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Sunday, July 17, 2005

La nostra laicità è già «nuova»

Il cardinale Angelo ScolaPer la Chiesa la scelta è d'obbligo: o è Stato sovrano, o è corpo intermedio

Il cardinale Angelo Scola si presenta oggi al Corriere della Sera nella veste di normale "civis" dell'urbe, rivendicando per la Chiesa il diritto a proporre la sua visione di «vita buona» nell'agone politico e invocando un patto con i non-credenti per una «nuova laicità». La concezione dei rapporti fra Stato e Chiesa che inevitabilmente deriva dalle parole di Scola la ritroviamo nel modello americano di religione civile, già apprezzato da Ratzinger e Ruini. Libertà d'espressione e d'azione senza limiti delle chiese nella società e nella politica; assenza di ogni legislazione e logica concordataria nei rapporti con lo Stato. Mentre sul primo aspetto si concentra l'offensiva per una «nuova laicità», proprio questo secondo corno del problema guarda caso sfugge a Scola e ai suoi superiori. Leggiamo:
«Continuiamo a ragionare su un'immagine vecchia dell'idea e della pratica della laicità... Si tratta di attuare una pratica e di pensare ex novo una teoria della laicità. Dobbiamo impegnarci con pazienza a rivedere le cose».
Vediamo, allora.
«Noi occidentali non possiamo continuare a pensare che la nostra visione della società civile e delle istituzioni statuali, la nostra idea di razionalità, valgano anche per le altre aree culturali, dalla islamica alla induista-buddhista...».
Come a dire che democrazia, laicità, stato di diritto non sono principi di buon governo applicabili a culture diverse dalla nostra? Questo è il relativismo che non mi convince.

La Chiesa, spiega Scola, riformula l'idea dell'origine del potere. Riconoscendo che ci sono «altri soggetti oltre a me», soggetti «di dignità e di diritti inalienabili», e che «gli do il potere di riconoscere me», è necessario «ripensare il potere come riconoscimento, e la società civile come lo spazio dialogico in cui questo riconoscimento reciproco tra persone e tra comunità si esercita, regolato dalle istituzioni statuali». Dunque, la Chiesa scende in campo, ma vediamo come.
«In questa struttura dialogica della società civile devo starci dentro accettando che la mia identità sia sempre in relazione con le identità altrui... Sono convinto che esista la verità, ma non la voglio imporre; la voglio rischiare attraverso la testimonianza. Non posso rinunciare a mettere in campo la mia idea nel gioco democratico. Lo impoverirei... Qui noi ci muoviamo da cittadini. In questo agone io sono un "civis" che esprime la sua visione di vita buona, e la pone nel confronto valorizzando tutti gli strumenti democratici previsti dalla Costituzione, dalle leggi e garantiti dal potere pubblico costituito. Io devo proporre per intero la mia idea di vita buona in competizione dialogica con le altre, altrimenti toglierei qualcosa a questa società; può non essere condivisa, ma siccome la ritengo valida dialogicamente la propongo alla libertà di tutti».
Questo passaggio è ineccepibile, ma da qui in poi partono i problemi, di duplice natura.
«Lo Stato non può pretendere di piegarmi a un'idea di neutralità in cui le soggettività personali e quelle dei corpi intermedi non si esprimano. Lo Stato deve garantire che queste soggettività non abbiano privilegi, ma sarebbe una diminutio della densità democratica chiedere a qualcuno di non far valere democraticamente la propria posizione».
Allora che la soggettività-Chiesa non abbia privilegi. Se la scelta della Chiesa è quella di una condotta a-concordataria saremmo i primi ad accoglierla. Ma una Chiesa che combatte la sua battaglia nel libero mercato delle idee, esponendosi apertamente al rischio del gioco democratico, di essere minoritaria, come avviene negli Stati Uniti e in tutte le società a pluralità di confessioni, non può, contemporaneamente, godere di un regime di protezionismo concordatario, che le assegna privilegi e benefici dovuti al fatto che essa è la religione degli italiani. L'otto per mille e l'inserimento in ruolo degli insegnanti di religione sono solo i primi di una lunga serie di privilegi.

La Chiesa dovrebbe rinunciare alla forma-Stato (certo mantenendo le sue proprietà sul suolo italiano) e accettare la libera concorrenza di altre religioni, esattamente come nel libero mercato le imprese competono tra loro per aggiudicarsi i clienti. Come conciliare la rivendicazione di diritti in democrazia riconosciuti a ogni corpo intermedio della società con l'attuale forma di Stato sovrano assunta dalla Chiesa?

I temi della rinuncia ai privilegi concordatari e alla forma Stato vengono totalmente e costantemente espunti dalle parole dei porporati e del Papa sulla «nuova laicità». Volete la bicicletta? Allora dovete pedalare da soli. Il modello americano di separazione si è dimostrato storicamente capace di tutelare sia lo Stato dalle ingerenze delle religioni, sia le religioni dall'ingerenza statale, in un paese dove oggi molti vedono la rinascita di un alto senso di religiosità. Le lezioni di Tocqueville non sembrano ancora assimilate.

Il cardinale Scola, e qui entriamo nel secondo aspetto del problema, non rinuncia a entrare nel concreto, parlando della sua «idea buona di famiglia» e dei Pacs: «... troviamo la strada per garantire i diritti - se e quando sono diritti - di tutti senza inficiare un istituto fondamentale come il matrimonio e la famiglia». All'intervistatore, il quale gli fa notare che il matrimonio fra omosessuali non è nell'agenda della politica italiana, ma i pacs sì, e sono una cosa diversa, perché «non attengono alla sfera religiosa, spirituale, ma a quella giuridica, civile», Scola risponde: «Ma io non vedo separazione fra queste due sfere. Vedo continuità nella distinzione... La funzione della legge è in ultima analisi, volenti o nolenti, quella di educare». Il libero dibattito delle idee va difeso, però alla fine si devono assumere i valori risultanti dal confronto:
«Lo Stato laico, dopo il confronto fra le parti e dopo che il popolo sovrano si è espresso, è tenuto ad assumere il risultato»... Io dico la mia idea, tu la tua; il popolo giudichi qual è la migliore e lo Stato laico la assuma. La democrazia mi pare funzioni così».
E no, caro cardinale. Nocché non funziona così, non ci siamo. Noi laici non ce l'abbiamo con la religione così, per sfizio, ma contro ogni idea di Stato etico e di legge la cui funzione è quella di «educare». Diciamo no allo Stato etico, anche se a prevalere democraticamente è l'etica di una parte maggioritaria del paese. Il principio di laicità nell'800 si caratterizzava come limite all'ingerenza della religione negli affari dello Stato, in un'epoca in cui ancora quella religiosa era l'unica proposta etica traducibile in modo coerente in termini politici.

La nostra laicità è già «nuova». Proprio il secolo delle ideologie da cui siamo usciti, il '900, ci ha insegnato che la laicità, quella «nuova», non si contrappone alla religione, bensì a qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica, negando pari dignità morale ad altre visioni morali della vita. Il diritto deve limitarsi a un minimo etico all'interno della società. Non vuol dire indifferenza a principi e valori, ma rinunciare all'uso autoritario del diritto, individuare i suoi limiti e la dimensione propria dell'etica. Il fascismo, o il regime di Saddam Hussein, erano forse stati laici? Uno Stato laico non può assumere per legge alcuna visione etica su problemi come la famiglia o la scienza, e in generale non può attribuire alle leggi, al diritto positivo, alcuna funzione «educativa». Ciò vale per la Chiesa, per i partiti, per qualsiasi normale "civis" che esprima la sua etica "buona".

1 comment:

Anonymous said...

Anch'io, nei giorni scorsi, ho espresso concetti simili, sia pure da un angolo visuale piu' "economicista":

http://phastidio.net/2005/07/04/il-mercato-delle-idee-concorrenza-o-monopolio/

Come riesca a conciliarsi la sacrosanta e sottoscrivibile richiesta della chiesa a non essere discriminata in uno stato laico con il tentativo di ribadire l'equivalenza "naturale" tra leggi civili e precetti religiosi (con la prima subordinata ai secondi), resta un'aporia, alla cui soluzione potrebbero e dovrebbero contribuire anche i vertici ecclesiastici, o almeno la parte di essi piu' sensibile al confronto culturale.