Si è concluso a tarda notte, a Palazzo Chigi, il vertice tra Romano Prodi e i capigruppo dell'Unione sulla Finanziaria. Verdi, Udeur e Italia dei valori non hanno ancora trovato un accordo. La riunione del Consiglio dei ministri è cominciata alle 10,30 proprio nel mezzo dello sciopero dei giornalisti della stampa e delle agenzie indetto dalla Fnsi fino a domenica prossima.
(RadioRadicale.it)
Confermatissime, sembrano, le misure stataliste e punitive nei confronti dei ceti medi, con l'innalzamento al 43% dell'aliquota Irpef per i redditi superiori ai 70 mila euro annui, l'aumento dei contributi per i lavoratori autonomi e i parasubordinati, la tassazione delle "rendite" finanziarie, la supertassa sui Suv, e tanto altro. Certo, non una spinta ai consumi.
Assenti, invece, riforme strutturali e minimi i tagli alla spesa.
Inoltre, la vera sorpresa potrebbe essere un'inquietante misura proibizionista: il divieto di vendita di alcolici ai minori di 18 anni.
Su tutti i fronti, quindi, il disastro, nonostante Padoa Schioppa, nel quale pure avevamo sperato, sembra ormai conclamato. Anche Sole e Corriere contro la Finanziaria con pesanti editoriali.
Gli ultimi, disperati appelli dei deputati radicali.
Friday, September 29, 2006
Un clamoroso non-detto
Su il Riformista di oggi:
Caro direttore, «dialogare» sì, come scrive Covatta, ma dicendola tutta. L'altra sera, a "Otto e mezzo", il Cardinale Barragan invitava a porsi questa domanda: «Chi è il padrone della vita? Dio, lo Stato, o l'Individuo?». Se appartiene a Dio o allo Stato, la vita è un bene indisponibile e io sono solo l'affittuario; se appartiene all'Individuo, allora sono il proprietario e decidere della mia proprietà è un mio diritto. In questo caso, a ciascuno la sua e andate in pace. Invece, se c'è un unico proprietario per tutte le vite in circolazione, cioè Dio, pretenderò che sia proibito a tutti di disporre della vita in affitto. Ovviamente ognuno è libero di rispondere come vuole, e di comportarsi di conseguenza, ma c'è un clamoroso non-detto. Tra le due parti che dovrebbero negoziare una soluzione legislativa c'è un rapporto tremendamente impari. I primi vorrebbero semplicemente che a decidere della propria vita fosse il malato, senza imporre nulla a chi crede che in qualsiasi condizione vada vissuta. I secondi, al contrario, credendo la vita un bene indisponibile, vorrebbero impedire a tutti, anche a chi per sé volesse l'eutanasia, di disporne, per non far dispiacere a Dio o per non contraddire l'ordine naturale (che poi è culturale) delle cose. Se questa disparità non viene fuori, il pubblico viene imbrogliato e non di rado il prevaricatore passa per ragionevole.
Caro direttore, «dialogare» sì, come scrive Covatta, ma dicendola tutta. L'altra sera, a "Otto e mezzo", il Cardinale Barragan invitava a porsi questa domanda: «Chi è il padrone della vita? Dio, lo Stato, o l'Individuo?». Se appartiene a Dio o allo Stato, la vita è un bene indisponibile e io sono solo l'affittuario; se appartiene all'Individuo, allora sono il proprietario e decidere della mia proprietà è un mio diritto. In questo caso, a ciascuno la sua e andate in pace. Invece, se c'è un unico proprietario per tutte le vite in circolazione, cioè Dio, pretenderò che sia proibito a tutti di disporre della vita in affitto. Ovviamente ognuno è libero di rispondere come vuole, e di comportarsi di conseguenza, ma c'è un clamoroso non-detto. Tra le due parti che dovrebbero negoziare una soluzione legislativa c'è un rapporto tremendamente impari. I primi vorrebbero semplicemente che a decidere della propria vita fosse il malato, senza imporre nulla a chi crede che in qualsiasi condizione vada vissuta. I secondi, al contrario, credendo la vita un bene indisponibile, vorrebbero impedire a tutti, anche a chi per sé volesse l'eutanasia, di disporne, per non far dispiacere a Dio o per non contraddire l'ordine naturale (che poi è culturale) delle cose. Se questa disparità non viene fuori, il pubblico viene imbrogliato e non di rado il prevaricatore passa per ragionevole.
Volgarità e inquisizioni zdanoviane
Editoriale indubbiamente volgare quello di oggi su Il Foglio contro Emma Bonino. Al di là del merito delle questioni, sulle quali sono in parte d'accordo, viene usato il solito insulto alla Bonino protesi di Pannella, prima, e di Prodi adesso:
«Attacco volgaruccio, si può dire? Sì, si può dire, è veramente volgarotta la prosa del Foglio, che poi in genere ha prosa più tagliente e più misurata. Per di più gli editoriali in genere del Foglio sono tre, oggi sono quattro... un indizio in più, diremmo, se fossimo degli inquisitori, che a scrivere è stata non una delle firme solite ma, diciamo così, un parvenu. Andiamo avanti e... dalla... dalla questione... - che naturalmente ha tutto il diritto di esprimere tutte le critiche che vuole - ci mancherebbe altro - alle quali sarebbe poi bene che sullo stesso Foglio si facesse rispondere Emma Bonino, magari per inserire un dibattito che pure è interessante, perché il tema "Niente soldi ai dittatori" è oggettivamente complicato da portare avanti, questo immagino se ne rendano conto tutti».
Stampa e regime, 29 settembre (min. 01.04.13)
Dàgli al "traditore", dunque? Assai zdanoviano, non c'è che dire.
«Emma Bonino ha il vizio (e i pregi) del primo della classe. Pannella insegnava "basta soldi ai dittatori". Ora a dettare è il Professore e la secchiona diligentemente esegue. Troppo zelo, cara Bonino».Tuttavia, sentite come commenta Massimo Bordin, nella rassegna stampa odierna su Radio Radicale:
«Attacco volgaruccio, si può dire? Sì, si può dire, è veramente volgarotta la prosa del Foglio, che poi in genere ha prosa più tagliente e più misurata. Per di più gli editoriali in genere del Foglio sono tre, oggi sono quattro... un indizio in più, diremmo, se fossimo degli inquisitori, che a scrivere è stata non una delle firme solite ma, diciamo così, un parvenu. Andiamo avanti e... dalla... dalla questione... - che naturalmente ha tutto il diritto di esprimere tutte le critiche che vuole - ci mancherebbe altro - alle quali sarebbe poi bene che sullo stesso Foglio si facesse rispondere Emma Bonino, magari per inserire un dibattito che pure è interessante, perché il tema "Niente soldi ai dittatori" è oggettivamente complicato da portare avanti, questo immagino se ne rendano conto tutti».
Stampa e regime, 29 settembre (min. 01.04.13)
Dàgli al "traditore", dunque? Assai zdanoviano, non c'è che dire.
La guerra in Iraq ha davvero alimentato il terrorismo?
Che fosse solo l'ultimo episodio della "guerra" della Cia - da sempre nell'agenzia è maggioritario l'approccio "realista", scettico nei confronti della dottrina Bush - contro l'amministrazione, o che fosse uno scoop di un giornale liberal destinato a infiammare la campagna elettorale per il Congresso, fatto sta che un rapporto di ben 16 agenzie d'intelligence, coordinate dal National Intelligence Council, di cui il New York Times ha anticipato alcune conclusioni, sembrava rivelare che la guerra in Iraq non avesse indebolito, ma alimentato il terrorismo: dando nuove motivazioni agli estremisti, offrendo un nuovo luogo di reclutamento e generando una nuova generazione di jihadisti in grado di riprodursi rapidamente.
Ovviamente, da noi la stampa, ma anche qualche emittente radiofonica di solito attenta, ha preso per oro colato le indiscrezioni raccolte dal New York Times da fonti anonime della Cia. Ma quanto gli stralci pubblicati corrispondevano al senso del rapporto? Poco, sembra, visto che il presidente Bush ha subito deciso di desecretare le conclusioni, quattro pagine sulle trenta dell'intero documento, del National Intelligence Estimate 2006.
Com'era facilmente prevedibile, quelle pagine contengono molti giudizi, valutazioni complesse, che a volte si completano, a volte sembrano contraddirsi. Insomma, c'è un po' di tutto ed è facile estrarre ciò che conviene per sostenere le proprie tesi, tentazione che si fa quasi irresistibile in campagna elettorale.
Christian Rocca, su Il Foglio, traccia un quadro più obiettivo e completo di quello che si è letto su altri giornali, che hanno voluto vedere nel rapporto la prova definitiva che la guerra in Iraq fu un grosso sbaglio.
Il documento non tratta della guerra in Iraq come argomento principale, e su di essa non scrive un giudizio definitivo. Anzi, conferma i successi delle operazioni antiterrorismo, ribadisce la reale pericolosità della minaccia e sposa in pieno la strategia di lungo termine di Bush per vincere la guerra: la democrazia e le riforme politiche in Medio Oriente. Certo, il NIE dice che la guerra in Iraq è, ad oggi, la principale causa dei jihadisti, ma ciò che non dice - e non può dire - è che prima e oltre l'Iraq il terrosimo sia cresciuto a causa delle politiche americane.
Occorre comprendere, sottolinea il blog Early Warning, sul Washington Post, che «non ci troviamo di fronte a un terrorismo causato dalla guerra in Iraq, né stiamo combattendo migliaia, se non milioni, di jihadisti, a causa di incomprensioni sulla bontà dell'America. Stiamo combattendo a causa dell'America stessa».
Sempre Early Warning conclude che «la semplicistica storiella che i Democratici stanno propagandando riguarda solo l'Iraq: ritirare le truppe, battere i Repubblicani, riordinare la politica estera dando diritti umani ai prigionieri ed essendo più carini nel mondo - e voilà - il terrorismo passa». Purtroppo non è così. Agli occhi dei jihadisti, e di molta parte del mondo, gli Stati Uniti sono in Iraq dal 1991. In altre parole, anche la situazione in Iraq e in Medio Oriente prima della guerra era vista dai fondamentalisti come motivo sufficiente a giustificare la violenza contro l'America. La guerra al terrorismo dovrebbe essere combattuta altrove piuttosto che in Iraq? Ebbene, quell'altrove diverrebbe comunque la cause célèbre per i jihadisti.
Strano, anzi, che il rapporto non citi il conflitto israelo-palestinese come fonte di tensione e motivazione per i jihadisti, o almeno come fattore nel globale sentimento anti-americano. Mark Goldblatt, su National Review, ci ricorda quali sono gli altri nostri "errori" che alimentano il terrorismo:
Mike Allen, sul Time, osserva che, «scorrendolo velocemente», il testo diffuso del NIE «suona molto come un discorso del Presidente Bush: è essenziale vincere in Iraq. La democrazia è l'antidoto al terrorismo. I terroristi stanno cercando di ucciderci». In molti passaggi, come questo, si ribadiscono concetti ripetutamente espressi dal presidente nei suoi discorsi:
Lee Smith, sul Weekly Standard, non si dice stupito: è ovvio che una guerra contro degli estremisti porti qualcuno a divenire più estremista. Si veda, per esempio, la reazione dell'intera regione alla guerra di Israele contro Hezbollah. Ma anche il discorso del Papa in Germania è servito agli islamisti come pretesto per incendiare e assassinare... Così come la pubblicazione delle vignette danesi su Maometto, la distruzione di una copia del Corano a Guantanamo, e il film di Theo van Gogh in Olanda.
«Non si tratta di persone razionali, ma di fanatici suicidi in cerca di un teatro dove mettere in pratica i loro già radicali impulsi». E tutto sommato, conclude Smith, «aprire un fronte in Iraq, nel cuore del Medio Oriente, lontano dalle città e dai cittadini americani, dove i soldati americani possono uccidere gli estremisti, non è un'idea così malvagia». Un elemento che non è mai stato aggiunto alle motivazioni ufficiali della guerra in Iraq, ma il cui peso strategico sulla decisione finale non è da sottovalutare. Aprire un fronte aperto con i jihadisti, a "casa loro", significa attirarne la quantità maggiore possibile, impegnarne, ed eleminarne, un numero rilevante.
Ovviamente, da noi la stampa, ma anche qualche emittente radiofonica di solito attenta, ha preso per oro colato le indiscrezioni raccolte dal New York Times da fonti anonime della Cia. Ma quanto gli stralci pubblicati corrispondevano al senso del rapporto? Poco, sembra, visto che il presidente Bush ha subito deciso di desecretare le conclusioni, quattro pagine sulle trenta dell'intero documento, del National Intelligence Estimate 2006.
Com'era facilmente prevedibile, quelle pagine contengono molti giudizi, valutazioni complesse, che a volte si completano, a volte sembrano contraddirsi. Insomma, c'è un po' di tutto ed è facile estrarre ciò che conviene per sostenere le proprie tesi, tentazione che si fa quasi irresistibile in campagna elettorale.
Christian Rocca, su Il Foglio, traccia un quadro più obiettivo e completo di quello che si è letto su altri giornali, che hanno voluto vedere nel rapporto la prova definitiva che la guerra in Iraq fu un grosso sbaglio.
«Il testo invece dice una cosa diversa: il fronte centrale di questa battaglia contro il jihad, cioè l'Iraq, ovviamente ha creato una nuova generazione di guerrasantieri, i quali se saranno percepiti come i vincitori saranno in grado di ispirare nuovi militanti pronti a combattere altrove. Al contrario, se i jihadisti lasceranno l'Iraq da sconfitti, nel mondo ci saranno meno terroristi disponibili a continuare questa guerra santa. L'intelligence quindi riconosce la crescente e reale minaccia terroristica causata dall'aver fatto diventare l'Iraq il fronte centrale della guerra, ma asserisce che, se il mondo libero riuscirà a sconfiggere in loco il jihad iracheno, le prospettive di sicurezza globali saranno più rosee».In pratica, osserva Rocca, «queste conclusioni sembrano una sconfessione della politica del ritiro dall'Iraq, più che della decisione di invaderlo» e di portare in Medio Oriente il fronte della guerra al terrorismo.
Il documento non tratta della guerra in Iraq come argomento principale, e su di essa non scrive un giudizio definitivo. Anzi, conferma i successi delle operazioni antiterrorismo, ribadisce la reale pericolosità della minaccia e sposa in pieno la strategia di lungo termine di Bush per vincere la guerra: la democrazia e le riforme politiche in Medio Oriente. Certo, il NIE dice che la guerra in Iraq è, ad oggi, la principale causa dei jihadisti, ma ciò che non dice - e non può dire - è che prima e oltre l'Iraq il terrosimo sia cresciuto a causa delle politiche americane.
Occorre comprendere, sottolinea il blog Early Warning, sul Washington Post, che «non ci troviamo di fronte a un terrorismo causato dalla guerra in Iraq, né stiamo combattendo migliaia, se non milioni, di jihadisti, a causa di incomprensioni sulla bontà dell'America. Stiamo combattendo a causa dell'America stessa».
«La jihad in Iraq sta formando una nuova generazione di leader e militanti... Il conflitto in Iraq è diventato la cause célèbre per i jihadisti. Questo conflitto sta alimentando un profondo rancore nei confronti degli Usa all'interno del mondo islamico e costituisce il brodo di coltura ideale dei sostenitori del movimento jihadista».E' questo il passaggio del NIE che inchioderebbe la politica dell'amministrazione. Ma l'Iraq, in un altro passaggio, risulta essere solo uno dei quattro fattori di diffusione del terrorismo, e il meno sistemico. Inoltre, il documento è chiarissimo nel sostenere che ad avere l'effetto di alimentare il terrorismo e il reclutamento è la sensazione, la strana speranza, che l'America possa essere sconfitta. Per questo, dare segni di cedimento, o, peggio, ritirarsi, sarebbe la peggior soluzione.
Sempre Early Warning conclude che «la semplicistica storiella che i Democratici stanno propagandando riguarda solo l'Iraq: ritirare le truppe, battere i Repubblicani, riordinare la politica estera dando diritti umani ai prigionieri ed essendo più carini nel mondo - e voilà - il terrorismo passa». Purtroppo non è così. Agli occhi dei jihadisti, e di molta parte del mondo, gli Stati Uniti sono in Iraq dal 1991. In altre parole, anche la situazione in Iraq e in Medio Oriente prima della guerra era vista dai fondamentalisti come motivo sufficiente a giustificare la violenza contro l'America. La guerra al terrorismo dovrebbe essere combattuta altrove piuttosto che in Iraq? Ebbene, quell'altrove diverrebbe comunque la cause célèbre per i jihadisti.
Strano, anzi, che il rapporto non citi il conflitto israelo-palestinese come fonte di tensione e motivazione per i jihadisti, o almeno come fattore nel globale sentimento anti-americano. Mark Goldblatt, su National Review, ci ricorda quali sono gli altri nostri "errori" che alimentano il terrorismo:
«Anche il sostegno dell'America a Israele fu citato da Osama per giustificare la sua jihad terrorista. Dovremmo ritirare quel sostegno? E la nostra tolleranza verso, per usare le parole di Osama, «atti immorali di fornicazione, omosessualità, inebrianti, il gioco d'azzardo e le speculazioni»? Se la nostra «immoralità» viene utilizzata da Al Qaeda per reclutare terroristi, dovremmo allora andarci già pesante con Snoop Dogg, Will and Grace, Budweiser, Las Vegas, e Citibank? E cosa dire del nostro ostinato rifiuto di convertirci all'Islam - agli occhi di Osama, forse, la più grave delle provocazioni? Dovremmo allora rinunciare alla nostra eredità giudaico-cristiana, o abbandonare la separazione fra Stato e Chiesa e adottare la sharia per sfuggire all'ira di al Qaeda?»Dobbiamo scordarci, conclude Goldblatt, dell'idea che siamo noi le radici della causa del terrorismo. E' l'Islam, non l'America, «che deve cambiare affinché il terrorismo islamico abbia fine».
Mike Allen, sul Time, osserva che, «scorrendolo velocemente», il testo diffuso del NIE «suona molto come un discorso del Presidente Bush: è essenziale vincere in Iraq. La democrazia è l'antidoto al terrorismo. I terroristi stanno cercando di ucciderci». In molti passaggi, come questo, si ribadiscono concetti ripetutamente espressi dal presidente nei suoi discorsi:
«Se nei prossimi cinque anni si riuscirà a dare impulso alle iniziative per l'avvio delle riforme democratiche nella maggioranza dei Paesi islamici, la partecipazione politica attiva della popolazione finirà con ogni probabilità per scavare un solco tra violenti e moderati. Ciò non di meno, le stesse riforme e le transizioni potenzialmente destabilizzanti che le accompagneranno finiranno per creare nuove opportunità per i jihadisti».«E' la "freedom agenda" del Presidente — nota Allen - la sua convinzione che la democrazia in Medio Oriente renderebbe davvero più sicuri gli americani».
Lee Smith, sul Weekly Standard, non si dice stupito: è ovvio che una guerra contro degli estremisti porti qualcuno a divenire più estremista. Si veda, per esempio, la reazione dell'intera regione alla guerra di Israele contro Hezbollah. Ma anche il discorso del Papa in Germania è servito agli islamisti come pretesto per incendiare e assassinare... Così come la pubblicazione delle vignette danesi su Maometto, la distruzione di una copia del Corano a Guantanamo, e il film di Theo van Gogh in Olanda.
«Non si tratta di persone razionali, ma di fanatici suicidi in cerca di un teatro dove mettere in pratica i loro già radicali impulsi». E tutto sommato, conclude Smith, «aprire un fronte in Iraq, nel cuore del Medio Oriente, lontano dalle città e dai cittadini americani, dove i soldati americani possono uccidere gli estremisti, non è un'idea così malvagia». Un elemento che non è mai stato aggiunto alle motivazioni ufficiali della guerra in Iraq, ma il cui peso strategico sulla decisione finale non è da sottovalutare. Aprire un fronte aperto con i jihadisti, a "casa loro", significa attirarne la quantità maggiore possibile, impegnarne, ed eleminarne, un numero rilevante.
I giornalisti scioperano: timing sospetto
Scusa tantissimo il fuoritema, JimMomo.
Ma c'è davvero un timing sospetto e particolare: la FNSI indice due giorni di sciopero dei giornalisti proprio nel giorno di presentazione della finanziaria Prodi-Padoa Schioppa...
Una mega velina pro centrosinistra? Solo una coincidenza? A pensar male si fa peccato, ma si indovina.
Radio Radicale sarà l'unica ad informare?
Grazie Remember, la tua illazione è fondata. Per quanto riguarda Radio Radicale, farà del suo meglio, anche se anch'essa è infestata da logiche corporative e sindacatocratiche.
Ma c'è davvero un timing sospetto e particolare: la FNSI indice due giorni di sciopero dei giornalisti proprio nel giorno di presentazione della finanziaria Prodi-Padoa Schioppa...
Una mega velina pro centrosinistra? Solo una coincidenza? A pensar male si fa peccato, ma si indovina.
Radio Radicale sarà l'unica ad informare?
Grazie Remember, la tua illazione è fondata. Per quanto riguarda Radio Radicale, farà del suo meglio, anche se anch'essa è infestata da logiche corporative e sindacatocratiche.
Thursday, September 28, 2006
Chi è il «padrone» della vita?
Giuliano Ferrara riesce a metter su una puntata di 8 e mezzo, su eutanasia, testamento biologico e caso Welby, senza invitare, né interpellare, nessuno delle uniche due associazioni politiche favorevoli all'eutanasia, nelle quali, tra l'altro, lo stesso Welby ha un ruolo di primo piano, cosa inconsueta per un malato terminale: la Coscioni e Radicali italiani. Vabbè, passi, ormai su questi temi le trasmissioni di Ferrara sono blindate.
Di tutto si è parlato, infatti, tranne che di eutanasia, tema che costringe radicalmente a confrontarsi con la «proprietà» della vita.
E pensare che all'inizio della discussione questo tema veniva preso di petto proprio dal Cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Sanità, che nei giorni scorsi aveva definito l'eutanasia «una forma di assassinio». Ebbene, il Cardinale arriva subito al punto, spiegando che dobbiamo preliminarmente porci una domanda: «Chi è il padrone della vita? [il vocabolo usato è stato proprio "padrone"] Dio, lo Stato, o l'Individuo?». «Crediamo - aggiunge - che la sofferenza abbia un senso?»
E' dalle risposte a queste domande che dipende il nostro pensare e il nostro agire davanti alla morte e alla sofferenza. Se appartiene a Dio o allo Stato, la vita è un bene indisponibile e io sono solo l'affittuario; se appartiene all'Individuo, allora sono il proprietario e decidere della mia proprietà è un mio diritto. In questo caso, a ciascuno il suo. Invece, se c'è un unico proprietario per tutte le vite in circolazione, cioè Dio, allora tutti dovranno uniformarsi a non disporre della vita che hanno in affitto.
Slendido assist, questo incipit del Cardinale, che consente subito di porre la questione su un binario semplice e comprensibile a tutti. Persino Ferrara ne è attratto e spinge gli interlocutori a esprimersi sulle due domande. Invece, Stefano Rodotà e Ignazio Marino (Ds), laici molto preparati e molto perbene, anziché rispondere alle domande del Cardinale, che invero per dei laici non dovrebbero essere difficili, e su quelle incalzarlo, raccolgono le concilianti aperture di Barragan e si concentrano su accanimento terapeutico e testamento biologico.
La trasmissione fila via liscia in un sorprendente clima di concordia ordinum, le sfumature tra gli ospiti sono impercettibili, tutti sembrano dire cose sensate. Luci e telecamere sono tutte per il «Principe della Chiesa», come lo definisce Ferrara. Gli obiettivi indugiano sul razionale gesticolare della mani, sullo splendente crocefisso dorato che pende sul petto, sui volti incantati e attenti di Rodotà e Marino, che ascoltano il saggio e amorevole eloquio del Cardinale, che parla di amore, arte del morire, accettazione del dolore, di trattamenti «inappropriati», e così via.
L'ipocrisia di Barragan raggiunge il culmine quando, verso la fine, in un impeto di generosità verso i presenti, così rispettosi, accenna che la vita è nientemeno che «proprietà» di tutti e tre: Dio, Stato e Individuo. Già, però ci dev'essere un proprietario meno uguale degli altri se l'ultima parola su di essa spetta a Dio, attraverso lo Stato.
Ma torniamo alla domanda iniziale: «Chi è il padrone della vita? Dio, lo Stato, o l'Individuo?» Ovviamente ognuno è libero di rispondere come vuole, e quindi di comportarsi di conseguenza, ma qui viene il punto. E' sott'inteso che bisogna trovare un accordo tra chi ritiene che la vita sia proprietà dell'Individuo, e chi crede, invece, che appartenga a Dio e che sia, quindi, un bene indisponibile.
Ma c'è un clamoroso non-detto. Tra queste due posizioni c'è un rapporto tremendamente impari. I primi vorrebbero semplicemente poter decidere della propria vita, non obbligare, né convincere della loro scelta chi invece crede che Dio sia il «padrone» della vita e che la sofferenza sia un dono da sopportare. Insomma, liberissimi di morire lentamente e con dolore. I secondi, al contrario, poiché credono la vita un bene indisponibile pretendono di impedire a tutti, anche a chi la pensa diversamente, di disporne, per non far dispiacere a Dio o per non contraddire l'ordine naturale (che poi è culturale) delle cose.
La concezione che il Cardinale Barragan ha della vita e della morte è rispettabilissima, gli si dovrebbe però chiedere perché vuole farla (pre)valere per legge anche su chi ne ha una diversa.
Come si fa - girerei questa domanda a Rodotà e Marino - a starsene lì tranquilli a discutere amabilmente con Ferrara e il suo «Principe della Chiesa» senza smascherare la condizione così impari in cui le due parti si trovano nel negoziare una soluzione legislativa? Se in dibattiti come quelli di ieri sera non viene fuori questa disparità, il pubblico viene imbrogliato. Non di rado, infatti, accade che il "prevaricatore" passi per "illuminato" e "ragionevole", mentre in realtà ti sta sfilando una ad una le libertà dalle tasche.
Sospettiamo che se fosse per il Cardinale Barragan quei trattamenti «inappropriati» che costituiscono «accanimento terapeutico» sarebbero proibiti anche a chi fosse disponibile a conviverci, in modo che la morte sopraggiunga in modo naturale con tutto il dolore che il Signore ha voluto che comportasse, con «l'amore come unica cura palliativa».
Di tutto si è parlato, infatti, tranne che di eutanasia, tema che costringe radicalmente a confrontarsi con la «proprietà» della vita.
E pensare che all'inizio della discussione questo tema veniva preso di petto proprio dal Cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Sanità, che nei giorni scorsi aveva definito l'eutanasia «una forma di assassinio». Ebbene, il Cardinale arriva subito al punto, spiegando che dobbiamo preliminarmente porci una domanda: «Chi è il padrone della vita? [il vocabolo usato è stato proprio "padrone"] Dio, lo Stato, o l'Individuo?». «Crediamo - aggiunge - che la sofferenza abbia un senso?»
E' dalle risposte a queste domande che dipende il nostro pensare e il nostro agire davanti alla morte e alla sofferenza. Se appartiene a Dio o allo Stato, la vita è un bene indisponibile e io sono solo l'affittuario; se appartiene all'Individuo, allora sono il proprietario e decidere della mia proprietà è un mio diritto. In questo caso, a ciascuno il suo. Invece, se c'è un unico proprietario per tutte le vite in circolazione, cioè Dio, allora tutti dovranno uniformarsi a non disporre della vita che hanno in affitto.
Slendido assist, questo incipit del Cardinale, che consente subito di porre la questione su un binario semplice e comprensibile a tutti. Persino Ferrara ne è attratto e spinge gli interlocutori a esprimersi sulle due domande. Invece, Stefano Rodotà e Ignazio Marino (Ds), laici molto preparati e molto perbene, anziché rispondere alle domande del Cardinale, che invero per dei laici non dovrebbero essere difficili, e su quelle incalzarlo, raccolgono le concilianti aperture di Barragan e si concentrano su accanimento terapeutico e testamento biologico.
La trasmissione fila via liscia in un sorprendente clima di concordia ordinum, le sfumature tra gli ospiti sono impercettibili, tutti sembrano dire cose sensate. Luci e telecamere sono tutte per il «Principe della Chiesa», come lo definisce Ferrara. Gli obiettivi indugiano sul razionale gesticolare della mani, sullo splendente crocefisso dorato che pende sul petto, sui volti incantati e attenti di Rodotà e Marino, che ascoltano il saggio e amorevole eloquio del Cardinale, che parla di amore, arte del morire, accettazione del dolore, di trattamenti «inappropriati», e così via.
L'ipocrisia di Barragan raggiunge il culmine quando, verso la fine, in un impeto di generosità verso i presenti, così rispettosi, accenna che la vita è nientemeno che «proprietà» di tutti e tre: Dio, Stato e Individuo. Già, però ci dev'essere un proprietario meno uguale degli altri se l'ultima parola su di essa spetta a Dio, attraverso lo Stato.
Ma torniamo alla domanda iniziale: «Chi è il padrone della vita? Dio, lo Stato, o l'Individuo?» Ovviamente ognuno è libero di rispondere come vuole, e quindi di comportarsi di conseguenza, ma qui viene il punto. E' sott'inteso che bisogna trovare un accordo tra chi ritiene che la vita sia proprietà dell'Individuo, e chi crede, invece, che appartenga a Dio e che sia, quindi, un bene indisponibile.
Ma c'è un clamoroso non-detto. Tra queste due posizioni c'è un rapporto tremendamente impari. I primi vorrebbero semplicemente poter decidere della propria vita, non obbligare, né convincere della loro scelta chi invece crede che Dio sia il «padrone» della vita e che la sofferenza sia un dono da sopportare. Insomma, liberissimi di morire lentamente e con dolore. I secondi, al contrario, poiché credono la vita un bene indisponibile pretendono di impedire a tutti, anche a chi la pensa diversamente, di disporne, per non far dispiacere a Dio o per non contraddire l'ordine naturale (che poi è culturale) delle cose.
La concezione che il Cardinale Barragan ha della vita e della morte è rispettabilissima, gli si dovrebbe però chiedere perché vuole farla (pre)valere per legge anche su chi ne ha una diversa.
Come si fa - girerei questa domanda a Rodotà e Marino - a starsene lì tranquilli a discutere amabilmente con Ferrara e il suo «Principe della Chiesa» senza smascherare la condizione così impari in cui le due parti si trovano nel negoziare una soluzione legislativa? Se in dibattiti come quelli di ieri sera non viene fuori questa disparità, il pubblico viene imbrogliato. Non di rado, infatti, accade che il "prevaricatore" passi per "illuminato" e "ragionevole", mentre in realtà ti sta sfilando una ad una le libertà dalle tasche.
Sospettiamo che se fosse per il Cardinale Barragan quei trattamenti «inappropriati» che costituiscono «accanimento terapeutico» sarebbero proibiti anche a chi fosse disponibile a conviverci, in modo che la morte sopraggiunga in modo naturale con tutto il dolore che il Signore ha voluto che comportasse, con «l'amore come unica cura palliativa».
Wednesday, September 27, 2006
Il ministro e il dissidente
"Cosa dovevo fare?". «Un incidente diplomatico con il presidente Prodi in piena Pechino sulla revoca dell'embargo delle armi? Questo non avrebbe fatto fare un passo avanti ai cinesi, però avrebbe alimentato il cicaleccio italiano per molto tempo». Sarebbe invece «utile che parlassimo di cos'è oggi il mondo asiatico, di che ruolo vogliamo far giocare alla Cina. La persuasione è un'opera lunga, paziente, ma irrinunciabile. Nessuno ha interesse a che la Cina esploda, noi abbiamo l'interesse che diventi un protagonista responsabile delle cose del mondo e delle sue... e badate che in Cina è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo... a me non costava nulla mettermi un simpatico cartello e fare un giretto a Tien An Men. Questo forse avrebbe dato una fotografia su un giornale italiano, ma poco avrebbe aiutato a strappare qualche minimo impegno in più».
E' il passaggio in cui Emma Bonino, parlando alla Direzione nazionale della Rosa nel Pugno, ha voluto replicare - e gliene sono sinceramente grato - alle obiezioni che ho avuto occasione di muovere (in un articolo su L'Opinione e in un post su questo blog) alle dichiarazioni di Prodi negli incontri ufficiali a Pechino e al suo silenzio riguardo le posizioni espresse dal premier a favore sia della revoca dell'embargo europeo sulle armi alla Cina sia della politica di "una sola Cina".
Oggi, Emma Bonino è intervenuta in aula, alla Camera, per rispondere a due interrogazioni a risposta diretta (3-00258: Volonté e altri; 3-00259: Raisi e altri), entrambe sulla visita del Governo in Cina e sul rapporto fra relazioni commerciali e rispetto dei diritti umani e politici.
La visita in Cina, ha rivendicato, «non ha fatto venir meno, ma è stata un'occasione per ribadire anche a Pechino» la questione dei diritti umani. Non si può negare, è stato così. E da ministro del Commercio Estero ha aggiunto: «Dobbiamo capire se, avendo il compito di promuovere le imprese, il ministro del Commercio Estero può andare solo in Svezia o in Svizzera...»
Naturalmente ben vengano relazioni commerciali con la Cina. L'isolamento finirebbe inevitabilmente per rafforzare la presa del regime sulla società e l'apertura commerciale, anzi, è comunque un veicolo essenziale di trasmissione di valori e di cultura. Ben poco peso hanno però le dichiarazioni sui diritti umani e le richieste di apertura democratica - che ci sono state sia da parte di Prodi che della Bonino - se nel contempo si sposano due dei pilastri della politica estera di Pechino a chiara impronta nazionalista: la fine dell'embargo europeo sulle armi e la politica di "una sola Cina".
Quella della revoca dell'embargo «è una questione complessa», si è difesa in aula la Bonino, limitandosi a ricordare che Prodi non ha detto «nulla di diverso da quanto già espresso da Ciampi, Fini e Berlusconi nella passata legislatura» a Pechino. Già, forse proprio questo è il problema, è che ha assicurato al Governo cinese lo stesso tipo di sostegno.
Accertato che in Cina «è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo», siamo sicuri che le posizioni su cui Prodi ha schierato l'Italia servano all'ala aperturista e riformatrice di quel dibattito? Non fanno, piuttosto, il gioco dell'ala nazionalista?
Neanche finivo, l'altro giorno, di buttare giù queste domande, che la risposta giungeva da Wei Jingsheng, dissidente politico cinese e membro del Partito Radicale Transnazionale, cioè compagno di partito della Bonino. Jingsheng, durante la sessione del Consiglio Onu sui Diritti Umani a Ginevra (insomma, non al solito convegno di dissidenti) si esprimeva senza mezzi termini contro la sospensione dell'embargo sulle armi nei confronti del regime cinese: «La decisione da parte dell'Unione Europea di togliere l'embargo, avrebbe l'effetto di rafforzare la parte più intransigente ed autoritaria all'interno del Partito Comunista Cinese, e di incoraggiarlo a continuare la pianificazione della guerra contro Taiwan; un conflitto, quello contro Taiwan destinato a coinvolgere gli Stati Uniti, ma anche la stessa Unione Europea e destinato a destabilizzare il continente asiatico».
«Dopo la reiterazione da parte del Governo Prodi della posizione italiana, già espressa dal Governo Berlusconi, a favore della sospensione dell'embargo delle armi - ha commentato Matteo Mecacci, rappresentante del PRT all'Onu - è essenziale che il Parlamento italiano organizzi al più presto un'audizione con la presenza dei più importanti dissidenti politici cinesi, e adotti una risoluzione per opporsi a questa decisione del Governo».
E' il passaggio in cui Emma Bonino, parlando alla Direzione nazionale della Rosa nel Pugno, ha voluto replicare - e gliene sono sinceramente grato - alle obiezioni che ho avuto occasione di muovere (in un articolo su L'Opinione e in un post su questo blog) alle dichiarazioni di Prodi negli incontri ufficiali a Pechino e al suo silenzio riguardo le posizioni espresse dal premier a favore sia della revoca dell'embargo europeo sulle armi alla Cina sia della politica di "una sola Cina".
Oggi, Emma Bonino è intervenuta in aula, alla Camera, per rispondere a due interrogazioni a risposta diretta (3-00258: Volonté e altri; 3-00259: Raisi e altri), entrambe sulla visita del Governo in Cina e sul rapporto fra relazioni commerciali e rispetto dei diritti umani e politici.
La visita in Cina, ha rivendicato, «non ha fatto venir meno, ma è stata un'occasione per ribadire anche a Pechino» la questione dei diritti umani. Non si può negare, è stato così. E da ministro del Commercio Estero ha aggiunto: «Dobbiamo capire se, avendo il compito di promuovere le imprese, il ministro del Commercio Estero può andare solo in Svezia o in Svizzera...»
Naturalmente ben vengano relazioni commerciali con la Cina. L'isolamento finirebbe inevitabilmente per rafforzare la presa del regime sulla società e l'apertura commerciale, anzi, è comunque un veicolo essenziale di trasmissione di valori e di cultura. Ben poco peso hanno però le dichiarazioni sui diritti umani e le richieste di apertura democratica - che ci sono state sia da parte di Prodi che della Bonino - se nel contempo si sposano due dei pilastri della politica estera di Pechino a chiara impronta nazionalista: la fine dell'embargo europeo sulle armi e la politica di "una sola Cina".
Quella della revoca dell'embargo «è una questione complessa», si è difesa in aula la Bonino, limitandosi a ricordare che Prodi non ha detto «nulla di diverso da quanto già espresso da Ciampi, Fini e Berlusconi nella passata legislatura» a Pechino. Già, forse proprio questo è il problema, è che ha assicurato al Governo cinese lo stesso tipo di sostegno.
Accertato che in Cina «è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo», siamo sicuri che le posizioni su cui Prodi ha schierato l'Italia servano all'ala aperturista e riformatrice di quel dibattito? Non fanno, piuttosto, il gioco dell'ala nazionalista?
Neanche finivo, l'altro giorno, di buttare giù queste domande, che la risposta giungeva da Wei Jingsheng, dissidente politico cinese e membro del Partito Radicale Transnazionale, cioè compagno di partito della Bonino. Jingsheng, durante la sessione del Consiglio Onu sui Diritti Umani a Ginevra (insomma, non al solito convegno di dissidenti) si esprimeva senza mezzi termini contro la sospensione dell'embargo sulle armi nei confronti del regime cinese: «La decisione da parte dell'Unione Europea di togliere l'embargo, avrebbe l'effetto di rafforzare la parte più intransigente ed autoritaria all'interno del Partito Comunista Cinese, e di incoraggiarlo a continuare la pianificazione della guerra contro Taiwan; un conflitto, quello contro Taiwan destinato a coinvolgere gli Stati Uniti, ma anche la stessa Unione Europea e destinato a destabilizzare il continente asiatico».
«Dopo la reiterazione da parte del Governo Prodi della posizione italiana, già espressa dal Governo Berlusconi, a favore della sospensione dell'embargo delle armi - ha commentato Matteo Mecacci, rappresentante del PRT all'Onu - è essenziale che il Parlamento italiano organizzi al più presto un'audizione con la presenza dei più importanti dissidenti politici cinesi, e adotti una risoluzione per opporsi a questa decisione del Governo».
Non distruggete quelle intercettazioni
Due parole sul caso intercettazioni illegali alla Telecom. Non vanno distrutte, ma conservate. Mancherebbe, in sede processuale, il corpo del reato sulla base del quale condannare i responsabili. Ma soprattutto, questa fretta bipartisan di bruciare tutto è molto, molto sospetta. E' ovvio che il contenuto del materiale, poiché raccolto illegalmente, non può essere usato in sede giudiziaria contro gli utenti intercettati o terzi di cui si vengono a conoscere dati e fatti. Ed è altresì ovvio che nulla di quel materiale dev'essere pubblicato in qualsiasi forma. Di questo si dovrebbe occupare il decreto legge.
Tuttavia, consapevoli del contesto oligarchico del nostro paese, non possiamo credere che al solo preannunciare l'imminente distruzione in molti non si siano già attrezzati per conservare delle copie del materiale più succoso. E sarebbe paradossale che venissero conservati dossier privati e lo Stato rimanesse a mani vuote.
Dunque, tutti i dati contenuti nelle intercettazioni illegali dovrebbero essere custoditi in un fondo pubblico segretato, prevedendone la pubblicità non prima dei venti o trent'anni. Così da un lato si eviterebbe l'uso strumentale di informazioni acquisite illegalmente, dall'altro gli eventuali "scheletri nell'armadio" sarebbero patrimonio pubblico, di tutti i cittadini, e non armi di ricatto tra questo e quel gruppo oligarchico.
Tuttavia, consapevoli del contesto oligarchico del nostro paese, non possiamo credere che al solo preannunciare l'imminente distruzione in molti non si siano già attrezzati per conservare delle copie del materiale più succoso. E sarebbe paradossale che venissero conservati dossier privati e lo Stato rimanesse a mani vuote.
Dunque, tutti i dati contenuti nelle intercettazioni illegali dovrebbero essere custoditi in un fondo pubblico segretato, prevedendone la pubblicità non prima dei venti o trent'anni. Così da un lato si eviterebbe l'uso strumentale di informazioni acquisite illegalmente, dall'altro gli eventuali "scheletri nell'armadio" sarebbero patrimonio pubblico, di tutti i cittadini, e non armi di ricatto tra questo e quel gruppo oligarchico.
Chi è lo Zdanov?
Si sappia che non solo giro con una patente falsa, ma sarei un tipo peggio di Zdanov (*).
«Punzi... Un tipo che Zdanov (*) al confronto era un esempio di finezza politica e apertura culturale, oltre che onestà intellettuale e garbo nelle polemiche...»
(Massimo Bordin, Forum Radicali.it, 21 settembre 2006, ore 19:26)
"Communista a mmee?!", ci sarebbe da replicare parafrasando il mitico Mario Brega...
* Andrej Aleksandrovic Zdanov (1896-1948) - Segretario del Comitato centrale in URSS durante l'epoca di Stalin. Prese il posto di Kirov a Leningrado e vi attuò una feroce repressione. Stalinista convinto, nel 1937 fornì il presupposto teorico delle epurazioni di massa nel partito. Fu promotore di una serie di azioni mirate a censurare la produzione artistica e letteraria in Unione Sovietica. Le opere non ritenute conformi ai dogmi del partito venivano accusate di "formalismo" e censurate. Gli autori di queste "deviazioni" venivano ammoniti pubblicamente e perseguitati. Il triennio detto Zdanovscina (zdanovismo) (1946-48) segna il culmine di questa situazione di controllo e repressione.
Oggi, sul tema eutanasia, il Riformista ha pubblicato una mia lettera.
Dunque, chi è lo Zdanov?
«Punzi... Un tipo che Zdanov (*) al confronto era un esempio di finezza politica e apertura culturale, oltre che onestà intellettuale e garbo nelle polemiche...»
(Massimo Bordin, Forum Radicali.it, 21 settembre 2006, ore 19:26)
"Communista a mmee?!", ci sarebbe da replicare parafrasando il mitico Mario Brega...
* Andrej Aleksandrovic Zdanov (1896-1948) - Segretario del Comitato centrale in URSS durante l'epoca di Stalin. Prese il posto di Kirov a Leningrado e vi attuò una feroce repressione. Stalinista convinto, nel 1937 fornì il presupposto teorico delle epurazioni di massa nel partito. Fu promotore di una serie di azioni mirate a censurare la produzione artistica e letteraria in Unione Sovietica. Le opere non ritenute conformi ai dogmi del partito venivano accusate di "formalismo" e censurate. Gli autori di queste "deviazioni" venivano ammoniti pubblicamente e perseguitati. Il triennio detto Zdanovscina (zdanovismo) (1946-48) segna il culmine di questa situazione di controllo e repressione.
Oggi, sul tema eutanasia, il Riformista ha pubblicato una mia lettera.
Dunque, chi è lo Zdanov?
Governo tassa e spendi presto a casa
Tassa che ti passa
Chi guadagna 70mila euro annui (circa 3mila euro netti al mese) potrebbe vedersi applicata dall'anno prossimo l'aliquota massima Irpef del 43% (che prima scattava oltre i 100mila euro). Il ministro Ferrero parla addirittura del 45%. Ma può dirsi davvero ricco uno che porta a casa 3mila euro netti al mese? Oppure siamo nel pieno della classe media?
Alberto Alesina, ieri, tentava di spiegare a Visco i molti svantaggi di un aumento delle aliquote, ma la sua mission appare davvero impossible. Più tasse, quindi, e per tutti o quasi, visto che sarà la fascia media a essere colpita a fronte di qualche riduzione - forse - per le fasce inferiori. Scegliendo questa strada il Governo Prodi dimostra in modo incontrovertibile agli italiani - che ancora hanno fresco in mente il ricordo degli sciagurati annunci sulle tasse in campagna elettorale - che aveva ragione Berlusconi: la sinistra è buona solo ad aumentare le tasse.
Non solo l'aumento delle aliquote Irpef, ma anche degli estimi catastali e degli studi di settore. Non solo il Governo ha in programma di inserire questa stangata in Finanziaria, abolendo di fatto la già piccola riduzione tremontiana dell'Irpef (6,5 miliardi di euro). Indiscrezioni, voci e smentite, trapela di tutto sul documento, la cui uscita dovrebbe essere imminente, tranne che significative riforme sui quattro pilastri della spesa pubblica (pubblico impiego, enti locali, sanità, previdenza) in grado di far diminuire strutturalmente la spesa, quindi il pesante debito da cui è afflitto il nostro paese. Ogni ministro nega tagli al proprio bilancio, tutti annunciano entrate. Strano, no?
E voi, di Tav, rigassificatori, taxi e liberalizzazioni avete più sentito parlare?
Per chi, come noi, riponeva le uniche speranze di questo Governo nella serietà del ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa, si avvicina il momento di fare i conti e il bilancio rischia di essere irrimediabilmente negativo. Invece che a obiettivi precisi di riduzione della spesa, la manovra sembra mirare a garantire che siano coperte le spese attuali con, al massimo, qualche riallocazione di risorse.
In questo caso varrebbe per il governo Prodi la regola aurea della politica: che un governo che rinuncia agli obiettivi più impegnativi a inizio legislatura, non riuscirà certo più avanti a perseguirli. Dunque, tanto vale disfarsene.
Chi guadagna 70mila euro annui (circa 3mila euro netti al mese) potrebbe vedersi applicata dall'anno prossimo l'aliquota massima Irpef del 43% (che prima scattava oltre i 100mila euro). Il ministro Ferrero parla addirittura del 45%. Ma può dirsi davvero ricco uno che porta a casa 3mila euro netti al mese? Oppure siamo nel pieno della classe media?
Alberto Alesina, ieri, tentava di spiegare a Visco i molti svantaggi di un aumento delle aliquote, ma la sua mission appare davvero impossible. Più tasse, quindi, e per tutti o quasi, visto che sarà la fascia media a essere colpita a fronte di qualche riduzione - forse - per le fasce inferiori. Scegliendo questa strada il Governo Prodi dimostra in modo incontrovertibile agli italiani - che ancora hanno fresco in mente il ricordo degli sciagurati annunci sulle tasse in campagna elettorale - che aveva ragione Berlusconi: la sinistra è buona solo ad aumentare le tasse.
Non solo l'aumento delle aliquote Irpef, ma anche degli estimi catastali e degli studi di settore. Non solo il Governo ha in programma di inserire questa stangata in Finanziaria, abolendo di fatto la già piccola riduzione tremontiana dell'Irpef (6,5 miliardi di euro). Indiscrezioni, voci e smentite, trapela di tutto sul documento, la cui uscita dovrebbe essere imminente, tranne che significative riforme sui quattro pilastri della spesa pubblica (pubblico impiego, enti locali, sanità, previdenza) in grado di far diminuire strutturalmente la spesa, quindi il pesante debito da cui è afflitto il nostro paese. Ogni ministro nega tagli al proprio bilancio, tutti annunciano entrate. Strano, no?
E voi, di Tav, rigassificatori, taxi e liberalizzazioni avete più sentito parlare?
Per chi, come noi, riponeva le uniche speranze di questo Governo nella serietà del ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa, si avvicina il momento di fare i conti e il bilancio rischia di essere irrimediabilmente negativo. Invece che a obiettivi precisi di riduzione della spesa, la manovra sembra mirare a garantire che siano coperte le spese attuali con, al massimo, qualche riallocazione di risorse.
In questo caso varrebbe per il governo Prodi la regola aurea della politica: che un governo che rinuncia agli obiettivi più impegnativi a inizio legislatura, non riuscirà certo più avanti a perseguirli. Dunque, tanto vale disfarsene.
Grido d'impotenza dei militari. L'Unifil ha già le mani legate
Dopo un mese dall'approvazione della risoluzione dell'Onu 1701 i soldati della Forza internazionale «mandata a mantenere la pace dicono che la loro missione si caratterizza più per le cose che non possono fare che per le quelle che possono fare». E' l'esito, disarmante, di un'inchiesta sul campo pubblicata dal New York Times. I soldati «non possono allestire check-points, non possono arrestare sospetti, non possono perquisire case o automobili e, se vedessero transitare un camion pieno di missili, dicono che non potrebbero fermarlo».
«Non possono fare niente di tutto questo - dicono - perché secondo la loro interpretazione della risoluzione dell'Onu» dovrebbero limitarsi ad avvertire l'esercito libanese, che però è impotente, quando non connivente con Hezbollah, che di disarmare non ha nessuna intenzione, come dichiarato qualche giorno fa dal suo leader. Quello che i funzionari Onu e i comandanti ripetono incessantemente è che la forza Unifil si trova lì per «proteggere la sovranità libanese, e farà solo quello che i libanesi gli chiederanno di fare». «Ci sono un sacco di equivoci sul che cosa siamo venuti a fare qui», ha dichiarato al New York Times il colonnello Stefano Cappellaro, del San Marco.
Qualche sospetto, in realtà, ci era già venuto. Nasrallah, festeggiando in una piazza gremita di fascisti islamici la pretesa vittoria su Israele, ha rivelato che Hezbollah possiede ancora 20 mila missili e annunciato che non intende disarmare, diffidando la Forza internazionale dal tentare di farlo. Da parte delle autorità libanesi e internazionali un inquietante silenzio.
Bene che vada, insomma, si ritornerà lentamente allo status quo ante la guerra di questa estate, preludio di nuove e più estese rese dei conti.
Tutto ciò induce a ritenere che i governi che più hanno voluto questa missione, primo fra tutti quello italiano, avevano ben altri scopi che l'effettiva e completa applicazione della risoluzione 1701. Hanno creduto, forse, che una presenza di facciata sul territorio, senza correre rischi effettivi, potesse bastare per riaffermare il principio del multilateralismo, rilanciare il ruolo e l'ormai screditata immagine dell'Onu. Il Governo Prodi, in particolare, vi deve aver visto il modo per evitare di impiegare nuove truppe in Afghanistan, che la sinistra pacifista non avrebbe mai permesso, e per introdursi, forte dell'impegno militare italiano sul confine del conflitto tra Israele e Iran, al tavolo negoziale sul dossier iraniano.
Ma i conti non tornano. Se così stanno le cose, se Italia e Francia contano sulla missione per migliorare i rapporti con Siria e Iran, invece Washington e Gerusalemme, di fronte all'impasse delle operazioni sul campo, male impostate fin dall'inizio, potrebbero aver cinicamente accettato tregua e missione Unifil contando sul suo fallimento e il conseguente discredito dell'Onu e dell'Europa.
«Non possono fare niente di tutto questo - dicono - perché secondo la loro interpretazione della risoluzione dell'Onu» dovrebbero limitarsi ad avvertire l'esercito libanese, che però è impotente, quando non connivente con Hezbollah, che di disarmare non ha nessuna intenzione, come dichiarato qualche giorno fa dal suo leader. Quello che i funzionari Onu e i comandanti ripetono incessantemente è che la forza Unifil si trova lì per «proteggere la sovranità libanese, e farà solo quello che i libanesi gli chiederanno di fare». «Ci sono un sacco di equivoci sul che cosa siamo venuti a fare qui», ha dichiarato al New York Times il colonnello Stefano Cappellaro, del San Marco.
Qualche sospetto, in realtà, ci era già venuto. Nasrallah, festeggiando in una piazza gremita di fascisti islamici la pretesa vittoria su Israele, ha rivelato che Hezbollah possiede ancora 20 mila missili e annunciato che non intende disarmare, diffidando la Forza internazionale dal tentare di farlo. Da parte delle autorità libanesi e internazionali un inquietante silenzio.
Bene che vada, insomma, si ritornerà lentamente allo status quo ante la guerra di questa estate, preludio di nuove e più estese rese dei conti.
Tutto ciò induce a ritenere che i governi che più hanno voluto questa missione, primo fra tutti quello italiano, avevano ben altri scopi che l'effettiva e completa applicazione della risoluzione 1701. Hanno creduto, forse, che una presenza di facciata sul territorio, senza correre rischi effettivi, potesse bastare per riaffermare il principio del multilateralismo, rilanciare il ruolo e l'ormai screditata immagine dell'Onu. Il Governo Prodi, in particolare, vi deve aver visto il modo per evitare di impiegare nuove truppe in Afghanistan, che la sinistra pacifista non avrebbe mai permesso, e per introdursi, forte dell'impegno militare italiano sul confine del conflitto tra Israele e Iran, al tavolo negoziale sul dossier iraniano.
Ma i conti non tornano. Se così stanno le cose, se Italia e Francia contano sulla missione per migliorare i rapporti con Siria e Iran, invece Washington e Gerusalemme, di fronte all'impasse delle operazioni sul campo, male impostate fin dall'inizio, potrebbero aver cinicamente accettato tregua e missione Unifil contando sul suo fallimento e il conseguente discredito dell'Onu e dell'Europa.
In realtà, la questione è molto semplice
«L'idea di libera scelta è fragilissima, ambigua e oscillante, soggetta a mille interpretazioni».
Eugenia Roccella (il Giornale, 23 settembre)
Ecco, con una frase così, la discussione diventa più semplice, e più onesta. E' la conferma che tutto si gioca sul diritto all'autodeterminazione, su quella domanda la cui risposta da secoli divide i liberali da tutti gli altri: «Decidere della propria vita è o no un diritto?»
Occorre, in ogni sede e momento di dibattito, anche su temi complessi come la bioetica e l'eutanasia, ricondurre tutto a questa in realtà molto semplice opzione: concittadini, la scelta è tra l'affidarsi alle soluzioni di chi a quella domanda ha sempre risposto, e risponde ancora oggi "Sì" e tra chi, invece, oggi come ieri, e come nei secoli scorsi, risponde "No".
Smascherando una certa retorica della sacralità della vita, per la quale a essere sacra è una vita ridotta a mera astrazione, la pericolosa utopia di un'esistenza monda dal peccato, un simulacro ideologico ben separato dalla viva carne (che quindi ha ben poco di cristiano). Una ipocrisia necessaria per passare da difensori della vita mentre si sta negando quella libertà individuale che ogni ideologia teme come la peste. Un bell'illusionismo, non c'è che dire.
Eugenia Roccella (il Giornale, 23 settembre)
Ecco, con una frase così, la discussione diventa più semplice, e più onesta. E' la conferma che tutto si gioca sul diritto all'autodeterminazione, su quella domanda la cui risposta da secoli divide i liberali da tutti gli altri: «Decidere della propria vita è o no un diritto?»
Occorre, in ogni sede e momento di dibattito, anche su temi complessi come la bioetica e l'eutanasia, ricondurre tutto a questa in realtà molto semplice opzione: concittadini, la scelta è tra l'affidarsi alle soluzioni di chi a quella domanda ha sempre risposto, e risponde ancora oggi "Sì" e tra chi, invece, oggi come ieri, e come nei secoli scorsi, risponde "No".
Smascherando una certa retorica della sacralità della vita, per la quale a essere sacra è una vita ridotta a mera astrazione, la pericolosa utopia di un'esistenza monda dal peccato, un simulacro ideologico ben separato dalla viva carne (che quindi ha ben poco di cristiano). Una ipocrisia necessaria per passare da difensori della vita mentre si sta negando quella libertà individuale che ogni ideologia teme come la peste. Un bell'illusionismo, non c'è che dire.
Tuesday, September 26, 2006
Aguzzini di Stato e di Chiesa
«Mentre invio questo messaggio di felicitazioni, non posso non ricordare i drammatici eventi dell'11 settembre dello scorso anno... Un tale paradosso è giunto fino al punto di creare una "cultura della morte", nella quale l'aborto, l'eutanasia, e gli esperimenti genetici sulla stessa vita umana hanno già ottenuto o stanno per ottenere il riconoscimento legale. Possiamo non mettere in relazione questa cultura della morte nella quale le vite umane più innocenti, indifese e gravemente malate sono minacciate dalla morte, e gli attacchi terroristici, come quelli dell'11 settembre, nei quali sono state colpite migliaia di persone innocenti? Dobbiamo dire che entrambi si fondano sul disprezzo per la vita umana».
Cardinale Francis Arinze - Messaggio ai buddisti per la festa di Vesakh (2002)
Il paradosso della condizione di Piergiorgio Welby è che avrebbe potuto rifiutare i trattamenti che lo hanno tenuto in vita fino a oggi in modo quasi del tutto artificiale (gastrostomia: un buco in pancia per essere alimentato; tracheostomia: un foro nel collo per respirare; più qualche altra scomodità ma che volete che sia...), sia perché un paziente capace di intendere e di volere può rifiutare i trattamenti medici, sia perché essi, nel caso della sua malattia, che non lascia la minima speranza, prefiguravano un accanimento terapeutico.
Adesso, però, quegli strumenti è costretto a tenerseli, perché a toglierli sarebbe un assassinio. Ma la Chiesa non era contraria all'accanimento terapeutico? Papa Giovanni Paolo II non si è forse rifiutato di essere trasferito al Gemelli, dove avrebbe ricevuto quei trattamenti, per ricongiungersi in modo naturale con il Padre? Nel caso di Welby, anziché rifiutarli, si tratterebbe di farli cessare. Che differenza può esserci fra un non mettere e un togliere? Il problema è che nel caso di Piergiorgio non si tratterebbe solo di togliere.
Infatti, secondo alcuni Welby potrebbe chiedere la sospensione dell'accanimento terapeutico, se di questo si tratta, ma non l'eutanasia. Potrebbe sì morire, insomma, ma morire soffocato. Avete una vaga idea di come si muore soffocati? Che dice il logos che ha incontrato la fede in questo caso?
Stasera mi è capitato di vedere una puntata di Primo Piano, con Buttiglione e Manconi a parlare proprio del caso Welby e di eutanasia. Sapete cosa vi dico? Che agli ex comunisti non riesce proprio di esprimere non dico una cultura ma un concetto liberale, anche in presenza delle condizioni più favorevoli, come stasera. Manconi si è perso in mille rivoli, contorsionismi, distinguo, tatticismi, mille mani avanti. Non si è capito cosa stesse proponendo esattamente, se fosse o no favorevole all'eutanasia, o solo al testamento biologico. E soprattutto non si è capito il perché. Insomma, un gran casino, e a Manconi suggerirei l'evangelico «il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal maligno».
Perché un Manconi, parlamentare della sinistra che si direbbe laicista, non riesce a dire un sì chiaro e forte all'eutanasia? Neanche quando i sondaggi rivelano che la maggioranza degli italiani, o comunque la metà di essi, è favorevole? Perché non si riesce a portare la discussione sull'unico argomento in grado di prevalere sugli altri, cioè quello dell'autodeterminazione? Decidere della propria vita è o no un diritto? E' questa la domanda che davvero ci importa. Al netto di tutti i discorsi sul senso del vivere e del morire, i più o i meno sensati, i più o i meno estetizzanti, c'è davvero qualcuno disposto a negare quel diritto in sede legislativa?
Un individuo nel pieno delle sue capacità fisiche e psichiche può porre termine alla sua vita suicidandosi come e quando vuole, senza dover rispondere di alcunché se il tentativo fallisce. Al malato terminale invece, solo perché costretto all'immobilità, viene tolto il diritto di decidere della propria vita, perché uno stato etico o una religione irragionevole pensano di sapere cos'è bene per lui più di egli stesso e, approfittando della sua disabilità, gliel'impongono. Se ne approfittano perché Piero non può muoversi. Usano il suo corpo malato contro di lui, contro la sua volontà, contro la sua coscienza. E' una forma subdola e ipocrita, ma estrema, di violenza.
Per questi inconsapevoli torturatori, aguzzini di Stato e di Chiesa, la vita è un'astrazione, un simulacro ideologico ben separato dalla viva carne (quindi ben poco cristiano), che si tiene alla larga dalle sofferenze atroci e senza speranza di Piergiorgio e di tutti coloro nelle sue condizioni. Una ipocrisia necessaria per passare da difensori della vita mentre si sta negando quella libertà individuale che ogni ideologia teme come la peste.
C'è un razzismo duplice: da una parte di chi è sempre pronto a piangere le vittime delle pallottole americane o israeliane, non curandosi invece delle vite sterminate a milioni per mano di altri massacratori; dall'altra di chi a tutto e a tutti - agli individui fatti di carne, ossa, anima, sguardi, parola - antepone la sacralità dell'embrione o della vita nella sua concezione più astratta. Per costoro è sacra la vita di quegli esseri che non possono peccare.
La battaglia di Piero (RadioRadicale.it)
Cardinale Francis Arinze - Messaggio ai buddisti per la festa di Vesakh (2002)
Il paradosso della condizione di Piergiorgio Welby è che avrebbe potuto rifiutare i trattamenti che lo hanno tenuto in vita fino a oggi in modo quasi del tutto artificiale (gastrostomia: un buco in pancia per essere alimentato; tracheostomia: un foro nel collo per respirare; più qualche altra scomodità ma che volete che sia...), sia perché un paziente capace di intendere e di volere può rifiutare i trattamenti medici, sia perché essi, nel caso della sua malattia, che non lascia la minima speranza, prefiguravano un accanimento terapeutico.
Adesso, però, quegli strumenti è costretto a tenerseli, perché a toglierli sarebbe un assassinio. Ma la Chiesa non era contraria all'accanimento terapeutico? Papa Giovanni Paolo II non si è forse rifiutato di essere trasferito al Gemelli, dove avrebbe ricevuto quei trattamenti, per ricongiungersi in modo naturale con il Padre? Nel caso di Welby, anziché rifiutarli, si tratterebbe di farli cessare. Che differenza può esserci fra un non mettere e un togliere? Il problema è che nel caso di Piergiorgio non si tratterebbe solo di togliere.
Infatti, secondo alcuni Welby potrebbe chiedere la sospensione dell'accanimento terapeutico, se di questo si tratta, ma non l'eutanasia. Potrebbe sì morire, insomma, ma morire soffocato. Avete una vaga idea di come si muore soffocati? Che dice il logos che ha incontrato la fede in questo caso?
Stasera mi è capitato di vedere una puntata di Primo Piano, con Buttiglione e Manconi a parlare proprio del caso Welby e di eutanasia. Sapete cosa vi dico? Che agli ex comunisti non riesce proprio di esprimere non dico una cultura ma un concetto liberale, anche in presenza delle condizioni più favorevoli, come stasera. Manconi si è perso in mille rivoli, contorsionismi, distinguo, tatticismi, mille mani avanti. Non si è capito cosa stesse proponendo esattamente, se fosse o no favorevole all'eutanasia, o solo al testamento biologico. E soprattutto non si è capito il perché. Insomma, un gran casino, e a Manconi suggerirei l'evangelico «il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal maligno».
Perché un Manconi, parlamentare della sinistra che si direbbe laicista, non riesce a dire un sì chiaro e forte all'eutanasia? Neanche quando i sondaggi rivelano che la maggioranza degli italiani, o comunque la metà di essi, è favorevole? Perché non si riesce a portare la discussione sull'unico argomento in grado di prevalere sugli altri, cioè quello dell'autodeterminazione? Decidere della propria vita è o no un diritto? E' questa la domanda che davvero ci importa. Al netto di tutti i discorsi sul senso del vivere e del morire, i più o i meno sensati, i più o i meno estetizzanti, c'è davvero qualcuno disposto a negare quel diritto in sede legislativa?
Un individuo nel pieno delle sue capacità fisiche e psichiche può porre termine alla sua vita suicidandosi come e quando vuole, senza dover rispondere di alcunché se il tentativo fallisce. Al malato terminale invece, solo perché costretto all'immobilità, viene tolto il diritto di decidere della propria vita, perché uno stato etico o una religione irragionevole pensano di sapere cos'è bene per lui più di egli stesso e, approfittando della sua disabilità, gliel'impongono. Se ne approfittano perché Piero non può muoversi. Usano il suo corpo malato contro di lui, contro la sua volontà, contro la sua coscienza. E' una forma subdola e ipocrita, ma estrema, di violenza.
Per questi inconsapevoli torturatori, aguzzini di Stato e di Chiesa, la vita è un'astrazione, un simulacro ideologico ben separato dalla viva carne (quindi ben poco cristiano), che si tiene alla larga dalle sofferenze atroci e senza speranza di Piergiorgio e di tutti coloro nelle sue condizioni. Una ipocrisia necessaria per passare da difensori della vita mentre si sta negando quella libertà individuale che ogni ideologia teme come la peste.
C'è un razzismo duplice: da una parte di chi è sempre pronto a piangere le vittime delle pallottole americane o israeliane, non curandosi invece delle vite sterminate a milioni per mano di altri massacratori; dall'altra di chi a tutto e a tutti - agli individui fatti di carne, ossa, anima, sguardi, parola - antepone la sacralità dell'embrione o della vita nella sua concezione più astratta. Per costoro è sacra la vita di quegli esseri che non possono peccare.
La battaglia di Piero (RadioRadicale.it)
Monday, September 25, 2006
Quale politica verso Pechino?
Parlando alla Direzione nazionale della Rosa nel Pugno, Emma Bonino ha voluto dedicare un passaggio del suo intervento - e gliene sono sinceramente grato - alle obiezioni che ho avuto occasione di muovere (in un articolo su L'Opinione e in un post sul mio blog) alle dichiarazioni di Prodi negli incontri ufficiali a Pechino e al suo silenzio riguardo le posizioni espresse dal premier a favore sia della revoca dell'embargo europeo sulle armi alla Cina sia della politica di "una sola Cina".
Angelo Panebianco, in un suo corsivo su Corriere Magazine, non ha voluto teorizzare una presunta incompatibilità dei radicali come forza di e al governo. A suo modo ha osservato come, per un partito che dell'alternativa al regime partitocratico, dell'opposizione sia alle maggioranze che alle opposizioni di questo paese, ha fatto la propria "ragione sociale", il trovarsi oggi al governo, cioè in grado di poter incidere per quell'alternativa, rappresenti una sfida tale da non poter non provocare «turbolenze», considerando anche le peculiari gravi inadeguatezze del Governo Prodi quanto ad approcci riformatori.
Il Professor Panebianco parla della difficoltà, per i radicali, di conciliare «governo realistico» e «vocazione liberale» (citando due statisti di livello come il britannico Gladston e l'americano Wilson), ma la vocazione liberale, se è davvero tale, è governo realistico dei problemi per definizione.
Ne è la dimostrazione la vita politica stessa di Emma Bonino. Nel rifiutare, dal palco dell'hotel Palatino, lezioni sui diritti umani, su come si difendono e come si promuovono, il ministro Bonino ci ha offerto una lezione di pragmatismo tipicamente liberale, anglosassone, che non è cedimento alla realpolitik. Specie se si è forza di governo, dobbiamo chiederci «cosa è utile fare per cambiare solo di un millimetro la condizione di milioni di persone», aprendoci all'«adattamento delle nostre strategie», studiando il mezzo più idoneo, più adeguato, per avvicinarci al fine che vogliamo perseguire. E ad ogni ruolo corrispondono precisi strumenti.
"Cosa dovevo fare?", chiede retoricamente il ministro Bonino: «Un incidente diplomatico con il presidente Prodi in piena Pechino sulla revoca dell'embargo delle armi? Questo non avrebbe fatto fare un passo avanti ai cinesi, però avrebbe alimentato il cicaleccio italiano per molto tempo». Sarebbe invece «utile che parlassimo di cos'è oggi il mondo asiatico, di che ruolo vogliamo far giocare alla Cina. La persuasione è un'opera lunga, paziente, ma irrinunciabile. Nessuno ha interesse a che la Cina esploda, noi abbiamo l'interesse che diventi un protagonista responsabile delle cose del mondo e delle sue... e badate che in Cina è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo... a me non costava nulla mettermi un simpatico cartello e fare un giretto a Tien An Men. Questo forse avrebbe dato una fotografia su un giornale italiano, ma poco avrebbe aiutato a strappare qualche minimo impegno in più».
Credo che la Bonino abbia compreso come la mie critiche fossero ben distanti dal massimalismo di quanti vorrebbero che non si commerciasse con le dittature, provocandone così un isolamento che finirebbe inevitabilmente per rafforzare la presa del regime su quelle società. Sono profondamente convinto che l'apertura commerciale sia un veicolo essenziale di trasmissione di valori e di cultura. Nonostante internet, come sappiamo, non sia immune dai nuovi strumenti di coercizione dei regimi che sfruttano anch'essi le nuove tecnologie, tuttavia i pre-esistenti mezzi erano tali per cui il beneficio marginale delle nuove tecnologie oggi risulta più basso per i governi che per gli attori non-governativi. Né le mie critiche riguardavano una presunta mancanza, o timidezza, nell'affrontare il tema dei diritti umani e della democrazia con le autorità cinesi da parte di Prodi e Bonino. Stando alle cronache, questi argomenti sono stati trattati in modo aperto e franco.
Se si riuscisse a «cambiare solo di un millimetro la condizione di milioni di persone» bisognerebbe parlarne in termini di successo. Insomma, sì alla politica dei piccoli passi, ma per lo meno bisogna assicurarsi che la direzione dei passi sia quella giusta. Per quanto riguarda il commercio - e le sue regole - il discorso con Pechino è ben impostato.
Tuttavia, ho visto Prodi intraprendere la strada sbagliata quando ha schierato l'Italia con il Governo cinese su due pilastri della sua politica, sposandone obiettivi strategici di chiara impronta nazionalista.
Si può puntare sulla «persuasione» degli attuali vertici cinesi? Accertato che «è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo», siamo sicuri che le posizioni su cui Prodi ha schierato l'Italia servano all'ala aperturista e riformatrice di quel dibattito? Non fanno, piuttosto, il gioco dell'ala nazionalista? Quale impegno ha strappato Prodi a fronte della scelta di spendere il peso diplomatico dell'Italia a favore della fine dell'embargo sulle armi e della politica di "una sola Cina"? Il riconoscimento del tragico crimine di Tien An Men? Per lo meno, la fine della persecuzione dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime? Qualche modifica a quella recente legge anti-secessione che prelude all'invasione di Taiwan? Niente di tutto questo né di altro, al momento. Il ruolo che con queste due specifiche prese di posizione l'Italia suggerisce alla Cina di giocare è un ruolo da potenza economica nazionalista ed espansionista.
Quando gli Stati Uniti confermano l'adesione alla "one-China policy" non mancano di sottolineare che ciò non autorizza Pechino a considerare Taiwan un proprio affare interno. Anzi, uno dei punti di attrito più rilevanti tra Bush e i vertici della Repubblica popolare è stato quando nel corso dell'ultima visita (novembre 2005), il presidente americano, facendo appello «alla libertà del popolo cinese, all'apertura democratica della sua società», ha indicato nella «free and democratic Chinese society» di Taiwan il modello da seguire, volendo intendere che non esiste un'eccezione cinese. Bush ha così aggiornato la nozione americana di "one-China policy": se esiste una sola Cina, essa ha i tratti liberi e democratici di Taiwan. Sfumature decisive, ma assenti nelle parole di Prodi.
Nel caso dell'appoggio assicurato da Prodi su due questioni così rilevanti per il governo cinese, doveva valere il principio per cui ad ogni nostra "carota" dovrebbe corrispondere un'apertura concreta da parte dei regimi. Altrimenti come potranno mai democrazia e diritti umani divenire parametri - non gli unici ma centrali - nei nostri rapporti con le dittature? Se vanno sostenuti i gruppi di dissidenti e di attivisti che dall'interno si battono per democrazia e diritti, quale segnale può rappresentare sostenere in modo gratuito due dei pilastri più aggressivi della politica di Pechino?
Tutto ciò ha a che fare con un altro tema affrontato dalla Bonino nel suo intervento: «Come ci dobbiamo stare al governo?»
Se il principio della collegialità è davvero condiviso all'interno del Governo Prodi, e dal premier stesso, due posizioni come quelle espresse a Pechino dovrebbero aver trovato spazio di discussione nelle riunioni governative di preparazione della visita e anche un ministro per il Commercio Estero dovrebbe aver potuto incidere sulle scelte del governo.
Se ciò non fosse avvenuto, o se comunque avesse prevalso la linea espressa poi da Prodi a Pechino, cosa fare ora? Dire che non si è d'accordo non corrisponde certo a una violazione del principio di collegialità, che significa rispettare le decisioni assunte collegialmente dal governo, ma non rinunciare al proprio dissenso costruttivo. Il «cicaleccio» aumenterebbe di certo, ma non di rado, con gesti dall'alto valore simbolico e politico, i radicali sono riusciti a svolgere il ruolo delle formiche.
Approfitto per introdurre una considerazone di carattere generale. Come radicali - ai quali Sofri attribuisce il paradossale difetto di non avere «qualcosa di cui pentirsi» - arrivati al governo ci preoccupiamo di dimostrare che non siamo inaffidabili. Il rischio però, esagerando, è di finire per attribuire un fondamento ad accuse, e luoghi comuni, rivolti spesso in modo strumentale e in malafede. L'etichetta di "inaffidabili" deriva dal fatto che i radicali non svendono le loro battaglie e sono laicamente pronti ad allearsi («percorrere un tratto di strada insieme») con qualunque forza politica disposta a lottare per quelle al loro fianco. Un pregio nel panorama politico italiano, che oscilla tra lo scontro ideologico e la guerra fra bande, che ha regalato a questo paese conquiste fondamentali. Scrollarci di dosso il complesso dell'inaffidabilità, il timore di essere incasellati nel mastellismo o nel dipietrismo, non può che aiutarci a giocare al meglio le nostre carte "di governo" per l'alternativa.
Angelo Panebianco, in un suo corsivo su Corriere Magazine, non ha voluto teorizzare una presunta incompatibilità dei radicali come forza di e al governo. A suo modo ha osservato come, per un partito che dell'alternativa al regime partitocratico, dell'opposizione sia alle maggioranze che alle opposizioni di questo paese, ha fatto la propria "ragione sociale", il trovarsi oggi al governo, cioè in grado di poter incidere per quell'alternativa, rappresenti una sfida tale da non poter non provocare «turbolenze», considerando anche le peculiari gravi inadeguatezze del Governo Prodi quanto ad approcci riformatori.
Il Professor Panebianco parla della difficoltà, per i radicali, di conciliare «governo realistico» e «vocazione liberale» (citando due statisti di livello come il britannico Gladston e l'americano Wilson), ma la vocazione liberale, se è davvero tale, è governo realistico dei problemi per definizione.
Ne è la dimostrazione la vita politica stessa di Emma Bonino. Nel rifiutare, dal palco dell'hotel Palatino, lezioni sui diritti umani, su come si difendono e come si promuovono, il ministro Bonino ci ha offerto una lezione di pragmatismo tipicamente liberale, anglosassone, che non è cedimento alla realpolitik. Specie se si è forza di governo, dobbiamo chiederci «cosa è utile fare per cambiare solo di un millimetro la condizione di milioni di persone», aprendoci all'«adattamento delle nostre strategie», studiando il mezzo più idoneo, più adeguato, per avvicinarci al fine che vogliamo perseguire. E ad ogni ruolo corrispondono precisi strumenti.
"Cosa dovevo fare?", chiede retoricamente il ministro Bonino: «Un incidente diplomatico con il presidente Prodi in piena Pechino sulla revoca dell'embargo delle armi? Questo non avrebbe fatto fare un passo avanti ai cinesi, però avrebbe alimentato il cicaleccio italiano per molto tempo». Sarebbe invece «utile che parlassimo di cos'è oggi il mondo asiatico, di che ruolo vogliamo far giocare alla Cina. La persuasione è un'opera lunga, paziente, ma irrinunciabile. Nessuno ha interesse a che la Cina esploda, noi abbiamo l'interesse che diventi un protagonista responsabile delle cose del mondo e delle sue... e badate che in Cina è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo... a me non costava nulla mettermi un simpatico cartello e fare un giretto a Tien An Men. Questo forse avrebbe dato una fotografia su un giornale italiano, ma poco avrebbe aiutato a strappare qualche minimo impegno in più».
Credo che la Bonino abbia compreso come la mie critiche fossero ben distanti dal massimalismo di quanti vorrebbero che non si commerciasse con le dittature, provocandone così un isolamento che finirebbe inevitabilmente per rafforzare la presa del regime su quelle società. Sono profondamente convinto che l'apertura commerciale sia un veicolo essenziale di trasmissione di valori e di cultura. Nonostante internet, come sappiamo, non sia immune dai nuovi strumenti di coercizione dei regimi che sfruttano anch'essi le nuove tecnologie, tuttavia i pre-esistenti mezzi erano tali per cui il beneficio marginale delle nuove tecnologie oggi risulta più basso per i governi che per gli attori non-governativi. Né le mie critiche riguardavano una presunta mancanza, o timidezza, nell'affrontare il tema dei diritti umani e della democrazia con le autorità cinesi da parte di Prodi e Bonino. Stando alle cronache, questi argomenti sono stati trattati in modo aperto e franco.
Se si riuscisse a «cambiare solo di un millimetro la condizione di milioni di persone» bisognerebbe parlarne in termini di successo. Insomma, sì alla politica dei piccoli passi, ma per lo meno bisogna assicurarsi che la direzione dei passi sia quella giusta. Per quanto riguarda il commercio - e le sue regole - il discorso con Pechino è ben impostato.
Tuttavia, ho visto Prodi intraprendere la strada sbagliata quando ha schierato l'Italia con il Governo cinese su due pilastri della sua politica, sposandone obiettivi strategici di chiara impronta nazionalista.
Si può puntare sulla «persuasione» degli attuali vertici cinesi? Accertato che «è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo», siamo sicuri che le posizioni su cui Prodi ha schierato l'Italia servano all'ala aperturista e riformatrice di quel dibattito? Non fanno, piuttosto, il gioco dell'ala nazionalista? Quale impegno ha strappato Prodi a fronte della scelta di spendere il peso diplomatico dell'Italia a favore della fine dell'embargo sulle armi e della politica di "una sola Cina"? Il riconoscimento del tragico crimine di Tien An Men? Per lo meno, la fine della persecuzione dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime? Qualche modifica a quella recente legge anti-secessione che prelude all'invasione di Taiwan? Niente di tutto questo né di altro, al momento. Il ruolo che con queste due specifiche prese di posizione l'Italia suggerisce alla Cina di giocare è un ruolo da potenza economica nazionalista ed espansionista.
Quando gli Stati Uniti confermano l'adesione alla "one-China policy" non mancano di sottolineare che ciò non autorizza Pechino a considerare Taiwan un proprio affare interno. Anzi, uno dei punti di attrito più rilevanti tra Bush e i vertici della Repubblica popolare è stato quando nel corso dell'ultima visita (novembre 2005), il presidente americano, facendo appello «alla libertà del popolo cinese, all'apertura democratica della sua società», ha indicato nella «free and democratic Chinese society» di Taiwan il modello da seguire, volendo intendere che non esiste un'eccezione cinese. Bush ha così aggiornato la nozione americana di "one-China policy": se esiste una sola Cina, essa ha i tratti liberi e democratici di Taiwan. Sfumature decisive, ma assenti nelle parole di Prodi.
Nel caso dell'appoggio assicurato da Prodi su due questioni così rilevanti per il governo cinese, doveva valere il principio per cui ad ogni nostra "carota" dovrebbe corrispondere un'apertura concreta da parte dei regimi. Altrimenti come potranno mai democrazia e diritti umani divenire parametri - non gli unici ma centrali - nei nostri rapporti con le dittature? Se vanno sostenuti i gruppi di dissidenti e di attivisti che dall'interno si battono per democrazia e diritti, quale segnale può rappresentare sostenere in modo gratuito due dei pilastri più aggressivi della politica di Pechino?
Tutto ciò ha a che fare con un altro tema affrontato dalla Bonino nel suo intervento: «Come ci dobbiamo stare al governo?»
Se il principio della collegialità è davvero condiviso all'interno del Governo Prodi, e dal premier stesso, due posizioni come quelle espresse a Pechino dovrebbero aver trovato spazio di discussione nelle riunioni governative di preparazione della visita e anche un ministro per il Commercio Estero dovrebbe aver potuto incidere sulle scelte del governo.
Se ciò non fosse avvenuto, o se comunque avesse prevalso la linea espressa poi da Prodi a Pechino, cosa fare ora? Dire che non si è d'accordo non corrisponde certo a una violazione del principio di collegialità, che significa rispettare le decisioni assunte collegialmente dal governo, ma non rinunciare al proprio dissenso costruttivo. Il «cicaleccio» aumenterebbe di certo, ma non di rado, con gesti dall'alto valore simbolico e politico, i radicali sono riusciti a svolgere il ruolo delle formiche.
Approfitto per introdurre una considerazone di carattere generale. Come radicali - ai quali Sofri attribuisce il paradossale difetto di non avere «qualcosa di cui pentirsi» - arrivati al governo ci preoccupiamo di dimostrare che non siamo inaffidabili. Il rischio però, esagerando, è di finire per attribuire un fondamento ad accuse, e luoghi comuni, rivolti spesso in modo strumentale e in malafede. L'etichetta di "inaffidabili" deriva dal fatto che i radicali non svendono le loro battaglie e sono laicamente pronti ad allearsi («percorrere un tratto di strada insieme») con qualunque forza politica disposta a lottare per quelle al loro fianco. Un pregio nel panorama politico italiano, che oscilla tra lo scontro ideologico e la guerra fra bande, che ha regalato a questo paese conquiste fondamentali. Scrollarci di dosso il complesso dell'inaffidabilità, il timore di essere incasellati nel mastellismo o nel dipietrismo, non può che aiutarci a giocare al meglio le nostre carte "di governo" per l'alternativa.
Sunday, September 24, 2006
Libertà dell'errore e relativismo
Malvino riporta alla luce una fondamentale pagina di Gaetano Salvemini (Il Mondo, 22 marzo 1952):
«Si legge sull'Osservatore Romano un articolo intitolato Per la libertà dall'errore. Badiamo bene: non libertà dell'errore, ma libertà dall'errore. La libertà dell'errore, per chi non è totalitario, è un diritto fondamentale dell'uomo e del cittadino. Libertà, badiamo bene giuridica, non libertà intellettuale. Intellettualmente nessuno ha il diritto di proclamare la libertà dell'errore: sarebbe come se dicesse che intende liberarsi dalla ragione, che non gli importa quel che è e quel che non è verità; che si sente libero di cambiare opinione ogni volta che vi trovi un profitto, distinguendo non fra verità ed errore, ma fra il proprio utile e il proprio danno. Ma chi si riconosce intellettualmente tenuto a rifiutare la libertà dell'errore, non passa con questo ad affermare il proprio diritto giuridico a violare negli altri la libertà dell'errore. Solo chi pretende di tenere chiusa la ispirazione divina in un taschino del panciotto, può pretendere di obbligare i propri simili a liberarsi dall'errore secondo la ricetta a lui rivelata da un Dio che non erra mai. La certezza dell'infallibilità produce l'intolleranza giuridica. La modestia produce il rispetto delle opinioni altrui, cioè dell'errore altrui, cioè non la libertà dall'errore, ma la libertà dell'errore. L'Osservatore Romano, beato lui, ha la certezza della infallibilità. Perciò non ammette la libertà dell'errore, ma la libertà dall'errore. Ammette la sola libertà dall'errore; negando la libertà dell'errore, distrugge la libertà».
Questo passaggio è essenziale per comprendere la differenza tra la critica liberale, diciamo popperiana, al relativismo e, invece, una critica illiberale ad esso, che è divenuta nuovo vezzo fintamente anti-conformista attraverso il verbo di Papa Ratzinger e l'eco di Marcello Pera.
Il «relativismo», inteso popperianamente, è nemico del liberalismo, mentre nella concezione ratzingeriana e periana conincide con «il pluralismo delle convinzioni e degli stili morali», ciò che Popper chiamava «pluralismo critico».
Popper descrive il relativismo come «una filosofia che porta alla tesi che tutte le tesi sono intellettualmente più o meno difendibili. Tutto è accettabile! Cosí il relativismo porta all'anarchia, alla mancanza di leggi, e al dominio della violenza...
A questo punto mi piacerebbe confrontare il relativismo con una posizione che è quasi sempre confusa col relativismo, ma che invece è totalmente differente da esso. Io ho spesso descritto questa posizione come pluralismo, ma ciò ha semplicemente portato a questi fraintendimenti. Pertanto lo caratterizzerò qui come pluralismo critico. Il piú confuso relativismo, che sorge da una scadente forma di tolleranza [il tollerante che per dimostrarsi tale tollera anche l'intollerante], porta al dominio della violenza, il pluralismo critico può contribuire a tenere la violenza sotto controllo.
Allo scopo di distinguere il relativismo dal pluralismo critico, l'idea di verità è di cruciale importanza. Il relativismo è la posizione che tutto può essere affermato, o praticamente tutto. Tutto è vero, o niente è vero. Pertanto la verità è un concetto senza significato. Il pluralismo critico è la posizione che, nell'interesse della ricerca della verità, per tutte le teorie, le migliori in particolare, dovrebbe essere favorita la competizione con tutte le altre teorie. Questa competizione consiste nella discussione razionale delle teorie e nell'eliminazione critica. La discussione dovrebbe essere razionale – e ciò significa che dovrebbe avere a che fare con la verità delle teorie in competizione: la teoria che sembra avvicinarsi di più nel corso della discussione critica è la migliore; e la teoria migliore rimpiazza la teoria più debole».
(K. R. Popper, Toleration and intellectual responsability)
Va da sé che quel tipo di verità cui si arriva attraverso discussione razionale è una verità relativa - sia perché incompleta, sia perché valida per un tempo limitato - cui non si addice una protezione legislativa. Il diritto, la legge, la politica, devono permettere la libera competizione tra le teorie, non mettere un punto.
«Si legge sull'Osservatore Romano un articolo intitolato Per la libertà dall'errore. Badiamo bene: non libertà dell'errore, ma libertà dall'errore. La libertà dell'errore, per chi non è totalitario, è un diritto fondamentale dell'uomo e del cittadino. Libertà, badiamo bene giuridica, non libertà intellettuale. Intellettualmente nessuno ha il diritto di proclamare la libertà dell'errore: sarebbe come se dicesse che intende liberarsi dalla ragione, che non gli importa quel che è e quel che non è verità; che si sente libero di cambiare opinione ogni volta che vi trovi un profitto, distinguendo non fra verità ed errore, ma fra il proprio utile e il proprio danno. Ma chi si riconosce intellettualmente tenuto a rifiutare la libertà dell'errore, non passa con questo ad affermare il proprio diritto giuridico a violare negli altri la libertà dell'errore. Solo chi pretende di tenere chiusa la ispirazione divina in un taschino del panciotto, può pretendere di obbligare i propri simili a liberarsi dall'errore secondo la ricetta a lui rivelata da un Dio che non erra mai. La certezza dell'infallibilità produce l'intolleranza giuridica. La modestia produce il rispetto delle opinioni altrui, cioè dell'errore altrui, cioè non la libertà dall'errore, ma la libertà dell'errore. L'Osservatore Romano, beato lui, ha la certezza della infallibilità. Perciò non ammette la libertà dell'errore, ma la libertà dall'errore. Ammette la sola libertà dall'errore; negando la libertà dell'errore, distrugge la libertà».
Questo passaggio è essenziale per comprendere la differenza tra la critica liberale, diciamo popperiana, al relativismo e, invece, una critica illiberale ad esso, che è divenuta nuovo vezzo fintamente anti-conformista attraverso il verbo di Papa Ratzinger e l'eco di Marcello Pera.
Il «relativismo», inteso popperianamente, è nemico del liberalismo, mentre nella concezione ratzingeriana e periana conincide con «il pluralismo delle convinzioni e degli stili morali», ciò che Popper chiamava «pluralismo critico».
Popper descrive il relativismo come «una filosofia che porta alla tesi che tutte le tesi sono intellettualmente più o meno difendibili. Tutto è accettabile! Cosí il relativismo porta all'anarchia, alla mancanza di leggi, e al dominio della violenza...
A questo punto mi piacerebbe confrontare il relativismo con una posizione che è quasi sempre confusa col relativismo, ma che invece è totalmente differente da esso. Io ho spesso descritto questa posizione come pluralismo, ma ciò ha semplicemente portato a questi fraintendimenti. Pertanto lo caratterizzerò qui come pluralismo critico. Il piú confuso relativismo, che sorge da una scadente forma di tolleranza [il tollerante che per dimostrarsi tale tollera anche l'intollerante], porta al dominio della violenza, il pluralismo critico può contribuire a tenere la violenza sotto controllo.
Allo scopo di distinguere il relativismo dal pluralismo critico, l'idea di verità è di cruciale importanza. Il relativismo è la posizione che tutto può essere affermato, o praticamente tutto. Tutto è vero, o niente è vero. Pertanto la verità è un concetto senza significato. Il pluralismo critico è la posizione che, nell'interesse della ricerca della verità, per tutte le teorie, le migliori in particolare, dovrebbe essere favorita la competizione con tutte le altre teorie. Questa competizione consiste nella discussione razionale delle teorie e nell'eliminazione critica. La discussione dovrebbe essere razionale – e ciò significa che dovrebbe avere a che fare con la verità delle teorie in competizione: la teoria che sembra avvicinarsi di più nel corso della discussione critica è la migliore; e la teoria migliore rimpiazza la teoria più debole».
(K. R. Popper, Toleration and intellectual responsability)
Va da sé che quel tipo di verità cui si arriva attraverso discussione razionale è una verità relativa - sia perché incompleta, sia perché valida per un tempo limitato - cui non si addice una protezione legislativa. Il diritto, la legge, la politica, devono permettere la libera competizione tra le teorie, non mettere un punto.
Saturday, September 23, 2006
A Panne', dacce er simbolo!
Tutta la fantasia dello Sdi per il rilancio della Rosa nel Pugno
Questa la lettera che non è stata pubblica da il Riformista:
Caro direttore, alla Direzione della Rosa nel Pugno si confrontano due approcci, essenzialmente rappresentati da due diverse proposte statutarie, presentate da Sdi da una parte e Radicali italiani e Associazione Coscioni dall'altra. Senza perdermi nei meandri e nei tecnicismi delle due forme-partito sul tappeto, riassumerei così il nodo politico. Il caos totale e le innumerevoli scorrettezze nei confronti dei radicali alle amministrative; la timidezza (o la latitanza) dello Sdi nell'impegnarsi (in qualsiasi forma) sulle battaglie politiche sottoscritte a Fiuggi; l'impressione che lo Sdi tenga il piede in due staffe, pronto a saltare sul carro del Partito democratico, tenendosi la RNP come opzione di riserva, e che i suoi vertici rispondano al preciso compito, o svolgano la inconsapevole funzione, di porre un freno al "protagonismo" dei radicali nell'Unione. Tutto ciò ha soffocato lo slancio iniziale della RNP. Ora lo Sdi vorrebbe fotografare e istituzionalizzare questa situazione: chiudere la stalla, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori; i radicali, invece, vorrebbero ridare alla RNP la capacità d'attrazione iniziale, sapendo che la "Rosa" è destinata ad appassire se rimane "cosa" solo di Sdi e Radicali e che servono socialisti che non si accontentino di un collocamento, ma che diano vita a lotte e iniziative liberali e socialiste.
E' su questo entusiasmante tema, in grado immaginiamo di far innamorare della Rosa nel Pugno qualsiasi passante, che si è svolta praticamente tutta la prima giornata della Direzione. Mentre i radicali cercavano di rianimare con idee, iniziative, battaglie a cui appassionarsi e da condurre (insomma, cercavano di discutere di politica) il dibattito, già asfittico, sull'organizzazione del partito diveniva surreale con l'assalto al simbolo.
E' questa l'ardente passione politica con la quale i dirigenti dello Sdi si sono presentati, ieri a Roma, alla Direzione. Solo un anno fa, all'atto di nascita del nuovo soggetto, Pannella e Boselli sottoscrissero un patto che vincolava i promotori, fino al 2011, ad usare il simbolo nelle competizioni elettorali solo in presenza del consenso di tutti. Dunque non solo Pannella, ma anche Boselli aveva un effettivo potere di veto sull'uso del simbolo. Adesso, invece, l'aut-aut: per andare avanti bisogna rivedere il patto fondativo in modo che ciascuno sia libero di utilizzare il simbolo a proprio piacimento. «Se la Rosa nel Pugno dev'essere la casa di tutti, il simbolo sia di tutti».
In realtà, di tutti lo è già oggi, almeno fino al 2011. E' ovvio che Pannella però si rifiuta di ripetere la traumatica esperienza delle scorse amministrative, nelle quali l'esercito di assessorini dello Sdi ha fatto man bassa di poltrone e municipalizzate (una lista ufficiale degli eletti e degli incarichi - incredibile! - neanche esiste, o non la vogliono pubblicare), stracciando ogni accordo e mettendoglielo in quel posto a ogni candidato radicale illuso di poter condurre "insieme" una campagna elettorale.
E adesso? Come si fa alla prossima infornata di amministratori locali? La pancia dello Sdi preme. E che ti escogitano quelle sagomacce di Boselli e Villetti? A Panne', dacce er simbolo!. E' tutta qui la lungimirante visione politica dello Sdi per il rilancio della Rosa nel Pugno.
Ho avuto occasione di ripeterlo tante volte, su questo blog: guardate che la Rosa nel Pugno è un'idea, una necessità, nel panorama politico italiano, per riempire uno spazio ancora vuoto di una sinistra liberale. A reggere - dicevo contrariamente a molti - è proprio la teoria di questo progetto. La pratica, invece, rischia di farlo fallire. Il motivo è semplice. Per unire radicali e socialisti c'era bisogno degli uni e degli altri. I radicali ci sono, ma di socialisti non se ne vedono. Nello Sdi ci sono solo gli ultimi famelici topi d'apparato in cerca d'un collocamento per assicurarsi i fine-settimana a Torvaianica a spese del contribuente.
Il materiale umano dello Sdi - seppure qualche sospetto lo si nutriva fin dall'inizio - si è via via rivelato irrimediabilmente necrotizzato. Al di là, vi assicuro, di ogni più pessimistica aspettativa iniziale.
L'unica nota positiva è che finalmente i big radicali (riascoltate gli interventi di Pannella, Capezzone e D'Elia), dopo averne ingoiate tante, hanno opposto un solido argine a questa schiera di zombie che allungavano le mani sulla gloriosa storia della Rosa nel Pugno.
E' chiaro che il progetto può e deve continuare - o così o niente - ma sarà dura. Occorre nuova linfa: liberali, laici, socialisti, radicali, accorrete! La Rosa, ormai è evidente, non può fiorire con lo Sdi. Se dei socialisti ancora esistono, si facciano vivi, che quelli morti ce li abbiamo già.
Questa la lettera che non è stata pubblica da il Riformista:
Caro direttore, alla Direzione della Rosa nel Pugno si confrontano due approcci, essenzialmente rappresentati da due diverse proposte statutarie, presentate da Sdi da una parte e Radicali italiani e Associazione Coscioni dall'altra. Senza perdermi nei meandri e nei tecnicismi delle due forme-partito sul tappeto, riassumerei così il nodo politico. Il caos totale e le innumerevoli scorrettezze nei confronti dei radicali alle amministrative; la timidezza (o la latitanza) dello Sdi nell'impegnarsi (in qualsiasi forma) sulle battaglie politiche sottoscritte a Fiuggi; l'impressione che lo Sdi tenga il piede in due staffe, pronto a saltare sul carro del Partito democratico, tenendosi la RNP come opzione di riserva, e che i suoi vertici rispondano al preciso compito, o svolgano la inconsapevole funzione, di porre un freno al "protagonismo" dei radicali nell'Unione. Tutto ciò ha soffocato lo slancio iniziale della RNP. Ora lo Sdi vorrebbe fotografare e istituzionalizzare questa situazione: chiudere la stalla, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori; i radicali, invece, vorrebbero ridare alla RNP la capacità d'attrazione iniziale, sapendo che la "Rosa" è destinata ad appassire se rimane "cosa" solo di Sdi e Radicali e che servono socialisti che non si accontentino di un collocamento, ma che diano vita a lotte e iniziative liberali e socialiste.
E' su questo entusiasmante tema, in grado immaginiamo di far innamorare della Rosa nel Pugno qualsiasi passante, che si è svolta praticamente tutta la prima giornata della Direzione. Mentre i radicali cercavano di rianimare con idee, iniziative, battaglie a cui appassionarsi e da condurre (insomma, cercavano di discutere di politica) il dibattito, già asfittico, sull'organizzazione del partito diveniva surreale con l'assalto al simbolo.
E' questa l'ardente passione politica con la quale i dirigenti dello Sdi si sono presentati, ieri a Roma, alla Direzione. Solo un anno fa, all'atto di nascita del nuovo soggetto, Pannella e Boselli sottoscrissero un patto che vincolava i promotori, fino al 2011, ad usare il simbolo nelle competizioni elettorali solo in presenza del consenso di tutti. Dunque non solo Pannella, ma anche Boselli aveva un effettivo potere di veto sull'uso del simbolo. Adesso, invece, l'aut-aut: per andare avanti bisogna rivedere il patto fondativo in modo che ciascuno sia libero di utilizzare il simbolo a proprio piacimento. «Se la Rosa nel Pugno dev'essere la casa di tutti, il simbolo sia di tutti».
In realtà, di tutti lo è già oggi, almeno fino al 2011. E' ovvio che Pannella però si rifiuta di ripetere la traumatica esperienza delle scorse amministrative, nelle quali l'esercito di assessorini dello Sdi ha fatto man bassa di poltrone e municipalizzate (una lista ufficiale degli eletti e degli incarichi - incredibile! - neanche esiste, o non la vogliono pubblicare), stracciando ogni accordo e mettendoglielo in quel posto a ogni candidato radicale illuso di poter condurre "insieme" una campagna elettorale.
E adesso? Come si fa alla prossima infornata di amministratori locali? La pancia dello Sdi preme. E che ti escogitano quelle sagomacce di Boselli e Villetti? A Panne', dacce er simbolo!. E' tutta qui la lungimirante visione politica dello Sdi per il rilancio della Rosa nel Pugno.
Ho avuto occasione di ripeterlo tante volte, su questo blog: guardate che la Rosa nel Pugno è un'idea, una necessità, nel panorama politico italiano, per riempire uno spazio ancora vuoto di una sinistra liberale. A reggere - dicevo contrariamente a molti - è proprio la teoria di questo progetto. La pratica, invece, rischia di farlo fallire. Il motivo è semplice. Per unire radicali e socialisti c'era bisogno degli uni e degli altri. I radicali ci sono, ma di socialisti non se ne vedono. Nello Sdi ci sono solo gli ultimi famelici topi d'apparato in cerca d'un collocamento per assicurarsi i fine-settimana a Torvaianica a spese del contribuente.
Il materiale umano dello Sdi - seppure qualche sospetto lo si nutriva fin dall'inizio - si è via via rivelato irrimediabilmente necrotizzato. Al di là, vi assicuro, di ogni più pessimistica aspettativa iniziale.
L'unica nota positiva è che finalmente i big radicali (riascoltate gli interventi di Pannella, Capezzone e D'Elia), dopo averne ingoiate tante, hanno opposto un solido argine a questa schiera di zombie che allungavano le mani sulla gloriosa storia della Rosa nel Pugno.
E' chiaro che il progetto può e deve continuare - o così o niente - ma sarà dura. Occorre nuova linfa: liberali, laici, socialisti, radicali, accorrete! La Rosa, ormai è evidente, non può fiorire con lo Sdi. Se dei socialisti ancora esistono, si facciano vivi, che quelli morti ce li abbiamo già.
Friday, September 22, 2006
«Caro presidente, voglio l'eutanasia»
L'appello di Piero Welby, co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni, malato di distrofia muscolare progressiva, al presidente della Repubblica Napolitano: sentitelo!, leggetelo, diffondetelo e ricordatelo. Chiede il diritto di decidere per sé, che almeno questo si sappia.
«Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l'amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c'è pietà. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa". No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili...».
«Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l'amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c'è pietà. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa". No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili...».
E' tempo di fare «fuoco e fiamme»
Lui, Angelo Panebianco, è convinto che alla fine «Emma & c. faranno fuoco e fiamme contro il governo» e si lancia in previsioni:
Se solo i big, proprio loro, superassero pudori e complessi d'inferiorità. Sì, avete letto bene, in questa fase sono d'inferiorità i complessi dei radicali, ma sono più temuti di quanto si creda. Li attanaglia la preoccupazione di non prestare il fianco ai luoghi comuni ("ah, che vuoi farci... sono i soliti radicali..."). Ma essendo strumentali e in malafede, per quanto cercheranno di liberarsene se li vedranno sempre branditi contro. E allora tanto vale...
«Per i radicali l'affermazione dei diritti civili, a differenza di quanto accade per altri partiti, non costituisce un accessorio ma la ragione costitutiva della loro stessa esistenza. Il che spiega anche perché essi abbiano collezionato in passato una sequela ininterrotta di polemiche con governanti italiani troppo disinvolti nel rapporto con Stati colpevoli di violazioni dei diritti umani... Insomma, una missione in Cina per ragioni commerciali, con una esponente radicale in un ruolo da protagonista, è effettivamente un problema per i radicali, in qualche modo tocca la loro stessa "ragione sociale". Ma le ragioni di disagio, per i radicali, non si fermano lì... in piccolo, i radicali oggi al governo [stanno] vivendo le stesse difficoltà che hanno sperimentato tutti i leader liberali del passato (dal britannico Gladston all'americano Wilson...) nel conciliare il governo realistico dei rapporti internazionali con la necessità di non tradire la vocazione liberale».Sì, conclude Panebianco - e io credo che veda giusto - «non c'è altra soluzione. Perché un ministro radical-pannelliano come la Bonino non può digerire ancora per molto il silenzio sulle libertà negate in Cina tenuto da Prodi o le critiche anti-israeliane di D'Alema. Ne vedremo delle belle».
Se solo i big, proprio loro, superassero pudori e complessi d'inferiorità. Sì, avete letto bene, in questa fase sono d'inferiorità i complessi dei radicali, ma sono più temuti di quanto si creda. Li attanaglia la preoccupazione di non prestare il fianco ai luoghi comuni ("ah, che vuoi farci... sono i soliti radicali..."). Ma essendo strumentali e in malafede, per quanto cercheranno di liberarsene se li vedranno sempre branditi contro. E allora tanto vale...
«Oggi nessuno saprebbe dire se i radicali siano di destra o di sinistra, ibridità che, lungi dall'essere accreditata loro come un'apertura e una tempestività, viene loro addebitata come un marasma senile o una giovanile megalomania o una deriva comodista dell'età di mezzo...»E' un destino, come intuì Adriano Sofri (Panorama, 12 dicembre 2003): il problema è che «manca loro qualcosa di cui pentirsi. Non hanno un passato criminale, e nemmeno tragicamente colpevole. Non un'ideologia e una pratica totalitaria, matrice di sterminii e tirannidi, nazismi, razzismi, fascismi, stalinismi, comunismi, sciovinismi, colonialismi, militarismi, sessismi, proibizionismi, corruzioni pubbliche e disonestà personali: niente».
«Il paradosso della società politica italiana sta nella investitura derivante da un passato compromettente di cui pentirsi e dal quale riconvertirsi a un presente riabilitato. (Sia detto senza ironia: io ne faccio parte, anzi). Bisogna essere stati stalinisti, o almeno comunisti cubani o cinesi, e fascisti e antisemiti, o democristiani e socialisti e imprenditori dall'ideologia più mite ma dalla finanza allegra: e da lì cambiarsi d'abito, e ripartire. I radicali, disgraziati!, niente».Quindi, in questa fase, trovino la forza di sottrarsi al tentativo "egemonico", tipicamente comunista (nel passato soprattutto nei confronti di riformisti e socialisti), messo in atto da D'Alema, con la complicità più o meno consapevole dello Sdi, di includerli (anche a livelli importanti di responsabilità) per neutralizzarli ed erodergli il consenso. Occhio, e «irriconoscibili».
Per gli 8 senatori si prepara il biscottone?
Sarò pessimista, ma io nella storia degli 8 senatori eletti ed esclusi dal Senato (4 della Rosa nel Pugno, 2 radicali, di cui uno Pannella) ci vedo sotto il biscottone. A dover esaminare i ricorsi e decidere è la Giunta per le elezioni del Senato e già la scelta di procedere regione per regione è discutibile. La legge elettorale è una e la sua applicazione è in discussione, non schede nulle o bianche nei singoli collegi. Sentito ieri mattina, a Radio Radicale (notiziario delle 8,50), il senatore Manzione (Ulivo), relatore dell'istruttoria limitatamente ai collegi del Piemonte, molti avranno intravisto nelle sue parole la luce in fondo al tunnel. A me è parso di aver udito solo una contorta ricostruzione dello stato dell'arte piena di distinguo e scivolose cautele.
Dunque, Manzione informa di aver «chiesto formalmente alla Giunta di fissare l'udienza sul Piemonte». Spiega che tra la «convalida» degli eletti e la «contestazione», ehm... lui può «tranquillamente anticipare... che sulla base dell'idea che si è fatto... probabilmente bisogna seguire una strada intermedia... di un comitato inquirente». In soldoni, una seconda istruttoria. Perché? Vi sono «questioni che vanno approfondite... non possono essere né respinte né accettate tout cour». In realtà, come credo ormai sia noto, il ricorso della Rosa nel Pugno è molto semplice, e già il ministro degli Interni Amato (un costituzionalista) si è espresso in suo favore. La tesi è che basti applicare la legge elettorale alla lettera invece di interpretarla per analogia.
Cosa c'è di così complesso? Basta prendere una decisione. Aprire una seconda istruttoria è solo un modo per far trascorrere altro tempo: ovviamente, c'è bisogno di approfondire perché non è il rispetto della legalità che interessa, ma la questione politica. Si accontenteranno di garantire ai senatori che stanno usurpando il loro seggio che trascorrano i due anni e mezzo, così d'aver garantita la pensione per decreto? O l'obiettivo è di impedire a tutti i costi che i radicali entrino in Senato, magari, al massimo, regalando il seggio a Pannella a fine legislatura?
Il senatore, però, mette le mani avanti: per carità, «non c'è volontà di affossare istanze legittime», è che la legge è «difficile da interpretare». Insomma, mi pare già di sentirli, alla fine, quando gli 8 senatori legittimi saranno restati fuori: "Sapete com'è... noi abbiamo esaminato con attenzione... approfondito... per carità, erano anche fondate le vostre ragioni, ma bla bla bla". E non si saprà nemmeno chi è stato.
Eppure, comprendo che nello scorrere quotidiano dell'attualità politica possa sfuggire, ma credetemi, l'assenza dal Senato pesa - e molto - e forse ancor di più pesa l'attesa del giudizio, sullo spazio di manovra della pattuglia radicale.
Dunque, Manzione informa di aver «chiesto formalmente alla Giunta di fissare l'udienza sul Piemonte». Spiega che tra la «convalida» degli eletti e la «contestazione», ehm... lui può «tranquillamente anticipare... che sulla base dell'idea che si è fatto... probabilmente bisogna seguire una strada intermedia... di un comitato inquirente». In soldoni, una seconda istruttoria. Perché? Vi sono «questioni che vanno approfondite... non possono essere né respinte né accettate tout cour». In realtà, come credo ormai sia noto, il ricorso della Rosa nel Pugno è molto semplice, e già il ministro degli Interni Amato (un costituzionalista) si è espresso in suo favore. La tesi è che basti applicare la legge elettorale alla lettera invece di interpretarla per analogia.
Cosa c'è di così complesso? Basta prendere una decisione. Aprire una seconda istruttoria è solo un modo per far trascorrere altro tempo: ovviamente, c'è bisogno di approfondire perché non è il rispetto della legalità che interessa, ma la questione politica. Si accontenteranno di garantire ai senatori che stanno usurpando il loro seggio che trascorrano i due anni e mezzo, così d'aver garantita la pensione per decreto? O l'obiettivo è di impedire a tutti i costi che i radicali entrino in Senato, magari, al massimo, regalando il seggio a Pannella a fine legislatura?
Il senatore, però, mette le mani avanti: per carità, «non c'è volontà di affossare istanze legittime», è che la legge è «difficile da interpretare». Insomma, mi pare già di sentirli, alla fine, quando gli 8 senatori legittimi saranno restati fuori: "Sapete com'è... noi abbiamo esaminato con attenzione... approfondito... per carità, erano anche fondate le vostre ragioni, ma bla bla bla". E non si saprà nemmeno chi è stato.
Eppure, comprendo che nello scorrere quotidiano dell'attualità politica possa sfuggire, ma credetemi, l'assenza dal Senato pesa - e molto - e forse ancor di più pesa l'attesa del giudizio, sullo spazio di manovra della pattuglia radicale.
E noi paghiamo
Non perdetevi il faccia-a-faccia Tremonti-Giavazzi, di ieri sul Corriere, sulla Cassa Depositi e Prestiti. L'ex ministro dell'Economia, che si autodefinisce colbertista e anti-mercatista, rivendica: «L'ho usata per privatizzare».
Le casse a capitale misto pubblico e privato, si giustifica Tremonti preso da una botta d'europeismo, sono «da decenni la realtà europea». Embè, solo per questo sarebbero un modello da non imitare. L'articolo prosegue ma la scusa è sempre la stessa: lo fanno pure Germania e Francia. Che infatti sono notoriamente dei paradisi. Giavazzi replica prontamente: «Altro che privato, è lo Stato che paga».
Le casse a capitale misto pubblico e privato, si giustifica Tremonti preso da una botta d'europeismo, sono «da decenni la realtà europea». Embè, solo per questo sarebbero un modello da non imitare. L'articolo prosegue ma la scusa è sempre la stessa: lo fanno pure Germania e Francia. Che infatti sono notoriamente dei paradisi. Giavazzi replica prontamente: «Altro che privato, è lo Stato che paga».
Modulo 5+1+1
Secondo quanto riportato ieri da Il Foglio il ministro degli Esteri Massimo D'Alema è stato a un passo dal 5+1+1. No, non è il nuovo modulo a cui Mancini sta pensando per l'Inter. Sta a indicare il numero di grandi e medie potenze impegnate nelle trattative con l'Iran sul dossier nucleare. I 5 sarebbero i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia), il primo +1 la Germania e il secondo +1, se fosse inclusa, l'Italia.
Il premier ha partecipato a una cena con i ministri degli Esteri del 5+1. Giorni fa ne dava notizia un'agenzia di stampa scarna a cui nessuno ha dato peso. D'Alema stesso aveva tenuto un basso profilo per non creare aspettative. Se non ché pare che le improvvide dichiarazioni di Prodi, ed infine l'annuncio dell'incontro con Ahmadinejad, abbiano chiuso anche quei pochi spiragli che c'erano.
Da qui deriverebbe il «grande gelo» che alcune fonti diplomatiche all'Onu hanno registrato tra il premier e il ministro degli Esteri.
Non potremmo che congratularci con D'Alema se l'Italia dovessse davvero prendere parte a quel tavolo di negoziato, anche se rimane impossibile credere che chi sta conducendo trattative già difficilissime oggi con l'Iran sia disposto a imbarcare l'Italia, al mondo il maggior partner commerciale di Teheran, quindi il paese più ricattabile, che sarebbe l'anello debole dei neogiziati.
Intanto, lo stesso Prodi riferisce che nell'incontro a due Ahmadinejad ha posto l'accento «sull'aspettativa di vedersi riconosciuto nella regione un ruolo corrispondente al peso e all'influenza dell'Iran». Si tratta del tipico amo a cui far abboccare ogni appeaser. Come non riconoscere a un grande paese il proprio peso internazionale, altri direbbero il diritto al proprio «spazio vitale»? Ci si illude, e quello lo fa credere, che una volta acquisito lo status desiderato il paese "ribelle" finalmente lavorerà per mantenerlo, cioè per la stabilità. Non sempre è così. Dipende, innanzitutto dalla natura del regime. Si sa, infatti, che a certi la fame vien mangiando e sbocconcellando qui e là cominciano a convincersi di potersi mangiare l'agnello intero. Insomma, la tipica politica di potenza.
Prodi, in questo caso, ha fatto bene a ricordare che il ruolo che ci si aspetta dall'Iran è quello di favorire la stabilizzazione della regione, osservando che le dichiarazioni che mettono in dubbio il diritto all'esistenza
di Israele non vanno in tale direzione. Gli iraniani cercheranno di far credere al mondo che una volta arricchito l'uranio se ne staranno buoni e svolgeranno quel ruolo di stabilizzatori regionali. Ebbene, l'ideologia al potere a Teheran non ci permette di affidarci a simili calcoli.
Una delle frasi più inquietanti (lo so, c'è l'imbarazzo della scelta) scappate a Prodi in questi giorni è passata quasi nell'indifferenza generale: «Le mie iniziative sono concordate con Solana o magari con Chirac». Che Prodi fosse, consapevolmente o meno, marionetta di Chirac lo sospettavamo. Chissà perché...
Il premier ha partecipato a una cena con i ministri degli Esteri del 5+1. Giorni fa ne dava notizia un'agenzia di stampa scarna a cui nessuno ha dato peso. D'Alema stesso aveva tenuto un basso profilo per non creare aspettative. Se non ché pare che le improvvide dichiarazioni di Prodi, ed infine l'annuncio dell'incontro con Ahmadinejad, abbiano chiuso anche quei pochi spiragli che c'erano.
Da qui deriverebbe il «grande gelo» che alcune fonti diplomatiche all'Onu hanno registrato tra il premier e il ministro degli Esteri.
Non potremmo che congratularci con D'Alema se l'Italia dovessse davvero prendere parte a quel tavolo di negoziato, anche se rimane impossibile credere che chi sta conducendo trattative già difficilissime oggi con l'Iran sia disposto a imbarcare l'Italia, al mondo il maggior partner commerciale di Teheran, quindi il paese più ricattabile, che sarebbe l'anello debole dei neogiziati.
Intanto, lo stesso Prodi riferisce che nell'incontro a due Ahmadinejad ha posto l'accento «sull'aspettativa di vedersi riconosciuto nella regione un ruolo corrispondente al peso e all'influenza dell'Iran». Si tratta del tipico amo a cui far abboccare ogni appeaser. Come non riconoscere a un grande paese il proprio peso internazionale, altri direbbero il diritto al proprio «spazio vitale»? Ci si illude, e quello lo fa credere, che una volta acquisito lo status desiderato il paese "ribelle" finalmente lavorerà per mantenerlo, cioè per la stabilità. Non sempre è così. Dipende, innanzitutto dalla natura del regime. Si sa, infatti, che a certi la fame vien mangiando e sbocconcellando qui e là cominciano a convincersi di potersi mangiare l'agnello intero. Insomma, la tipica politica di potenza.
Prodi, in questo caso, ha fatto bene a ricordare che il ruolo che ci si aspetta dall'Iran è quello di favorire la stabilizzazione della regione, osservando che le dichiarazioni che mettono in dubbio il diritto all'esistenza
di Israele non vanno in tale direzione. Gli iraniani cercheranno di far credere al mondo che una volta arricchito l'uranio se ne staranno buoni e svolgeranno quel ruolo di stabilizzatori regionali. Ebbene, l'ideologia al potere a Teheran non ci permette di affidarci a simili calcoli.
Una delle frasi più inquietanti (lo so, c'è l'imbarazzo della scelta) scappate a Prodi in questi giorni è passata quasi nell'indifferenza generale: «Le mie iniziative sono concordate con Solana o magari con Chirac». Che Prodi fosse, consapevolmente o meno, marionetta di Chirac lo sospettavamo. Chissà perché...
Thursday, September 21, 2006
Quello che non fa la Bonino lo fa Gianni Vernetti
E' Christian Rocca ad osservare, oggi su Il Foglio, che «a seguire l'agenda politico-diplomatica newyorchese di Vernetti si nota una differenza di approccio alle questioni internazionali rispetto ai suoi più alti in grado», Prodi e D'Alema. A noi è venuto subito in mente che anche Emma Bonino, durante la visita del Governo in Cina - soprattutto prevedendo ciò che tutti sapevano (che cioè le autorità cinesi avrebbero chiesto a Prodi di prendere le posizioni che poi ha preso) - poteva trovare degli spazi, pensare a un gesto concreto, per rimarcare una differenza di approccio alle questioni internazionali rispetto al suo più alto in grado. E' la mancanza che abbiamo sottolineato in un capoverso in fondo all'articolo di ieri su L'Opinione. Bastava poco, si poteva e si doveva.
Vernetti, per esempio, mentre Prodi incontrava all'Onu il presidente iraniano Ahmadinejad, partecipava di fronte al Palazzo di Vetro alla manifestazione anti-Ahmadinejad insieme con l'opposizione iraniana e i gruppi pro Israele guidati dal premio Nobel Elie Wiesel; mentre Prodi invocava e praticava il dialogo con il negatore dell'Olocausto, Vernetti e i manifestanti chiedevano la semplice applicazione dello Statuto dell'Onu e la conseguente espulsione dell'Iran dal consesso delle Nazioni Unite.
Le dichiarazioni che il sottosegretario della Margherita rilascia al Foglio impressionano per quanto di "radicale" vi si riconosce: «L'idea che si possa fare a meno di democrazia e diritti, ottenendo in cambio la stabilità politica, è un reperto del passato, spazzato via dall'11 settembre. Quel modo di pensare non è più possibile». Traducendo questi concetti in azioni politiche, Vernetti si ritrova in piazza contro Ahmadinejad, ma anche a marcare un'ulteriore differenza rispetto all'apertura di Prodi per la fine dell'embargo europeo sulle armi alla Cina: «In tutti i miei incontri con i rappresentanti del governo di Pechino ho fatto puntuale richiesta sulla libertà religiosa e di stampa e ho chiesto l'eliminazione della pena di morte per quella quarantina di reati non di sangue... non bisogna avere paura della Cina, né pensare di adottare sciocche misure protezioniste alla Tremonti. Via libera al mercato, purché queste concessioni non siano gratuite: noi ci apriamo agli scambi commerciali, ma voi ci date qualcosa in termini di diritti».
Se il nome di Emma Bonino è una garanzia nel campo della promozione dei diritti umani e della democrazia, è anche vero che non conta "il nome" di per sé, ma chi quelle idee le porta avanti concretamente, anche con piccoli gesti. Ciò che Vernetti ha fatto all'Onu è ciò che i radicali avrebbero sempre voluto fare, una volta acquisito il ruolo di rappresentanti di governo. Insomma, il classico caso dell'allievo che supera la maestra. E' confortante però che qualche seme "radicale" stia germogliando, anche se lontano dalla pianta.
Leggendo tutto il mio articolo su L'Opinione si comprende che le mie non sono critiche moralistiche per le parole sui diritti umani che sarebbero mancate durante la visita del Governo in Cina, ma per le prese di posizione che ci sono state. Non è chi constata un danno d'immagine a procurarlo, altrimenti si tratta di una via stalinista per dare addosso all'avversario interno.
Le generiche dichiarazioni sui diritti umani, come sempre, ci sono state, e, come sempre, sono gratis. Avrei capito se si fosse detto: "Visita commerciale, non si parla di democrazia e diritti umani". Ok, è coerente, non mi piace ma è coerente. Invece la visita ha vissuto un suo momento altamente politico quando Prodi ha incontrato i vertici della Repubblica popolare cinese a Pechino. Lì ha schierato l'Italia con il Governo cinese su due pilastri della sua politica. Di fatto, obiettivamente, ha praticato una politica filo-dittatura, non (lo ripeto) perché abbia taciuto sui diritti umani o abbia fatto affari commerciali, ma perché ha sposato due obiettivi strategici di stampo nazionalistico della dittatura cinese.
Lì, a Pechino, nel momento politico (non più commerciale) della visita, mi sarei aspettato da Emma Bonino un gesto concreto per rimarcare una differenza di approccio nei confronti di Pechino, come Vernetti - e abbiamo visto con quanti e quali argomenti - ha fatto all'Onu nei confronti di Ahmadinejad. Si potrebbe obiettare che la Bonino è ministro al Commercio Estero e non alla Farnesina, ma allora viene meno l'obiettivo di far "maturare" sul campo quel ruolo che a tavolino, in sede di negoziazione per la formazione del Governo, non si riuscì a ottenere, per le vicende che sappiamo, e che doveva servire come postazione per l'alternativa.
Comunicati nei quali si fa notare come Prodi abbia semplicemente fatto e detto ciò che Berlusconi, Ciampi e Fini avevano detto e fatto prima di lui sono dei clamorosi autogol. Si mette, certo, in luce la contraddizione negli avversari, ma si conferma la propria: non doveva, il Governo Prodi, dare segni di discontinuità? Non dovevano, i radicali, almeno provare l'alternativa, dopo l'alternanza? Chi meglio può provarci se non una radicale ministro?
Vernetti, per esempio, mentre Prodi incontrava all'Onu il presidente iraniano Ahmadinejad, partecipava di fronte al Palazzo di Vetro alla manifestazione anti-Ahmadinejad insieme con l'opposizione iraniana e i gruppi pro Israele guidati dal premio Nobel Elie Wiesel; mentre Prodi invocava e praticava il dialogo con il negatore dell'Olocausto, Vernetti e i manifestanti chiedevano la semplice applicazione dello Statuto dell'Onu e la conseguente espulsione dell'Iran dal consesso delle Nazioni Unite.
Le dichiarazioni che il sottosegretario della Margherita rilascia al Foglio impressionano per quanto di "radicale" vi si riconosce: «L'idea che si possa fare a meno di democrazia e diritti, ottenendo in cambio la stabilità politica, è un reperto del passato, spazzato via dall'11 settembre. Quel modo di pensare non è più possibile». Traducendo questi concetti in azioni politiche, Vernetti si ritrova in piazza contro Ahmadinejad, ma anche a marcare un'ulteriore differenza rispetto all'apertura di Prodi per la fine dell'embargo europeo sulle armi alla Cina: «In tutti i miei incontri con i rappresentanti del governo di Pechino ho fatto puntuale richiesta sulla libertà religiosa e di stampa e ho chiesto l'eliminazione della pena di morte per quella quarantina di reati non di sangue... non bisogna avere paura della Cina, né pensare di adottare sciocche misure protezioniste alla Tremonti. Via libera al mercato, purché queste concessioni non siano gratuite: noi ci apriamo agli scambi commerciali, ma voi ci date qualcosa in termini di diritti».
Se il nome di Emma Bonino è una garanzia nel campo della promozione dei diritti umani e della democrazia, è anche vero che non conta "il nome" di per sé, ma chi quelle idee le porta avanti concretamente, anche con piccoli gesti. Ciò che Vernetti ha fatto all'Onu è ciò che i radicali avrebbero sempre voluto fare, una volta acquisito il ruolo di rappresentanti di governo. Insomma, il classico caso dell'allievo che supera la maestra. E' confortante però che qualche seme "radicale" stia germogliando, anche se lontano dalla pianta.
Leggendo tutto il mio articolo su L'Opinione si comprende che le mie non sono critiche moralistiche per le parole sui diritti umani che sarebbero mancate durante la visita del Governo in Cina, ma per le prese di posizione che ci sono state. Non è chi constata un danno d'immagine a procurarlo, altrimenti si tratta di una via stalinista per dare addosso all'avversario interno.
Le generiche dichiarazioni sui diritti umani, come sempre, ci sono state, e, come sempre, sono gratis. Avrei capito se si fosse detto: "Visita commerciale, non si parla di democrazia e diritti umani". Ok, è coerente, non mi piace ma è coerente. Invece la visita ha vissuto un suo momento altamente politico quando Prodi ha incontrato i vertici della Repubblica popolare cinese a Pechino. Lì ha schierato l'Italia con il Governo cinese su due pilastri della sua politica. Di fatto, obiettivamente, ha praticato una politica filo-dittatura, non (lo ripeto) perché abbia taciuto sui diritti umani o abbia fatto affari commerciali, ma perché ha sposato due obiettivi strategici di stampo nazionalistico della dittatura cinese.
Lì, a Pechino, nel momento politico (non più commerciale) della visita, mi sarei aspettato da Emma Bonino un gesto concreto per rimarcare una differenza di approccio nei confronti di Pechino, come Vernetti - e abbiamo visto con quanti e quali argomenti - ha fatto all'Onu nei confronti di Ahmadinejad. Si potrebbe obiettare che la Bonino è ministro al Commercio Estero e non alla Farnesina, ma allora viene meno l'obiettivo di far "maturare" sul campo quel ruolo che a tavolino, in sede di negoziazione per la formazione del Governo, non si riuscì a ottenere, per le vicende che sappiamo, e che doveva servire come postazione per l'alternativa.
Comunicati nei quali si fa notare come Prodi abbia semplicemente fatto e detto ciò che Berlusconi, Ciampi e Fini avevano detto e fatto prima di lui sono dei clamorosi autogol. Si mette, certo, in luce la contraddizione negli avversari, ma si conferma la propria: non doveva, il Governo Prodi, dare segni di discontinuità? Non dovevano, i radicali, almeno provare l'alternativa, dopo l'alternanza? Chi meglio può provarci se non una radicale ministro?
«Ma siamo matti!?». L'impressionante Record del Professor Prodi
Un premier «assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza»
Nell'arco di una manciata di giorni: garantisce al Governo cinese l'appoggio dell'Italia alla richiesta di revoca dell'embargo europeo sulle armi alla Cina e alla politica di "una sola Cina", dietro cui si celano le intenzioni aggressive verso Taiwan. Due prese di posizione, su altrettanti pilastri strategici dei cinesi, che obiettivamente rafforzano e incoraggiano Pechino nel perseguire i suoi disegni nazionalistici. Più o meno come se in visita alla Casa Bianca si dicesse favorevole alle sanzioni contro l'Iran, cosa che non osiamo sperare.
Scoppia il Telecomgate, quando viene alla luce il "piano Rovati", la pistola fumante di un colossale conflitto d'interessi; la prova sconcertante che a Palazzo Chigi si è insediato un gruppo di oligarchi. Un piano di nazionalizzazione che avrebbe visto il capo del governo concentrare nelle sue mani, a spese dello Stato, una grossa fetta della comunicazione in Italia per poi, prima della fine del mandato, rivenderla a due lire, naturalmente alla cricca dei capitani della finanza suoi amici. Putiniano.
Infine, è stato il primo Capo di Governo europeo a incontrare Ahmadinejad, incontro i cui obiettivi di politica estera rimangono oscuri. Prodi avrà forse provato a mettere sul piatto della bilancia il peso decisivo, pare un nuovo piano elaborato da Rovati. L'iniziativa, diciamo un po' unilaterale, si è conclusa «senza alcun passo in avanti concreto ma con le idee molto chiare sulla necessità di fare un passo in avanti nei colloqui tra le parti» (?). Dunque, un esito «positivo ma interlocutorio, positivo nel senso che le opinioni sono state molto chiare e precise e che non mi è stato detto né un sì, né un no» (?).
Nel mezzo di questa fervente attività, il Professore non s'è fatto mancare qualche gaffe piazzata qui e là. Riferire al Parlamento sul caso Telecom? «Ma siamo matti?!», reagiva stizzito, salvo poi doversi rassegnare a pagar pegno. Su questo blog, su chi fosse il "matto" qualche idea l'avevamo fin dal marzo scorso e suggerivamo un'ipotesi, che oggi ritorna attuale.
In un retroscena, oggi sul Corriere, Maria Teresa Meli descrive il clima di «disagio» e di «preoccupazione» dei leader dell'Unione per le intemperanze del Professore. La situazione «si sta avvitando»; ci vuole «più collegamento tra governo e maggioranza»; più «collegialità». Tutti eufemismi che stanno a indicare la necessità di porre Prodi sotto tutela. Lusetti avrebbe proposto però di «fargli smaltire il fuso». Il problema è che Prodi sembra fuso di suo.
Torna quindi prepotente, nei pensieri dei leader dell'Unione, l'idea di creare una sorta di cordone sanitario intorno al vero «matto», che sembra ormai fuori controllo. Per ora si parla di riduzione del danno, ma non è escluso che pensino di disfarsene, se Berlusconi non fosse troppo rigido sul ritorno alle urne. L'imbarazzo è su chi per primo dovrà chiamare la neuro.
Mesi fa, in piena campagna elettorale, anzi nelle sue fasi conclusive, fu sempre Maria Teresa Meli, sul Corriere, a descrivere uno scenario che ricorda quello di oggi:
Diciamola tutta, ma quale complotto? Nel '98 D'Alema, Bertinotti e Marini (che guarda caso oggi sono in posti istituzionali chiave, quasi a prefigurare il peggio) non tramarono per far cadere Prodi. Semplicemente si resero conto di trovarsi di fronte a una tale disarmante incapacità da dover in qualche modo intervenire per mandare avanti la baracca.
Ricordi Professore, ricordi il logos... ma sembra ormai troppo tardi. Prodi è un premier «assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza». Un premier che invece di governare - e governarsi - va governato.
Nell'arco di una manciata di giorni: garantisce al Governo cinese l'appoggio dell'Italia alla richiesta di revoca dell'embargo europeo sulle armi alla Cina e alla politica di "una sola Cina", dietro cui si celano le intenzioni aggressive verso Taiwan. Due prese di posizione, su altrettanti pilastri strategici dei cinesi, che obiettivamente rafforzano e incoraggiano Pechino nel perseguire i suoi disegni nazionalistici. Più o meno come se in visita alla Casa Bianca si dicesse favorevole alle sanzioni contro l'Iran, cosa che non osiamo sperare.
Scoppia il Telecomgate, quando viene alla luce il "piano Rovati", la pistola fumante di un colossale conflitto d'interessi; la prova sconcertante che a Palazzo Chigi si è insediato un gruppo di oligarchi. Un piano di nazionalizzazione che avrebbe visto il capo del governo concentrare nelle sue mani, a spese dello Stato, una grossa fetta della comunicazione in Italia per poi, prima della fine del mandato, rivenderla a due lire, naturalmente alla cricca dei capitani della finanza suoi amici. Putiniano.
Infine, è stato il primo Capo di Governo europeo a incontrare Ahmadinejad, incontro i cui obiettivi di politica estera rimangono oscuri. Prodi avrà forse provato a mettere sul piatto della bilancia il peso decisivo, pare un nuovo piano elaborato da Rovati. L'iniziativa, diciamo un po' unilaterale, si è conclusa «senza alcun passo in avanti concreto ma con le idee molto chiare sulla necessità di fare un passo in avanti nei colloqui tra le parti» (?). Dunque, un esito «positivo ma interlocutorio, positivo nel senso che le opinioni sono state molto chiare e precise e che non mi è stato detto né un sì, né un no» (?).
Nel mezzo di questa fervente attività, il Professore non s'è fatto mancare qualche gaffe piazzata qui e là. Riferire al Parlamento sul caso Telecom? «Ma siamo matti?!», reagiva stizzito, salvo poi doversi rassegnare a pagar pegno. Su questo blog, su chi fosse il "matto" qualche idea l'avevamo fin dal marzo scorso e suggerivamo un'ipotesi, che oggi ritorna attuale.
In un retroscena, oggi sul Corriere, Maria Teresa Meli descrive il clima di «disagio» e di «preoccupazione» dei leader dell'Unione per le intemperanze del Professore. La situazione «si sta avvitando»; ci vuole «più collegamento tra governo e maggioranza»; più «collegialità». Tutti eufemismi che stanno a indicare la necessità di porre Prodi sotto tutela. Lusetti avrebbe proposto però di «fargli smaltire il fuso». Il problema è che Prodi sembra fuso di suo.
Torna quindi prepotente, nei pensieri dei leader dell'Unione, l'idea di creare una sorta di cordone sanitario intorno al vero «matto», che sembra ormai fuori controllo. Per ora si parla di riduzione del danno, ma non è escluso che pensino di disfarsene, se Berlusconi non fosse troppo rigido sul ritorno alle urne. L'imbarazzo è su chi per primo dovrà chiamare la neuro.
Mesi fa, in piena campagna elettorale, anzi nelle sue fasi conclusive, fu sempre Maria Teresa Meli, sul Corriere, a descrivere uno scenario che ricorda quello di oggi:
«L'inquietudine corre sui cellulari dei leader dei partiti dell'Ulivo. C'è preoccupazione perche all'esterno rischia di arrivare un messaggio che per il centrosinistra può essere controproducente: l'Unione corre il pericolo di passare come il partito delle tasse. Gli ultimi sondaggi riservati sembrano dar ragione a questi timori... Una, due, tre telefonate: "Romano, meglio che siamo cauti, non insistiamo troppo su Bot e tasse successione". Ma dall'altro capo del telefono il Professore non intende ragione».Pare di rivivere le stesse inquietudini, oggi, nei leader del centrosinistra.
Diciamola tutta, ma quale complotto? Nel '98 D'Alema, Bertinotti e Marini (che guarda caso oggi sono in posti istituzionali chiave, quasi a prefigurare il peggio) non tramarono per far cadere Prodi. Semplicemente si resero conto di trovarsi di fronte a una tale disarmante incapacità da dover in qualche modo intervenire per mandare avanti la baracca.
Ricordi Professore, ricordi il logos... ma sembra ormai troppo tardi. Prodi è un premier «assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza». Un premier che invece di governare - e governarsi - va governato.
He, the Devil and the Mad guys
Alle Nazioni Unite il mondo è chiamato a scegliere da che parte stare: se con Bush, o con Ahmadinejad e Chavez, i cui discorsi hanno ricevuto scroscianti applausi dall'assemblea. «Ieri il demonio è venuto qui e questo posto odora ancora di zolfo», sono le parole riferite a Bush con cui Chavez ha scaldato i cuori in platea. Il professor Prodi, da esperto in materia, saprà distinguere i «matti» dai sani? E sceglierà il «diavolo» o i «matti»?
Una cosa è certa: l'era Annan all'Onu è finita, anche se bisogna fare attenzione, perché al peggio non c'è mai fine.
Il discorso di Bush, al solito, è stato di alto livello. Incentrato soprattutto sul Medio Oriente - Iran e l'espansione della democrazia. Il presidente americano si è rivolto direttamente ai popoli:
Se Bush ha incoraggiato iracheni, afghani e libanesi a proseguire con le riforme democratiche, ha invece incoraggiato iraniani e siriani a ribellarsi contro i rispettivi governi. Agli iraniani: «Rispettiamo la vostra nazione e la vostra ricca storia, la vostra esuberante cultura e i vostri molti contributi alla civiltà. Meritate di cogliere un'occasione per determinare il vostro futuro, un'economia che premi la vostra intelligenza e i vostri talenti, e una società che vi permetta di esprimere il vostro grande potenziale. Ma il più grande ostacolo per il vostro futuro sono i vostri governanti, che hanno scelto di negarvi la libertà, promuovere il terrorismo e perseguire le armi atomiche... Non abbiamo obiezioni al vostro sviluppo di un nucleare davvero pacifico...». Ai siriani: «I vostri governanti hanno consentito di trasformare la vostra nazione nel crocevia del terrorismo, Hamas ed Hezbollah vogliono destabilizzare la regione e il vostro governo sta facendo di voi uno strumento dell'Iran».
Forse qualcuno dovrebbe spiegare al mattatore della domenica sera, che dà spesso prova della propria disinformazione, che Bush è il primo presidente americano ad aver posto il carattere democratico del futuro Stato palestinese come condizione imprescindibile per la sua nascita. Non si è limitato a ripetere "Due popoli, due Stati, in pace l'uno a fianco all'altro", ma con un sensibile cambio di rotta strategico, che molti hanno confuso con un disimpegno, ha inserito il fondamentale aggettivo «democratici» davanti al sostantivo «Stati». Non è poco di questi tempi.
Una cosa è certa: l'era Annan all'Onu è finita, anche se bisogna fare attenzione, perché al peggio non c'è mai fine.
Il discorso di Bush, al solito, è stato di alto livello. Incentrato soprattutto sul Medio Oriente - Iran e l'espansione della democrazia. Il presidente americano si è rivolto direttamente ai popoli:
«Voglio parlare direttamente alle genti del Grande Medio Oriente. Fra voi vi sono estremisti la cui propaganda afferma che l'Occidente è in guerra contro l'Islam, tutto ciò è falso e viene detto solo per confondere e legittimare gli atti di terrore... Noi rispettiamo l'Islam ma vi proteggeremo da chi lo distorce per diffondere morte e distruzione, il nostro scopo è di aiutarvi a costruire una società più aperta e tollerante che promuove la pace e rispetta tutte le fedi».Per realizzare questa visione, «dobbiamo schierarci con i leader democratici e i riformatori moderati del Grande Medio Oriente... e marginalizzare gli estremisti».
Se Bush ha incoraggiato iracheni, afghani e libanesi a proseguire con le riforme democratiche, ha invece incoraggiato iraniani e siriani a ribellarsi contro i rispettivi governi. Agli iraniani: «Rispettiamo la vostra nazione e la vostra ricca storia, la vostra esuberante cultura e i vostri molti contributi alla civiltà. Meritate di cogliere un'occasione per determinare il vostro futuro, un'economia che premi la vostra intelligenza e i vostri talenti, e una società che vi permetta di esprimere il vostro grande potenziale. Ma il più grande ostacolo per il vostro futuro sono i vostri governanti, che hanno scelto di negarvi la libertà, promuovere il terrorismo e perseguire le armi atomiche... Non abbiamo obiezioni al vostro sviluppo di un nucleare davvero pacifico...». Ai siriani: «I vostri governanti hanno consentito di trasformare la vostra nazione nel crocevia del terrorismo, Hamas ed Hezbollah vogliono destabilizzare la regione e il vostro governo sta facendo di voi uno strumento dell'Iran».
Forse qualcuno dovrebbe spiegare al mattatore della domenica sera, che dà spesso prova della propria disinformazione, che Bush è il primo presidente americano ad aver posto il carattere democratico del futuro Stato palestinese come condizione imprescindibile per la sua nascita. Non si è limitato a ripetere "Due popoli, due Stati, in pace l'uno a fianco all'altro", ma con un sensibile cambio di rotta strategico, che molti hanno confuso con un disimpegno, ha inserito il fondamentale aggettivo «democratici» davanti al sostantivo «Stati». Non è poco di questi tempi.
Wednesday, September 20, 2006
Secchiate d'acqua
La mia secchiata d'acqua gelata sulla missione del Governo italiano in Cina è oggi su L'Opinione (pagina 7). D'altronde si sa, giro con la patente falsa.
Tuesday, September 19, 2006
Vogliamo interrogarci sulla visione dell'Islam in Benedetto XVI
Perché il Cristianesimo, che ha incontrato la ragione del pensiero greco, per secoli ha continuato a diffondere e a mantenere la fede mediante la violenza?
E' evidente che la citazione estrapolata dal discorso di Papa Benedetto XVI all'Università di Regensburg è stata solo un pretesto per infiammare le piazze islamiche, una replica perfetta della mobilitazione violenta orchestrata contro le vignette su Maometto, nel febbraio scorso.
Con le loro reazioni inneggianti alla "guerra santa" i fondamentalisti sunniti e sciiti - i Fratelli musulmani, Al Qaeda, la più alta autorità spirituale e politica iraniana, Khamenei, e il Gran Muftì saudita Abdulaziz Sheikh - hanno di fatto sottoscritto le pesanti parole dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo, da cui il Papa ha tratto la citazione incriminata. Bisogna, quindi, affermare con forza che nulla - né vignette né lezioni universitarie - giustifica la violenza. Abbiamo avuto in questi giorni nuova e vivida dimostrazione di quanto l'intreccio tra autoritarismo politico e fondamentalismo religioso abbia portato nel mondo islamico a un'eclissi della tolleranza, dell'abitudine al confronto e all'autocritica. L'Islam non si può criticare, né discutere, neanche con un pacato ragionamento filosofico-teologico.
Di fronte a questa campagna d'odio nei confronti di Benedetto XVI non si può che riaffermare con forza il principio della libertà d'espressione contro ogni intimidazione, anche se è bene ricordare che dalla Santa Sede non udimmo parole in difesa delle vignette satiriche su Maometto bensì di rimprovero alla satira blasfema, ma come diceva Thomas Friedman: «Noi siamo i buoni, vediamo di dimostrarlo».
Molti commentatori, qui da noi, hanno sottolineato la debolezza, la condizione di marginalità, dell'«introvabile islam moderato». E' indubbio che siano oggi milioni - una minoranza, ma rilevante e in forte crescita - i musulmani che sposano la versione jihadista dell'Islam. Tuttavia, le voci minacciose dei loro leader sono le sole che ci arrivano anche perché le più chiassose e violente, e le uniche trasmesse dai ben poco indipendenti e moderati canali di informazione del mondo islamico.
Eppure, anche tra le reazioni al discorso di Regensburg, alcune critiche, seppure ferme e dure, sono rimaste nell'ambito del dialogo, ma nel migliore dei casi le abbiamo ignorate, nel peggiore assimilate alle parole d'ordine degli estremisti.
Il Gran Muftì turco, Ali Bardakoglu, è persona seria e affidabile, non un estremista, ma un riformatore, che si prodiga nel cercare di sostenere, all'interno delle sua comunità religiosa, che Maometto non ha predicato la violenza, la discriminazione e l'oppressione. Come presidente degli Affari religiosi in Turchia ha di recente avviato un'iniziativa di studio per eliminare dalle raccolte di "hadit" quelle parti che legittimerebbero le discriminazioni e le violenze contro le donne, affermando che il profeta Maometto non può averle incoraggiate, e nominato due donne vice-muftì. In questo caso, poi, la protesta ha anche un risvolto politico, s'intreccia con la contrarietà della Santa Sede all'ingresso della Turchia nell'Unione europea, obiettivo politico e strategico cui l'intera classe dirigente turca ha dedicato decenni.
Un altro che il discorso del Papa se l'è letto è il Re del Marocco, Mohamed VI, discendente diretto di Maometto, noto per aver introdotto nel suo paese, uno dei più minacciati dal terrorismo, una legislazione molto avanzata sul diritto di famiglia e la posizione delle donne. Il Re è una delle poche autorità religiose musulmane ad aver compreso che l'accusa rivolta dal Papa all'Islam riguarda la sua intrinseca irrazionalità. Dunque, ha spedito un messaggio al Pontefice nel quale, con toni civili, spiega che invece l'Islam ha incontrato la cultura greca e non è separato dalla ragione:
Insomma, i musulmani riformatori saranno pochi e difficili da individuare, ma quei pochi non li si promuove a interlocutori, si preferisce incrociare le spade con i deliranti proclami di Al Qaeda, non considerando che facendo da camera di risonanza all'Islam come se fosse un blocco monolitico facciamo il gioco degli estremisti.
Riducendo l'"homo islamicus" alla sua fede religiosa ci abbandoniamo inconsapevolmente alla logica dell'ideologia fondamentalista, che mira all'"uomo nuovo" islamico informato unicamente a un'identità religiosa totalizzante. Amartya Sen ci ha ricordato che un approccio «solitarista» dell'identità umana, cioè che suddivide gli esseri umani in gruppi sulla base di un solo elemento identitario, come la religione, «ignorando tutti gli altri modi in cui le persone percepiscono se stesse», non solo «nega alle persone il diritto di scegliere la propria identità» e di riconoscersi in una molteplicità di esse, ma è il miglior favore al fondamentalismo islamico, il cui obiettivo è far sì che ogni musulmano percepisca se stesso solo attraverso la sua fede, divenendo così non solo disponibile, ma anche desideroso che l'Islam rappresenti per lui un pieno totalizzante, anche più della vita stessa.
Nessun moralistico sdegno, quindi, per la presunta offesa rivolta dal Papa all'Islam, ma dopo aver difeso la sua e la nostra libertà di parola dagli assalti degli estremisti islamici, possiamo discutere della visione che Benedetto XVI mostra di avere dell'Islam - anche se trapela da un discorso incentrato sul rapporto tra ratio e fides volto più a denunciare le tre ondate di «deellenizzazione»?
Si può far notare al Papa che il Cristianesimo avrà anche incontrato la ragione del pensiero greco, ma ugualmente, per secoli, ha continuato a diffondere e a mantenere la fede mediante la violenza, fino all'incontro con un altro tipo di ragione, quella dell'Illuminismo, che l'ha costretto a deporre le armi?
E' possibile, per esempio, dire che anche l'Islam ha incontrato - e ha poi smarrito - la ragione, come ha rivendicato il Re del Marocco? Oggi, certo, è chiamato a recuperare il rapporto con la ragione, ma Mohamed VI - e non Benedetto XVI - ha colto il punto esatto in cui l'Islam si è separato dalla modernità. Il divorzio tra il Dio islamico e la ragione si è consumato in epoca medioevale, quando Mhoammed al Ghazali codificò l'immutabilità del Corano, offuscando l'eredità di Averroé.
Accantonata la citazione dell'imperatore bizantino, possiamo concentrarci sulla frase chiave di Ratzinger, che è un'altra? Il Papa argomenta dal punto di vista teologico l'impossibilità, per l'Islam, di liberarsi della concezione violenta del jihad, perché l'agire contro la ragione non è in contrasto con la natura del Dio islamico, che è «assolutamente trascendente... non è legato a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza...». Dunque, la «diffusione della fede mediante la violenza» è un carattere intrinseco della «dottrina musulmana». Da una parte il Dio della Bibbia, del pensiero greco, dell'incontro tra fede e ragione, dall'altra il Dio del Corano, arbitrario e violento, perché lontano e separato dalla ragione. Una Riforma dell'Islam, sembra dire quindi Benedetto XVI - che non fa cenno nel testo ai periodi in cui l'Islam, come ricordato da Mohamed VI, ha conosciuto la categoria della ragione - è molto improbabile a causa della intrinseca irrazionalità del Dio dei musulmani.
E' ciò che ho cercato di trattare in alcuni post di questi giorni.
E' evidente che la citazione estrapolata dal discorso di Papa Benedetto XVI all'Università di Regensburg è stata solo un pretesto per infiammare le piazze islamiche, una replica perfetta della mobilitazione violenta orchestrata contro le vignette su Maometto, nel febbraio scorso.
Con le loro reazioni inneggianti alla "guerra santa" i fondamentalisti sunniti e sciiti - i Fratelli musulmani, Al Qaeda, la più alta autorità spirituale e politica iraniana, Khamenei, e il Gran Muftì saudita Abdulaziz Sheikh - hanno di fatto sottoscritto le pesanti parole dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo, da cui il Papa ha tratto la citazione incriminata. Bisogna, quindi, affermare con forza che nulla - né vignette né lezioni universitarie - giustifica la violenza. Abbiamo avuto in questi giorni nuova e vivida dimostrazione di quanto l'intreccio tra autoritarismo politico e fondamentalismo religioso abbia portato nel mondo islamico a un'eclissi della tolleranza, dell'abitudine al confronto e all'autocritica. L'Islam non si può criticare, né discutere, neanche con un pacato ragionamento filosofico-teologico.
Di fronte a questa campagna d'odio nei confronti di Benedetto XVI non si può che riaffermare con forza il principio della libertà d'espressione contro ogni intimidazione, anche se è bene ricordare che dalla Santa Sede non udimmo parole in difesa delle vignette satiriche su Maometto bensì di rimprovero alla satira blasfema, ma come diceva Thomas Friedman: «Noi siamo i buoni, vediamo di dimostrarlo».
Molti commentatori, qui da noi, hanno sottolineato la debolezza, la condizione di marginalità, dell'«introvabile islam moderato». E' indubbio che siano oggi milioni - una minoranza, ma rilevante e in forte crescita - i musulmani che sposano la versione jihadista dell'Islam. Tuttavia, le voci minacciose dei loro leader sono le sole che ci arrivano anche perché le più chiassose e violente, e le uniche trasmesse dai ben poco indipendenti e moderati canali di informazione del mondo islamico.
Eppure, anche tra le reazioni al discorso di Regensburg, alcune critiche, seppure ferme e dure, sono rimaste nell'ambito del dialogo, ma nel migliore dei casi le abbiamo ignorate, nel peggiore assimilate alle parole d'ordine degli estremisti.
Il Gran Muftì turco, Ali Bardakoglu, è persona seria e affidabile, non un estremista, ma un riformatore, che si prodiga nel cercare di sostenere, all'interno delle sua comunità religiosa, che Maometto non ha predicato la violenza, la discriminazione e l'oppressione. Come presidente degli Affari religiosi in Turchia ha di recente avviato un'iniziativa di studio per eliminare dalle raccolte di "hadit" quelle parti che legittimerebbero le discriminazioni e le violenze contro le donne, affermando che il profeta Maometto non può averle incoraggiate, e nominato due donne vice-muftì. In questo caso, poi, la protesta ha anche un risvolto politico, s'intreccia con la contrarietà della Santa Sede all'ingresso della Turchia nell'Unione europea, obiettivo politico e strategico cui l'intera classe dirigente turca ha dedicato decenni.
Un altro che il discorso del Papa se l'è letto è il Re del Marocco, Mohamed VI, discendente diretto di Maometto, noto per aver introdotto nel suo paese, uno dei più minacciati dal terrorismo, una legislazione molto avanzata sul diritto di famiglia e la posizione delle donne. Il Re è una delle poche autorità religiose musulmane ad aver compreso che l'accusa rivolta dal Papa all'Islam riguarda la sua intrinseca irrazionalità. Dunque, ha spedito un messaggio al Pontefice nel quale, con toni civili, spiega che invece l'Islam ha incontrato la cultura greca e non è separato dalla ragione:
«Il Marocco ha avuto nella sua storia eruditi che hanno trasmesso una parte della cultura greca all'Occidente cristiano nel Medio Evo, e che nei loro trattati filosofici hanno esaminato la possibile coabitazione fra ragione e religione, essendo la prima un modo per meglio comprendere la seconda, una verità corroborata del resto dai grandi orientalisti e dagli storici di diversi paesi occidentali».Infine, su al Arabiya, il saudita Abdel Rahman al Rashed, l'unico musulmano "salvato" persino da Oriana Fallaci, ci ha fatto notare che «Bin Laden sarebbe stato disposto a pagare tutti i soldi che gli rimangono per ottenere questa dichiarazione del Papa che ha indotto i musulmani ad allinearsi sulle posizioni di Al Qaeda».
Insomma, i musulmani riformatori saranno pochi e difficili da individuare, ma quei pochi non li si promuove a interlocutori, si preferisce incrociare le spade con i deliranti proclami di Al Qaeda, non considerando che facendo da camera di risonanza all'Islam come se fosse un blocco monolitico facciamo il gioco degli estremisti.
Riducendo l'"homo islamicus" alla sua fede religiosa ci abbandoniamo inconsapevolmente alla logica dell'ideologia fondamentalista, che mira all'"uomo nuovo" islamico informato unicamente a un'identità religiosa totalizzante. Amartya Sen ci ha ricordato che un approccio «solitarista» dell'identità umana, cioè che suddivide gli esseri umani in gruppi sulla base di un solo elemento identitario, come la religione, «ignorando tutti gli altri modi in cui le persone percepiscono se stesse», non solo «nega alle persone il diritto di scegliere la propria identità» e di riconoscersi in una molteplicità di esse, ma è il miglior favore al fondamentalismo islamico, il cui obiettivo è far sì che ogni musulmano percepisca se stesso solo attraverso la sua fede, divenendo così non solo disponibile, ma anche desideroso che l'Islam rappresenti per lui un pieno totalizzante, anche più della vita stessa.
Nessun moralistico sdegno, quindi, per la presunta offesa rivolta dal Papa all'Islam, ma dopo aver difeso la sua e la nostra libertà di parola dagli assalti degli estremisti islamici, possiamo discutere della visione che Benedetto XVI mostra di avere dell'Islam - anche se trapela da un discorso incentrato sul rapporto tra ratio e fides volto più a denunciare le tre ondate di «deellenizzazione»?
Si può far notare al Papa che il Cristianesimo avrà anche incontrato la ragione del pensiero greco, ma ugualmente, per secoli, ha continuato a diffondere e a mantenere la fede mediante la violenza, fino all'incontro con un altro tipo di ragione, quella dell'Illuminismo, che l'ha costretto a deporre le armi?
E' possibile, per esempio, dire che anche l'Islam ha incontrato - e ha poi smarrito - la ragione, come ha rivendicato il Re del Marocco? Oggi, certo, è chiamato a recuperare il rapporto con la ragione, ma Mohamed VI - e non Benedetto XVI - ha colto il punto esatto in cui l'Islam si è separato dalla modernità. Il divorzio tra il Dio islamico e la ragione si è consumato in epoca medioevale, quando Mhoammed al Ghazali codificò l'immutabilità del Corano, offuscando l'eredità di Averroé.
Accantonata la citazione dell'imperatore bizantino, possiamo concentrarci sulla frase chiave di Ratzinger, che è un'altra? Il Papa argomenta dal punto di vista teologico l'impossibilità, per l'Islam, di liberarsi della concezione violenta del jihad, perché l'agire contro la ragione non è in contrasto con la natura del Dio islamico, che è «assolutamente trascendente... non è legato a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza...». Dunque, la «diffusione della fede mediante la violenza» è un carattere intrinseco della «dottrina musulmana». Da una parte il Dio della Bibbia, del pensiero greco, dell'incontro tra fede e ragione, dall'altra il Dio del Corano, arbitrario e violento, perché lontano e separato dalla ragione. Una Riforma dell'Islam, sembra dire quindi Benedetto XVI - che non fa cenno nel testo ai periodi in cui l'Islam, come ricordato da Mohamed VI, ha conosciuto la categoria della ragione - è molto improbabile a causa della intrinseca irrazionalità del Dio dei musulmani.
E' ciò che ho cercato di trattare in alcuni post di questi giorni.
Un piano putiniano
Su Il Foglio di oggi:
Al direttore - Il piano Rovati è la pistola fumante di un colossale conflitto d'interessi; la prova sconcertante che a Palazzo Chigi si è insediato un gruppo di oligarchi. Come definire un piano di nazionalizzazione che avrebbe visto il capo del governo concentrare nelle sue mani, a spese dello stato, una grossa fetta della comunicazione in Italia per poi, prima della fine del mandato, rivenderla a due lire, naturalmente alla cricca dei capitani della finanza amici del premier? Mi viene in mente un solo aggettivo: putiniano.
Al direttore - Il piano Rovati è la pistola fumante di un colossale conflitto d'interessi; la prova sconcertante che a Palazzo Chigi si è insediato un gruppo di oligarchi. Come definire un piano di nazionalizzazione che avrebbe visto il capo del governo concentrare nelle sue mani, a spese dello stato, una grossa fetta della comunicazione in Italia per poi, prima della fine del mandato, rivenderla a due lire, naturalmente alla cricca dei capitani della finanza amici del premier? Mi viene in mente un solo aggettivo: putiniano.
Monday, September 18, 2006
Quando l'Islam si separò dalla ragione
L'Islam come «religione della guerra» è la conclusione che alcuni traggono dalla lectio magistralis del Papa all'Università di Regensburg e dalle reazioni, scomposte e violente, di molti leader religiosi e politici islamici. Per lo meno di quelli, occorre notarlo, di cui i ben poco indipendenti e moderati canali di informazione del mondo islamico hanno trasmesso la voce.
Sbaglierebbe, secondo questa lettura, il presidente Bush, il quale - testualmente - ripete che l'Islam è una «religione di pace» (qui e qui) e che il fondamentalismo rappresenta una versione perversa, deviata, dell'Islam: l'islamo-fascismo.
«Leggendo il testo del discorso del Papa a Ratisbona si ha l'impressione che il Papa abbia assai meno fiducia di Bush nella possibilità di un riscatto dell'Islam dalla Jihad», ha dichiarato David Frum, neoconservatore ed ex speechwriter di Bush, giorni fa a La Stampa:
Indubbiamente quelle di Ratzinger sono parole «incendiarie, ma coraggiose», osserva Andrew Sullivan, che come noi è rimasto colpito dalla «visione di Benedetto dell'Islam... dal suo suggerimento che imposizioni e violenza non sono estrinseci, ma intrinseci alla visione che ha l'Islam del rapporto del genere umano con il divino». In un post successivo, scrive che la nozione della violenza nel Corano, per esempio della "guerra santa", nelle conclusioni del Papa sarebbe dovuta alla religione stessa; e che invece «i passaggi sulla pace possono essere spiegati in parte dal fatto che appartengono ai primi giorni dell'Islam, quando Maometto non aveva altre opzioni pratiche. Successivamente, Maometto sostenne e praticò la guerra».
Tuttavia, secondo il Time, il Papa nel suo discorso avrebbe commesso un grave errore di attribuzione: il celebre versetto "Nessuna costrizione nelle cose di fede" (sura 2, 256), attribuito al «periodo iniziale... in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato», secondo numerosi studiosi musulmani risalirebbe invece al periodo medio, circa al 24esimo anno della predicazione di Maometto (624 o 625 d. C.), quando era a Medina e controllava già uno Stato. Dunque, quel versetto non sarebbe stato scritto quando Maometto era in posizione di debolezza - come riportato dal Papa quasi a sminuirne il valore - ma di forza.
Inoltre, continua Sullivan, «la natura della rivelazione musulmana, secondo Benedetto XVI, è che la parola di Dio è stata consegnata direttamente al Profeta. La tradizione cristiana del logos, della ragione, non trova quindi corrispondenza nell'Islam, secondo il Papa. Una riforma dell'Islam, sembra dire Benedetto, è molto improbabile a causa della intrinseca irrazionalità dell'Islam...».
Un altro che il discorso del Papa se l'è letto è il Re del Marocco, Mohamed VI, discendente diretto di Maometto, noto per aver introdotto nel suo paese, uno dei più minacciati dal terrorismo, una legislazione molto avanzata sul diritto di famiglia e la posizione delle donne. Il Re è una delle poche autorità religiose musulmane ad aver compreso che l'accusa rivolta dal Papa all'Islam riguarda la sua intrinseca irrazionalità. Dunque, con toni civili ha spedito un messaggio al Pontefice nel quale spiega che invece l'Islam onora la ragione e pratica la tolleranza.
Nel messaggio si ribadisce che «la fede di ogni musulmano non può essere considerata completa se non crede in tutti i profeti, e in primo luogo in Mosè e Gesù, che la pace sia su di loro». Che l'Islam «esorta alla pace e alla moderazione e rigetta, al contrario, la violenza, permanendo attraverso la storia come un faro illuminante, portatore di un messaggio di tolleranza religiosa e di mescolanza delle culture e delle civiltà». Naturalmente si riferisce alla versione che egli stesso incarna in Marocco - che è possibile e autorevole - e non alla totalità del mondo musulmano, su cui prevale la versione jihadista.
Mohamed VI sottolinea inoltre come in realtà il mondo arabo abbia conosciuto quell'incontro con la cultura greca che secondo Ratzinger ha riguardato solo il Cristianesimo: «Il Marocco ha avuto nella sua storia eruditi che hanno trasmesso una parte della cultura greca all'Occidente cristiano nel Medio Evo, e che nei loro trattati filosofici hanno esaminato la possibile coabitazione fra ragione e religione, essendo la prima un modo per meglio comprendere la seconda, una verità corroborata del resto dai grandi orientalisti e dagli storici di diversi paesi occidentali». Dunque, è il Re marocchino - e non Benedetto XVI, come sostiene Panella - a cogliere il «punto esatto in cui l'Islam si è separato dalla modernità: quel divorzio tra Dio e ragione che è stato codificato nel dodicesimo secolo da Mhoammed al Ghazali, quella sconfitta di Averroé che ha letteralmente bloccato l'elaborazione scientifica del mondo islamico».
Anche Gian Enrico Rusconi, oggi su La Stampa, ritiene che del discorso del Papa «a torto siano state lanciate nel circuito mediale mondiale esclusivamente le famigerate citazioni... estrapolate dal discorso complessivo». Il punto, in realtà, è un altro. I «concetti guida» dell'intera lectio magistralis - logos, ragione, ragionevolezza - «collocano e ripensano l'identità cristiana dentro al processo di razionalizzazione occidentale... declinato in termini di "ellenizzazione del cristianesimo"». Questo discorso, tuttavia, «come corollario sull'Islam proietta l'ombra dell'irrazionalità, della irragionevolezza... La condanna alla "guerra santa" islamica si colloca all'interno di un ragionamento basato sul contrasto tra il Dio-Logos greco-cristiano e il Dio-Arbitrio dell'Islam. Tra la razionalità occidentale e l'irrazionalismo orientale».
E' questa, osserva Rusconi, «la vera questione storica, filosofica e teologica che meriterebbe un dibattito ampio e forte». Perché se «è vero che il Pontefice a Regensburg non poteva affrontare uno "studio approfondito sulla jihad"», doveva però «fare alcune precisazioni sulla impropria identificazione della jihad con la violenza armata, sui diversi e complessi significati che questa espressione ha nella teologia più qualificata». Insomma, quelle che ha sollevato Panella nel suo articolo di sabato per Il Foglio. «In questo modo Ratzinger si sarebbe sottratto all'accusa di non conoscere la cultura islamica e di coltivare semplicistici pregiudizi anti-islamici». O quanto meno si sarebbe sottratto alle critiche mosse in buona fede e a quelle qui in Occidente.
Bernard Lewis dice di non aver letto la lezione del Pontefice, ma il suo pensiero è chiaro da sempre:
Sbaglierebbe, secondo questa lettura, il presidente Bush, il quale - testualmente - ripete che l'Islam è una «religione di pace» (qui e qui) e che il fondamentalismo rappresenta una versione perversa, deviata, dell'Islam: l'islamo-fascismo.
«Leggendo il testo del discorso del Papa a Ratisbona si ha l'impressione che il Papa abbia assai meno fiducia di Bush nella possibilità di un riscatto dell'Islam dalla Jihad», ha dichiarato David Frum, neoconservatore ed ex speechwriter di Bush, giorni fa a La Stampa:
«Per Bush l'Islam deve solamente liberarsi di un'ideologia estranea, violenta ed anti-occidentale, tornando alle proprie origini pacifiche. Mentre il Papa sembra dire che proprio le origini non sono pacifiche».Su questo dato delle origini pacifiche dell'Islam si fonda la fattibilità dell'esportazione della libertà e della democrazia, che presuppone una Riforma dell'Islam e un processo di secolarizzazione delle società musulmane. Se l'Islam non è una religione essenzialmente pacifica che cacchio stiamo a fare? Stiamo perdendo tempo. Per questo trovo che l'invito del Papa a recuperare il «timore di Dio» per placare le paure delle popolazioni musulmane confligga con i presupposti della dottrina Bush.
Indubbiamente quelle di Ratzinger sono parole «incendiarie, ma coraggiose», osserva Andrew Sullivan, che come noi è rimasto colpito dalla «visione di Benedetto dell'Islam... dal suo suggerimento che imposizioni e violenza non sono estrinseci, ma intrinseci alla visione che ha l'Islam del rapporto del genere umano con il divino». In un post successivo, scrive che la nozione della violenza nel Corano, per esempio della "guerra santa", nelle conclusioni del Papa sarebbe dovuta alla religione stessa; e che invece «i passaggi sulla pace possono essere spiegati in parte dal fatto che appartengono ai primi giorni dell'Islam, quando Maometto non aveva altre opzioni pratiche. Successivamente, Maometto sostenne e praticò la guerra».
Tuttavia, secondo il Time, il Papa nel suo discorso avrebbe commesso un grave errore di attribuzione: il celebre versetto "Nessuna costrizione nelle cose di fede" (sura 2, 256), attribuito al «periodo iniziale... in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato», secondo numerosi studiosi musulmani risalirebbe invece al periodo medio, circa al 24esimo anno della predicazione di Maometto (624 o 625 d. C.), quando era a Medina e controllava già uno Stato. Dunque, quel versetto non sarebbe stato scritto quando Maometto era in posizione di debolezza - come riportato dal Papa quasi a sminuirne il valore - ma di forza.
Inoltre, continua Sullivan, «la natura della rivelazione musulmana, secondo Benedetto XVI, è che la parola di Dio è stata consegnata direttamente al Profeta. La tradizione cristiana del logos, della ragione, non trova quindi corrispondenza nell'Islam, secondo il Papa. Una riforma dell'Islam, sembra dire Benedetto, è molto improbabile a causa della intrinseca irrazionalità dell'Islam...».
Un altro che il discorso del Papa se l'è letto è il Re del Marocco, Mohamed VI, discendente diretto di Maometto, noto per aver introdotto nel suo paese, uno dei più minacciati dal terrorismo, una legislazione molto avanzata sul diritto di famiglia e la posizione delle donne. Il Re è una delle poche autorità religiose musulmane ad aver compreso che l'accusa rivolta dal Papa all'Islam riguarda la sua intrinseca irrazionalità. Dunque, con toni civili ha spedito un messaggio al Pontefice nel quale spiega che invece l'Islam onora la ragione e pratica la tolleranza.
Nel messaggio si ribadisce che «la fede di ogni musulmano non può essere considerata completa se non crede in tutti i profeti, e in primo luogo in Mosè e Gesù, che la pace sia su di loro». Che l'Islam «esorta alla pace e alla moderazione e rigetta, al contrario, la violenza, permanendo attraverso la storia come un faro illuminante, portatore di un messaggio di tolleranza religiosa e di mescolanza delle culture e delle civiltà». Naturalmente si riferisce alla versione che egli stesso incarna in Marocco - che è possibile e autorevole - e non alla totalità del mondo musulmano, su cui prevale la versione jihadista.
Mohamed VI sottolinea inoltre come in realtà il mondo arabo abbia conosciuto quell'incontro con la cultura greca che secondo Ratzinger ha riguardato solo il Cristianesimo: «Il Marocco ha avuto nella sua storia eruditi che hanno trasmesso una parte della cultura greca all'Occidente cristiano nel Medio Evo, e che nei loro trattati filosofici hanno esaminato la possibile coabitazione fra ragione e religione, essendo la prima un modo per meglio comprendere la seconda, una verità corroborata del resto dai grandi orientalisti e dagli storici di diversi paesi occidentali». Dunque, è il Re marocchino - e non Benedetto XVI, come sostiene Panella - a cogliere il «punto esatto in cui l'Islam si è separato dalla modernità: quel divorzio tra Dio e ragione che è stato codificato nel dodicesimo secolo da Mhoammed al Ghazali, quella sconfitta di Averroé che ha letteralmente bloccato l'elaborazione scientifica del mondo islamico».
Anche Gian Enrico Rusconi, oggi su La Stampa, ritiene che del discorso del Papa «a torto siano state lanciate nel circuito mediale mondiale esclusivamente le famigerate citazioni... estrapolate dal discorso complessivo». Il punto, in realtà, è un altro. I «concetti guida» dell'intera lectio magistralis - logos, ragione, ragionevolezza - «collocano e ripensano l'identità cristiana dentro al processo di razionalizzazione occidentale... declinato in termini di "ellenizzazione del cristianesimo"». Questo discorso, tuttavia, «come corollario sull'Islam proietta l'ombra dell'irrazionalità, della irragionevolezza... La condanna alla "guerra santa" islamica si colloca all'interno di un ragionamento basato sul contrasto tra il Dio-Logos greco-cristiano e il Dio-Arbitrio dell'Islam. Tra la razionalità occidentale e l'irrazionalismo orientale».
E' questa, osserva Rusconi, «la vera questione storica, filosofica e teologica che meriterebbe un dibattito ampio e forte». Perché se «è vero che il Pontefice a Regensburg non poteva affrontare uno "studio approfondito sulla jihad"», doveva però «fare alcune precisazioni sulla impropria identificazione della jihad con la violenza armata, sui diversi e complessi significati che questa espressione ha nella teologia più qualificata». Insomma, quelle che ha sollevato Panella nel suo articolo di sabato per Il Foglio. «In questo modo Ratzinger si sarebbe sottratto all'accusa di non conoscere la cultura islamica e di coltivare semplicistici pregiudizi anti-islamici». O quanto meno si sarebbe sottratto alle critiche mosse in buona fede e a quelle qui in Occidente.
Bernard Lewis dice di non aver letto la lezione del Pontefice, ma il suo pensiero è chiaro da sempre:
«Ho detto di essere d'accordo con il leader israeliano Natan Sharansky, un ex dissidente sovietico. Per sconfiggerlo bisogna portare la libertà e la democrazia in Medio Oriente. Se non lo faremo ci distruggerà. La tesi che gli arabi non sono adatti alla democrazia si basa soltanto sull'ignoranza della loro storia e sul disprezzo del loro presente e del loro futuro».Altro che «timore di Dio»...
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