«In quel momento di assoluta nitidezza, possiamo cogliere con l'occhio della mente il profondo significato di un evento. Col passare del tempo, non è che il ricordo sbiadisca; ma la sua luce si attenua, perde forza, e la nostra attenzione si sposta altrove. Ricordiamo l'evento, ma non come ci sentivamo in quel momento. L'impatto emotivo è rimpiazzato da un sentimento che, essendo più pacato, ci sembra più razionale. Eppure, paradossalmente, può esserlo di meno, perché la calma non è il risultato di una ulteriore analisi, ma del semplice trascorrere del tempo».
Tony BlairOggi sono trascorsi dieci anni esatti. C'è una generazione 11 settembre che conserva con assoluta nitidezza la comprensione emotiva di quell'evento, ma nella gran parte della gente e degli uomini di potere è subentrata la «calma» di cui parla Blair nelle sue memorie, che non sempre è il risultato di analisi più razionali. Sapevamo fin dall'inizio che non si sarebbe trattato di una guerra convenzionale, con stati ed eserciti schierati l'uno contro l'altro. Non basta uccidere Hitler, devastare la Germania e il Giappone, per porre fine alle ostilità. Bin Laden è stato ucciso, al Qaeda indebolita, ma la lotta tra l'aspirazione alla libertà e la tirannia del fondamentalismo islamico è ancora in corso, perché è una guerra prima di tutto ideologica, che si combatte, certo, anche nelle nostre società (ed è vitale non abbassare la guardia e riaffermare i nostri valori), ma il cui esito dipenderà dall'evoluzione delle società islamiche. E' in corso in modo decisivo in Medio Oriente, dove i moti di questo 2011 sono stati generati da quell'aspirazione, ma rischiano di essere travolti dall'estremismo. Ne abbiamo avuta vivida dimostrazione l'altro ieri al Cairo.
I successi sul campo sono indubbi. Due dittature sanguinarie non ci sono più (in Afghanistan e in Iraq), esperimenti e primi vagiti democratici sono in corso, anche se non ancora irreversibili. Il fallimento di Bin Laden è sotto gli occhi almeno dei musulmani non del tutto accecati dal fanatismo: la presenza militare americana nei Paesi islamici è aumentata e le masse arabe si sono ribellate non agli Usa, non ai loro governanti "riformisti", ma ai loro tiranni, anche laddove tutto sembrava calmo e piatto: in Egitto, in Libia, persino in Siria e in Iran. Anche un presidente "realista" come Barack Obama si è dovuto piegare all'evidenza della storia, con tutti i limiti che comporta doversi piegare a convinzioni che non si sentono proprie. Come ha ricordato Christian Rocca in questi giorni, Obama non ha smantellato né in patria né all'estero l'architettura della guerra al terrorismo messa in piedi dal suo predecessore, nonostante avesse promesso di farlo in campagna elettorale, e in Medio Oriente è dovuto venire a patti con l'unica strategia che resta valida, quella elaborata all'indomani dell'11 settembre dagli odiati Bush e Blair: «Sostituire lo status quo con la promozione della democrazia». Si possono affinare i metodi e calibrare i tempi, ma quella è.
Dopo dieci anni dall'11 settembre, l'Occidente non se la passa bene, afflitto da una crisi economica e politica forse senza precedenti, ma le società che si ispirano ai principi islamici appaiono in una crisi profonda (l'unica area del mondo non occidentale a non aver agganciato il tumultuoso sviluppo di Cina, India e Brasile), e l'islamizzazione è una risposta che non sembra convincere le masse, anche se la partita è ancora aperta.
C'è la tendenza a spiegare il momento di crisi degli Stati Uniti e dell'Occidente con la reazione eccessiva e troppo costosa, militarmente ed economicamente, all'11 settembre, ma Charles Krauthammer ha brillantemente respinto queste teorie:
«Our current difficulties and gloom are almost entirely economic in origin, the bitter fruit of misguided fiscal, regulatory and monetary policies that had nothing to do with 9/11. America's current demoralization is not a result of the war on terror. On the contrary. The denigration of the war on terror is the result of our current demoralization, of retroactively reading today's malaise into the real - and successful - history of our 9/11 response».L'unico motivo di pessimismo in questo decimo anniversario è proprio lo stato di torpore e sfiducia in se stesso in cui sembra essere piombato l'Occidente. Che non sembra più credere nei valori che lo hanno reso grande, dominante, e che si riassumono nelle sei killer application descritte da Niall Ferguson nel suo "Civilization". E' dentro di noi in quanto individui e in quanto società ciò che può farci perdere la guerra al fondamentalismo islamico e che può condannarci al declino dinanzi all'ascesa dei giganti asiatici. Abbiamo ingabbiato noi stessi la vitalità dei nostri sistemi politici ed economici, cedendo alle lusinghe dello statalismo, alle false sicurezze «dalla culla alla tomba». Chi più chi meno, in Europa e negli Stati Uniti, tutti condividiamo le stesse storture: spesa pubblica eccessiva, debiti insostenibili, politica monetaria facile, rigidità dei mercati, politici incapaci di prendere decisioni. Ciò significa un'allocazione inefficiente e distorta delle risorse umane e materiali, corruzione e sprechi, immobilismo. In questo modo non riusciamo più a sfruttare al meglio le killer apps che noi stessi abbiamo inventato.
Dieci anni dopo l'11 settembre, l'Occidente è al bivio, ma non sotto i colpi dei terroristi. O si lascia alle spalle il Novecento e riesce ad autoriformarsi, ritrovando se stesso, o è perduto.
Concludo quindi questo post-anniversario con un pensiero alle vittime, ai loro famigliari, e a tutti coloro che in questi dieci anni hanno dedicato e talvolta sacrificato le loro vite nella guerra al terrorismo, e ancora con le parole di uno di loro, Tony Blair:
«... credo che all'estero dovremo proiettare un senso di forza e determinazione, non di debolezza o esitazione; ritengo che sia arrivato il momento di attuare più riforme governative, non meno... siamo diventati troppo umili, troppo fiacchi, troppo inibiti, attanagliati da troppi dubbi, e ci mancano obiettivi chiari. Il nostro stile di vita, i valori, che ci hanno resi grandi, rimangono per noi in quanto nazioni non solo come testamento, ma come messaggeri del progresso umano; non sono i ruderi di una politica un tempo gloriosa, bensì lo spirito vitale di una visione ottimista della storia umana. Non ci resta che tornare ad applicarli alle circostanze in mutamento anziché accantonarli considerandoli ormai inutili».
8 comments:
mah, i movimenti rivoluzionari sono nati proprio nei posti dove gli USA e lo pseudo colonialismo mascherato da 'esportazione della democrazia' sono meno presenti.
credo che le popolazioni arabe, specie i giovani, abbiano sentito i tiranni da una parte, e il fondamentalismo dall'altra. E si sono ribellati.
come ogni rivoluzione della storia, l'importante è la sua fine. In genere il panorama post rivoluzionario pullula di approfittatori che cercano, con la religione, oppure con il nazionalismo, oppure con un 'ismo' a scelta, di raccogliere i cocci.
quello che dovrebbe fare l'occidente è promuovere i suoi valori, senza essere troppo invadente (altrimenti i profittatori di cui sopra c'andranno a nozze), e senza richiedere un do ut des troppo visibile. Una sorta di piano marshall, per intenderci, che l'italia ha pagato con un'alleanza militare, ma che non era poi 'sto prezzo increbibile, visto che a grandi proteste l'aveva digerito pure il PCI.
"la lotta tra l'aspirazione alla libertà e la tirannia del fondamentalismo islamico"
disgustoso. semmai la lotta è tra l'impero sempre più aggressivo ma sempre più in decadenza e il sacrosanto diritto di quei popoli ad autodeterminarsi.
i vostri valori? non i miei, grazie. parlate per voi.
il fallimento di cosa? In Egitto e in Tunisia sono caduti governi da sempre filoamericani, se proprio dobbiamo dirla tutta. in Libia ancora si resiste, resiste, resiste, nonostante le bombe assassine della Nato.
"l'unica area del mondo non occidentale a non aver agganciato il tumultuoso sviluppo di Cina, India e Brasile)"
falso, tutta l'Africa cristiana arranca ancora, mentre il tasso di crescita del più popoloso paese musulmano, l'Indonesia è del 6%. ovviamente della Cina poi non dici che è un paese comunista , e del Brasile e dell'India che si tratta di paesi socialisti che crescono proprio perchè hanno una forte economia pubblica mentre noi ce la meniamo ancora con la palla che le tasse sono troppo alte. e proprio le privatizzazioni attuate in occidente che hanno dato il la al declino. riguardo ai paesi islamici non parliamo poi di realtà come Qatar o Azerbaijan che negli ultimi 10 anni sono cresciuti di circa il 230%. ma anche l'odiato Iran che dopo la crisi del 2009 è tornato a crescere se non ancora con i ritmi intorno al 7% degli anni passati almeno del 3%.
@jean
pardon, ma 'cina comunista' fa coppia con 'berlusconi vergine'
scusa Stefano, ma hai detto una stronzata. come definiresti un paese in cui l'80% dell'economia è in mano pubblica?
Lungi da me condividere la lettura anti-imperialista di LaFitte che mi sembra un po' superata dalla storia, ma è impossibile non vedere i limiti della corrispettiva visione di JimMomo.
Le rivoluzioni arabe sono state rivolte verso la causa prima del fondamentalismo islamico, quella che non è stata toccata minimamente dalla war on terrorism (e non venirmi a parlare della Freedom Agenda perchè mi viene da ridere): i regimi cleptocratici e corrotti (sia filo che antioccidentali) del mondo arabo.
@jean
tra i principi fondamentali del socialismo reale ci sono:
-pari opportunità. Oggi in Cina non è così. Chi nasce nella casta di funzionari-imprenditori-cittadini ha un certo tipo di opportunità. Chi nasce in una risaia o in una zona industriale, ha ben altri tipi di scelte. O di non scelte.
-redistribuzione del reddito. Ancora nella cina di _oggi_, ripeto, _oggi_, si è creata una forbice incredibile tra i salari dei nuovi ricchi e i poveracci, la maggior parte. Una cosa che a Marx avrebbe fatto rizzare ogni pelo della barba. Per fortuna i servizi essenziali, come istruzione, sanità etc sono ancora serviti dallo Stato, ma in maniera sempre più diseguale. Ma questo accade pure in una socialdemocrazia come la Svezia.
-esportazione della rivoluzione. La politica estera delle nazioni comuniste era volta alle classi disagiate, a diffondere gli ideali socialisti etc. La cina, in politica estera, si presenta invece come un capitalista imperialista. Leggiti l'impero di cindia di rampini, oppure cinafrica. Acquisisce debito pubblico, compra società, sfrutta specialmente gli africani.
ora, io tutto 'sto "comunismo" non lo vedo...
Credo che Stefano abbia interamente ragione.
Quanto a Lafitte, a meno che non sia un provocatore che si diverte a suscitare un dibattito che altrimenti sarebbe pacato e costruttivo, dev'essere rimasto fino all'altro ieri nascosto in una grotta profonda nel mezzo della foresta siberiana (o, forse, nella cantina moscovita di Giulietto Chiesa), per non essersi accorto che la Cina è, da tempo, il paese del capitalismo selvaggio e che Gheddafi preferisce il lusso al libretto verde.
stefano prima parli di socialismo reale, poi di Marx. pari opportunità , uguali uguali non ci sono neppure a Cuba se per questo. am che c'entra. Mica un paese per essere considerato comunista deve seguire alla lettera in tutto e per tutto l'ortodossia marxista. sennò di paesi comunisti non ce ne sono mai stati e mai ce ne saranno. la discriminante e se l'economia è in mano allo stato. è in mano allo stato? si. allora è un paese comunista. non ti piace il termine comunista, preferiesci socialista? come vuoi. ma non venirmi a parlare di capitalismo. tu non lo vedi perché leggi Rampini che non ne ha mai capito una mazza. e scusami l'invito a leggere rampini... è un po' se vai da Umberto Eco e gli dici di leggersi un bignamino... è abbastanza ridicolo. altro che capitalismo selvaggio. dimostrate di sapere poco. per esempio.
"Per fortuna i servizi essenziali, come istruzione, sanità etc sono ancora serviti dallo Stato" . guarda che il servizio sanitario nazionale è stato creato adesso nel 2010, quindi quell'"ancora" è completamente fuoriluogo. non parlate di cose che non conoscete. oggi la Cina è molto più comunista di quanto lo era ai tempi di Mao.
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