Da giorni una tregua viene data per imminente. La realtà è che nessuno sa con esattezza quanto sia vicina, perché la sostanza di un accordo si nasconde nei dettagli. L'ipotesi su cui si sta lavorando si basa su 5 punti: cessate il fuoco e aiuti umanitari; completo ritiro israeliano entro la prima settimana; ripresa degli scambi commerciali da e per Gaza sotto la supervisione di osservatori di Egitto, Turchia e Paesi europei; riapertura del valico di Rafah (al confine con l'Egitto) sotto la supervisione delle forze di sicurezza dell'Anp e di osservatori internazionali, fino a quando non sarà stato formato un governo di unità palestinese; tregua in vigore un anno, rinnovabile.
Hamas punta alla fine del blocco, alla riapertura dei confini, come implicito riconoscimento del suo potere sulla Striscia di Gaza da parte dei Paesi arabi e, indirettamente, dell'Occidente. Riconoscimento che difficilmente questi concederanno. E' probabile che i valichi verranno riaperti, ma Hamas non ne avrà il controllo, dovrà accettare la presenza di forze multinazionali nella Striscia. Ciò significa nessuna legittimazione internazionale e un potere ridotto.
Walid Phares, della Foundation for the Defense of Democracies, propone che sia l'Onu, secondo il Capitolo 7 della sua Carta, ad assumere il controllo effettivo della Striscia, con il dispiegamento di una forza multinazionale, il disarmo di Hamas e delle altre milizie, per preparare il ritorno di una «riformata» Autorità palestinese. Una soluzione ideale ma irrealistica, anche se è fuor di dubbio che al centro delle trattative in corso al Cairo vi sia proprio una qualche forma di internazionalizzazione di Gaza e di presenza dell'Anp. Una soluzione diplomatica non potrà che scaturire all'interno di questo schema. Quanto più consistente sarà la presenza di forze internazionali e dell'Anp, e quanto più ampio sarà il loro mandato, tanto più netta sarà la sconfitta di Hamas.
L'offensiva israeliana ha restituito spazi di manovra ai Paesi arabi, soprattutto all'Egitto. Nel ruolo di mediazione del Cairo tutti, sia in Europa che in America, hanno riposto le proprie speranze. Ma ora bisognerà vedere come gli stati arabi, Egitto in testa, vorranno sfruttare questa nuova opportunità. La politica egiziana su Gaza infatti è stata particolarmente ambigua. Come ha ricordato Carlo Panella, su L'Occidentale, l'artefice di tutti gli accordi, il capo dell'intelligence Omar Suleiman, è anche responsabile del loro sistematico fallimento. Come è stato possibile che migliaia di militari egiziani non siano mai stati in grado di controllare un confine di soli 14 chilometri, non riuscendo ad impedire che attraverso i tunnel sotterranei Hamas ricevesse finanziamenti e armi (circa 20 mila razzi)?
Certo, qualcuno si sarà arricchito a suon di mazzette per chiudere un occhio sui tunnel. Ma ciò non esclude una strategia politica volutamente ambigua, esitante e di corto respiro, condivisa dal presidente Mubarak: da una parte, per impedire che il virus di Hamas contagiasse l'Egitto, è stata sigillata la frontiera a cielo aperto, rendendola impenetrabile; dall'altra, invece di strangolare Hamas, si è lasciato che continuasse a ricevere armi e denaro attraverso i tunnel sotterranei, in modo che Gaza potesse fungere da valvola di sfogo per l'estremismo islamista egiziano.
Una strategia miope, però, perché converge con quella iraniana volta a tenere alta la tensione a Gaza per radicalizzare la politica in tutto il Medio Oriente, e destabilizzare così i regimi arabi sunniti. E' ora quindi che Mubarak si decida. Grazie all'offensiva israeliana Hamas è alle corde ed è un'occasione unica per fargli ingoiare una tregua che getti le basi per il ritorno della Striscia di Gaza sotto il controllo dell'Anp, con l'aiuto di forze multinazionali, sottraendo così la questione palestinese dalla strumentalizzazione iraniana.
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