto pieno diritto di chi la pensa diversamente di contestare il merito, ma non la legittimità, di quei medesimi giudizi?»
Non hanno ancora capito che per un laico il problema non è se la Chiesa si schiera o meno, con chi, e su quali contenuti. E' importante che lo faccia senza il denaro dei contribuenti e che i suoi precetti morali non si trasformino in leggi civili per tutti. Infatti il problema è duplice, ma si fa finta di ignorarlo. Da una parte, proprio perché si riconosce ogni libertà d'espressione e d'azione alla Chiesa, non si propongono bavagli ma l'abolizione dei privilegi concordatari e dei miliardi di euro che riceve da tutti i contribuenti italiani. Dall'altra, da liberali, si continuano a contrastare nel merito concezioni etiche del diritto e dello stato, da ogni parte esse provengano, confessionali o ideologiche.
Era realistico ipotizzare che la Cei dicesse: "I buoni cattolici votino Udc, Margherita, An, o Forza Italia"? No, non era realistico. Davvero qualcuno credeva Ruini persona tanto rozza da citare per nome e cognome candidati e partiti da votare? Davvero così poco il pastore stima il suo gregge? «Sarebbe stato ingenuo o sciocco attendersi un qualche, sia pur tenue o implicito, segnale di parte», scrive oggi Gian Enrico Rusconi su La Stampa.
Il presidente della Cei infatti, come previsto, esponendo un vero e proprio programma di legislatura, rimanda all'ingerenza di sempre, definendo alcuni contenuti «irrinunciabili» per il «buon cattolico», sia esso elettore o eletto. Un «catalogo» che di fatto è «un potente discriminatore», che indica precisamente i criteri su cui misurare con il bilancino i programmi dei partiti. Attenendosi al suo «catalogo», e alla Nota dottrinale dell'ex Sant'Uffizio cui Ruini rimanda, il «buon cattolico» è facilitato nel trovare il partito che fa al caso suo. Non rimane che sovrapporre il programma della Cei a ciascuno dei programmi dei partiti, proprio come due fogli da disegno. Laddove i disegni risultino maggiormente coincidenti si può mettere la croce, certi di adempiere così al compito del «buon cattolico».
Non è questa un'indicazione di voto? Se non nome e cognome, almeno l'identikit del candidato e del partito è tracciato. E aggiunge Rusconi, riferendosi alle condanne di Ruini verso le regioni che stanno introducendo normative sulle coppie di fatto: «La Chiesa ha tutto il diritto di esporre e promuovere le sue tesi. Nessuno la ostacola nel discorso pubblico. Ma quando entra in gioco la deliberazione politica - a qualunque livello - la Chiesa deve accettare con rispetto - non semplicemente tollerare - le procedure attraverso cui i cittadini e i loro legittimi rappresentanti prendono decisioni dissonanti dalla sua dottrina. Questo non è un dettaglio secondario. O una questione di stile. E' la sostanza stessa del riconoscimento della laicità dello Stato...».
Fatta salva la libertà della Chiesa di schierarsi, vorrei solo che non lo facesse con i miliardi di euro di nostre tasse. E' questo il punto che non comprende Panebianco nell'editoriale di oggi: «... appena la Chiesa si esprime, c'e subito chi contesta la legittimità delle sue prese di posizione. Non sarebbe più semplice, e più civile, lasciare perdere l'armamentario anticlericale, riconoscere alla Chiesa il pieno diritto di formulare i suoi giudizi, così come l'altrettanto pieno diritto di chi la pensa diversamente di contestare il merito, ma non la legittimità, di quei medesimi giudizi?»
Non hanno ancora capito che per un laico il problema non è se la Chiesa si schiera o meno, con chi, e su quali contenuti. E' importante che lo faccia senza il denaro dei contribuenti e che i suoi precetti morali non si trasformino in leggi civili per tutti. Infatti il problema è duplice, ma si fa finta di ignorarlo. Da una parte, proprio perché si riconosce ogni libertà d'espressione e d'azione alla Chiesa, non si propongono bavagli ma l'abolizione dei privilegi concordatari e dei miliardi di euro che riceve da tutti i contribuenti italiani. Dall'altra, da liberali, si continuano a contrastare nel merito concezioni etiche del diritto e dello stato, da ogni parte esse provengano, confessionali o ideologiche.
Con gli occhi ancora puntati su Minsk
L'intervista a Milinkevich prima del voto
Ore 23,12
Circa 7 mila dimostranti in piazza d'Ottobre, a Minsk, in questo momento, secondo quanto riporta Charter 97. Milinkevich e sua moglie hanno fatto sapere che trascorreranno la notte in tenda insieme ai partecipanti al presidio democratico. Le tende sono al momento 25. Il canale satellitare EuroNews sta trasmettendo dalla piazza e nei servizi si osserva che per ora solo Mosca e Teheran hanno riconosciuto la vittoria di Lukashenko. Ha da poco preso la parola un osservatore indipendente russo che ha criticato Putin e la folla ha scandito le parole "Putin vergogna". In piazza si ascoltano suonare rock band bielorusse e recitare poesie di Bahdanovich e Kupala, mentre sventolano bandiere nazionali, dell'Unione europea e del movimento giovanile Zubr. Tutto tranquillo per ora, l'atmosfera è festosa.
Ore 19,30
Alle migliaia di persone, circa 5 mila secondo Charter 97, tornate stasera ad affollare piazza d'Ottobre, nel centro di Minsk, il candidato dell'opposizione democratica Milinkevich ha annunciato una grande manifestazione per sabato prossimo, 25 marzo, il Freedom Day. Per sottolineare la determinazione a non cedere nella sfida al regime «ci ritroveremo tutti i giorni sino al 25 marzo», ha aggiunto: «Dite ai vostri parenti e ai vostri amici di venire».
Il presidio dell'opposizione ha ricevuto oggi la visita di cinque ambasciatori europei, tra cui l'italiano Guglielmo Ardizzone, la lettone Maira Mora - che presiede il gruppo dei rappresentanti diplomatici Ue a Minsk - e i capi delle diplomazie francesi, tedesche e britanniche. L'ambasciatore americano non ha potuto unirsi perché malato. «Noi sosteniamo un processo democratico e non un uomo», ha spiegato uno dei diplomatici. «Sosteniamo tutto quello che possa aiutare l'emergere della democrazia», ha detto confermando che l'Unione europea sta prendendo in considerazione di estendere il divieto d'ingresso nell'Ue ad altri esponenti del regime bielorusso. Non ci saranno sanzioni, ma «nuove misure d'isolamento contro Lukashenko e i suoi fedelissimi».
Circa un migliaio di sostenitori dell'opposizione ha trascorso la notte di ieri all'addiaccio, allestendo una mini-tendopoli in piazza d'Ottobre, nel centro di Minsk, scelta come luogo della protesta contro le elezioni "farsa" che hanno riconfermato Lukashenko al potere in Bielorussia. Le pesanti minacce da parte delle autorità non hanno impedito lo svolgersi di importanti manifestazioni, domenica e lunedì sera, che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone. Tuttavia, ieri in piazza non ne sono giunte più di seimila, circa la metà rispetto a domenica.
La strategia di contrasto scelta finora dalle autorità è di basso profilo, conta sull'esaurimento spontaneo della protesta, ma dimostra comunque una certa efficacia. La polizia non interviene caricando i manifestanti, ma si limita a dei blitz per portare via alcuni attivisti rimasti isolati dagli altri. In tutto si registrano una ventina di arresti, tra cui quattro dei principali collaboratori del candidato dell'opposizione Milinkevic. Le squadre anti-sommossa agiscono bloccando le vie d'accesso alla piazza appena l'affluenza comincia a farsi consistente. Impedendo a molte persone di unirsi ai dimostranti, hanno finora evitato che le manifestazioni s'ingrossassero. E impedendo ai molti che si allontanavano per comprare cibi e bevande di fare ritorno in piazza, quindi ai generi di conforto per la notte di raggiungere quanti vi erano rimasti, hanno contribuito a sgonfiare i presidi.
L'azione del governo è volta anche a ostacolare la comunicazione via internet, ma con scarso successo. I siti dell'opposizione, come Charter 97, sono costantemente presi di mira, ma con i blog e i telefoni cellulari gli attivisti diffondono parole e immagini di quanto accade in piazza d'Ottobre.
I leader dell'opposizione hanno promesso che la protesta sarà «lunga a potente». Quanto accadrà oggi sarà determinante per il corso degli eventi. Il successo della manifestazione di stasera, l'apppuntamento è sempre alle 18,30 ore locali, dipenderà dalla possibilità fisica per la gente di raggiungere la piazza, il cui accesso è filtrato dagli agenti fin da stamattina. In ogni modo, migliaia di persone in questi giorni hanno stabilito un contatto a una consapevolezza che servirà per il futuro. D'altra parte, occorre ricordare che in Bielorussia il 75% dell'economia è in mano allo Stato e che i contratti dei dipendenti statali hanno scadenza annuale. Dunque non stupisce se gran parte della popolazione ha paura di unirsi alle proteste e se i protagonisti di queste notti sono stati soprattutto i giovani dell'organizzazione Zubr ("Bisonte"), sul modello dell'ucraina Pora e della serba Otpor.
Interviste: Milinkevich; Dell'Arciprete e Kessler
Blog sulla Bielorussia: Publius Pundit; Rush Mush; Neeka's Backlog; Blogging Belarus; Andrei Khrpavistski; br23; The Being Had Times; Tobias Ljungvall
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Ore 23,12
Circa 7 mila dimostranti in piazza d'Ottobre, a Minsk, in questo momento, secondo quanto riporta Charter 97. Milinkevich e sua moglie hanno fatto sapere che trascorreranno la notte in tenda insieme ai partecipanti al presidio democratico. Le tende sono al momento 25. Il canale satellitare EuroNews sta trasmettendo dalla piazza e nei servizi si osserva che per ora solo Mosca e Teheran hanno riconosciuto la vittoria di Lukashenko. Ha da poco preso la parola un osservatore indipendente russo che ha criticato Putin e la folla ha scandito le parole "Putin vergogna". In piazza si ascoltano suonare rock band bielorusse e recitare poesie di Bahdanovich e Kupala, mentre sventolano bandiere nazionali, dell'Unione europea e del movimento giovanile Zubr. Tutto tranquillo per ora, l'atmosfera è festosa.
Ore 19,30
Alle migliaia di persone, circa 5 mila secondo Charter 97, tornate stasera ad affollare piazza d'Ottobre, nel centro di Minsk, il candidato dell'opposizione democratica Milinkevich ha annunciato una grande manifestazione per sabato prossimo, 25 marzo, il Freedom Day. Per sottolineare la determinazione a non cedere nella sfida al regime «ci ritroveremo tutti i giorni sino al 25 marzo», ha aggiunto: «Dite ai vostri parenti e ai vostri amici di venire».
Il presidio dell'opposizione ha ricevuto oggi la visita di cinque ambasciatori europei, tra cui l'italiano Guglielmo Ardizzone, la lettone Maira Mora - che presiede il gruppo dei rappresentanti diplomatici Ue a Minsk - e i capi delle diplomazie francesi, tedesche e britanniche. L'ambasciatore americano non ha potuto unirsi perché malato. «Noi sosteniamo un processo democratico e non un uomo», ha spiegato uno dei diplomatici. «Sosteniamo tutto quello che possa aiutare l'emergere della democrazia», ha detto confermando che l'Unione europea sta prendendo in considerazione di estendere il divieto d'ingresso nell'Ue ad altri esponenti del regime bielorusso. Non ci saranno sanzioni, ma «nuove misure d'isolamento contro Lukashenko e i suoi fedelissimi».
Circa un migliaio di sostenitori dell'opposizione ha trascorso la notte di ieri all'addiaccio, allestendo una mini-tendopoli in piazza d'Ottobre, nel centro di Minsk, scelta come luogo della protesta contro le elezioni "farsa" che hanno riconfermato Lukashenko al potere in Bielorussia. Le pesanti minacce da parte delle autorità non hanno impedito lo svolgersi di importanti manifestazioni, domenica e lunedì sera, che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone. Tuttavia, ieri in piazza non ne sono giunte più di seimila, circa la metà rispetto a domenica.
La strategia di contrasto scelta finora dalle autorità è di basso profilo, conta sull'esaurimento spontaneo della protesta, ma dimostra comunque una certa efficacia. La polizia non interviene caricando i manifestanti, ma si limita a dei blitz per portare via alcuni attivisti rimasti isolati dagli altri. In tutto si registrano una ventina di arresti, tra cui quattro dei principali collaboratori del candidato dell'opposizione Milinkevic. Le squadre anti-sommossa agiscono bloccando le vie d'accesso alla piazza appena l'affluenza comincia a farsi consistente. Impedendo a molte persone di unirsi ai dimostranti, hanno finora evitato che le manifestazioni s'ingrossassero. E impedendo ai molti che si allontanavano per comprare cibi e bevande di fare ritorno in piazza, quindi ai generi di conforto per la notte di raggiungere quanti vi erano rimasti, hanno contribuito a sgonfiare i presidi.
L'azione del governo è volta anche a ostacolare la comunicazione via internet, ma con scarso successo. I siti dell'opposizione, come Charter 97, sono costantemente presi di mira, ma con i blog e i telefoni cellulari gli attivisti diffondono parole e immagini di quanto accade in piazza d'Ottobre.
I leader dell'opposizione hanno promesso che la protesta sarà «lunga a potente». Quanto accadrà oggi sarà determinante per il corso degli eventi. Il successo della manifestazione di stasera, l'apppuntamento è sempre alle 18,30 ore locali, dipenderà dalla possibilità fisica per la gente di raggiungere la piazza, il cui accesso è filtrato dagli agenti fin da stamattina. In ogni modo, migliaia di persone in questi giorni hanno stabilito un contatto a una consapevolezza che servirà per il futuro. D'altra parte, occorre ricordare che in Bielorussia il 75% dell'economia è in mano allo Stato e che i contratti dei dipendenti statali hanno scadenza annuale. Dunque non stupisce se gran parte della popolazione ha paura di unirsi alle proteste e se i protagonisti di queste notti sono stati soprattutto i giovani dell'organizzazione Zubr ("Bisonte"), sul modello dell'ucraina Pora e della serba Otpor.
Interviste: Milinkevich; Dell'Arciprete e Kessler
Blog sulla Bielorussia: Publius Pundit; Rush Mush; Neeka's Backlog; Blogging Belarus; Andrei Khrpavistski; br23; The Being Had Times; Tobias Ljungvall
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