Oggi su il Riformista:
Caro direttore, innanzitutto la ringrazio per la sua attenzione. Della quale mi permetto di approfittare per una controreplica alla sua risposta di sabato. Una proprietà o è privata o è statale. Ebbene sì, considero la vita una proprietà privata. Ma non perché mi ritenga padrone di farne ciò che voglio. Al contrario, proprio perché so bene che la proprietà privata non è affatto il regno dell'arbitrio. E' invece sottoposta per legge a mille vincoli, nella maggior parte dei casi sensati. A tal punto non sono un “assolutista libertario” che ritengo giusto che, esattamente come una proprietà privata, la mia vita sia sottoposta a vincoli. Ma mi sarei aspettato che fosse lei a paragonare la vita ad una proprietà privata per farmi notare tutti i vincoli cui è soggetta anche nel più liberale degli stati. Pur con tutti i vincoli, però, al proprietario non può essere negato di disfarsi della sua proprietà. Giuridicamente infatti è proprio la facoltà di disfarsene uno degli elementi costitutivi della proprietà privata. Il che non significa che non sia sottoposta a vincoli di altra natura per tutelare altri beni e interessi, individuali o collettivi. Se un giorno mi convincessi del fatto che il mio corpo, la mia vita, non sono di mia proprietà, diventerei il più massimalista dei comunisti. Se neanche della mia vita sono padrone, come posso giustificare la proprietà privata di un qualsiasi bene, che mi deriva in ragione di un rapporto di forza legittimato da una mera convenzione sociale? Quindi, affermare che la vita è un “bene collettivo” può significare solo che generalmente tutti teniamo ad essa e disponiamo che lo Stato la tuteli per quanto possibile. Ma non può significare che la vita sia una specie di bene demaniale. Se così fosse un potere pubblico ne potrebbe disporre come meglio ritiene. Il fatto che lo Stato spenda e investa nella mia salute e nella mia istruzione significa che c'è un interesse collettivo in esse, ma il punto è se la tutela di questo interesse si debba spingere fino al punto di obbligarmi a vegetare. Purtroppo ancora non scorgo le possibili “conseguenze collettive” della mia eventuale scelta di rifiutare le cure e lasciarmi morire.
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Tuesday, March 03, 2009
Friday, February 27, 2009
Ma chi danneggio nel voler scegliere per me?
Oggi su il Riformista:
Caro direttore, mi perdoni la schiettezza, ma la sua "preoccupazione", di "scivolare dal testamento biologico all'eutanasia", anche se in astratto comprensibile, mi sembra davvero fuori luogo qui ed ora. Non siamo in Olanda. Qui, oggi, stiamo correndo il pericolo di una deriva di senso opposto. Sta per essere approvata una legge che costringerebbe un cittadino pienamente capace di intendere e di volere, quindi in grado di esprimere una volontà attuale e consapevole, ad essere alimentato e idratato artificialmente contro la sua volontà. E se alimentazione e idratazione artificiali non sono trattamenti medici, allora non c'è alcun bisogno che siano praticate da medici e in strutture sanitarie. Tra l'altro, se non ci si può rifiutare di essere alimentati e idratati, lo stato non dovrebbe mantenere a sue spese chiunque pur essendo in grado smettesse di procurarsi da sé acqua e cibo? Ma tornando alla sua preoccupazione. Mi permetta, ma né lei né Dahrendorf (dalle parole riportate) avete spiegato quali sarebbero le "conseguenze collettive" di una scelta individuale che riguardi solo se stessi. Nel caso dell'aborto, c'è comunque in gioco una vita nascente. Ma nel porre fine alla propria vita in uno stato terminale irreversibile o in uno stato vegetativo, non riesco a vedere pericoli né danni per gli altri. Ove ce ne fossero, i danneggiati ricorrano alla magistratura. E' così che funziona in uno stato liberale: se c'è un danno, ci dev'essere per forza un danneggiato. Senza danneggiato, non c'è danno. Anche se in talune particolari circostanze, la mia morte fosse una "scelta" e non un "evento", dove esattamente potrebbe entrare in conflitto con la libertà di tutti? Nel suo articolo non trovo la risposta. Grazie.
Caro direttore, mi perdoni la schiettezza, ma la sua "preoccupazione", di "scivolare dal testamento biologico all'eutanasia", anche se in astratto comprensibile, mi sembra davvero fuori luogo qui ed ora. Non siamo in Olanda. Qui, oggi, stiamo correndo il pericolo di una deriva di senso opposto. Sta per essere approvata una legge che costringerebbe un cittadino pienamente capace di intendere e di volere, quindi in grado di esprimere una volontà attuale e consapevole, ad essere alimentato e idratato artificialmente contro la sua volontà. E se alimentazione e idratazione artificiali non sono trattamenti medici, allora non c'è alcun bisogno che siano praticate da medici e in strutture sanitarie. Tra l'altro, se non ci si può rifiutare di essere alimentati e idratati, lo stato non dovrebbe mantenere a sue spese chiunque pur essendo in grado smettesse di procurarsi da sé acqua e cibo? Ma tornando alla sua preoccupazione. Mi permetta, ma né lei né Dahrendorf (dalle parole riportate) avete spiegato quali sarebbero le "conseguenze collettive" di una scelta individuale che riguardi solo se stessi. Nel caso dell'aborto, c'è comunque in gioco una vita nascente. Ma nel porre fine alla propria vita in uno stato terminale irreversibile o in uno stato vegetativo, non riesco a vedere pericoli né danni per gli altri. Ove ce ne fossero, i danneggiati ricorrano alla magistratura. E' così che funziona in uno stato liberale: se c'è un danno, ci dev'essere per forza un danneggiato. Senza danneggiato, non c'è danno. Anche se in talune particolari circostanze, la mia morte fosse una "scelta" e non un "evento", dove esattamente potrebbe entrare in conflitto con la libertà di tutti? Nel suo articolo non trovo la risposta. Grazie.
Tuesday, February 03, 2009
Il sequestro di un individuo in una persona
Difficile parlare di Eluana, ma anche non parlarne. Credo che un rispettoso silenzio sia sempre una virtù, ma che in questo caso - che il papà di Eluana ha voluto socraticamente portare alla conoscenza dell'opinione pubblica e dibattere con le autorità civili del suo paese - le parole non siano fuori luogo.
Eluana sta per morire una seconda volta e quindi questi non possono che essere giorni tristissimi per la famiglia di Eluana. Un po' di sollievo può certamente recarlo la consapevolezza di essere riusciti a far valere la volontà della loro figlia. Morire due volte è triste, ma lo è anche tutto ciò che c'è stato in mezzo, ciò che ha passato: il sequestro di un individuo in una persona. Perché quando tra i due termini non c'è equilibrio, c'è sofferenza e talvolta la condizione umana diventa insopportabile.
Guardando a quei quattro fanatici che ieri notte hanno provato a sbarrare la strada a Eluana, e ai tanti che ci sono riusciti per questi lunghi anni, confesso che per un istante ho temuto: se sono disposti ad accanirsi in questo modo su corpi inermi e sofferenze inaudite, figuriamoci cosa sarebero disposti a fare per limitare la libertà di chi è in grado di agire autonomamente. Invece no, mi sono detto. Sono fanatici ma anche vigliacchi. Sono forti con i deboli, ma deboli con i forti. Sono certo che non avrebbero il coraggio di sbarrare la strada a uno di noi, a qualcuno nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche e psichiche. Si attaccano a Eluana perché Eluana non può mandarli affanculo.
E' ignoranza allo stato puro quella che fa dire a Eugenia Roccella che c'è una «incompatibilità oggettiva tra il Servizio sanitario nazionale e l'applicazione del decreto della Corte d'appello di Milano». Come se il Ssn fosse sovrano e non soggetto alle leggi di questo paese. Si faccia vedere da uno bravo, Eugenia.
Berlusconi ha taciuto, come sempre sui temi etici. Mentre Fini ha dimostrato buon senso, senso della realtà ma anche e soprattutto sintonia con la sensibilità della maggior parte degli elettori anche di centrodestra:
Non è il momento di parlare di leggi. Ma una cosa è certa: la libertà non è un bene acquisito una volta per sempre, ma una conquista giorno per giorno. Ci sarà da guadagnarcela, persino a dispetto di quelli che in buona fede, per protagonismo o idolatria dello stato e della politica, si battono per una legge comunque, basta che porti il loro nome tra le firme in calce.
Eluana sta per morire una seconda volta e quindi questi non possono che essere giorni tristissimi per la famiglia di Eluana. Un po' di sollievo può certamente recarlo la consapevolezza di essere riusciti a far valere la volontà della loro figlia. Morire due volte è triste, ma lo è anche tutto ciò che c'è stato in mezzo, ciò che ha passato: il sequestro di un individuo in una persona. Perché quando tra i due termini non c'è equilibrio, c'è sofferenza e talvolta la condizione umana diventa insopportabile.
Guardando a quei quattro fanatici che ieri notte hanno provato a sbarrare la strada a Eluana, e ai tanti che ci sono riusciti per questi lunghi anni, confesso che per un istante ho temuto: se sono disposti ad accanirsi in questo modo su corpi inermi e sofferenze inaudite, figuriamoci cosa sarebero disposti a fare per limitare la libertà di chi è in grado di agire autonomamente. Invece no, mi sono detto. Sono fanatici ma anche vigliacchi. Sono forti con i deboli, ma deboli con i forti. Sono certo che non avrebbero il coraggio di sbarrare la strada a uno di noi, a qualcuno nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche e psichiche. Si attaccano a Eluana perché Eluana non può mandarli affanculo.
E' ignoranza allo stato puro quella che fa dire a Eugenia Roccella che c'è una «incompatibilità oggettiva tra il Servizio sanitario nazionale e l'applicazione del decreto della Corte d'appello di Milano». Come se il Ssn fosse sovrano e non soggetto alle leggi di questo paese. Si faccia vedere da uno bravo, Eugenia.
Berlusconi ha taciuto, come sempre sui temi etici. Mentre Fini ha dimostrato buon senso, senso della realtà ma anche e soprattutto sintonia con la sensibilità della maggior parte degli elettori anche di centrodestra:
«Invidio chi ha certezze sul caso Englaro. Personalmente non ne ho, né religiose né scientifiche. Ho solo dubbi, uno su tutti: qual è e dov'è il confine tra un essere vivente e un vegetale? Penso che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di fornire una risposta. E avverto il dovere di rispettarla».E' questa la voce di una destra per la quale i valori non sono idoli astratti sui cui altari sacrificare la libertà.
Non è il momento di parlare di leggi. Ma una cosa è certa: la libertà non è un bene acquisito una volta per sempre, ma una conquista giorno per giorno. Ci sarà da guadagnarcela, persino a dispetto di quelli che in buona fede, per protagonismo o idolatria dello stato e della politica, si battono per una legge comunque, basta che porti il loro nome tra le firme in calce.
Friday, November 14, 2008
Eluana è libera
Si chiude la vicenda giudiziaria di Eluana Englaro, dopo che 16 anni fa si era purtroppo già chiusa quella umana. Si chiude con la liberazione del corpo della ragazza, ostaggio di procedure mediche e burocratiche contrarie alla sua volontà. Se infatti i più invasivi protocolli di rianimazione sono doverosi, in caso di primo soccorso, dalla situazione paradossale che talvolta generano e in cui era piombata la povera Eluana si dovrebbe poter uscire. Se le terapie non sono in grado, dopo 16 anni, di restituire a un corpo una vita umana, ma lo limitano ad una vita da vegetale, dovrebbero potersi sospendere. D'altra parte, esattamente come porvi fine, anche continuare è una decisione che non dovrebbe spettare ad altri che al paziente.
Ma in assenza di una sua volontà attuale, a chi altri se non ai parenti più stretti spetta di far valere una sua volontà differita, che sia riportata senza contestazioni? Non allo stato, non ai medici, non ai giudici, non ai chierici. E' sbagliato, infatti, sostenere che i giudici abbiano deciso alcunché. I giudici hanno solo ritenuto affidabile e credibile il padre di Eluana nel farsi latore della volontà della ragazza. E' lui, al limite, che ha deciso. E chi altri poteva, se non i genitori, in quella particolare situazione?
La Chiesa e i politici cattolici parlano spodoratamente di «omicidio», non rendendosi conto di quanto lontani siano dal buon senso delle persone comuni, le quali sanno benissimo distinguere un omicidio/suicidio dal rispetto del desiderio che il proprio corpo non venga tenuto artificialmente a vegetare. Non mi voglio ripetere oltre, avendo già affrontato la questione innumerevoli volte su questo blog, quindi vi rimando alle riflessioni di Oggettivista, che condivido in pieno.
Dal punto di vista politico, è ovvio che i giochi siano mutati. Siamo di fronte a sentenze che hanno riconosciuto de facto come già esistente nell'ordinamento il diritto del malato a rifiutare o a sospendere i trattamenti medici, chiarendo che essendo un diritto costituzionalmente garantito non può mancare un giudice davanti al quale farlo valere, anche in assenza di leggi specifiche e in presenza di volontà non scritte e differite, ma accertabili. Non c'è alcun vuoto legislativo da colmare.
Non stupisce, quindi, che oggi una legge sul testamento biologico venga richiesta a gran voce proprio da chi per anni vi si è opposto. E' singolare, invece, come non si siano accorti che il gioco è cambiato i sostenitori del testamento biologico, i quali, forse per protagonismo, sembrano non rendersi conto che ad oggi un intervento legislativo rischia concretamente di restringere quegli spazi di libertà che in sede giudiziaria si sono dimostrati essere da sempre aperti.
Ma in assenza di una sua volontà attuale, a chi altri se non ai parenti più stretti spetta di far valere una sua volontà differita, che sia riportata senza contestazioni? Non allo stato, non ai medici, non ai giudici, non ai chierici. E' sbagliato, infatti, sostenere che i giudici abbiano deciso alcunché. I giudici hanno solo ritenuto affidabile e credibile il padre di Eluana nel farsi latore della volontà della ragazza. E' lui, al limite, che ha deciso. E chi altri poteva, se non i genitori, in quella particolare situazione?
La Chiesa e i politici cattolici parlano spodoratamente di «omicidio», non rendendosi conto di quanto lontani siano dal buon senso delle persone comuni, le quali sanno benissimo distinguere un omicidio/suicidio dal rispetto del desiderio che il proprio corpo non venga tenuto artificialmente a vegetare. Non mi voglio ripetere oltre, avendo già affrontato la questione innumerevoli volte su questo blog, quindi vi rimando alle riflessioni di Oggettivista, che condivido in pieno.
Dal punto di vista politico, è ovvio che i giochi siano mutati. Siamo di fronte a sentenze che hanno riconosciuto de facto come già esistente nell'ordinamento il diritto del malato a rifiutare o a sospendere i trattamenti medici, chiarendo che essendo un diritto costituzionalmente garantito non può mancare un giudice davanti al quale farlo valere, anche in assenza di leggi specifiche e in presenza di volontà non scritte e differite, ma accertabili. Non c'è alcun vuoto legislativo da colmare.
Non stupisce, quindi, che oggi una legge sul testamento biologico venga richiesta a gran voce proprio da chi per anni vi si è opposto. E' singolare, invece, come non si siano accorti che il gioco è cambiato i sostenitori del testamento biologico, i quali, forse per protagonismo, sembrano non rendersi conto che ad oggi un intervento legislativo rischia concretamente di restringere quegli spazi di libertà che in sede giudiziaria si sono dimostrati essere da sempre aperti.
Monday, July 14, 2008
Starne alla larga, un segno di maturità della politica
Ritrovo nell'editoriale di oggi di Antonio Polito l'eco di una mia lettera pubblicata da il Riformista sul numero di sabato, che voleva essere la versione sintetica di questo post.
Anch'io, come Polito, «non concordo con Pierluigi Battista, che sul Corriere si è lamentato del progressivo affievolirsi della battaglia politica sui valori. Al contrario: lo trovo un segno di maturità. Quasi una salutare confessione di impotenza, un soprassalto di pudore. Io lascerei le cose come stanno. Lascerei ai malati, ai loro familiari, ai medici, ai giudici quando sono chiamati a esprimersi, l'onere di decidere con prudenza e conoscenza, caso per caso. Loro non devono cercare voti, né vendere giornali. Sono più liberi... L'Italia non è pronta per una norma che imponga ad Eluana di continuare a vivere, o ai medici del signor Melazzini di consigliargli la morte. C'è un limite ai poteri di una maggioranza parlamentare, qualsiasi essa sia».
Con il passare degli anni e delle sentenze sono sempre più scettico sulla necessità di un intervento del legislatore. Nel nostro ordinamento sembrano esistere già principi e leggi applicabili che garantiscono il diritto individuale a decidere della propria vita, malattia e morte. E se il legislatore addirittura limitasse quegli spazi di libertà? Alcune sentenze hanno riconosciuto l'ammissibilità di testamenti biologici spontanei come prove valide della volontà del paziente. Se posso disporre dei miei beni, serve una legge a dirmi che posso disporre anche del mio corpo? Forse è meglio che la politica se ne stia alla larga.
Che i temi della bioetica saranno sempre più al centro del dibattito politico sta cominciando a rivelarsi previsione un po' scontata e al tempo stesso azzardata, quasi un luogo comune, perché la si sente ripetere da troppo tempo sempre più spesso senza che si realizzi. Certo, è già stato fatto notare come i progressi della medicina pongano sempre maggiori problemi di scelta nella malattia e nella morte. Problemi che spesso invadono le prime pagine dei giornali e infiammano la dialettica politica. Eppure, dopo qualche anno che se ne parla, a me pare che siano i temi economici a conservare una preponderante centralità. Dei temi della bioetica si parla, ma occasionalmente, sull'onda emotiva di qualche caso singolo. E ho l'impressione che il vissuto quotidiano, le singole scelte degli italiani, possano arrivare prima e meglio della politica a risolvere questi problemi, risparmiandoci la "toppa" del legislatore, quasi sempre peggiore del "buco" (vedi Legge 40 e Dico).
Anch'io, come Polito, «non concordo con Pierluigi Battista, che sul Corriere si è lamentato del progressivo affievolirsi della battaglia politica sui valori. Al contrario: lo trovo un segno di maturità. Quasi una salutare confessione di impotenza, un soprassalto di pudore. Io lascerei le cose come stanno. Lascerei ai malati, ai loro familiari, ai medici, ai giudici quando sono chiamati a esprimersi, l'onere di decidere con prudenza e conoscenza, caso per caso. Loro non devono cercare voti, né vendere giornali. Sono più liberi... L'Italia non è pronta per una norma che imponga ad Eluana di continuare a vivere, o ai medici del signor Melazzini di consigliargli la morte. C'è un limite ai poteri di una maggioranza parlamentare, qualsiasi essa sia».
Con il passare degli anni e delle sentenze sono sempre più scettico sulla necessità di un intervento del legislatore. Nel nostro ordinamento sembrano esistere già principi e leggi applicabili che garantiscono il diritto individuale a decidere della propria vita, malattia e morte. E se il legislatore addirittura limitasse quegli spazi di libertà? Alcune sentenze hanno riconosciuto l'ammissibilità di testamenti biologici spontanei come prove valide della volontà del paziente. Se posso disporre dei miei beni, serve una legge a dirmi che posso disporre anche del mio corpo? Forse è meglio che la politica se ne stia alla larga.
Che i temi della bioetica saranno sempre più al centro del dibattito politico sta cominciando a rivelarsi previsione un po' scontata e al tempo stesso azzardata, quasi un luogo comune, perché la si sente ripetere da troppo tempo sempre più spesso senza che si realizzi. Certo, è già stato fatto notare come i progressi della medicina pongano sempre maggiori problemi di scelta nella malattia e nella morte. Problemi che spesso invadono le prime pagine dei giornali e infiammano la dialettica politica. Eppure, dopo qualche anno che se ne parla, a me pare che siano i temi economici a conservare una preponderante centralità. Dei temi della bioetica si parla, ma occasionalmente, sull'onda emotiva di qualche caso singolo. E ho l'impressione che il vissuto quotidiano, le singole scelte degli italiani, possano arrivare prima e meglio della politica a risolvere questi problemi, risparmiandoci la "toppa" del legislatore, quasi sempre peggiore del "buco" (vedi Legge 40 e Dico).
Thursday, July 10, 2008
Finalmente liberata Eluana!
La politica stia alla larga
Come per un errore giudiziario, dopo sedici anni una detenzione viene riconosciuta ingiusta. Sedici lunghi anni ha dovuto combattere il padre di Eluana per mandare in pace la figlia, in stato vegetativo permanente e irreversibile. Fatta vegetare tramite sondino. Avrebbe potuto intraprendere delle scorciatoie. Ha voluto invece sentirsi legittimato dalla società, sentirsi a posto con la legge. Ed è stata una lunga, drammatica, battaglia legale.
Per ignoranza o per malafede, o come semplificazione giornalistica, si sente ora a parlare della «Terry Schiavo italiana». Un errore che purtroppo commettono anche giornali e commentatori che considerano la sentenza una liberazione e non un assassinio. La differenza tra i due casi è enorme e - ripeto - solo per ignoranza o malafede si possono confondere. Nel caso di Terry Schiavo non c'era accordo sulle sue volontà tra il marito, riconosciuto come tutore legale, e i genitori e la sua condizione era più indefinibile. Un dubbio lacerante. Nel caso di Eluana, tra genitori e amiche nessuno ha mai messo in dubbio la sua volontà. Non hanno deciso i giudici, ha deciso il papà di Eluana, al quale i giudici hanno solo riconosciuto di agire secondo legge. E nel caso ci succeda una cosa del genere, in una situazione in cui non siamo in grado di esprimerci in prima persona, a chi affideremmo ciò che rimane della nostra vita? Al medico? Al giudice? Al legislatore? Al cardinale? Oppure, a mamma e papà, al nostro compagno o compagna, all'amico più intimo?
Mons. Fisichella si chiedeva ieri «come sia possibile che il giudice si sostituisca in una decisione come questa alla persona coinvolta». Ecco, innanzitutto bisogna premettere che non solo la sospensione del trattamento, ma anche la sua continuazione per sedici anni, è una decisione, altrettanto invasiva, di qualcuno. Non di Eluana, né della sua famiglia.
Poi, non è il giudice ad essersi «sostituito» alla persona coinvolta, semmai è il padre di Eluana (il padre!) a sostituirsi a lei riportandone e interpretandone le volontà. Non si capisce perché un medico, il legislatore, o un cardinale potrebbero invece sostituirsi alla persona coinvolta imponendo a loro volta quella che è a tutti gli effetti una decisione della medesima invasività: la continuazione del trattamento che fa vegetare. Non si capisce, quindi, chi potrebbe, sulle basi di quale suo diritto o interesse legittimo, impugnare la sentenza.
Più volte mi è capitato di scrivere del materialismo, del biologismo, dello scientismo di coloro che riducono la vita umana alle sue mere funzioni biologiche (pur assicurate da macchine) e avrebbero voluto, da comuni aguzzini, condannare a vegetare persino Welby e Nuvoli, i quali la loro volontà erano in grado di esprimerla in prima persona. Ad esprimere questa concezione sono per lo più vescovi e cardinali della Chiesa cattolica, intellettuali cattolici, comunque uomini e donne di religione, che dovrebbero invece avere della vita umana una concezione ben più alta del semplice vegetare.
Su il Riformista di oggi, è Mario Ricciardi a soffermarsi in modo chiaro su questo paradosso: «Se è vero che le sostanze nutritive che vengono somministrate a Eluana non sono in senso stretto "terapie", c'è da chiedersi se questa sia una ragione sufficiente per ritenere che sospenderle equivalga a uccidere un essere umano. Si ha l'impressione che chi ragiona in questo modo assuma una concezione della vita che finisce per farla coincidere con lo svolgimento di certe funzioni di parti del corpo umano. Posta questa premessa, impedire che tali funzioni proseguano sarebbe indubbiamente un omicidio. Si tratta di una posizione sorprendente soprattutto quando viene proposta da persone che non dovrebbero essere inclini a ridurre la vita alla materia. Appare inaccettabile l'idea che vivere sia semplicemente continuare a respirare. Oppure a digerire. Sorprende che questo modo di pensare sia difeso dai cattolici, perché la tradizione filosofica cui la chiesa si richiama intende la vita umana in modo più sofisticato, distinguendola dal semplice vegetare. C'è qualcosa di irragionevole, verrebbe quasi da dire di blasfemo, nel modo in cui certi ambienti hanno accreditato una sorta di idolatria delle funzioni vitali per opporsi agli atti di disposizione della propria vita, o all'eutanasia. Concentrarsi sugli indici biologici della vita ha fatto perdere di vista la questione della sua dignità, che non può essere assicurata da un'alimentazione artificiale protratta in modo indefinito. Almeno non quando si può escludere la speranza ragionevole di ritorno alla coscienza».
Perché, dunque, questo apparente materialismo da parte cattolica. Forse perché, ipotizza Gian Enrico Rusconi, considerano «il bios vegetativo come tale segno dell'impronta divina nell'uomo». Sull'uomo, un'impronta che altri uomini si sentono investiti della missione di rendere indelebile.
Così, per Mons. Fisichella è del tutto secondario che nel caso di Eluana sia stato il padre a decidere per la figlia, perché comunque non è la volontà dell'individuo a meritare tutela, ma il principio della sacralità divina della vita. E' sconcertato, confida a la Repubblica, perché «questa sentenza si sostituisce al legislatore e ai medici». La «persona coinvolta» scompare dalle preoccupazioni del monsignore. «Si è creato un precedente per obbligare il legislatore a intervenire». Qualsiasi autorità, dunque, persino il legislatore, con il quale la Chiesa può sempre trovare dei "compromessi". Purché non l'individuo, come dimostrano anche i casi Welby e Nuvoli, perché ciò che conta non è la vita concreta del singolo, ma il principio astratto.
Ci sono personalità e forze politiche che si battono con le migliori intenzioni per il cosiddetto testamento biologico. Ma con il passare degli anni e dei mesi - e delle sentenze - sono divenuto sempre più scettico sulla necessità di un intervento del legislatore, convincendomi da una parte che nel nostro ordinamento esistono già principi e leggi applicabili che garantiscono il diritto individuale a decidere della propria vita e della propria malattia e morte; dall'altra, proprio per questo, perché temo che il legislatore intervenendo possa addirittura limitare gli spazi di libertà che oggi più di una sentenza (da quella Welby a quelle sul caso Englaro) ha riconosciuto nell'ordinamento.
I giudici della prima sezione civile della Corte d'Appello di Milano, infatti, si sono limitati ad accertare l'esistenza nel caso Englaro delle due condizioni individuate dalla sentenza della Cassazione del 16 ottobre del 2007 come necessarie per riconoscere la legittimità della richiesta di sospensione dei trattamenti: che (1) lo stato vegetativo del paziente sia irreversibile e che (2) si accerti, sulla base di elementi di fatto ritenuti attendibili dai giudici, che il paziente, quando era cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Altre sentenze, inoltre, hanno già riconosciuto l'ammissibilità di testamenti biologici spontanei come prove della volontà del paziente.
L'impressione, anche qui, è che la politica più ne sta alla larga meglio è.
Come per un errore giudiziario, dopo sedici anni una detenzione viene riconosciuta ingiusta. Sedici lunghi anni ha dovuto combattere il padre di Eluana per mandare in pace la figlia, in stato vegetativo permanente e irreversibile. Fatta vegetare tramite sondino. Avrebbe potuto intraprendere delle scorciatoie. Ha voluto invece sentirsi legittimato dalla società, sentirsi a posto con la legge. Ed è stata una lunga, drammatica, battaglia legale.
Per ignoranza o per malafede, o come semplificazione giornalistica, si sente ora a parlare della «Terry Schiavo italiana». Un errore che purtroppo commettono anche giornali e commentatori che considerano la sentenza una liberazione e non un assassinio. La differenza tra i due casi è enorme e - ripeto - solo per ignoranza o malafede si possono confondere. Nel caso di Terry Schiavo non c'era accordo sulle sue volontà tra il marito, riconosciuto come tutore legale, e i genitori e la sua condizione era più indefinibile. Un dubbio lacerante. Nel caso di Eluana, tra genitori e amiche nessuno ha mai messo in dubbio la sua volontà. Non hanno deciso i giudici, ha deciso il papà di Eluana, al quale i giudici hanno solo riconosciuto di agire secondo legge. E nel caso ci succeda una cosa del genere, in una situazione in cui non siamo in grado di esprimerci in prima persona, a chi affideremmo ciò che rimane della nostra vita? Al medico? Al giudice? Al legislatore? Al cardinale? Oppure, a mamma e papà, al nostro compagno o compagna, all'amico più intimo?
Mons. Fisichella si chiedeva ieri «come sia possibile che il giudice si sostituisca in una decisione come questa alla persona coinvolta». Ecco, innanzitutto bisogna premettere che non solo la sospensione del trattamento, ma anche la sua continuazione per sedici anni, è una decisione, altrettanto invasiva, di qualcuno. Non di Eluana, né della sua famiglia.
Poi, non è il giudice ad essersi «sostituito» alla persona coinvolta, semmai è il padre di Eluana (il padre!) a sostituirsi a lei riportandone e interpretandone le volontà. Non si capisce perché un medico, il legislatore, o un cardinale potrebbero invece sostituirsi alla persona coinvolta imponendo a loro volta quella che è a tutti gli effetti una decisione della medesima invasività: la continuazione del trattamento che fa vegetare. Non si capisce, quindi, chi potrebbe, sulle basi di quale suo diritto o interesse legittimo, impugnare la sentenza.
Più volte mi è capitato di scrivere del materialismo, del biologismo, dello scientismo di coloro che riducono la vita umana alle sue mere funzioni biologiche (pur assicurate da macchine) e avrebbero voluto, da comuni aguzzini, condannare a vegetare persino Welby e Nuvoli, i quali la loro volontà erano in grado di esprimerla in prima persona. Ad esprimere questa concezione sono per lo più vescovi e cardinali della Chiesa cattolica, intellettuali cattolici, comunque uomini e donne di religione, che dovrebbero invece avere della vita umana una concezione ben più alta del semplice vegetare.
Su il Riformista di oggi, è Mario Ricciardi a soffermarsi in modo chiaro su questo paradosso: «Se è vero che le sostanze nutritive che vengono somministrate a Eluana non sono in senso stretto "terapie", c'è da chiedersi se questa sia una ragione sufficiente per ritenere che sospenderle equivalga a uccidere un essere umano. Si ha l'impressione che chi ragiona in questo modo assuma una concezione della vita che finisce per farla coincidere con lo svolgimento di certe funzioni di parti del corpo umano. Posta questa premessa, impedire che tali funzioni proseguano sarebbe indubbiamente un omicidio. Si tratta di una posizione sorprendente soprattutto quando viene proposta da persone che non dovrebbero essere inclini a ridurre la vita alla materia. Appare inaccettabile l'idea che vivere sia semplicemente continuare a respirare. Oppure a digerire. Sorprende che questo modo di pensare sia difeso dai cattolici, perché la tradizione filosofica cui la chiesa si richiama intende la vita umana in modo più sofisticato, distinguendola dal semplice vegetare. C'è qualcosa di irragionevole, verrebbe quasi da dire di blasfemo, nel modo in cui certi ambienti hanno accreditato una sorta di idolatria delle funzioni vitali per opporsi agli atti di disposizione della propria vita, o all'eutanasia. Concentrarsi sugli indici biologici della vita ha fatto perdere di vista la questione della sua dignità, che non può essere assicurata da un'alimentazione artificiale protratta in modo indefinito. Almeno non quando si può escludere la speranza ragionevole di ritorno alla coscienza».
Perché, dunque, questo apparente materialismo da parte cattolica. Forse perché, ipotizza Gian Enrico Rusconi, considerano «il bios vegetativo come tale segno dell'impronta divina nell'uomo». Sull'uomo, un'impronta che altri uomini si sentono investiti della missione di rendere indelebile.
Così, per Mons. Fisichella è del tutto secondario che nel caso di Eluana sia stato il padre a decidere per la figlia, perché comunque non è la volontà dell'individuo a meritare tutela, ma il principio della sacralità divina della vita. E' sconcertato, confida a la Repubblica, perché «questa sentenza si sostituisce al legislatore e ai medici». La «persona coinvolta» scompare dalle preoccupazioni del monsignore. «Si è creato un precedente per obbligare il legislatore a intervenire». Qualsiasi autorità, dunque, persino il legislatore, con il quale la Chiesa può sempre trovare dei "compromessi". Purché non l'individuo, come dimostrano anche i casi Welby e Nuvoli, perché ciò che conta non è la vita concreta del singolo, ma il principio astratto.
Ci sono personalità e forze politiche che si battono con le migliori intenzioni per il cosiddetto testamento biologico. Ma con il passare degli anni e dei mesi - e delle sentenze - sono divenuto sempre più scettico sulla necessità di un intervento del legislatore, convincendomi da una parte che nel nostro ordinamento esistono già principi e leggi applicabili che garantiscono il diritto individuale a decidere della propria vita e della propria malattia e morte; dall'altra, proprio per questo, perché temo che il legislatore intervenendo possa addirittura limitare gli spazi di libertà che oggi più di una sentenza (da quella Welby a quelle sul caso Englaro) ha riconosciuto nell'ordinamento.
I giudici della prima sezione civile della Corte d'Appello di Milano, infatti, si sono limitati ad accertare l'esistenza nel caso Englaro delle due condizioni individuate dalla sentenza della Cassazione del 16 ottobre del 2007 come necessarie per riconoscere la legittimità della richiesta di sospensione dei trattamenti: che (1) lo stato vegetativo del paziente sia irreversibile e che (2) si accerti, sulla base di elementi di fatto ritenuti attendibili dai giudici, che il paziente, quando era cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Altre sentenze, inoltre, hanno già riconosciuto l'ammissibilità di testamenti biologici spontanei come prove della volontà del paziente.
L'impressione, anche qui, è che la politica più ne sta alla larga meglio è.
Thursday, October 18, 2007
La Chiesa scambia la pluralità di valori con l'assenza di moralità
Preceduti dall'affondo dell'Osservatore Romano contro la sentenza della Cassazione - che ha disposto un nuovo processo, «in una diversa sezione della Corte d'Appello di Milano», sul caso di Eluana Englaro, la giovane da 15 anni in stato vegetativo permanente, fissando inoltre le circostanze in cui sarebbe lecito fermare le macchine che le permettono di vegetare - oggi sono tornati all'attacco sia Papa Ratzinger sia il presidente della Cei, Bagnasco.
Sconcertato dal «silenzio e l'imbarazzo» dei politici, Gian Enrico Rusconi, che, su La Stampa di oggi, denuncia una gerarchia cattolica che pretende di avere «il monopolio dell’etica», fin tanto da accusare la magistratura di «orientare il legislatore verso l'eutanasia» e di promuovere «il relativismo dei valori», ormai l'anatema del nuovo millennio. «Dove sono i vocalissimi leader del neonato Partito democratico? Perché lasciano diffamare il pluralismo dei valori - fondamento della laicità - come "zona vuota dai confini non più tracciabili"?», si chiede Rusconi.
Nel caso di Eluana il «difficile e complesso problema della contemperanza dei vari criteri di giudizio etico» viene strumentalmente bollato come «mancanza di moralità», in ossequio a una concezione della vita umana che in realtà si rivela «sostanzialmente biologicistico-vegetativa», corporea e materialistica.
Nel nostro paese, sottolinea Rusconi, «non esiste un vuoto di valori - come ripetono i clericali - ma una paradossale ricchezza di valori che sono spesso in contrasto tra loro».
Sconcertato dal «silenzio e l'imbarazzo» dei politici, Gian Enrico Rusconi, che, su La Stampa di oggi, denuncia una gerarchia cattolica che pretende di avere «il monopolio dell’etica», fin tanto da accusare la magistratura di «orientare il legislatore verso l'eutanasia» e di promuovere «il relativismo dei valori», ormai l'anatema del nuovo millennio. «Dove sono i vocalissimi leader del neonato Partito democratico? Perché lasciano diffamare il pluralismo dei valori - fondamento della laicità - come "zona vuota dai confini non più tracciabili"?», si chiede Rusconi.
Nel caso di Eluana il «difficile e complesso problema della contemperanza dei vari criteri di giudizio etico» viene strumentalmente bollato come «mancanza di moralità», in ossequio a una concezione della vita umana che in realtà si rivela «sostanzialmente biologicistico-vegetativa», corporea e materialistica.
Nel nostro paese, sottolinea Rusconi, «non esiste un vuoto di valori - come ripetono i clericali - ma una paradossale ricchezza di valori che sono spesso in contrasto tra loro».
«Ciò che manca nel nostro Paese è una cultura e una politica laica, degna di questo nome. Una politica che governi davvero il pluralismo dei valori, di cui tutti i politici si riempiono la bocca. Che prenda decisioni legislative difficili, che tracci «confini» nel senso di tenere presenti tutti i criteri morali che entrano in gioco nelle scelte che contano. Anche a costo di scontrarsi con la Chiesa. Di tutto questo non vedo tracce attendibili nei fiumi di parole sentite in queste settimane, dentro e fuori il Partito democratico».
Friday, June 08, 2007
La barbarie di Stato si accanisce ancora su Welby

E' accaduto, naturalmente, su un fatto politicamente rilevante. La morte di Piergiorgio Welby. Il gip di Roma Renato Laviola ha disposto l'imputazione coatta del medico Mario Riccio, che la notte tra il 20 ed il 21 dicembre scorso diede seguito alla richiesta del paziente di sospendere il trattamento terapeutico e di essere sedato perché non soffrisse nei suoi ultimi istanti di vita.
Il giudice, nel respingere la richiesta di archivazione del pm, ribadisce più volte che esiste «un diritto al rifiuto delle cure, per motivi etici o religiosi», ma definisce quello di Welby un caso a parte. Di «eutanasia passiva». Il reato contestato è «omicidio del consenziente», perché Riccio in questo caso particolare, si fa notare, è arrivato a Roma apposta, non essendo il medico curante del paziente (?). Difficile davvero comprendere come questa circostanza possa cambiare tutto.
Eppure, in base alla consulenza medico-legale disposta dalla procura è escluso qualsiasi rilievo causale tra la sedazione e la morte di Welby. Gli stessi procuratori hanno accertato che il decesso non fu causato dalla sedazione, ma dall'insufficienza respiratoria provocata dalla legittima interruzione del trattamento effettuata su richiesta del paziente.
Il Tribunale di Roma, lo scorso autunno, a una richiesta esplicita di Welby, ancora vivo, aveva dato una risposta "kafkiana", ammettendo che aveva ragione - il diritto a sospendere la sua terapia era costituzionalmente garantito - ma che non si poteva procedere perché non tutelato concretamente dall'ordinamento. Una illogicità giuridica, visto che dell'ordinamento la Costituzione non solo fa parte, ma è il pilastro fondamentale. Fu un espediente, neanche troppo sottile, per non assumersi la responsabilità della decisione, criticato dall'ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky: «Se un diritto c'è (tanto più se previsto nella Costituzione) non può mancare un giudice davanti al quale farlo valere».
Morto Welby, quella responsabilità se la sono presa i pm, che nelle motivazioni alla richiesta di archiviazione per il medico scrissero: «L'interruzione della ventilazione meccanica realizzava la volontà di Piergiorgio Welby in esplicazione di un diritto a quegli spettante che trova la sua fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall'ordinamento italiano, ribadito inoltre in fonte di grado secondario quale il codice di deontologia medica». E infatti, il dott. Riccio fu poi "assolto" dall'ordine dei medici.
Dobbiamo ritenere che la decisione di oggi del gip Laviola sia il primo caso di obiezione di coscienza a cui di recente la Pontificia Accademia per la Vita ha richiamato non solo operatori della sanità, ma anche magistrati? E' presto per dirlo, ma la tempistica autorizza qualche sospetto.
Adesso si apre uno scenaro paradossale, che solo il bizantinismo italiano poteva concepire. Sarà infatti la stessa procura che aveva avanzato la richiesta di archiviazione, e che probabilmente la rinnoverà, a dover procedere nei confronti di Riccio e chiederne il rinvio a giudizio.
«In molti paesi stranieri interrompere le terapie in un malato terminale quando non c'è più alcuna speranza di ripresa ed è il paziente stesso che non intende prolungare oltre la sua inutile agonia, è una prassi che avviene ogni giorno in tutti gli ospedali. Io stesso, quando lavoravo negli Usa, ho sospeso le terapie a malati per i quali non c'era più nulla da fare».E' quanto afferma Ignazio Marino, medico chirurgo di fama internazionale e presidente della Commissione Sanità: «Non significa uccidere, ma accettare la fine naturale della vita... Non è accettabile imporre l'uso della tecnologia contro la volontà della persona. Questo è un principio riconosciuto dal codice deontologico scritto e approvato dai medici italiani».
Inoltre, osserva Marino, la sedazione dei pazienti terminali è riconosciuta anche dall'etica cattolica già da molti anni, da quando Papa Pio XII nel 1957 disse:
«Se tra la narcosi e l'abbreviamento della vita non esiste alcun nesso causale diretto, posto per volontà degli interessati o per la natura delle cose, e se al contrario la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l'alleviamento dei dolori, dall'altro l'abbreviamento della vita, è lecita».Il senatore Marino dunque spinge per una legge del Parlamento che chiarisca la materia. Tuttavia, a questo punto, se il diritto di un paziente a sospendere la sua terapia è costituzionalmente garantito, occorre prendere in considerazione il rischio concreto che una nuova legge potrebbe addirittura restringere libertà e diritti che ora sono garantiti e che solo la malafede del gip che ha avuto la sfortuna di trovarsi di fronte Riccio non vuole riconoscere.
Conversazione con Mina Welby (LibMagazine, 2 aprile 2007)
Thursday, February 01, 2007
Welby. Il medico fece il suo dovere
«La Commissione disciplinare dell'Ordine dei Medici di Cremona ha deciso all'unanimità di archiviare il caso Riccio». L'annuncio ufficiale, stamani, del presidente dell'Ordine Andrea Bianchi, in apertura di una conferenza stampa.
Né eutanasia, né accanimento terapeutico, ma l'accoglimento da parte del medico della richiesta del paziente di sospendere la terapia. In questa intervista Giuliano Amato traccia i confini tra eutanasia (intervento attivo per porre termine a una vita) e accanimento terapeutico, di cui ha senso parlare solo nei casi in cui il paziente non è in grado di esprimere la sua volontà, perché negli altri casi si tratta di semplice interruzione della terapia.
«Personalmente sono molto contento, questa vicenda era per me motivo di grande preoccupazione», commenta l'anestesista Riccio all'agenzia radiofonica GRT:
Al Corriere Paolo Bodini, senatore dell'Ulivo:
Né eutanasia, né accanimento terapeutico, ma l'accoglimento da parte del medico della richiesta del paziente di sospendere la terapia. In questa intervista Giuliano Amato traccia i confini tra eutanasia (intervento attivo per porre termine a una vita) e accanimento terapeutico, di cui ha senso parlare solo nei casi in cui il paziente non è in grado di esprimere la sua volontà, perché negli altri casi si tratta di semplice interruzione della terapia.
«Personalmente sono molto contento, questa vicenda era per me motivo di grande preoccupazione», commenta l'anestesista Riccio all'agenzia radiofonica GRT:
«Al di là dell'aspetto personale, deontologicamente parlando, questa decisione stabilisce un principio molto importante: interrompere una terapia ora è possibile anche quando questa, come si è trattato nel caso di Welby, è una terapia salvavita. Ora spero che sia l'occasione per permettere un ulteriore dibattito su queste tematiche nel nostro paese».A questo punto bisognerebbe fare un po' di chiarezza per capire di quale legge ci sia effettivo bisogno.
Al Corriere Paolo Bodini, senatore dell'Ulivo:
«Approvo in pieno il comportamento di Riccio. Innanzitutto perché è tutelato dal codice deontologico. Ma anche da cristiano mi sento di dire che quanto è successo a Welby non viola né la legge né la morale: il malato che accetta il suo destino, magari stanco dopo una lunga sofferenza, non va contro Dio. Anzi il suo desiderio può essere quello di ricongiungersi con il Padre. Welby senza il respiratore sarebbe morto, non c'è stato nessun ruolo attivo del medico nel provocare il decesso».
Monday, January 29, 2007
Attenzione a quella legge di troppo
Senza citare direttamente il caso di Piergiorgio Welby, il presidente della III sezione penale della Cassazione Gaetano Nicastro ha inaugurato l'anno giudiziario 2007 dedicando un passaggio del suo discorso ai delicati temi dell'eutanasia e dell'accanimento terapeutico e ai loro "ambigui" risvolti giuridici.
«Si è discusso se è quando sia legittimo interrompere il trattamento terapeutico dei malati terminali. Alla soluzione sono indubbiamente connessi profondi problemi etici che investono il significato stesso della vita umana e diritti ritenuti indisponibili». Tuttavia, suggerisce Nicastro, «di fronte al progresso della farmacologia e dell'ingegneria medica rimane ambiguo il concetto stesso di accanimento terapeutico»: per questo «è urgente l'intervento del legislatore».
Di fronte a tanto autorevole richiesta di intervento del Legislatore molti laici e liberali hanno cantato vittoria, come se vi fosse la prova definitiva dell'esigenza di una legge sull'eutanasia o simili. Semmai, invece, c'è da preoccuparsi.
Il rifiuto e la richiesta di sospensione delle terapie sono già un diritto dei malati. Quella che per molti è "ambiguità" nel definire cosa sia «accanimento terapeutico» è in realtà un ampio spazio discrezionale che dovrebbe appartenere al malato, accompagnato dal suo medico. Una legge che pretenda di ridurre quella "ambiguità" ridurrà inevitabilmente l'autonomia dell'individuo nel decidere se la situazione terapeutica in cui si trova sia per lui accettabile o meno.
Preferisco, quindi, l'approccio "liberale" del Cardinale Martini: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Il che non vuol dire isolamento e abbandono nel malato in queste valutazioni e decisioni.
Serve una legge che definisca il concetto di «accanimento terapeutico», che stabilisca il principio, rispettando libertà e responsabilità dei soggetti coninvolti, malato e medico innanzitutto, ma non che risolva quell'insopprimibile "ambiguità" con cui si presenta il caso reale, che spetta al singolo malato, consigliato dal medico, risolvere.
Il rischio invece è che il Legislatore, secondo un legiferare tipico italiano, proceda cercando di definire una casistica il più esaustiva possibile, da cui far derivare, caso per caso, i comportamenti leciti e quelli illeciti. Un approccio dissennato, perché le leggi non riescono mai a ingabbiare la realtà e a prevederne tutti i possibili sviluppi. Quando ci si prova il risultato è sempre "meno libertà per tutti".
«Si è discusso se è quando sia legittimo interrompere il trattamento terapeutico dei malati terminali. Alla soluzione sono indubbiamente connessi profondi problemi etici che investono il significato stesso della vita umana e diritti ritenuti indisponibili». Tuttavia, suggerisce Nicastro, «di fronte al progresso della farmacologia e dell'ingegneria medica rimane ambiguo il concetto stesso di accanimento terapeutico»: per questo «è urgente l'intervento del legislatore».
Di fronte a tanto autorevole richiesta di intervento del Legislatore molti laici e liberali hanno cantato vittoria, come se vi fosse la prova definitiva dell'esigenza di una legge sull'eutanasia o simili. Semmai, invece, c'è da preoccuparsi.
Il rifiuto e la richiesta di sospensione delle terapie sono già un diritto dei malati. Quella che per molti è "ambiguità" nel definire cosa sia «accanimento terapeutico» è in realtà un ampio spazio discrezionale che dovrebbe appartenere al malato, accompagnato dal suo medico. Una legge che pretenda di ridurre quella "ambiguità" ridurrà inevitabilmente l'autonomia dell'individuo nel decidere se la situazione terapeutica in cui si trova sia per lui accettabile o meno.
Preferisco, quindi, l'approccio "liberale" del Cardinale Martini: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Il che non vuol dire isolamento e abbandono nel malato in queste valutazioni e decisioni.
Serve una legge che definisca il concetto di «accanimento terapeutico», che stabilisca il principio, rispettando libertà e responsabilità dei soggetti coninvolti, malato e medico innanzitutto, ma non che risolva quell'insopprimibile "ambiguità" con cui si presenta il caso reale, che spetta al singolo malato, consigliato dal medico, risolvere.
Il rischio invece è che il Legislatore, secondo un legiferare tipico italiano, proceda cercando di definire una casistica il più esaustiva possibile, da cui far derivare, caso per caso, i comportamenti leciti e quelli illeciti. Un approccio dissennato, perché le leggi non riescono mai a ingabbiare la realtà e a prevederne tutti i possibili sviluppi. Quando ci si prova il risultato è sempre "meno libertà per tutti".
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