Sarà anche un'astuta mossa elettorale (il che è ancora tutto da vedere), ma di certo è di cattivissimo auspicio per la prossima azione di governo, che si annuncia di nuovo deludente dal punto di vista delle politiche liberali.
Annunciando il suo veto sulla «irricevibile» offerta di
Air France per
Alitalia e l'intenzione di promuovere egli stesso una cordata di imprenditori e banche italiani a difesa dell'"italianità" della compagnia, Berlusconi ha forse guadagnato qualche lunghezza sul suo principale avversario nella corsa al voto. Con il caso
Alitalia tema centrale nel dibattito politico il Governo Prodi viene tirato per i capelli dentro le ultime due settimane di campagna elettorale. Vuol dire rinfrescare la memoria degli italiani sui fallimenti di Prodi, «uno scheletro che Veltroni - parole di Berlusconi - voleva nascondere nell'armadio» e che ora si ritrova davanti, costretto persino alla difesa d'ufficio di una posizione, sulla (s)vendita di
Alitalia, che appare effettivamente debolissima. Il leader del Pd non è più protagonista della scena e probabilmente vede neutralizzati i suoi sforzi per recuperare consensi al Nord, l'ossigeno necessario alla rimonta.
I nomi della cordata
anticipati ieri da Augusto Minzolini su
La Stampa -
Benetton e
Ligresti,
Mediobanca e persino
Eni (che comunque prima di qualsiasi atto informerebbe il Tesoro!) - hanno tutti smentito. Ovvio, finirebbero per caratterizzarsi troppo politicamente. Ma ciò che conta, per il momento, è che si percepisca che Berlusconi sta lavorando per salvare
Alitalia dall'umiliazione dell'acquisizione francese. Il maggior punto di forza di questa operazione essenzialmente elettoralistica sta infatti nel muoversi e nell'agire di Berlusconi già da primo ministro in pectore, rafforzando nell'opinione pubblica la sua immagine di uomo che sa governare ancor prima di vincere le elezioni (dimostrando quindi di averle già vinte).
L'operazione-verità su
Alitalia - sulla sua necessaria e improrogabile "svendita" e sui sacrifici della ristrutturazione, comunque inferiori a quelli del fallimento - poteva rappresentare un'ottima occasione per esercitare quello spirito bipartisan da più parti auspicato. Invece, Berlusconi ha deciso di far leva demagogicamente sui peggiori istinti assistenzialisti, statalisti, nazional-popolari (Mingardi ha ricordato l'appello mussoliniano «l'oro alla patria»), purtroppo ancora radicati nell'opinione pubblica, ergendosi a tutela di clientele localistiche e interessi sindacal-corporativi ma certo non della generalità dei cittadini del Nord, e ancora meno del Centro-Sud.
Vedremo se alla fine nelle urne verrà premiata questa scelta tattica. Oggi quasi tutti i commentatori ritengono di sì, forse sottovalutando un'area liberale molto delusa, che dai sondaggi non emerge perché non si esprime a favore del Pd, ma che potrebbe ricorrere all'astensione provocando al PdL enormi danni nelle regioni cruciali per il Senato.
Come andrà a finire, il giorno dopo le elezioni, è facilmente prevedibile: o la fantomatica cordata annunciata da Berlusconi si dileguerà; oppure,
Alitalia le verrà ceduta a un valore ancora inferiore - e prossimo davvero allo zero - di quello al quale oggi
Air France è disposta a comprarla. Nel valutare l'offerta dei francesi, tra l'altro, bisogna concentrarsi non solo sul prezzo che verrebbe pagato per ciascuna azione, ma anche sui due miliardi e mezzo di euro in investimenti e copertura debiti. Chi potrebbe investire tanto nella ristrutturazione, garantendo un'esperienza e una solidità simili ad
Air France nel settore aereo, con soldi propri e non prestati da banche magari interessate solo a ricevere in cambio qualche altro favore "politico"?
L'alternativa è tra svendere ad
Air France e svendere a una cordata di amici dei politici. Sempre di svendita si tratterebbe, perché il valore della compagnia è quello che è. L'unica differenza è che nel primo caso
Alitalia sarebbe inserita nel primo gruppo al mondo con possibilità di sviluppo e prestigio internazionale; nel secondo, gli acquirenti non sarebbero comunque in grado di far competere
Alitalia con altri grandi gruppi, ma solo di mantenere un monopolio sulle rotte interne, una beffa per gli utenti.
Neanche Berlusconi, come Prodi, ha avuto rapporti facili con la stampa internazionale, soprattutto quella europea, per lo più a causa dell'incessante opera di demonizzazione che proveniva dal centrosinistra italiano e influenzava fin troppo le redazioni e i giornalisti esteri. Ricordiamo tutti l'
Economist, che lo giudicava «unfit» per guidare l'Italia, ma anche il
Financial Times non è mai stato tenero.
Adesso, proprio a causa delle sue posizioni su
Alitalia, ad abbandonare il Cav. è persino il
Wall Street Journal, la bibbia del liberalismo conservatore e del libero mercato di stampo anglosassone, che in passato lo aveva sempre difeso. «Per quanto riguarda l'economia,
Berlusconi ha deluso nel suo ultimo mandato da primo ministro», ci ricorda un editoriale di qualche giorno fa. E aggiunge che «a giudicare dalle sue promesse prima delle elezioni-lampo indette per il mese prossimo in Italia, nelle quali è il favorito, un suo terzo mandato come premier non sarà una meraviglia».
I suoi recenti orientamenti su
Alitalia «potrebbero ben presto corrispondere a scelte di governo ufficiali e mandare a monte l'unica cosa che ancora si frappone tra la compagnia di bandiera e la sua bancarotta. E sono anche
segnali della sua mancanza di impegno per realizzare le riforme economiche». Nei suoi cinque anni a Palazzo Chigi, ricorda il WSJ, Berlusconi «non ha trovato dei salvatori per Alitalia. Invece ha traccheggiato mentre il debito della compagnia si impennava arrivando a circa 1,3 miliardi di euro a gennaio.
Gli elettori italiani potrebbero chiedere a Berlusconi perché non ha venduto la quota Alitalia quando ancora valeva qualcosa. Il valore della compagnia è caduto del 70% negli ultimi due anni».
Ma l'ex premier potrebbe essere attaccato ancor più duramente «per
la sua incapacità di sistemare l'economia italiana quando ne aveva la possibilità». Berlusconi, ricorda ancora il WSJ, «aveva promesso riduzioni fiscali, riforme nel mercato del lavoro e liberalizzazioni, mancando gran parte degli obiettivi. Il Pil è cresciuto complessivamente del 3,6% nei cinque anni del suo governo; peggio dell'8,6% della Francia e del 4,5% della Germania nello stesso periodo, ben al di sotto del 17,7% spagnolo o del 13,4% britannico».
Accusandolo inoltre di offrire «copertura politica» alla «linea dura» dei Sindacati, il WSJ conclude che in questa vicenda Berlusconi «ha dimostrato di avere un carattere
più corporativo, ostile alla competizione del libero mercato, che liberista intenzionato a fare ciò di cui l'Italia ha bisogno per rianimare la sua barcollante economia. E' un politico disposto a qualsiasi cosa pur di riprendere il potere. E questa è tutt'altro che una bella notizia per l'Alitalia, oltre che per l'Italia intera».
Se ci facciamo poche illusioni sul fatto che l'editoriale del
Wall Street Journal possa scuotere Berlusconi dalla sua vena assistenzial-statalista, ci auguriamo che almeno alle orecchie di qualcuno nel PdL possa suonare come un preoccupante campanello d'allarme.