«La vendetta dell'acqua sugli uomini e sui loro presuntuosi progetti, l'acqua caduta dal cielo, spinta dal mare, tracimata dai laghi, dalle paludi e dal fiume, si distende come un sudario grigio nelle prime immagini della sera e del mattino dopo, dove gli effetti del passaggio dell'uragano Katrina si possono finalmente vedere e misurare dall'alto...»
Vittorio Zucconi naturalmente si giustificherà spiegando che pensava alla "natura matrigna" del Leopardi, che periodicamente ricorda a tutti gli uomini la precarietà dei loro affanni e delle loro vanità. Ma ha (o avrebbe) scritto la stessa cosa commentando lo tsunami che il 26 dicembre scorso colpì il Sud-est asiatico? O il terremoto in Iran (30 mila vittime)? O alluvioni e terremoti in Europa e in Italia? Ho come l'impressione che gli unici «presuntuosi» che le disgrazie se le vanno a cercare siano gli americani.
Wednesday, August 31, 2005
Il Riformista alla ricerca di un centro di gravità
Al Riformista che, disperatamente alla ricerca di riforme e di novità, s'infatua del centrismo dei «golden boys» Casini-Rutelli, indico il nuovo soggetto riformatore e liberale Radicali-Sdi:
Caro direttore, leggere sul suo giornale di «rivoluzione liberale» è inebriante, di «forze» già esistenti nel paese che aspettano di essere liberate, incoraggiante. Quando però leggo (22 agosto) che i «golden boys», i «beniamini», sarebbero Casini e Rutelli mi fa trasalire. Al di là della loro immagine giovane, e dell'esigenza, in una democrazia matura, di «due centri alternativi tra loro che si riconoscono l'un l'altro, nell'emergenza si alleano, e perciò fungono da veicoli di integrazione, se non di eliminazione, delle estreme», non mi sfugge un'anomalia italiana. I partiti di centro, "moderati", per origine o suggestione cattolica sono spesso i conservatori più integralisti. Indispensabili per governare, anch'essi esercitano un potere di ricatto "estremista" e appaiono sinonimi di spesa pubblica, protezionismo, corporativismo, clericalismo. Ai Ds conviene lasciare a Rutelli il "centro" del centrosinistra? Un patto liberalsocialista è quasi pronto, ci lavorano Radicali e Sdi. Dategli una mano, scrivetene. E a questo punto, anche dai Ds una spintarella ci vorrebbe, anche solo un "Dài, forza che ce la fate!". Si tratta di capire se al centro vogliamo Blair o un Casini travestito da Rutelli. Cordiali Saluti
Caro direttore, leggere sul suo giornale di «rivoluzione liberale» è inebriante, di «forze» già esistenti nel paese che aspettano di essere liberate, incoraggiante. Quando però leggo (22 agosto) che i «golden boys», i «beniamini», sarebbero Casini e Rutelli mi fa trasalire. Al di là della loro immagine giovane, e dell'esigenza, in una democrazia matura, di «due centri alternativi tra loro che si riconoscono l'un l'altro, nell'emergenza si alleano, e perciò fungono da veicoli di integrazione, se non di eliminazione, delle estreme», non mi sfugge un'anomalia italiana. I partiti di centro, "moderati", per origine o suggestione cattolica sono spesso i conservatori più integralisti. Indispensabili per governare, anch'essi esercitano un potere di ricatto "estremista" e appaiono sinonimi di spesa pubblica, protezionismo, corporativismo, clericalismo. Ai Ds conviene lasciare a Rutelli il "centro" del centrosinistra? Un patto liberalsocialista è quasi pronto, ci lavorano Radicali e Sdi. Dategli una mano, scrivetene. E a questo punto, anche dai Ds una spintarella ci vorrebbe, anche solo un "Dài, forza che ce la fate!". Si tratta di capire se al centro vogliamo Blair o un Casini travestito da Rutelli. Cordiali Saluti
Lezioni libertarie
Fondamenti libertari spiegati in un breve saggio da Arnold Kling su Tech Central Station. Divisi in sei lezioni: l'individuo e la moralità; l'ordine morale e sociale; la proprietà privata; l'interesse collettivo; ; il potere politico ed economico; i libertari non sono perfezionisti. Quasi un manuale del giovane libertario. Né anarchico, né radicale, né utopista. Libertario e basta, senza eccessi.
Are individuals the best judges of their own interests, or should government regulate matters of personal behavior?
How will people be guided to a path of moral behavior and constructive social relationships?
Does property belong to individuals to buy and sell as they see fit, or should it be at the disposal of government to distribute?
How can we ensure that institutions serve the collective interest?
Il libertario non è un perfezionista
Constatato che i tentativi di portare le utopie al governo tendono a ritorcersi contro, e ammesso che gli individui non sempre agiscono secondo i loro stessi interessi, tuttavia «i controlli del governo sulle scelte personali tendono a fare più danni che bene».
Are individuals the best judges of their own interests, or should government regulate matters of personal behavior?
«... human beings will not always act in their best interests, because we can be irrational, uninformed, weak, incompetent, etc. Libertarians do not deny that. We just question whether government coercion is a cure for moral infirmities».La risposta è no, lo dimostrano le regolamentazioni paternalistiche dei governi, come nei casi della lotta alla droga o delle forme di protezione dei consumatori. Anche se funzionassero, vi sarebbe una questione morale che suggerisce di permettere alle persone di commettere i propri errori piuttosto che restringere la loro autonomia.
How will people be guided to a path of moral behavior and constructive social relationships?
«... the human instinct for reciprocity - to respond positively to those who treat us well and negatively to those who treat us poorly - is generally a sufficient basis for a moral and social order... anyone who is capable of recognizing the implications of reciprocity is morally competent».La moralità non deve essere definita da alcun potere centrale o classe designata di preti o autorità. Il governo è necessario solo per assicurare che l'ordine sociale non venga stravolto con la violenza, per far rispettare i contratti e impedire di essere sottomessi da regimi violenti. Esiste sempre il rischio che la classe dirigente si senta al di sopra della legge.
Does property belong to individuals to buy and sell as they see fit, or should it be at the disposal of government to distribute?
«Private property is a fundamental aspect of personal liberty... From a libertarian perspective, if I choose to give my money to someone perceived as less fortunate, that is my business. If you choose to give my money to someone perceived as less fortunate, that is theft. Libertarians see redistribution as theft, no different than if a criminal gang seized property for purposes of "redistribution."»I singoli individui possono aiutare i poveri in un modo migliore rispetto ai programmi di redistribuzione governativi.
How can we ensure that institutions serve the collective interest?
«... there is no such thing as "the collective interest." Libertarians believe that individual interests and flawed leaders are inevitable. The only way to minimize the harm caused by selfish and misguided political behavior is to implement institutional checks on the power of government... Some of the worst crimes in human history have been carried out in the name of the "collective interest" by leaders with unchecked power».Does political power help to serve as a check on the abuse of economic power?
«Libertarians believe that competition and innovation serve as effective checks on the abuse of economic power. All economic advantage is temporary».Il potere politico, piuttosto che servire l'interesse pubblico, viene utilizzato dagli individui per ottenere privilegi e benefici. Le leggi anti-trust vengono usate dai produttori per colpire altri produttori, senza riguardo per i consumatori. I politici esagerano le minacce del potere economico con l'obiettivo di espandere il proprio potere politico.
Il libertario non è un perfezionista
Constatato che i tentativi di portare le utopie al governo tendono a ritorcersi contro, e ammesso che gli individui non sempre agiscono secondo i loro stessi interessi, tuttavia «i controlli del governo sulle scelte personali tendono a fare più danni che bene».
«Non necessariamente i programmi governativi falliscono, tuttavia gli incentivi e i meccanismi per eliminare i programmi governativi inefficaci sono deboli rispetto agli incentivi e ai meccanismi per eliminare l'inefficacia nel settore privato».D'altra parte, i non-libertari tendono a sopravvalutare i benefici del big-government e i rischi del governo minimo. Il seguente specchietto di esempi riassume come un libertario valuta i programmi governativi:
a) interventions that work so much better than private alternatives that we feel grateful for them
b) interventions that are better than private alternatives in some ways and worse in others
c) interventions that are mostly worse than private alternatives
d) interventions that are evil
«Libertarians look at government and see interventions that are mostly in categories (b), (c), and (d). I would put municipal fire departments in category (a), government water treatment in category (b), public education and Social Security in category (c), and protectionist trade measures such as the Byrd Amendment in category (d). Where the United States is really lucky compared with countries like Zimbabwe is that those other countries' government interventions are predominantly in category (d)».
Tuesday, August 30, 2005
La «pax americana» è la nostra pace
Il mondo messo a ferro e fuoco dagli americani? Non è che un mito. Proprio grazie all'espansione della democrazia la guerra è in via d'estinzione e le spese militari sono in netta diminuzione
Noi siamo quelli che la pace o è quella "americana", o non è. Qualche volta il Corriere della Sera ci prende. Come quando ci offre documenti come quelli che seguono. Il primo è un breve saggio di Ian Buruma, nel quale ricordando i successi delle occupazioni militari Usa in Giappone e in Germania Ovest, capaci di porre le basi per due delle maggiori democrazie avanzate e potenze economiche esistenti, invita gli europei a non ridicolizzare la retorica americana, perché al netto di «ipocrisia ufficiale» e «doppi standard», molti dei loro leader politici «credono veramente nella promozione della libertà».
Noi siamo quelli che la pace o è quella "americana", o non è. Qualche volta il Corriere della Sera ci prende. Come quando ci offre documenti come quelli che seguono. Il primo è un breve saggio di Ian Buruma, nel quale ricordando i successi delle occupazioni militari Usa in Giappone e in Germania Ovest, capaci di porre le basi per due delle maggiori democrazie avanzate e potenze economiche esistenti, invita gli europei a non ridicolizzare la retorica americana, perché al netto di «ipocrisia ufficiale» e «doppi standard», molti dei loro leader politici «credono veramente nella promozione della libertà».
«Gli ideali di Douglas MacArthur, di George Marshall e di Dwight Eisenhower riecheggiavano quelli di Thomas Jefferson, che nel 1826, nel cinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza, scrisse che il mondo avrebbe sicuramente seguito l'esempio americano, "il segnale di uomini che insorgono a spezzare le catene cui l'ottusa ignoranza e la superstizione li ha costretti, per assumere la benedizione e la sicurezza dell'autogoverno"... la solidarietà di Kennedy ai berlinesi nel 1963: "Tutti gli uomini liberi, indipendentemente da dove abitino, sono cittadini di Berlino. E per questo, da uomo libero, dico con orgoglio Ich bin ein Berliner". L'appello di Ronald Reagan a Gorbacev per "abbattere questo muro", riecheggiava lontanamente ma inequivocabilmente le parole di Kennedy».Vi furono momenti alti, come il ponte aereo angloamericano che salvò Berlino, ma anche bassi (la Corea, il Vietnam, l'appoggio alle dittature sudamericane).
«Nel corso degli anni '80 avvenne però un cambiamento fondamentale. Una volta che gli americani decisero di appoggiare la democrazia anziché l'oppressione in nome dell'anticomunismo, i democratici ne trassero profitto e il divario fra idealismo americano e interesse nazionale si restrinse».L'attacco all'Iraq nasconde di certo idee «non tutte idealistiche» e obiettivi anche egoistici, ma «la convinzione ideologica che gli Stati Uniti, con la sola forza delle armi, possano in qualche modo produrre una trasformazione democratica in Medio Oriente» è sincera.
«Nelle opinioni radicali di più d'un neo-con si possono ancora cogliere le tracce sottili che legano Lincoln e Jefferson a Trotsky, Wilson e Reagan. Se non si capisce l'impulso rivoluzionario che sta sotto la superficie dell'idealismo americano, non si può capire la politica americana. Gli intellettuali dell'est europeo, e non è sorprendente, l'hanno colto più velocemente dei loro colleghi occidentali... L'opposizione più forte all'America, non soltanto alla sua politica ma a gran parte di quanto rappresenta, viene dall'Europa occidentale, e precisamente da chi maggiormente ha beneficiato dell'abbraccio forse arrogante ma relativamente benigno della Pax Americana. Perché? Il disprezzo comune, specialmente a destra, nei confronti della civiltà americana - il suo volgare materialismo, il suo cosmopolitismo senza radici, il suo superficiale ottimismo, la sua mancanza di senso tragico — è riemerso quando il nemico comune è scomparso... Il sogno utopistico di una pace mondiale modellata sull'Unione Europea, una Pax Europea, per così dire, ha potuto prosperare soltanto sotto la protezione della Pax Americana».Dividere l'Europa dagli Stati Uniti è l'obiettivo dei fondamentalisti che detestano Spinoza, Locke e Voltaire come Lincoln e Jefferson. Se la guerra in Iraq è ancora colma di pericoli e di errori l'idea che gli americani debbano cavarsela da soli è una trappola non meno pericolosa.
«Perché la Pax Americana è anche la nostra pax: con tutte le sue pecche e la sua storia sanguinosa, è ancora l'unica che abbiamo».E di Pax americana ha bisogno anche il Medio Oriente. L'Iraq, dopo l'Afghanistan, deve farne esperienza perché possiamo proclamare il successo del primo esperimento democratico nel mondo arabo. A spiegare quanto la nuova costituzione sia un passo da gigante in quella direzione ci ha provato Magdi Allam giorni fa, indicando i caratteri rivoluzionari della costituzione irachena: elaborata dalla volontà dei legittimi rappresentanti del popolo; per la prima volta istituito l'ordinamento federale; la messa fuorilegge della pratica del takfir, ovvero della condanna di apostasia dei musulmani. Il tafkir, come spiega Il Foglio, è «il baricentro di tutta la dottrina politica fondamentalista».
«La Costituzione irachena, scritta da parlamentari democraticamente eletti, assume il punto di vista islamico, ma mette fuori legge il takfir, equiparandolo al razzismo, al terrorismo, alla pulizia etnica e al fascismo del Baath, e costruisce così l'argine all'onda lunga del fondamentalismo costituzionale che coinvolge tutti i paesi islamici da un trentennio».Come ha sostenuto anche Emma Bonino, non basta il riferimento all'islam per fondare uno stato integralista. La Costituzione irachena stabilisce nell'articolo 5 che «Il popolo esprime la propria sovranità attraverso il voto libero e segreto». In Iraq, dunque, la sovranità è del popolo. Non come in Iran, dove la sovranità è di Allah, come stabilisce il primo principio della Costituzione: «La Repubblica islamica è un sistema che si basa sulla fede in un Dio Unico, nella sua sovranità esclusiva, nei suoi comandamenti e nella necessità di sottomettersi al suo ordine e nella Rivelazione Divina e nel suo ruolo fondamentale nella formazione delle leggi». Le elezioni iraniane servono non per esprimere sovranità, come stabilisce il sesto principio: «Nella Repubblica islamica dell'Iran gli affari del paese devono essere diretti, appoggiandosi sull'opinione pubblica attraverso elezioni». Appoggiandosi. Al popolo non è concessa sovranità, ma soltanto la possibilità di «appoggiare» il rahabar, l'ayatollah che esercita la sovranità in vece di Dio.
«Da oggi la Costituzione teocratica iraniana, come quelle fondamentaliste saudite, pachistane, sudanesi e via dicendo, hanno un'alternativa musulmana, forte, credibile e democratica. In Iraq è nato il testo costituzionale dell'Islam moderato».Il mondo messo a ferro e fuoco dagli americani? Non è che un mito. Il secondo documento proposto dal Corriere che vi segnalo è un articolo di Gregg Easterbrook, redattore capo di The New Republic, secondo il quale la guerra, a dispetto di ciò che appare sulle tv e le prime pagine dei giornali, è un male in via d'estinzione. Per merito di chi? Non certo delle soluzioni proposte dai pacifisti. Il mondo sta diventando sempre più pacifico grazie a tre motivi: la fine della guerra fredda, le missioni di peacekeeping, la diffusione della democrazia. In quindici anni infatti, il numero dei conflitti si è più che dimezzato: dai 51 del 1991 fino ai 20 dell'anno scorso. E' «una tendenza globale ignorata», ma messa in risalto da un rapporto corredato di cifre, date, spiegazioni. Canali satellitari e internet aumentano le notizie, ma non le guerre.
«Vista l'attuale diminuzione delle guerre, per il momento uomini e donne di tutto il mondo rischiano molto di più per il traffico che per la guerra... Un altro dato straordinario è quello che indica come anche la spesa militare mondiale sia in declino... in rapporto alla crescita della popolazione, la spesa militare è diminuita di oltre il 30%»L'espansione della democrazia ha rappresentato un importante contributo alla diminuzione delle guerre.
«Nel 1975, solo in un terzo delle nazioni del mondo si tenevano vere elezioni con più candidati; oggi la percentuale ha raggiunto i due terzi ed è in continua crescita. Negli ultimi vent'anni, circa 80 paesi hanno adottato una forma di governo democratica, mentre gli spostamenti in senso opposto sono stati minimi. I leader dei paesi in via di sviluppo sono sempre più consapevoli del fatto che le nazioni libere sono anche le più forti e le più ricche, e questa constatazione crea una motivazione molto forte per la diffusione della libertà».In questo scenario anche sviluppo economico e culturale giocano un ruolo importante.
«La Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato il trionfo della libertà sul militarismo. Esiste anche la possibilità che l'enorme rilevanza dell'economia nella vita moderna svolga un ruolo importante nella limitazione delle guerre. La progressiva diffusione dell'economia basata sulla conoscenza potrebbe far diminuire parallelamente l'importanza delle risorse fisiche e, d'altra parte, accrescere il valore della vita. E questo è indubbiamente un progresso culturale».Dunque, se le cose stanno così, se la strada che stiamo percorrendo è quella giusta, avanti così, con sempre maggiore determinazione nell'espansione della democrazia, della libertà, dello stato di diritto, a partire dal Medio Oriente.
Le barzellette fanno ridere Putin. Noi meno
Le cronache ci hanno raccontato l'imbarazzante vertice Berlusconi-Putin. Il premier ne ha combinate di tutti i colori. Continuando a fare in modo penoso il piacione con il presidente russo mentre il contesto sta rapidamente cambiando. Non c'aspettavamo certo che strappasse un'improbabile sostegno della Russia sulla questione del seggio al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ma almeno poteva mostrarsi meno accondiscente e fermo rispetto a un leader in rapida perdita di consenso interno ed estero (a maggior ragione se cambieranno, come sembra, le leadership di Francia e Germania). Di suo ci ha messo due frasi incredibili e gratuite: incoraggiando i rapporti russo-iraniano, fino a dire di non preoccuparsi perché fra una centrale nucleare e una bomba atomica «ce ne corre»; sdrammatizzando l'annuncio dell'invio di 50 tank russi all'Anp.
Berlusconi ha indubbiamente doti umane che lo hanno aiutato nelle relazioni con gli altri potenti, ma la politica estera non va avanti a barzellette e pacche sulle spalle. Evidentemente non ha ancora letto l'analisi intitolata emblematicamente "Il declino di Putin e la risposta dell'America", elaborata Anders Aslund del Carnegie Endowement. Ne parla oggi Il Foglio
Berlusconi ha indubbiamente doti umane che lo hanno aiutato nelle relazioni con gli altri potenti, ma la politica estera non va avanti a barzellette e pacche sulle spalle. Evidentemente non ha ancora letto l'analisi intitolata emblematicamente "Il declino di Putin e la risposta dell'America", elaborata Anders Aslund del Carnegie Endowement. Ne parla oggi Il Foglio
«Il regime putiniano – scrive il direttore del programma per la Russia e l'Eurasia del think tank di Washington, specialista in economia dei paesi post comunisti ed ex consiglieri per i governi russo e ucraino - è andato peggiorando durante il primo anno del secondo mandato. Il sistema politico di Mosca soffre di un grave accentramento del potere, che sta portando con rapidità alla paralisi: è difficile prendere le decisioni giuste, quando tutte le informazioni importanti rimangono all'interno dell'entourage del Cremlino. Il rapporto con i mezzi di informazione va pure deteriorandosi: non sono più accettati giudizi negativi o anche solo imparziali. Anche se la sua popolarità personale resta alta, Vladimir Putin sta fallendo. Il potere del capo del Cremlino è molto più fragile di come generalmente è percepito. Gli Stati Uniti non dovrebbero esitare a promuovere la democrazia in Russia, senza rinunciare a coltivare in modo pragmatico gli interessi comuni (non proliferazione delle armi nucleari ed energia)».Anche se di recente lo stesso segretario di Stato americano Condoleezza Rice si era detta preoccupata «dalla centralizzazione del potere del Cremlino a spese delle altre istituzioni come la Duma o il potere giudiziario», non molti analisti americani condividono questa analisi, temendo che troppe condanne a Putin scavino un solco tra Mosca e Washington, spingendo la Russia verso la Cina.
Lievito riformatore. Buona panificazione!
Saluto, auguro buon lavoro, e soprattutto aderisco a Lievito riformatore, «associazione politica telematica con sede online» costituita dai radicali Antonio Tombolini e Andrea Vecoli. L'associazione, che fa parte del mondo radicale, e alla quale si può liberamente aderire sulla base del Manifesto di Lievito Riformatore pubblicato nel blog, si propone soprattutto, come chiariscono i fondatori, di:
A proposito di "cose radicali", vi siete accorti che ha ripreso le sue meritorie attività Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani?
«... orientare e influenzare in senso riformatore e liberale, nella direzione delle politiche che hanno caratterizzato e caratterizzano il New Labour inglese, la riflessione e l'azione politica di Radicali Italiani, con riferimento particolare alle scelte da fare nell'ambito delle trattative in corso con SDI e centrosinistra, e in vista del prossimo Congresso di Radicali Italiani, che dovrà prendere decisioni fondamentali nella prospettiva delle elezioni politiche del 2006».Verranno fuori brioche o sfilatini? Noi intanto auguriamo buon lavoro, buona panificazione! Con l'unica raccomandazione di non usare troppo burro.
A proposito di "cose radicali", vi siete accorti che ha ripreso le sue meritorie attività Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani?
L'aborto e il pensiero liberale
Pinocchio è un blogger che si documenta e in questo post ci regala una carrellata di pensiero liberale sul dibattuto tema dell'aborto. Chiaramente JimMomo è persuaso dalle argomentazioni di Murray Rothbard e Ayn Rand. Vorrei soffermarmi in particolare su un paio di passaggi.
UPDATE: In questa ottica, se pensiamo ai progressi della medicina, sempre più in grado di portare artificialmente a maturità (con nascita prematura) feti di 7 o meno mesi, un modo pragmatico per aggiornare le legislazioni che legalizzano l'aborto potrebbe essere quello (persino il laicista Pannella si è espresso sul tema) di abbassare i limiti temporali entro cui è possibile abortire. In Gran Bretagna, per esempio, dove la legge permette di abortire fino alla 24esima settimana, il 58% degli intervistati da un sondaggio realizzato da YouGov per il quotidiano Daily Telegraph si è dichiarato favorevole a portare il limite a 20 settimane.
«Queste zone grigie non sono però il frutto di una carenza teorica del liberalismo, né della sua inapplicabilità pratica. Esse esistono semplicemente perché non sono stati chiaramente definiti a priori i diritti di proprietà di ciascuno».Certo, altro che «carenza teorica» e «inapplicabilità pratica»! Direi che queste «zone grigie» sussistono poiché per definizione il liberalismo è una teoria che tollera la contraddizione, persino il disordine, anzi li include. Non pretende di fornire della realtà, riducendone l'irriducibile complessità, uno schema interpretativo sistemico, sul quale fondare un ordine coerente e perfetto, che di fatto la storia ha dimostrato essere utopistico. Tale tolleranza delle contraddizioni è per i critici del liberalismo la sua debolezza, la «carenza teorica» e l'«inapplicabilità pratica», ma appunto, essi, alla continua ricerca di fondamenti morali e ideologici, finiscono per porsi al di fuori della teoria liberale.
«La convinzione profonda della relatività dell'esistenza umana e dei suoi ordinamenti, della loro natura aperta e contraddittoria, cui soltanto la forma della democrazia riesce in una certa misura a corrispondere, esige una maturità politica che viene continuamente messa in pericolo, anche se oggi la teoria, a differenza di allora, conosce il carattere illusorio delle utopie della verità perfetta e degli ordinamenti perfetti... "Nessun sistema in grado di distinguere rigorosamente tra verità e falsità può essere insieme coerente e completo". La democrazia non lo è certamente; ma essa può distinguere, tollerare la contraddizione: ed è per questo che è allo stesso tempo insostituibile e sempre in pericolo». Karl Dietrich Bracher
«In fondo il feto non decide di esistere né di svilupparsi. Altri decidono per lui, tanto da definire a priori sia chi sarà la madre, sia il luogo di nascita, sia le condizioni economico-sociali in cui verrà al mondo il futuro neonato. Ci si potrebbe spingere ad affermare che il feto è vittima di una forma di violenza, della coercizione di esistere. Il feto non può autonomamente rifiutarsi di svilupparsi e di nascere. Ciò non è sufficiente per chiedere alla madre di assumersi la responsabilità dei propri atti e quindi di fare del feto un bambino?»Responsabilità, dunque. Doveri dei genitori sì, decisamente sì, sono favorevole a parlare di doveri nei confronti di embrioni, feti, nascituri. No, non sono d'accordo a parlare di diritti dell'embrione, del feto, del nascituro. Un nodo da sciogliere, per derimere la preminente questione di chi sia "soggetto di diritti" è la possibilità che queste forme di vita siano capaci o meno di vivere autonomamente dal corpo che le ospita. Attenzione però, non intendo escludere gli stati, di coma o handicap, per cui la vita non è autonoma ma legata a un aiuto esterno, umano o artificiale. Né lo stato di crioconservazione degli embrioni può essere ritenuto capacità di vita autonoma. Mi riferisco invece al necessario completamento organico di quelle forme di vita fino all'atto spesso trascurato della nascita, l'unico che davvero sembra rompere quel continuum di sviluppo dall'embrione alla persona "soggetto di diritti".
UPDATE: In questa ottica, se pensiamo ai progressi della medicina, sempre più in grado di portare artificialmente a maturità (con nascita prematura) feti di 7 o meno mesi, un modo pragmatico per aggiornare le legislazioni che legalizzano l'aborto potrebbe essere quello (persino il laicista Pannella si è espresso sul tema) di abbassare i limiti temporali entro cui è possibile abortire. In Gran Bretagna, per esempio, dove la legge permette di abortire fino alla 24esima settimana, il 58% degli intervistati da un sondaggio realizzato da YouGov per il quotidiano Daily Telegraph si è dichiarato favorevole a portare il limite a 20 settimane.
«Una guerra di cui essere orgogliosi». Con se e ma
E' il titolo di sfida lanciato dall'intellettuale di sinistra Christopher Hitchens in questo articolo sul primo numero di settembre del settimanale neoconservatore Weekly Standard. Sostenitore della prima ora della cacciata di Saddam Hussein, convinto della possibilità e della necessità di esportare la democrazia in Iraq, sfida i suoi critici fin dalle prime righe su uno dei più controversi aspetti dell'occupazione americana: la Abu Ghraib gestita dagli yankee rappresenta un netto miglioramento rispetto alla gestione precedente.
Anche perché si torna a parlare della strategia militare fallimentare adottata dal Pentagono e lo fa uno dei maggiori critici, da posizioni favorevoli alla guerra in Iraq, David Brooks, sul New York Times. L'opinione pubblica americana non ritira il proprio sostegno alla guerra perché non condivide l'obiettivo di far avanzare la libertà, ma perché ha l'impressione che la guerra non può essere vinta. Se il presidente Bush vuole riguadagnare il sostegno alla guerra, dovrebbe «spiegare specificamente come può essere vinta, e per questo ha bisogno di una strategia». A fornirgliene una è lo stratega militare Andy Krepinevich, con questo saggio pubblicato su Foreign Affairs.
Nulla di rivoluzionario, ma una strategia che si trova già negli annali di storia, suggerita in passato dai neocon Tom Donnelly e Gary Schmitt, e dall'analista clintoniano Kenneth Pollack. «Quale delle diverse strategie per combattere gli insorti state usando in Iraq? Quali i parametri per misurare i vostri progressi?» A queste domande non c'è risposta: nessuna chiara strategia, nessun chiaro parametro. La guerra non si può vincere dando la caccia agli insorti e uccidendoli. Altri combattenti li sostituiranno con l'effetto di dover ripetere pesanti raid sulle medesime città alienandosi così l'appoggio della popolazione, vitale per il successo.
Invece di uccidere gli insorti, «è più importante proteggere i civili» con la strategia a "macchia d'olio". Selezionare poche città chiave, prenderne il controllo ed espandere lentamente le zone sicure. Appena rese sicure le città, «buttare dentro tutte le risorse economiche e politiche per farle crescere», così che i locali vedano la convenienza di collaborare. Purtroppo gli Stati Uniti non hanno adottato questa strategia perché contraddiceva le nozioni chiave dell'idea di forze armate del 21esimo secolo sostenuta dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Per una strategia simile ci sarebbe voluta una presenza pesante e non leggera di truppe; non tanto superiorità tecnologica, ma d'intelligence; pensare a lunga scadenza e non con un occhio alle tappe del processo politico.
Ad agire con assoluta determinazione contro il terrorismo, dopo gli attentati di Londra del 7 luglio scorso, è il premier britannico Tony Blair, che ha deciso che era il momento di cambiare le regole del gioco. Rivendica il carattere tollerante e multiculturale della società britannica: «If a goal of these attacks was to turn our citizens against each other, they failed».
Tuttavia, è consapevole che «non possiamo continuare a permettere agli estremisti di abusare delle nostre libertà e della tolleranza della nostra società per sostenere, incoraggiare, giustificare o glorificare il terrorismo... le regole del gioco sono cambiate e dobbiamo rispondere». Nulla che rinneghi il carattere tollerante e multiculturale della società o le libertà fondamentali dei cittadini, ma misure molte delle quali sembra sorprendente che non siano già state prese.
«Prison conditions at Abu Ghraib have improved markedly and dramatically since the arrival of Coalition troops in Baghdad. I could undertake to defend that statement against any member of Human Rights Watch or Amnesty International, and I know in advance that none of them could challenge it, let alone negate it. Before March 2003, Abu Ghraib was an abattoir, a torture chamber, and a concentration camp. Now, and not without reason, it is an international byword for Yankee imperialism and sadism. Yet the improvement is still, unarguably, the difference between night and day. How is it possible that the advocates of a post-Saddam Iraq have been placed on the defensive in this manner? And where should one begin?»Già, è questa la domanda a cui Hitchens tenta di dare una risposta: perché i sostenitori del regime change sembrano starsene sulla difensiva? Perché la Casa Bianca ha taciuto molti degli argomenti più validi per sostenere la decisione della guerra? Eppure, ricorda Hitchens, nel caso iracheno le condizioni di fronte alle quali il principio di sovranità statuale cede al diritto/dovere di ingerenza erano scattate.
«For anyone with eyes to see, there was only one other state that combined the latent and the blatant definitions of both "rogue" and "failed." This state - Saddam's ruined and tortured and collapsing Iraq - had also met all the conditions under which a country may be deemed to have sacrificed its own legal sovereignty».E ricapitolando:
«It had invaded its neighbors, committed genocide on its own soil, harbored and nurtured international thugs and killers, and flouted every provision of the Non-Proliferation Treaty. The United Nations, in this crisis, faced with regular insult to its own resolutions and its own character, had managed to set up a system of sanctions-based mutual corruption. In May 2003, had things gone on as they had been going, Saddam Hussein would have been due to fill Iraq's slot as chair of the U.N. Conference on Disarmament. Meanwhile, every species of gangster from the hero of the Achille Lauro hijacking to Abu Musab al Zarqawi was finding hospitality under Saddam's crumbling roof».Hitchens conclude ricordando un discorso pronunciato dal primo ministro britannico Tony Blair nel 1999, dopo la fine della guerra in Kosovo, discorso forte per il solo fatto di affermare l'ovvio. «La coesistenza con regimi aggressivi, o espansionisti, o teocratici, ideologie totalitarie, non è possibile».
«One should welcome this conclusion for the additional reason that such coexistence is not desirable, either. If the great effort to remake Iraq as a demilitarized federal and secular democracy should fail or be defeated, I shall lose sleep for the rest of my life in reproaching myself for doing too little. But at least I shall have the comfort of not having offered, so far as I can recall, any word or deed that contributed to a defeat».Oggi l'amministrazione Bush si trova di fronte a un compito difficile. L'opinione pubblica americana è sempre più stanca di una guerra che avverte di non poter vincere. Nonostante tutti i progressi compiuti dal processo politico, in altri campi i progressi non sono così apprezzabili, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza e il contrasto della guerriglia. E' un dato oggettivo che rende insicura e mette sulla difensiva la Casa Bianca.
Anche perché si torna a parlare della strategia militare fallimentare adottata dal Pentagono e lo fa uno dei maggiori critici, da posizioni favorevoli alla guerra in Iraq, David Brooks, sul New York Times. L'opinione pubblica americana non ritira il proprio sostegno alla guerra perché non condivide l'obiettivo di far avanzare la libertà, ma perché ha l'impressione che la guerra non può essere vinta. Se il presidente Bush vuole riguadagnare il sostegno alla guerra, dovrebbe «spiegare specificamente come può essere vinta, e per questo ha bisogno di una strategia». A fornirgliene una è lo stratega militare Andy Krepinevich, con questo saggio pubblicato su Foreign Affairs.
Nulla di rivoluzionario, ma una strategia che si trova già negli annali di storia, suggerita in passato dai neocon Tom Donnelly e Gary Schmitt, e dall'analista clintoniano Kenneth Pollack. «Quale delle diverse strategie per combattere gli insorti state usando in Iraq? Quali i parametri per misurare i vostri progressi?» A queste domande non c'è risposta: nessuna chiara strategia, nessun chiaro parametro. La guerra non si può vincere dando la caccia agli insorti e uccidendoli. Altri combattenti li sostituiranno con l'effetto di dover ripetere pesanti raid sulle medesime città alienandosi così l'appoggio della popolazione, vitale per il successo.
Invece di uccidere gli insorti, «è più importante proteggere i civili» con la strategia a "macchia d'olio". Selezionare poche città chiave, prenderne il controllo ed espandere lentamente le zone sicure. Appena rese sicure le città, «buttare dentro tutte le risorse economiche e politiche per farle crescere», così che i locali vedano la convenienza di collaborare. Purtroppo gli Stati Uniti non hanno adottato questa strategia perché contraddiceva le nozioni chiave dell'idea di forze armate del 21esimo secolo sostenuta dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Per una strategia simile ci sarebbe voluta una presenza pesante e non leggera di truppe; non tanto superiorità tecnologica, ma d'intelligence; pensare a lunga scadenza e non con un occhio alle tappe del processo politico.
Ad agire con assoluta determinazione contro il terrorismo, dopo gli attentati di Londra del 7 luglio scorso, è il premier britannico Tony Blair, che ha deciso che era il momento di cambiare le regole del gioco. Rivendica il carattere tollerante e multiculturale della società britannica: «If a goal of these attacks was to turn our citizens against each other, they failed».
Tuttavia, è consapevole che «non possiamo continuare a permettere agli estremisti di abusare delle nostre libertà e della tolleranza della nostra società per sostenere, incoraggiare, giustificare o glorificare il terrorismo... le regole del gioco sono cambiate e dobbiamo rispondere». Nulla che rinneghi il carattere tollerante e multiculturale della società o le libertà fondamentali dei cittadini, ma misure molte delle quali sembra sorprendente che non siano già state prese.
«Venire in Gran Bretagna non è un diritto, e anche quando la gente è arrivata qui, stare qui porta con sé un dovere. Quel dovere è di condividere e sostenere i valori di libertà e tolleranza alla base del nostro comune modello di vita. Per coloro che infrangono quel dovere e tentano di incitare all'odio o commettono violenze contro il nostro paese e la sua gente non c'è posto qui. Su questo principio le persone di ogni fede in Gran Bretagna concordano. E il mio lavoro è realizzarlo».
Thursday, August 25, 2005
Un Vasco XL non le manda a dire
Sapete, Vasco Rossi ha una rubrica, "Dillo alla Luna", sul nuovo mensile trendy di Repubblica, XL. La trovate in ultimissima pagina. In questo primo numero, tanto per cominciare, risposta piccata a "sir" Bob Geldof.
Non ho partecipato al Live8. Ho declinato l'invito pensando che ci sarebbe stato senz'altro qualcun altro che mi avrebbe degnamente sostituito...Sulla stessa rivista segnalo (pag. 82) splendida intervista a Ligabue.
Sono stato definito "distratto" e "poco impegnato"... Allora rispondo a "sir" Bob Geldof.
Il mio "impegno" è quello di cercare di scrivere belle canzoni. E quando ci riesco mi sembra di aver già fatto abbastanza.
Altri tipi di "impegno" li trovo un po' eccessivi quando non addirittura strumentali... insomma, non si sa mai dove finisce l'"impegno" e dove comincia qualcos'altro.
Per la beneficienza meglio usare il proprio portafoglio e possibilmente in silenzio. Lo spettacolo deve tornare a essere spettacolo e non spettacolarizzazione. E la solidarietà un impegno personale e "fisico"... Vedo molto bene il volontariato che consiglio a ogni artista "impegnato".
La musica basta da sola, è già di per sé un messaggio di pace... quando si suona non si spara...
Gli americani non devono saperlo
Ecco come andarono le cose, ecco i perché, i nodi che vengono al pettine. Raccontati da Maurizio Scelli, commissario straordinario uscente della Croce Rossa Italiana, a La Stampa.
«Per salvare le due Simone i mediatori ci chiesero di curare e salvare la vita a quattro presunti terroristi ricercati dagli americani, feriti in combattimento... fu una condizione irrinunciabile per garantire l'incolumità degli ostaggi e nostra, che feci mia sin dal primo giorno, e che trovò d'accordo, quando gliela rappresentai, anche il sottosegretario Gianni Letta... A Baghdad quando si trattò di riportare in Italia le due Simone, Nicola Calipari consapevole di questa direttiva si raccomandò con me di non parlare neppure al generale Marioli, vicecomandante delle forze alleate in Iraq».
N.B.: curare dei combattenti feriti è la missione della Croce Rossa, la vera "proposta indecente", il "salvarli" che interessava ai rapitori, era salvarli non dalle ferite, ma dagli americani, che senza dubbio una volta catturati li avrebbero anche sottoposti alle cure necessarie. Ma certo, li avrebbero messi fuori combattimento per un bel po'.
Ora partono le strumentalizzazioni, ma questa è la prova che: a) governo, servizi segreti, CRI, hanno fatto quanto era in loro potere (legittimo) per liberare i nostri ostaggi in Iraq; b) hanno ritenuto che per conseguire questo obiettivo fosse necessario tenere all'oscuro gli americani e le forze della coalizione; c) se poi capita che per il conseguente mancato coordinamento e la clandestinità totale dell'operazione un agente ci rimette la pelle, è un incidente, solo un incidente, la cui vittima è un nobile servitore dello Stato.
Con questo voglio dire che un governo democratico e i suoi servizi segreti agiscono con piena legittimità quando ritenendolo opportuno decidono di tenere nascoste anche agli alleati proprie operazioni in un teatro di guerra. La scelta è sempre discutibile, ciò che non è tollerabile sono i piagnistei ipocriti e le dietrologie nei confronti degli alleati se poi qualcosa va storto. Nella vicenda dell'uccisione di Calipari, semmai dovessimo indicare un alleato che non si sia comportato lealmente, sarebbe l'Italia, non gli Stati Uniti.
«Per salvare le due Simone i mediatori ci chiesero di curare e salvare la vita a quattro presunti terroristi ricercati dagli americani, feriti in combattimento... fu una condizione irrinunciabile per garantire l'incolumità degli ostaggi e nostra, che feci mia sin dal primo giorno, e che trovò d'accordo, quando gliela rappresentai, anche il sottosegretario Gianni Letta... A Baghdad quando si trattò di riportare in Italia le due Simone, Nicola Calipari consapevole di questa direttiva si raccomandò con me di non parlare neppure al generale Marioli, vicecomandante delle forze alleate in Iraq».
N.B.: curare dei combattenti feriti è la missione della Croce Rossa, la vera "proposta indecente", il "salvarli" che interessava ai rapitori, era salvarli non dalle ferite, ma dagli americani, che senza dubbio una volta catturati li avrebbero anche sottoposti alle cure necessarie. Ma certo, li avrebbero messi fuori combattimento per un bel po'.
Ora partono le strumentalizzazioni, ma questa è la prova che: a) governo, servizi segreti, CRI, hanno fatto quanto era in loro potere (legittimo) per liberare i nostri ostaggi in Iraq; b) hanno ritenuto che per conseguire questo obiettivo fosse necessario tenere all'oscuro gli americani e le forze della coalizione; c) se poi capita che per il conseguente mancato coordinamento e la clandestinità totale dell'operazione un agente ci rimette la pelle, è un incidente, solo un incidente, la cui vittima è un nobile servitore dello Stato.
Con questo voglio dire che un governo democratico e i suoi servizi segreti agiscono con piena legittimità quando ritenendolo opportuno decidono di tenere nascoste anche agli alleati proprie operazioni in un teatro di guerra. La scelta è sempre discutibile, ciò che non è tollerabile sono i piagnistei ipocriti e le dietrologie nei confronti degli alleati se poi qualcosa va storto. Nella vicenda dell'uccisione di Calipari, semmai dovessimo indicare un alleato che non si sia comportato lealmente, sarebbe l'Italia, non gli Stati Uniti.
La rivoluzione liberale può attendere
JimMomo su il Riformista di oggi:
Caro direttore, con il suo editoriale di oggi (ieri) ha fatto "centro". Faccio mio anche il richiamo di Ostellino ai vecchi concetti della politica. Le due coalizioni non saranno credibili come forze di buon governo finché le rispettive "ali centriste" non avranno abbracciato pienamente la cultura del mercato, lo spirito riformatore e il metodo del pragmatismo. In breve, finché non potremo definirle liberali. Come già avviene soprattutto nei sistemi politici anglosassoni. Questo, credo, avesse voluto dire Monti. Qui da noi invece (per ripescare vecchie ma utili categorie) i centristi sono sinonimo di clientelismo, spesa pubblica, economia sociale di mercato, corporativismo, clericalismo. Oggi si direbbe "moderati", ma io sono un po' all'antica. Cordiali Saluti
La brutta opinione che ho del centrismo italiano è evidentemente la stessa di Michele Salvati, il cui editoriale oggi sul Corriere della Sera si intitola «Il centro corporativo». Le priorità indicate da Mario Monti sono reali, altroché se lo sono, ma affidarci al "centro" rischia di essere per lo meno ingenuo. Perché «riavviare lo sviluppo è politicamente costoso: esige un progetto di riforme liberali», ma i maggiori ostacoli «al progetto riformista liberale non sono certo venuti da forze estremistiche», osserva Salvati.
L'esercizio della leadership politica non è solo «soddisfare le domande che provengono dagli elettori». Ma avere volontà e capacità di schiudere dinanzi agli occhi dei propri cittadini orizzonti più promettenti che non «povere certezze», «ingiustificati privilegi», «protezioni concesse». Operazione che è soprattutto culturale e non elettorale, ma qualcuno, qui da noi, si è mai preso la responsabilità di provarci rischiando di suo? E' giunto il momento che qualcuno ci provi davvero, con coraggio, ad attuare riforme liberali e soprattutto a spiegarle ai cittadini. Sono certo che per quanto consunti da decenni di corporativismo e assistenzialismo, energie e sentimenti liberali non manchino nella società italiana. Dà la misura del grande statista saper essere impopolare per non essere anti-popolare. Blair c'è.
UPDATE: Un'altra analisi da infilare nel cassetto e conservare è quella di Gianfranco Pasquino su il Riformista di oggi (pag. 2). 1) In Italia il Grande Centro c'è già stato, non la Democrazia Cristiana, ma il Pentapartito (1980 - 1992) è c'è solo da stendere un velo pietoso; 2) il Grande Centro è la «bonaccia della politica»: grande numericamente, è sicuro del potere e non ha stimolo per innovare, se piccolo è decisivo in contrattazioni che «non avrebbero nulla di programmatico e molto di immobiliare (a cominciare dalle poltrone)». Invece il bipolarismo, seppure da perfezionare, è alternanza, il «sale della democrazia» (dà all'elettorato il potere di sanzionare comportamenti e credibilità), ed è includente, non taglia fuori le due ali estreme ma le addomestica; 3) il pregiudizio che il centro sia il luogo della moderazione, della competenza e dell'onestà (in medio stat virtus) è falso. Al di fuori, ci sarebbe ciò che è indicato come il peggio, ma che invece è il meglio, e il solo, che fa funzionare la democrazia: l'alternativa, il conflitto, il dovere del governo e della decisione. Da leggere.
Parte dalla medesima impostazione concettuale questo editoriale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di ieri.
Caro direttore, con il suo editoriale di oggi (ieri) ha fatto "centro". Faccio mio anche il richiamo di Ostellino ai vecchi concetti della politica. Le due coalizioni non saranno credibili come forze di buon governo finché le rispettive "ali centriste" non avranno abbracciato pienamente la cultura del mercato, lo spirito riformatore e il metodo del pragmatismo. In breve, finché non potremo definirle liberali. Come già avviene soprattutto nei sistemi politici anglosassoni. Questo, credo, avesse voluto dire Monti. Qui da noi invece (per ripescare vecchie ma utili categorie) i centristi sono sinonimo di clientelismo, spesa pubblica, economia sociale di mercato, corporativismo, clericalismo. Oggi si direbbe "moderati", ma io sono un po' all'antica. Cordiali Saluti
La brutta opinione che ho del centrismo italiano è evidentemente la stessa di Michele Salvati, il cui editoriale oggi sul Corriere della Sera si intitola «Il centro corporativo». Le priorità indicate da Mario Monti sono reali, altroché se lo sono, ma affidarci al "centro" rischia di essere per lo meno ingenuo. Perché «riavviare lo sviluppo è politicamente costoso: esige un progetto di riforme liberali», ma i maggiori ostacoli «al progetto riformista liberale non sono certo venuti da forze estremistiche», osserva Salvati.
«La realtà è che posizioni antiriformistiche e antiliberali sono ampiamente rappresentate nelle componenti più centriste e più moderate dei due schieramenti... in entrambi i poli di centri ce ne sono due, un centro riformista e liberale (piccolo) e un centro corporativo e che chiede protezioni, non riforme (grande)... Le difficoltà che incontra il Progetto Monti stanno nella società più che nella politica. In una società corporativa per storia antica, e per di più in declino — situazione nella quale molti si aggrappano con più forza a povere certezze e non pochi a ingiustificati privilegi — i partiti sono indotti dalla logica della competizione politica a soddisfare le domande che provengono dagli elettori. Non si vede dunque perché un grande centro dovrebbe disattenderle e imporre un programma severo e impopolare».Dove si sottoscrive? Solo un appunto a Salvati. Scrive che alle prossime elezioni i due schieramenti si presenteranno con «diversi progetti di innovazioni strategiche (per rianimare lo sviluppo) e di protezioni selettive (perché è soprattutto sicurezza e protezione che chiedono molti elettori)», allora bisogna cercare «di far capire quali siano le innovazioni proposte e le protezioni concesse. In che cosa differiscano. Se siano efficaci, le prime, e giustificate, le seconde. Questo sarebbe un buon servizio reso all'opinione pubblica».
L'esercizio della leadership politica non è solo «soddisfare le domande che provengono dagli elettori». Ma avere volontà e capacità di schiudere dinanzi agli occhi dei propri cittadini orizzonti più promettenti che non «povere certezze», «ingiustificati privilegi», «protezioni concesse». Operazione che è soprattutto culturale e non elettorale, ma qualcuno, qui da noi, si è mai preso la responsabilità di provarci rischiando di suo? E' giunto il momento che qualcuno ci provi davvero, con coraggio, ad attuare riforme liberali e soprattutto a spiegarle ai cittadini. Sono certo che per quanto consunti da decenni di corporativismo e assistenzialismo, energie e sentimenti liberali non manchino nella società italiana. Dà la misura del grande statista saper essere impopolare per non essere anti-popolare. Blair c'è.
UPDATE: Un'altra analisi da infilare nel cassetto e conservare è quella di Gianfranco Pasquino su il Riformista di oggi (pag. 2). 1) In Italia il Grande Centro c'è già stato, non la Democrazia Cristiana, ma il Pentapartito (1980 - 1992) è c'è solo da stendere un velo pietoso; 2) il Grande Centro è la «bonaccia della politica»: grande numericamente, è sicuro del potere e non ha stimolo per innovare, se piccolo è decisivo in contrattazioni che «non avrebbero nulla di programmatico e molto di immobiliare (a cominciare dalle poltrone)». Invece il bipolarismo, seppure da perfezionare, è alternanza, il «sale della democrazia» (dà all'elettorato il potere di sanzionare comportamenti e credibilità), ed è includente, non taglia fuori le due ali estreme ma le addomestica; 3) il pregiudizio che il centro sia il luogo della moderazione, della competenza e dell'onestà (in medio stat virtus) è falso. Al di fuori, ci sarebbe ciò che è indicato come il peggio, ma che invece è il meglio, e il solo, che fa funzionare la democrazia: l'alternativa, il conflitto, il dovere del governo e della decisione. Da leggere.
Parte dalla medesima impostazione concettuale questo editoriale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di ieri.
«Partito moderato è la parola d'ordine, il lasciapassare di tutti i trasformismi che hanno accomunato, da sempre, destra e sinistra in Italia nella soggezione agli interessi organizzati, nel rifiuto del riformismo, nell'opposizione al cambiamento e nell'incapacità di modernizzare il Paese. Per raccapezzarsi sarebbe dunque utile fare, innanzi tutto, pulizia concettuale. Recuperando vecchi concetti — individualismo e collettivismo, corporativismo e concorrenza, protezionismo e mercato, statalismo e globalismo, riformismo e massimalismo — ormai in disuso, ma che continuano ad avere un duplice pregio. Di costringere le forze politiche a confrontarsi, definendo e riempiendo di contenuti programmatici tali contenitori. Di facilitare lo sviluppo di un sistema politico di bipolarismo perfetto caratterizzato da programmi alternativi di governo... La (difficile) soluzione, infatti, sta nel rafforzamento della componente riformista all'interno di entrambi gli schieramenti, che riduca il potere di coalizione e di veto di conservatori e radicali».
Flat Tax Dreamers
Perseverando con il vecchio modello franco-tedesco-italiano rischiamo di esportare al livello dell'Unione i problemi cronici dei vecchi membri
Sognare è lecito, provarci è democrazia. Senza nutrire troppe speranze, visto che il governo che stiamo per salutare si era presentato nel 2001 promettendo una riforma fiscale di sole tre aliquote, qui invece che arrenderci, rilanciamo: una sola aliquota, la cosiddetta Flat Tax e ci stringiamo a Krillix, un'altra sognatrice, che osserva come siano «proprio i paesi dell'ex-blocco orientale, a darci lezioni di liberismo». Estonia, Lettonia e Lituania hanno istituito da anni aliquote uniche (26, 25 e 33 per cento), e adottando altre riforme economiche, hanno dato tale impulso alla loro crescita economica tanto da essere definite «tigri baltiche». E solo per il complesso di superiorità del resto d'Europa non sono divenute modelli da seguire.
A seguire l'esempio sono stati soo paesi dell'Est con l'urgente visogno di crescere: Serbia (14%), Slovacchia (19%), Ucraina (13%), Romania (16%), Georgia (12%). Piccoli paesi, si obietterà, che partono da livelli economici molto bassi. Tuttavia, la tentazione rischia di estendersi anche a grandi paesi, nei quali il dibattito sulla flat tax si è aperto. Negli Stati Uniti Steve Forbes ha proposto un'unica aliquota al 17 per cento, ma al di là dei numeri l'ipotesi è seriamente presa in considerazione. Più autorevolmente Grover Norquist e alcuni centri studi sostengono comunque la proposta di un'unica aliquota, come la Heritage Foundation (cerca: "flat tax"). Le idee di Daniel J. Mitchell sono portate in Italia dall'Istituto Bruno Leoni:
Sognare è lecito, provarci è democrazia. Senza nutrire troppe speranze, visto che il governo che stiamo per salutare si era presentato nel 2001 promettendo una riforma fiscale di sole tre aliquote, qui invece che arrenderci, rilanciamo: una sola aliquota, la cosiddetta Flat Tax e ci stringiamo a Krillix, un'altra sognatrice, che osserva come siano «proprio i paesi dell'ex-blocco orientale, a darci lezioni di liberismo». Estonia, Lettonia e Lituania hanno istituito da anni aliquote uniche (26, 25 e 33 per cento), e adottando altre riforme economiche, hanno dato tale impulso alla loro crescita economica tanto da essere definite «tigri baltiche». E solo per il complesso di superiorità del resto d'Europa non sono divenute modelli da seguire.
A seguire l'esempio sono stati soo paesi dell'Est con l'urgente visogno di crescere: Serbia (14%), Slovacchia (19%), Ucraina (13%), Romania (16%), Georgia (12%). Piccoli paesi, si obietterà, che partono da livelli economici molto bassi. Tuttavia, la tentazione rischia di estendersi anche a grandi paesi, nei quali il dibattito sulla flat tax si è aperto. Negli Stati Uniti Steve Forbes ha proposto un'unica aliquota al 17 per cento, ma al di là dei numeri l'ipotesi è seriamente presa in considerazione. Più autorevolmente Grover Norquist e alcuni centri studi sostengono comunque la proposta di un'unica aliquota, come la Heritage Foundation (cerca: "flat tax"). Le idee di Daniel J. Mitchell sono portate in Italia dall'Istituto Bruno Leoni:
«Questa potrebbe essere solo la punta dell'iceberg. In Croazia, Bulgaria e Ungheria, i legislatori stanno esaminando la possibilità di adottare un sistema analogo, mentre i partiti all'opposizione in Polonia e Repubblica Ceca hanno promesso che, se vinceranno le prossime elezioni, adotteranno una imposta ad aliquota unica del 15 per cento. La valanga della flat tax sta causando considerevole ansietà negli Stati assistenziali dell'Europa occidentale. Le classi politiche dell'Unione Europea si lamentano a gran voce di una concorrenza fiscale "dannosa", ma all'Est le loro proteste trovano orecchie da mercante. Dopo aver sopportato decenni di schiavitù comunista, non è verosimile che i leader dell’Europa orientale si facciano intimidire dalle proteste provenienti da Parigi e da Bruxelles. Infatti alcuni legislatori occidentali hanno capito che il cambiamento è inevitabile e hanno iniziato a discettare della possibilità di adottare anche nei loro paesi un’imposta ad aliquota unica. Sebbene non esista ancora un consenso politico, la Spagna, la Danimarca, i Paesi Bassi e la Germania sono tra i paesi che stanno esaminando la flat tax. Il fatto che vi sia anche solo un dibattito testimonia la forza liberatoria della concorrenza fiscale. E, se le voci che dicono che quest'anno anche la Cina potrebbe adottare una flat tax sono vere, la valanga della riforma fiscale potrebbe diventare inarrestabile». LeggiIeri su Libero il ministro della Difesa Antonio Martino (economista) si è espresso a favore della flat tax, ma senza suscitare gran dibattito (degno di nota solo un articolo di Oscar Giannino il 17 agosto).
«Non si tratta più quindi del sogno visionario di pochi liberali isolati, come quando ne parlammo per la prima volta, ma di una realtà di un numero crescente di Paesi, di una esperienza consolidata e collaudata che merita quindi di essere considerata con rispetto e non con lo scherno che la accolse quando Forza Italia ne fece uno dei suoi punti programmatici nel 1994».I vantaggi «enormi» del sistema, a prescindere da quale sia la cifra fissata, sui dieci, sui venti o sui trenta, è soprattutto «la sua semplicità: con una sola aliquota e la chiusura di tutte le "scappatoie" fiscali, chiunque è in grado di assolvere da sé i propri doveri col fisco e di capire esattamente come il meccanismo funzioni». Grazie alla chiusura delle scappatoie tributarie, con un'unica aliquota bassa si riuscirebbe a fare incassare lo stesso o addirittura un maggiore gettito all'erario. In altri paesi aliquote basse già rendono enormemente più allo Stato delle attuali aliquote da confisca che vigono in Italia.
«Le ragioni dell'enorme successo della flat tax sono più d'una, ma la principale è che aliquote basse scoraggiano l'elusione e stimolano il lavoro, il risparmio, l'assunzione di rischio e l'investimento. Il successo dell'idea e la sua enorme diffusione hanno una sola causa: la proposta funziona egregiamente ed ovunque. Sento già un'obiezione: la flat tax violerebbe il dettato della nostra Costituzione che impone la progressività del sistema tributario. Non è così. La progressività può ottenersi o grazie ad aliquote crescenti al crescere del reddito, com'è adesso, o grazie al gioco delle detrazioni personali...».Se poi l'idea dell'aliquota unica si farà strada, come sembra, anche in Germania, l'argomento non sarà più un tabù. La sfidante di Schroeder alle prossime elezioni tedesche del 18 settembre, Angela Merkel (Cdu), ha infatti designato ministro delle Finanze Paul Kirchhof, sostenitore della flat tax, che vorrebbe al 20 o al 25 per cento.
«I suoi fautori - scrive Il Foglio - pensano che finanziare la riforma non sia un problema. Il problema del sistema proporzionale è che, semplificando il fisco, aumenta i costi di elusione ed evasione. Appiattendo l'aliquota, allarga la base imponibile, sbarra le vie di fuga, stana il sommerso: inoltre, stimola la crescita economica».
«La crescita economica e del gettito dopo i tagli non è un colpo di fortuna – ha scritto qualche giorno fa Amity Shlaes sul Financial Times – è l'ora di ammettere che i regimi ad aliquota unica non sono una soluzione adatta soltanto ai paradisi fiscali o a nazioni piccole e disperate...»Possono essere uno strumento formidabile nelle mani di un grande paese. Il rinnovamento fiscale tedesco scatenerebbe un effetto domino nell'UE. «Merkel e Kirchhof potrebbero fare qualcosa di simile alla signora Thatcher negli anni 80: nessuno potrebbe resistere alla pressione della riforma tedesca», spiega Günther Fehlinger (Europeans for Tax Reform). Sarebbe una sconfitta per le elite tecnocratiche di Bruxelles-Parigi-Berlino-Roma. Dopo l'allargamento, il cancelliere Schroeder provò addirittura a reprimere con nuove "regole comuni" la competizione fiscale dei paesi baltici, ma come osservava il premier estone Laar, il rischio maggiore - ma lo stiamo vivendo già sulla nostra pelle - è «di esportare al livello dell'Unione i problemi cronici dei vecchi membri».
Wednesday, August 24, 2005
Lezioni di nonviolenza dall'esercito israeliano
Il ritiro israeliano raccontato da uno storico, da un soldato che c'era, Michael Oren. Apparso sul Wall Street Journal, tradotto da Il Foglio. Sorprende lo spirito di appartenenza alla comunità, la fiducia incrollabile nelle istituzioni democratiche, le pratiche della nonviolenza fatte proprie con quanta flessibilità e insospettabile competenza (persino) dall'esercito israeliano, un unicum al mondo.
Onore a Israele.
Onore a Israele.
E' il nemico a dirci che la strategia è efficace
Al Qaeda teme solo la democrazia: ha capito che in democrazia i cittadini non abbracciano i suoi piani di jihad mondiale
La settimana scorsa Daniele Raineri su Il Foglio ha riportato alla luce un'interessante saggio scritto da Yussuf al Ayyeri, esponente di primo piano di Al Qaeda, dal titolo "Il futuro dell'Iraq e della penisola arabica dopo la caduta di Baghdad" (2003). Interessante, istruttivo, non perché siamo improvvisamente passati al nemico, o impazziti, ma perché conferma la validità della strategia di Bush e dei neoconservatori. I regime change, l'esportazione della democrazia in Medio Oriente, a partire dall'Iraq l'effetto domino che ne potrebbe scaturire, sono le maggiori preoccupazioni degli ideologi qaedisti.
La settimana scorsa Daniele Raineri su Il Foglio ha riportato alla luce un'interessante saggio scritto da Yussuf al Ayyeri, esponente di primo piano di Al Qaeda, dal titolo "Il futuro dell'Iraq e della penisola arabica dopo la caduta di Baghdad" (2003). Interessante, istruttivo, non perché siamo improvvisamente passati al nemico, o impazziti, ma perché conferma la validità della strategia di Bush e dei neoconservatori. I regime change, l'esportazione della democrazia in Medio Oriente, a partire dall'Iraq l'effetto domino che ne potrebbe scaturire, sono le maggiori preoccupazioni degli ideologi qaedisti.
«La macchina bellica degli Stati Uniti non dovrebbe essere la prima preoccupazione per i musulmani. Quello che invece minaccia l'islamismo, la sua stessa sopravvivenza, è la democrazia degli americani... Questo sistema degli infedeli persuade le persone che esse sono responsabili del loro destino e che, usando assieme la ragione, possono condurre una propria politica e approvare leggi come meglio sembra loro. Questo li porta a ignorare le leggi inalterabili promulgate da Dio per l'intero genere umano, e codificate nella sharia islamica fino alla fine dei tempi. La democrazia cancella l'autorità della sharia sulla società ed è in totale conflitto con la sua forma e la sua sostanza. Dio onnipotente ha stabilito che non c'è altro governo che non quello religioso. La democrazia, al contrario, dice che il governo è fatto dalla maggioranza del popolo... L'obiettivo della democrazia è fare sì che i musulmani amino questo mondo, dimentichino l'altro mondo e abbandonino il jihad. Se instaurata per un tempo ragionevolmente lungo in un qualsiasi paese islamico, la democrazia porterebbe alla prosperità economica, e questo, renderebbe i musulmani riluttanti a immolarsi nel martirio in difesa della loro fede».Dunque, avverte l'autore, è vitale prevenire la stabilizzazione e la normalizzazione dell'Iraq. I jihadisti devono a tutti i costi impedire che siano tenute libere elezioni e che sia creato un governo democratico perché c'è la consapevolezza, che in occidente spesso manca, che «se la democrazia arriva in Iraq, il prossimo bersaglio della democratizzazione sarà l'intero mondo islamico».
Tuesday, August 23, 2005
Il centrismo malato
Indiscutibilmente un editoriale condivisibile quello di Angelo Panebianco sul centrismo "malato" del nostro paese.
Ai difetti citati da Panebianco ne aggiungerei un altro, che rende l'ipotesi centrista ancora più sospetta: partiti di centro che si autodefiniscono "moderati", a causa della loro origine o suggestione cattolica, sono spesso i più integralisti e clericali. Indispensabili per andare al governo esercitano un potere di ricatto tale da renderli estremisti nelle loro espressioni. Riassumendo, i centristi sono sinonimo di clientelismo, spesa pubblica, economia sociale di mercato, quando non corporativista, potere vaticano.
«Se venisse eliminato il bipolarismo, se si riformasse un «grande centro », i cittadini perderebbero di nuovo la possibilità di scegliere fra schieramenti contrapposti senza avere in cambio alcuna garanzia di buon governo: l'enorme debito pubblico che tuttora ci sovrasta (misura contabile di un malgoverno che aveva raggiunto livelli parossistici) venne accumulato proprio quando il bipolarismo non esisteva».Ha ragione, come l'aveva il Riformista. Anche sulla necessità di «ali centriste» forti, perché in una democrazia matura non c'è demonizzazione dell'avversario, ma apprezzamento per ciò che ha fatto di buono e disponibilità, quando non convergenze, su politica estera e della sicurezza nazionale. Invece, difetti tutti italiani sono la tradizionale forza delle ali massimaliste ed estremiste e l'assenza nelle ali centriste della «cultura del mercato», con il conseguente paradosso che i liberisti, «i più convinti sostenitori dell'economia di mercato» o sono considerati estremisti o sono fuori dal Parlamento (vedi i Radicali).
Ai difetti citati da Panebianco ne aggiungerei un altro, che rende l'ipotesi centrista ancora più sospetta: partiti di centro che si autodefiniscono "moderati", a causa della loro origine o suggestione cattolica, sono spesso i più integralisti e clericali. Indispensabili per andare al governo esercitano un potere di ricatto tale da renderli estremisti nelle loro espressioni. Riassumendo, i centristi sono sinonimo di clientelismo, spesa pubblica, economia sociale di mercato, quando non corporativista, potere vaticano.
Aspettando la democrazia irachena/2
Se volete trascorrere queste ore che ci separano dall'evento storico dell'anno con qualche buona informazione, leggetevi Magdi Allam di stamani sul Corriere della Sera. Sviluppi positivi su federalismo e ruolo della sharia.
Una lettura confermata dalle attiviste irachene, anche loro festanti. Per il ruolo della donna nel nuovo Iraq «la religione non è il nodo principale, ma sono le tradizioni tribali e "la mentalità conservatrice" a essere un ostacolo per l'emancipazione», dice Pauline, attivista cristiana irachena.
Le masse in festa nel Sud sciita e nel Nord curdo, i sunniti che invitano comunque a votare il referendum, non ci sono state raccontate, denuncia Magdi Allam. Mentre la notizia dall'Iraq di ieri era che l'accordo era stato raggiunto senza i sunniti e quella di oggi è l'attentato che ha ucciso 8 poliziotti a Baquba.
«... il nuovo Iraq non sarà una teocrazia islamica. Il riferimento all'Islam come "una fonte principale della legislazione" è una connotazione presente nelle Costituzioni di altri Paesi arabi laici, tra cui Siria ed Egitto. Ugualmente laddove si afferma che "nessuna legge contraria ai principi dell'Islam potrà essere approvata", subito dopo si aggiunge che "nessuna legge sarà adottata se contraddice i diritti umani e i principi democratici"».Ciò che sta per accadere lo spiega perfettamente anche Il Foglio. Anche qui leggiamo che l'«elemento innovativo e quasi eversivo nel contesto islamico e mediorientale» è il federalismo, il fatto che «lo Stato cessa di essere "arabo" e diventa invece federale».
«Tutti i regimi limitrofi (Iran, Siria e Arabia Saudita) e anche quelli più lontani (Egitto, Libia, Tunisia e Algeria) mal riescono a fronteggiare il contagio di un Iraq democratico, di una Costituzione nata dalle urne di una consultazione vera e pluripartitica; ma ora a questo elemento di innovazione se ne aggiunge un altro: il decentramento del potere su base regionale.Anche Emma Bonino, domenica su la Repubblica faceva notare come la sharia di per sé non sia un disastro, non ipoteca la possibilità della democrazia, perché alla base dell'integralismo c'è sempre e comunque una manipolazione politica della religione. Spingendosi fino a dire che «l'Islam è molte cose, ma quasi tutte sono sinonimo di tolleranza». Certo, oggi chi è convinto di questo è parte minoritaria, o silenziosa, o oppressa, del mondo islamico.
(...)
Nella sua Costituzione Khomeini ha stabilito che "la sovranità è di Allah", nella Carta irachena, invece, la sovranità è del popolo e il popolo iracheno, grazie al contingente multinazionale, è in grado di intervenire nel processo democratico di formazione delle leggi con una forza che non ha pari in nessun altro paese islamico; questo permetterà di sviluppare una legislazione in cui, finalmente, si vedrà l'Islam moderno e democratico alla prova dei fatti».
Una lettura confermata dalle attiviste irachene, anche loro festanti. Per il ruolo della donna nel nuovo Iraq «la religione non è il nodo principale, ma sono le tradizioni tribali e "la mentalità conservatrice" a essere un ostacolo per l'emancipazione», dice Pauline, attivista cristiana irachena.
Le masse in festa nel Sud sciita e nel Nord curdo, i sunniti che invitano comunque a votare il referendum, non ci sono state raccontate, denuncia Magdi Allam. Mentre la notizia dall'Iraq di ieri era che l'accordo era stato raggiunto senza i sunniti e quella di oggi è l'attentato che ha ucciso 8 poliziotti a Baquba.
«Ora non ci resta che sperare che anche da noi, in Italia, in Europa e in Occidente, si aprano definitivamente entrambi gli occhi per vedere la realtà irachena per quella che è, non per quella che immaginiamo con i filtri ideologici che ce la fanno rappresentare come una successione di attentati terroristici che taluni hanno ancora l'ardire di qualificare come atti di "resistenza". Invito tutti a osservare le scene di giubilo di tanti iracheni, trasmesse dalle televisioni Al Arabiya, Al Iraqiya eAl Fayhaa, per l'approvazione della bozza della Costituzione. C'è una maggioranza di iracheni che, dopo essersi liberata da una delle più sanguinose dittature della Storia, esulta per aver riscattato il proprio diritto alla vita. Concentriamoci su questa maggioranza e smettiamola di farci del male enfatizzando e mitizzando la minoranza che propugna lo scontro, l'odio e la morte».Anche Jimmomo, come Michael Ledeen, si sente tranquillo e sereno:
«I've been reading the Italian press on the Iraqi constitution, and some of the smarter commentators point out some things I think we've missed. First, there is hardly a country in the region without some language acknowledging Sharia as either "the" or "a major" basis for national legislation. But Iran, for example, says that Allah is the sole source of authority, while the Iraqi constitution says that the people are the only legitimate source of authority. This in itself is a revolutionary event. Big celebrations were under way among Kurds and Shi'ites, when the 3-day holiday was announced. These celebrations included lots of women, happy with the Bill of Rights that guaranteed freedom of religious choice, freedom for minorities, etc. The new constitution makes Iraq a Federal Republic, NOT an "Arab Republic," which is again revolutionary. And the federal nature of the new republic is revolutionary for the whole region. My favorite newspaper, il Foglio, comments: "All the neighboring countries (Iran, Syria and Saudi Arabia) and also more distant ones (Egypt, Libya, Tunisia and Algeria) have trouble facing the spread of a democratic Iraq, of a Constitution born from true multiparty elections, and now a new innovation has been added: the...decentralization of power."
So, while I'm still waiting for the final text, I'm feeling a lot better. I think Constitutions matter a lot. In the modern world where judges and lawyers rule, the written law is enormously important».
Monday, August 22, 2005
La "confusione morale" di Marcello Pera
La via indicata ieri dal presidente del Senato Marcello Pera è già stata sperimentata. E infiniti massacri e lutti addusse. Ci dice che la teoria liberale è incompleta. Che alla nostra società occorre «un fondamento morale e/o religioso». Un «Bene obiettivo», addirittura (!?). Ma non è proprio al fine di superare conflitti secolari fra i diversi fondamenti morali e/o religiosi, e per liberare la politica da quei conflitti irriducibili, che è nata la teoria liberale? Che religioni, culture, morali siano tra esse diverse appare persino ovvio. Che possano essere comparate, per meglio conoscerle, non per giudicarle, anche. Ma sul fatto che abbiano pari dignità, non dovremmo avere dubbi: «Culture, etnie, razze, religioni - in una parola: civiltà - non si paragonano, ma i sistemi politici e i modelli di convivenza civile sì», ripete Emma Bonino.
Invece, quando Pera tira in ballo temi controversi (bioetica, famiglia, etc.), si capisce che il fondamento a cui pensa è una Morale, una Religione. Lo Stato liberale permette a ciascuno di vivere osservando le proprie. E' in irriducibile contraddizione con qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica, negando pari dignità morale ad altre visioni morali della vita. Chiaramente ogni decisione politica rappresenta un'opzione morale, ma essa è, e rimane, esperienza del singolo, mentre il diritto deve limitarsi a un minimo etico all'interno della società. Non vuol dire indifferenza a principi e valori, ma rinunciare all'uso autoritario del diritto, individuare i suoi limiti e la dimensione propria dell'etica.
Non assumere come propria la visione morale della vita di Pera o di Ratzinger, non significa agire al di fuori di un rispettabile sistema di valori, di una visione altrettanto morale.
Invece, negando ogni moralità a deliberazioni che, per quanto discutibili, Parlamenti democratici hanno preso o stanno per prendere, Pera dipinge un quadro disumanizzato dell'avversario politico, cui viene attribuita addirittura la colpa di una presunta "decadenza morale" dell'Occidente. Se fossi ebreo non mi suonerebbe nuova questa accusa, ben poco "occidentale" e assai più simile a quella dei jihadisti. In particolare, laddove viene operata una saldatura fra mobilitazione su temi sociali e di costume e risposta alla minaccia fondamentalista. Che essere a favore del matrimonio fra omosessuali possa essere una posizione non condivisa è ok, ma addirittura per questo essere additati come cause del declino morale dell'occidente, e quindi della sua sconfitta nella guerra al terrorismo, mi sembra intollerabile.
Scrive Tocqueville che mentre in Europa «lo spirito di religione e lo spirito di libertà» procedevano «in senso contrario», negli Stati Uniti «regnavano intimamente uniti». Non vi fu dall'inizio alcuna fede religiosa contraria alle istituzioni democratiche, mentre a lungo in Europa vi fu l'opposizione cattolica nei confronti delle teorie e delle istituzioni liberali e democratiche. In Europa la lotta per il potere tra Papa e Imperatore durò secoli. Fin dalle origini, in America, politica e religione «furono d'accordo, e non cessano di esserlo, sulla separazione delle rispettive autorità». Ecco le radici di un cristianesimo «democratico e repubblicano».
Eppure, nonostante "radici cristiane" fonti di un rapporto assai meno controverso fra Chiesa e Stato, a esse non v'è alcun richiamo nei testi costituzionali Usa. Non per questo oseremmo sostenere che gli Stati Uniti abbiano smarrito la propria identità. Il "Creator" della Dichiarazione di Indipendenza è aconfessionale e addirittura deista. Benedetto Croce affermò che «non possiamo non dirci cristiani», ma in tempi in cui nel linguaggio comune il termine "cristiano" veniva percepito in modo ben distinto dal termine "cattolico" - a indicare cioè prevalentemente il mondo della Riforma - mentre oggi a molti conviene confondere. E il problema dell'Europa non è il richiamo alle "radici cristiane" nella sua costituzione, ma la secolarizzazione dell'islam europeo.
Ciò che dobbiamo difendere non è, o non è solo, la nostra identità di occidentali, quindi fatta delle famose radici giudaico-cristiane, o greco-romane, o illuministe (dibattito assai inutile). E gli altri? Tutte le altre culture, le altre civiltà? Sono fuori? Cosa ne facciamo? Le regaliamo al fondamentalismo? Come vittime o come complici? Dev'essere chiaro al mondo che l'occidente combatte il terrorismo non perché è anti-cristiano, ma per difendere principi che riteniamo universali:
Se crediamo che i nemici siano gli islamo-fascisti, dobbiamo chiederci se la guerra contro gli occidente-fascisti fu o no uno scontro fra due civiltà, o piuttosto interno a una civiltà. Come allora lo scontro è innanzitutto interno a un mondo, oggi quello arabo-musulmano. Lo scontro vero è trasversale a tutte le civiltà. Fra alcuni valori che sono universali, e non appartengono a una sola civiltà, e un'ideologia politica il cui fine è l'oppressione e lo sterminio. La Germania di Hitler aveva forse cessato di essere "occidente"? O non era, piuttosto, una versione di occidente che avrebbe potuto prevalere? La lettura dello scontro di civiltà proprio non regge alla prova dei fatti.
Ma sulla questione identità, radici, Occidente, Europa e Islam, vi rimando a un prossimo articolo.
Invece, quando Pera tira in ballo temi controversi (bioetica, famiglia, etc.), si capisce che il fondamento a cui pensa è una Morale, una Religione. Lo Stato liberale permette a ciascuno di vivere osservando le proprie. E' in irriducibile contraddizione con qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica, negando pari dignità morale ad altre visioni morali della vita. Chiaramente ogni decisione politica rappresenta un'opzione morale, ma essa è, e rimane, esperienza del singolo, mentre il diritto deve limitarsi a un minimo etico all'interno della società. Non vuol dire indifferenza a principi e valori, ma rinunciare all'uso autoritario del diritto, individuare i suoi limiti e la dimensione propria dell'etica.
Non assumere come propria la visione morale della vita di Pera o di Ratzinger, non significa agire al di fuori di un rispettabile sistema di valori, di una visione altrettanto morale.
Invece, negando ogni moralità a deliberazioni che, per quanto discutibili, Parlamenti democratici hanno preso o stanno per prendere, Pera dipinge un quadro disumanizzato dell'avversario politico, cui viene attribuita addirittura la colpa di una presunta "decadenza morale" dell'Occidente. Se fossi ebreo non mi suonerebbe nuova questa accusa, ben poco "occidentale" e assai più simile a quella dei jihadisti. In particolare, laddove viene operata una saldatura fra mobilitazione su temi sociali e di costume e risposta alla minaccia fondamentalista. Che essere a favore del matrimonio fra omosessuali possa essere una posizione non condivisa è ok, ma addirittura per questo essere additati come cause del declino morale dell'occidente, e quindi della sua sconfitta nella guerra al terrorismo, mi sembra intollerabile.
Scrive Tocqueville che mentre in Europa «lo spirito di religione e lo spirito di libertà» procedevano «in senso contrario», negli Stati Uniti «regnavano intimamente uniti». Non vi fu dall'inizio alcuna fede religiosa contraria alle istituzioni democratiche, mentre a lungo in Europa vi fu l'opposizione cattolica nei confronti delle teorie e delle istituzioni liberali e democratiche. In Europa la lotta per il potere tra Papa e Imperatore durò secoli. Fin dalle origini, in America, politica e religione «furono d'accordo, e non cessano di esserlo, sulla separazione delle rispettive autorità». Ecco le radici di un cristianesimo «democratico e repubblicano».
Eppure, nonostante "radici cristiane" fonti di un rapporto assai meno controverso fra Chiesa e Stato, a esse non v'è alcun richiamo nei testi costituzionali Usa. Non per questo oseremmo sostenere che gli Stati Uniti abbiano smarrito la propria identità. Il "Creator" della Dichiarazione di Indipendenza è aconfessionale e addirittura deista. Benedetto Croce affermò che «non possiamo non dirci cristiani», ma in tempi in cui nel linguaggio comune il termine "cristiano" veniva percepito in modo ben distinto dal termine "cattolico" - a indicare cioè prevalentemente il mondo della Riforma - mentre oggi a molti conviene confondere. E il problema dell'Europa non è il richiamo alle "radici cristiane" nella sua costituzione, ma la secolarizzazione dell'islam europeo.
Ciò che dobbiamo difendere non è, o non è solo, la nostra identità di occidentali, quindi fatta delle famose radici giudaico-cristiane, o greco-romane, o illuministe (dibattito assai inutile). E gli altri? Tutte le altre culture, le altre civiltà? Sono fuori? Cosa ne facciamo? Le regaliamo al fondamentalismo? Come vittime o come complici? Dev'essere chiaro al mondo che l'occidente combatte il terrorismo non perché è anti-cristiano, ma per difendere principi che riteniamo universali:
«WE hold these Truths to be self-evident, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the Pursuit of Happiness...».Ciò che dobbiamo difendere non è, o non è solo, la nostra civiltà, come se le altre, a cominciare da quella islamica, non meritino di vivere, ma è un modello di convivenza basato sulla libertà individuale e sulla democrazia, è un sistema di governo basato sulla separazione dei poteri, lo stato di diritto, la laicità dello Stato. Diritti soggettivi storicamente acquisiti per ogni essere umano. Sono insomma, principi che o sono universali, affermati ed esercitati come tali, o non sono.
Se crediamo che i nemici siano gli islamo-fascisti, dobbiamo chiederci se la guerra contro gli occidente-fascisti fu o no uno scontro fra due civiltà, o piuttosto interno a una civiltà. Come allora lo scontro è innanzitutto interno a un mondo, oggi quello arabo-musulmano. Lo scontro vero è trasversale a tutte le civiltà. Fra alcuni valori che sono universali, e non appartengono a una sola civiltà, e un'ideologia politica il cui fine è l'oppressione e lo sterminio. La Germania di Hitler aveva forse cessato di essere "occidente"? O non era, piuttosto, una versione di occidente che avrebbe potuto prevalere? La lettura dello scontro di civiltà proprio non regge alla prova dei fatti.
Ma sulla questione identità, radici, Occidente, Europa e Islam, vi rimando a un prossimo articolo.
Aspettando la democrazia irachena
Si va verso l'accordo sulla Costituzione irachena. Il nodo più importante, quello del federalismo, sembra acquisito. Suspense sul ruolo che avrà come fonte del diritto la legge islamica. In questa intervista, Emma Bonino spiegava a la Repubblica che se anche la Costituzione irachena si richiamasse alla sharia, alla legge islamica, non tutto sarebbe perso per il processo democratico. La sharia non sempre significa integralismo. Alla base dell'integralismo c'è sempre e comunque una manipolazione politica della religione. Molto dipende dall'influenza del clero e in Iraq il nodo politico centrale è il federalismo.
«La Sharia nella Costituzione irachena? Ho due tipi di reazioni: da una parte ricordo con forza che l'Islam differisce assai dall'unica interpretazione che alcuni ne danno, quella di una religione sempre e comunque "talebana" e oscurantista. Dall'altra condivido la preoccupazione di molti: la Sharia nella Costituzione irachena può essere utilizzata per una manipolazione dell'Islam che potrebbe rallentare il processo democratico e limitare i diritti civili del popolo iracheno, innanzitutto quelli delle donne.Intanto, godiamoci le parole del leader curdo Massud Barzani a la Repubblica:
(...)
E' molto importante che anche l'opinione pubblica abbia ben chiara questa distinzione: l'Islam è molte cose, ma quasi tutte sono sinonimo di tolleranza. Quasi tutti gli Stati a maggioranza islamica includono nelle loro Costituzioni riferimenti all'Islam. E in Marocco, dove il re discende da Maometto e dove l'Islam è nella legge, da due anni è stato approvato uno statuto sulla cittadinanza rispettoso delle donne, che garantisce una serie di diritti che neppure le femministe marocchine si aspettavano di vedersi riconosciuti. Così è nella stragrande maggioranza degli altri stati islamici, in cui la presenza dell'Islam nella legislazione non comprime i diritti civili».
«Noi rispettiamo tutte le posizioni, ma non accetteremo compromessi su quelli che riteniamo i nostri diritti. I curdi si battono per un Iraq nuovo, federale, democratico. Come ho riferito di recente ai costituenti iracheni a Baghdad e ai 111 membri del Parlamento autonomo curdo, il nostro è un secco no a uno stato modellato sui principi islamici... L'alleanza con gli americani è stata fondamentale, con il loro aiuto siamo riusciti a vincere la guerra e a cacciare Saddam Hussein. Ma oggi la diplomazia Usa deve comprendere le nostre esigenze. Quel che ripetiamo comunque agli americani e alla coalizione internazionale è di rimanere in Iraq. Perché un ritiro, a questo punto, sarebbe un disastro.
(...)
Chiediamo la concessione di un'ampia autonomia territoriale e uno Stato preferibilmente laico. I curdi hanno accettato di far parte dell'Iraq anche se la nostra gente vuole l'indipendenza e l'autodeterminazione. Dietro questo sacrificio chiediamo che siano garantite le nostre condizioni, come la questione del rientro dei profughi fuggiti durante il regime di Saddam e il non scioglimento della milizia dei peshmerga, che devono restare a difendere il nord del paese.
(...)
Kirkuk è una città irachena ma è anche curda. E la gente del Kurdistan ha diritto di scegliere liberamente. I curdi giocheranno la carta del referendum per determinare l'assegnazione della città. Se le nostre condizioni non verranno accettate la nostra gente rifiuterà la nuova Costituzione irachena».
La retorica del dialogo e la scelta integralista
Il commento che nella sua semplicità mi pare aver più colto nel segno sulla figura di questo nuovo Papa, la cui figura dopo le giornate di Colonia («Libertà non è godersi la vita») si definisce sempre più, è quello di Gian Enrico Rusconi, domenica su La Stampa. La rigidità dottrinale del Papato precedente, smorzata dalle doti umane e carismatiche di Wojtyla, la ritroviamo tutta nel Papato di Benedetto XVI, ma oggi appare ai nostri occhi senza ammortizzatori emotivi, seppure ingentilita dai toni discreti e l'eloquio forbito, cattedratico di Ratzinger.
In questa rigidità dottrinale, ogni richiamo al dialogo, sia esso con il mondo laico, con le altre chiese cristiane, o interreligioso, non fa che sottolineare in realtà la debolezza delle fondamenta su cui questo dialogo poggia. Quanto più il dialogo è vuoto, tanto più c'è bisogno della sua ostentazione. Il Papa, osserva Rusconi, ha voluto dare la «priorità al dialogo interreligioso ed ecumenico purché strettamente collegato ad una puntigliosa riaffermazione della "verità" dottrinale cattolica. E di conseguenza primato della istituzione ecclesiale».
Non meglio va il rapporto con le chiese riformate. Rusconi prende «spunto da un piccolo episodio».
Da alcuni anni, ma con più vigore e consapevolezza negli ultimi mesi, l'operazione mediatica e comunicativa, particolarmente indovinata, è stata quella di usare, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, degli intellettuali e dei politici vicini al Vaticano, i termini cristiano e cattolico come sinonimi, mentre fino a un paio di decenni fa chiunque parlasse di cristiani, cristianesimo, era ovvio che si riferisse al mondo della Riforma, e cattolico, cattolicesimo, erano i termini per indicare la Chiesa di Roma. Per non parlare dei tempi di Benedetto Croce, che altrimenti avrebbe avuto qualche scrupolo in più ad affermare il suo «non possiamo non dirci cristiani». Tradotto in pratica - fateci caso in interviste, omelie, documenti, apparizioni tv - non si sente più parlare di morale, o valori cattolici, quanto piuttosto di morale, o valori cristiani, come se Ortodossia e Riforma avessero di già fatto ritorno alla casa Madre. Peccato non sia così.
Dunque, la Chiesa di oggi non può permettersi di rinunciare alla retorica del dialogo, ma nella strategia ratzingeriana di rievangelizzazione dell'Europa per esso c'è ben poco spazio. Abbiamo udito personalmente da Papa Ratzinger l'elogio della «minoranza creativa». Egli non è interessato alla "Chiesa di massa", bensì ambisce alla "Chiesa di minoranza". Ne parla Silvio Ferrari sul blog di Sandro Magister. I credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale «minoranza creativa» e contribuire a che l'Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell'intera umanità.
A questo scopo occorre alimentare presso fedeli e associazioni un clima da «minoranza assediata» in una specie di Forte Apache. Non importa quanto la stragrande maggioranza dei fedeli non riusca a rispettare il crescente numero di precetti morali, poiché importa che un nocciolo duro si convinca di poter riconquistare l'Europa togliendola a quel «laicismo aggressivo... che si presenta come l'unica voce della razionalità».
Integralismo dunque, non religione civile, approccio su cui ha speso più di qualche parola il cardinale Camillo Ruini l'11 febbraio scorso:
In questa rigidità dottrinale, ogni richiamo al dialogo, sia esso con il mondo laico, con le altre chiese cristiane, o interreligioso, non fa che sottolineare in realtà la debolezza delle fondamenta su cui questo dialogo poggia. Quanto più il dialogo è vuoto, tanto più c'è bisogno della sua ostentazione. Il Papa, osserva Rusconi, ha voluto dare la «priorità al dialogo interreligioso ed ecumenico purché strettamente collegato ad una puntigliosa riaffermazione della "verità" dottrinale cattolica. E di conseguenza primato della istituzione ecclesiale».
«Nulla di nuovo ovviamente, anche rispetto al papato precedente. Ma è evidente dallo stile e dalle parole pronunciate negli incontri di Colonia che Ratzinger non è la controfigura di Wojtyla. La macchina mediatica non riesce ancora a cogliere e ad esprimere la specificità di questo Pontefice. Ma non è solo una questione di cultura dell'evento mediato. I punti di rigidità, di intrattabilità, di chiusura dell'ortodossia dottrinale e della logica istituzionale, che l'esuberante personalità di Wojtyla riusciva a smussare, ora diventano manifesti. Particolarmente spigoloso e severo è l'atteggiamento verso il mondo secolarizzato, presentato quasi sempre in toni negativi. Come può Ratzinger dialogare con un'Europa laica dipinta a fosche tinte dove secolarizzazione è semplicemente sinonimo di sradicamento morale?»E' sintomatico l'episodio dell'incontro del Papa tedesco con la comunità ebraica tedesca nella sinagoga di Colonia. «Straordinario... giustificata la profonda emozione, non solo religiosa, di tutti». Eppure? Eppure è mancata l'autocritica, è mancata la sostanza del dialogo con l'ebraismo, è mancato un riferimento allo Stato di Israele e alle sue sofferenze, anche se non è mancato quello al crescente antisemitismo europeo.
«Nelle pur ispirate parole di Ratzinger abbiamo sentito la mancanza di un coraggioso accenno autocritico allo specifico antigiudaismo cristiano, proprio in una cultura come la tedesca dalle profonde radici cristiane. Probabilmente in lui è scattato un riflesso apologetico della istituzione religiosa. Contro di essa ha puntato il dito il capo della comunità ebraica con l'esplicita richiesta che vengano aperti senza riserve gli archivi vaticani per l'intero periodo della Seconda guerra mondiale. Non è una richiesta fuori luogo o fuori tema. Non si tratta di mettere sotto accusa il cristianesimo come tale, che ha i suoi martiri del razzismo nazista. Ma in una circostanza così solenne, come quella di Colonia, è giusto mettere alla prova l'effettiva disponibilità del Vaticano a consentire agli studiosi di fare definitivamente chiarezza su una delle pagine meno chiare della storia recente tra ebraismo e Chiesa cattolica. Vedremo se e come Papa Ratzinger risponderà a questa richiesta».Chi ama la verità con la "V" maiuscola, chi ha vissuto la tragedia delle ideologie del '900, non vorrà privare gli storici di una così importante fonte di studio, ci auguriamo.
Non meglio va il rapporto con le chiese riformate. Rusconi prende «spunto da un piccolo episodio».
«Giorni fa, su questo giornale, nello spazio riservato al diario di "una ragazza del Papa" abbiamo letto dell'emozione che la giovane cattolica ha provato nel partecipare ad un servizio religioso protestante celebrato da una donna sacerdote. Presa dall'entusiasmo la ragazza scrive: "Anche questo è Colonia!". In realtà la Papagirl è caduta in una bellissima contraddizione tra le aspettative soggettive, condivise probabilmente da moltissimi suoi coetanei, e la intransigenza dottrinale di Ratzinger non solo nel negare il sacerdozio femminile ma addirittura nel condannare la celebrazione dell'Eucarestia in comune tra cattolici e cristiani riformati. Fino a quando reggeranno queste contraddizioni? E' convinta la gerarchia cattolica di battere con queste contraddizioni la strada dell'ecumenismo? O le basta l'elogio degli agnostici clericali assolutamente indifferenti a questo tipo di problemi?»E a proposito di contraddizioni, il tappeto di preservativi ritrovati sulla spianata di Tor Vergata nell'agosto del 2000 fa parte più della storia che della leggenda metropolitana. Parola di vescovo.
Da alcuni anni, ma con più vigore e consapevolezza negli ultimi mesi, l'operazione mediatica e comunicativa, particolarmente indovinata, è stata quella di usare, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, degli intellettuali e dei politici vicini al Vaticano, i termini cristiano e cattolico come sinonimi, mentre fino a un paio di decenni fa chiunque parlasse di cristiani, cristianesimo, era ovvio che si riferisse al mondo della Riforma, e cattolico, cattolicesimo, erano i termini per indicare la Chiesa di Roma. Per non parlare dei tempi di Benedetto Croce, che altrimenti avrebbe avuto qualche scrupolo in più ad affermare il suo «non possiamo non dirci cristiani». Tradotto in pratica - fateci caso in interviste, omelie, documenti, apparizioni tv - non si sente più parlare di morale, o valori cattolici, quanto piuttosto di morale, o valori cristiani, come se Ortodossia e Riforma avessero di già fatto ritorno alla casa Madre. Peccato non sia così.
Dunque, la Chiesa di oggi non può permettersi di rinunciare alla retorica del dialogo, ma nella strategia ratzingeriana di rievangelizzazione dell'Europa per esso c'è ben poco spazio. Abbiamo udito personalmente da Papa Ratzinger l'elogio della «minoranza creativa». Egli non è interessato alla "Chiesa di massa", bensì ambisce alla "Chiesa di minoranza". Ne parla Silvio Ferrari sul blog di Sandro Magister. I credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale «minoranza creativa» e contribuire a che l'Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell'intera umanità.
A questo scopo occorre alimentare presso fedeli e associazioni un clima da «minoranza assediata» in una specie di Forte Apache. Non importa quanto la stragrande maggioranza dei fedeli non riusca a rispettare il crescente numero di precetti morali, poiché importa che un nocciolo duro si convinca di poter riconquistare l'Europa togliendola a quel «laicismo aggressivo... che si presenta come l'unica voce della razionalità».
«In questa prospettiva, per Ratzinger, la prima necessità è quella di formare "uomini che tengano lo sguardo diritto verso Dio" perché "soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini". Parole che danno voce ai convincimenti delle comunità e dei movimenti – da Comunione e Liberazione all'Opus Dei – che si battono per una riaffermazione forte della identità cristiana e ritengono inutile imbarcarsi in una politica di estenuanti compromessi con la società laica e liberale, attraversata da una crisi che è giudicata irreversibile. Secondo costoro, è meglio andare al confronto aperto e duro con le altre identità religiose e non religiose in Europa facendosi forti del proprio intatto patrimonio dottrinale, rimarcando la propria differenza e puntando sulla possibilità che un cattolicesimo integrale riesca a interpretare il bisogno di sicurezza e identità che percorre l'Europa intera. In tal senso la posizione del nuovo pontefice appare più vicina a quelle dei sostenitori di un cattolicesimo a forte intensità, anche se ciò potrebbe significare in Europa (ma forse non altrove) una sua minore diffusione».Tale riaffermazione della proposta cristiana in tutta la sua radicale integrità può farci parlare di integralismo cattolico, anche se occorre distinguerlo da forme fondamentaliste e radicali che sono più proprie del mondo protestante (il fondamento dei testi) e su cui la Chiesa cattolica (la tradizione) per ora non sembra intenzionata a rischiare.
Integralismo dunque, non religione civile, approccio su cui ha speso più di qualche parola il cardinale Camillo Ruini l'11 febbraio scorso:
«La cosiddetta religiosità civile americana, di carattere non confessionale ma di chiara impronta cristiana, sembra il modello meglio in grado di garantire, nell'attuale società libera e democratica, i fondamenti morali della convivenza e in ultima analisi una comune visione del mondo, cosicché la promozione della democrazia appaia un imperativo morale in sintonia con la fede religiosa».Una strategia leggermente diversa, anche se non inconciliabile con quella ratzingeriana, dalla quale però non sarebbe lecito attendersi alcuna concessione sul piano del potere temporale vaticano. Nessuna illusione sul fatto che accogliendo il modello di religione civile americana la Chiesa possa lontanamente pensare di privarsi dei privilegi concordatari che con quel modello sono in irriducibile contraddizione. Se li tiene ben stretta, avendoli addirittura anteposti, nel dibattito sul preambolo del Trattato costituzionale europeo, al tanto caro richiamo delle radici cristiane.
Friday, August 19, 2005
Parte la campagna elettorale in Egitto
«We Got Political Ads!!» esclama il blog egiziano Bigpharaoh quando spiluccando il quotidiano Al Ahram scorge la prima pubblicità elettorale a tutta pagina della campagna elettorale per le prossime presidenziali, le prime a più candidati nella storia del suo paese. Di uno dei due principali avversari di Mubarak, Noaman Gomaa. «My eyes literally popped out». «Semplicemente non ero abituato a vedere altra pubblicità se non quella che loda i risultati di Mubarak». Attesa per la pubblicità degli altri candidati, con molto interesse soprattutto per quella di Ayman Noor.
Tuttavia, sembra che quella apparsa sul giornale sia una versione modificata del manifesto che appare sul sito del candidato, forse perché l'originale è ritenuta una critica diretta a Mubarak, mentre le leggi ancora non permettono di attaccare direttamente gli altri candidati. La pagina mostra uomini dalle guance gonfie che sbuffano impazienti e recita: «We Suffocated». «L'intero mondo sta cambiano e noi no».
Ma anche Mubarak diventa «COOOOL». Un gruppo di specialisti è incaricato di rinnovare l'immagine del presidente, «più "giusta", moderna, che guarda avanti, con speranza nel futuro». Mubarak si è fatto il suo georgewbush2004.com, ovviamente mubarak2005.com, con notizie, agenda della campagna, un documentario biografico, lo spazio per le "lettere al presidente" («talk directly to the president, ask whatever they want, offer comments, and express themselves»), sezione per la first lady. Il logo recita "Mubarak 2005, the leadership and the crossing towards the future" e la foto del presidente sembra gradevole.
Notevole
Tuttavia, sembra che quella apparsa sul giornale sia una versione modificata del manifesto che appare sul sito del candidato, forse perché l'originale è ritenuta una critica diretta a Mubarak, mentre le leggi ancora non permettono di attaccare direttamente gli altri candidati. La pagina mostra uomini dalle guance gonfie che sbuffano impazienti e recita: «We Suffocated». «L'intero mondo sta cambiano e noi no».
Ma anche Mubarak diventa «COOOOL». Un gruppo di specialisti è incaricato di rinnovare l'immagine del presidente, «più "giusta", moderna, che guarda avanti, con speranza nel futuro». Mubarak si è fatto il suo georgewbush2004.com, ovviamente mubarak2005.com, con notizie, agenda della campagna, un documentario biografico, lo spazio per le "lettere al presidente" («talk directly to the president, ask whatever they want, offer comments, and express themselves»), sezione per la first lady. Il logo recita "Mubarak 2005, the leadership and the crossing towards the future" e la foto del presidente sembra gradevole.
Notevole
Nobel, ma stavolta senza coabitazione
Furio Colombo, ex direttore de l'Unità:
Se il premio Nobel per la pace verrà mai assegnato a Sharon, e ne dubito fortemente proprio perché se lo merita, stavolta non dovrà essere in coabitazione con un leader palestinese. L'errore di aver in passato accomunato con il Nobel figure così diverse come Rabin e Arafat non deve essere ripetuto. Se Nobel dev'essere, quest'anno lo sia solo per Sharon.
«Come Rabin, Sharon è stato generale, e come lui si è poi mostrato un politico estremamente aperto e liberale. Come lo fu Rabin, il premier è oggi un caso pressoché unico nella politica mondiale». Il Nobel a Sharon? «Se lo merita. Normalmente per questo tipo di riconoscimenti si aspetta che un processo si concluda positivamente, porti frutti concreti. Ma se il Nobel deve essere un premio dato a chi rischia per la pace, non c'è dubbio che con la sua scelta e per la determinazione con cui l'ha perseguita, Sharon ora sia un candidato autorevolissimo».Bocciata l'Unione europea, «pallida e latitante».
Se il premio Nobel per la pace verrà mai assegnato a Sharon, e ne dubito fortemente proprio perché se lo merita, stavolta non dovrà essere in coabitazione con un leader palestinese. L'errore di aver in passato accomunato con il Nobel figure così diverse come Rabin e Arafat non deve essere ripetuto. Se Nobel dev'essere, quest'anno lo sia solo per Sharon.
Cardinale Ratzinger, nulla da dichiarare?
E' legale o no, è giusto o no, è o no cristiano che la Chiesa tenga nascosti alla giustizia civile i casi di abusi sessuali di cui i suoi membri si rendono responsabili? Tenere all'oscuro la giustizia civile è l'ordine tassativo, pena la scomunica, dettato in una lettera spedita nel 2001 a tutti i vescovi dall'allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Card. Ratzinger. Mentre riceve a Colonia l'abbraccio di un milione di giovani, Benedetto XVI per quella lettera è imputato davanti alla Corte distrettuale di Harris County, in Texas. La cosa più grave però è che la Chiesa cattolica è ancora uno Stato. Alcuni giorni fa abbiamo appreso che, appena eletto Papa, il Vaticano ha avanzato per Bendetto XVI, proprio in quanto Capo di Stato in carica, richiesta formale d'immunità al presidente degli Stati Uniti, che non ha ancora reso nota la sua decisione in merito. Sono 179 le testate americane, tra cui le reti televisive CBS ed Msnbc, che hanno ripreso la notizia; anche alla Casa Bianca, durante un briefing quotidiano, è stato chiesto cosa intenda fare il presidente Bush. In Italia nulla.
Nella documentazione presentata dai radicali emerge che:
Nella documentazione presentata dai radicali emerge che:
«Sin dal 1962 le più alte gerarchie vaticane, approfittando dello status di entità sovrana di cui gode la Santa sede, hanno organizzato e realizzato quella che oggi appare in tutta la sua gravità: una rete di protezione dei preti pedofili, tale da consentire la diffusione e, per molti di loro, la reiterazione delle violenze perpetrate per anni nella più assoluta impunità».Secondo Anticlericale.net:
«Il Vaticano, che era a conoscenza del compiersi di tali reati e della loro diffusione, al fine di "governare" lo scandalo diede disposizioni tassative, attraverso un'Istruzione diffusa dalla Suprema Sacra Congregazione del Santo Uffizio, pena la scomunica, con l'unico obiettivo di evitare la fuoriuscita di qualsiasi notizia in merito. Tali disposizioni furono poi confermate nel 2001 dall'allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI... Lo scandalo dei preti pedofili non si limita al recente caso esploso negli Stati Uniti. Non è solo scandalo, ma reato e non è circoscritto alla sola Chiesa americana. La giustizia ha iniziato il proprio corso, ma finora non è mai accaduto che la Santa sede abbia denunciato essa stessa alle autorià giudiziarie fatti di abusi sessuali, pur essendone a conoscenza, nè abbia collaborato alle indagini».Attenzione. La vera questione non è tanto, o non solo, morale e religiosa, cioè la diffusione della pratica degli abusi sessuali tra i preti cattolici, ma il conflitto tra giurisdizione dello Stato e giurisdizione della Chiesa. La Chiesa cattolica dovrà pur decidere una buona volta se vuol essere Stato o Chiesa; e comunque insabbiare crimini commessi da propri aderenti sul territorio di uno stato sovrano rimane un reato: favoreggiamento.
Il Mercato né a destra né a sinistra
«La cultura del mercato è debole in entrambi gli schieramenti», ha scritto Angelo Panebianco giorni fa sul Corriere della Sera. Ha ragione. Berlusconi, che si era presentato come il modernizzatore che avrebbe conquistato l'Italia a una matura società di mercato, ha miseramente fallito perdendo ogni credibilità agli occhi degli italiani. Non va meglio la sinistra. Non riesce ancora a convincere se stessa, figuriamoci gli italiani, che la cultura del mercato le appartiene pienamente. Eppure, non è in contraddizione con i suoi valori. Libero mercato vuol dire più opportunità. Per tutti. Non so dire se il corporativismo e il clientelismo in cui è immerso il nostro paese siano o no "di destra". Certamente non sono "di sinistra". Mercato e meritocrazia producono Giustizia e Buon Governo. Blair lo ha compreso e oggi guida un paese più ricco e più giusto. La sinistra dovrebbe solo iniziare a crederci.
Thursday, August 18, 2005
Chi ama Israele tifa Sharon
Da oggi bando alle ipocrisie del passato: i palestinesi, e quanti (governanti e movimenti, europei e arabi) da anni sono animati dall'incrollabile certezza della volontà/capacità della leadership dell'Anp di dar vita a uno Stato pacifico, non hanno più alibi. Quella certezza, ostentata nelle capitali europee e arabe da leader cinici si rivelerà per quello che è: un bluff, un'ipocrisia, tra convenienza e politically correct.
Ne è convinto David Frum, che su Il Foglio, spiega la teoria dell'«ipocrisia internazionale» di cui Israele è vittima da decenni e da cui Sharon sta cercando di liberarsi. Tutti sanno che «la leadership palestinese è incapace di creare uno Stato che possa vivere in pace con chiunque», eppure non fanno che condannare Israele per l'oppressione dei palestinesi e ammonirlo di consentire la creazione di uno Stato palestinese che in realtà nessuno vuole. Belle parole, ma solo retorica per accattivarsi la non-belligeranza dei gruppi terroristici palestinesi e dei settori anti-israeliani delle opinioni pubbliche occidentali. «Può essere che Sharon abbia capito il bluff dei governi occidentali e arabi, creando uno Stato palestinese che mostrano di volere ma in realtà temono?».
Secondo questa ipotesi, Sharon non s'illude di uno sviluppo sorprendentemente positivo verso una pace stabile, ma considera la sua decisione una mossa vincente, dal punto di vista sia militare che politico, nei confronti della corrotta ed estremista leadership palestinese.
Ne è convinto David Frum, che su Il Foglio, spiega la teoria dell'«ipocrisia internazionale» di cui Israele è vittima da decenni e da cui Sharon sta cercando di liberarsi. Tutti sanno che «la leadership palestinese è incapace di creare uno Stato che possa vivere in pace con chiunque», eppure non fanno che condannare Israele per l'oppressione dei palestinesi e ammonirlo di consentire la creazione di uno Stato palestinese che in realtà nessuno vuole. Belle parole, ma solo retorica per accattivarsi la non-belligeranza dei gruppi terroristici palestinesi e dei settori anti-israeliani delle opinioni pubbliche occidentali. «Può essere che Sharon abbia capito il bluff dei governi occidentali e arabi, creando uno Stato palestinese che mostrano di volere ma in realtà temono?».
Secondo questa ipotesi, Sharon non s'illude di uno sviluppo sorprendentemente positivo verso una pace stabile, ma considera la sua decisione una mossa vincente, dal punto di vista sia militare che politico, nei confronti della corrotta ed estremista leadership palestinese.
«Perché Sharon evacua Gaza?
Non perché crede che dopo sorgerà un affidabile Stato palestinese. A questo non crede nessuno. L'opinione quasi unanime degli esperti è che Gaza diventerà una sorta di Somalia del Mediterraneo: un instabile Stato fallito dove bande si scontreranno per il potere e nel quale l'islam estremista avrà un santuario. Sharon non sta agendo in risposta a pressioni internazionali. Il suo ritiro unilaterale ha sorpreso gli Stati Uniti e gli europei. I quali volevano che Sharon negoziasse con Abu Mazen e che il piano coinvolgesse tutti i territori palestinesi. E volevano che tutto il processo si svolgesse molto lentamente. La situazione strategica di Israele non ha forzato la mano: le forze israeliane avrebbero potuto tenere Gaza per anni. Neppure l'opinione pubblica interna può fornire una spiegazione: Sharon ha vinto le elezioni "opponendosi" al ritiro.
Allora, perché, perché, perché?
Ecco una teoria. Israele è la vittima di un'ipocrisia internazionale. Dopo le esperienze degli anni 90, poche persone continuanoa farsi illusioni sul probabile carattere di uno Stato palestinese. La classe dirigente dell'Anp è corrotta. L'opposizione a questa classe dirigente è violenta ed estremista. L'opinione pubblica rifiuta la coesistenza con Israele. Uno Stato palestinese, quali che siano i suoi confini, scatenerà una guerra terroristica contro Israele e offrirà accoglienza agli estremisti islamici di tutto il mondo. Ucciderà i cittadini israeliani e minaccerà la sicurezza di europei e americani. I leader politici europei e americani sono consapevoli di questa sconsolante verità. Ma riconoscono che la questione palestinese ha acceso passioni nel mondo musulmano e tra le minoranze islamiche in occidente. I leader credono che per placare l'estremismo islamico devono mostrarsi impegnati per la creazione di uno Stato palestinese.
(...)
Sharon ha deciso di porre fine alla commedia. Il mondo vuole uno Stato palestinese? Bene, facciamoglielo avere. Il risultato è vicino al panico dei ministeri degli Esteri in occidente e in medio oriente... Può essere che Sharon abbia capito il bluff dei governi occidentali e arabi, creando uno Stato palestinese che mostrano di volere ma in realtà temono? Li sta spingendo a dire la verità. La leadership palestinese è incapace di creare uno Stato che possa vivere in pace con chiunque. Qualcun altro deve governare questi territori violenti. Israele è stato condannato per quattro decadi per aver svolto quest'opera. Sharon ora sta dando questo compito a chiunque voglia partecipare. Nessuno vuole farlo...»
Qui dove il Mercato è sconfitto
Dietro le faccende dei faccendieri, tra Unipol e Rcs, intercettazioni e "questioni morali", tra Fazio e Ricucci, ancora tra Berlusconi e i giudici, dietro tutto questo c'è la sconfitta di un sistema incapace di riformarsi e di scegliere il mercato, descritta da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera:
«Possiamo guardare agli anni Novanta come a un'epoca di lotta fra l'antica società chiusa e corporativa (fondata su clientele e parentele) e una moderna società di mercato (fondata sulla competizione) che cercava faticosamente di aprirsi la strada e di consolidarsi. Una lotta che sembra oggi concludersi con la sconfitta o il ripiegamento della società di mercato. Per inciso, è questa la vera colpa del governo di centrodestra: non avere favorito in questi anni l'indebolimento della società corporativa a favore della società di mercato. Un esito probabilmente dovuto sia al vizio d'origine (il conflitto di interessi del premier, l'essere egli stesso il centro di un potentato insieme politico ed economico) sia alle resistenze accanite, in seno alla maggioranza, dei difensori della società corporativa».
Saturday, August 13, 2005
Appunti da spiaggia
In scorno totale degli sforzi diplomatici europei, l'ex presidente Rafsanjani ha ammonito: «Potete tentare di trascinare ancora la situazione ma la decisione dell'Iran è irreversibile». Da lunedì l'industria di conversione dell'uranio di Isfahan ha ripreso a funzionare a pieno regime, in aperto contrasto con la risoluzione dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica (Aiea), che chiede alla Repubblica islamica di giungere ad una sospensione totale di qualsiasi tipo di attività di arricchimento dell'uranio. Rafsanjani si rivolge così all'Occidente, durante la preghiera settimanale a Teheran: «Badate a non trattare l'Iran come l'Iraq o la Libia», tra il consenso della folla che scandiva slogan come "morte all'America", "morte a Israele" e "Dio è grande". «Non prendete alla leggera quello che è successo all'Aiea: è cruciale, crea delle nuove condizioni per il nostro paese e per la regione. Si è aperta una nuova pagina nella storia della rivoluzione islamica». Fonte: Ansa
Wednesday, August 03, 2005
Letture per le vacanze. Fate i bravi
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