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Sunday, November 20, 2005

Anche con Pechino la democrazia è l'unica politica realista

Pechino. E' il giorno degli incontri ufficiali con i vertici della Repubblica popolare cinese e il presidente Bush cosa ti fa? Va a messa di buon mattino. Anche così si difende e si afferma la libertà religiosa in quella Cina messa all'indice dal Dipartimento di Stato tra i paesi che non la rispettano. Un gesto altamente simbolico rivolto ai vertici del regime e ricambiato dall'accoglienza entusiasta e spontanea dei cinesi presenti alla funzione nella chiesa di Gangwashi, una delle cinque chiese protestanti della capitale. «Spero che il governo cinese non abbia paura di cristiani che si riuniscono per pregare», ha detto Bush, aggiungendo che «una società sana è una società che accoglie tutte le fedi e dà alla gente la possibilità di esprimersi nella preghiera dell'Onnipotente».

Il presidente e la first lady Laura hanno quindi ringraziato il pastore della Chiesa, il reverendo Du Fengying, una donna, per l'ospitalità. E sul registro degli ospiti Bush ha scritto: «Dio benedica i cristiani di Cina». Il sermone si basava su una lettera di Paolo ai Corinzi ed elaborava l'interrogativo "Che cos'è l'amore?". «Tolleranza, fiducia, perseveranza». Sui diritti umani e la libertà religiosa, il reverendo Du sapeva di parlare a un intelocutore ricettivo: «Dobbiamo perseverare fino alla vittoria finale».

Alle 08.30 l'essenziale politico della giornata sembrava già compiuto. E invece no. I diritti umani saranno oggetto di «un dialogo permanente» con Pechino, ha spiegato separatamente ai giornalisti il segretario di Stato Condoleezza Rice. «Abbiamo affrontato l'argomento con il governo cinese e l'affronteremo ancora con forza» in futuro. Gli Stati Uniti hanno manifestato la loro «inquietudine» per la sorte dei dissidenti, e intendono farlo ancora, «facendosi sentire». I progressi della Cina nel rispetto dei diritti dell'uomo «non sono rapidi come avremmo sperato». La Rice ha voluto far notare che però la risposta dell'attuale leadership cinese non è stata "badi ai fatti suoi" quando Bush ha toccato il problema del rispetto dei diritti dell'uomo e della democrazia.

Nel colloquio con il leader cinese Hu Jintao, gli impegni generici, le "buone" relazioni ostentate, la riforma monetaria per la flessibilità dello yuan, le relazioni commerciali e il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, la questione Taiwan. Non è mancato nulla del repertorio classico degli incontri ufficiali, ma Bush è andato molto oltre la provocazione d'inizio giornata. Ha chiesto esplicitamente al governo cinese di espandere la libertà politica, sociale e religiosa dei suoi cittadini, spunti non raccolti da Hu in pubblico, e persino di incontrare il Dalai Lama (Leggi).

Al termine dell'incontro separato con i giornalisti, dopo le dichiarazioni congiunte con Hu Jintao, il presidente ne ha combinata una delle sue. Uscendo dalla stanza ha sbagliato porta e se n'è trovata di fronte una chiusa, che ha cercato inutilmente di aprire tirando e spingendo. «Stavo cercando di scappare, ma non ha funzionato», ha commentato arrendendosi.

Dunque, la politica dell'amministrazione Bush sulla Cina sembra proprio quella descritta ieri dal Wall Street Journal, di cui avevamo parlato in questo post.

Il significato politico della visita di Bush è davvero un appello all'apertura democratica della società cinese. C'è la presa d'atto che 1) una Cina non democratica rappresenta una minaccia; 2) «le riforme economiche non portano necessariamente la democrazia»; 3) «non c'è nessuna speranza che la Cina si democratizzi da sola». Quindi, «anche in questo caso l'approccio più pragmatico, cioè affrontare il problema, sembra coincidere con la spinta a promuovere una società democratica». Alla faccia dei realisti che sempre più anche in TocqueVille pretendono di descriverci e prescriverci una politica estera in termini esclusivamente geopolitici. Dai loro "scenari", dalle loro pretese necessità, scompaiono le condizioni umane dei cinesi, degli iraniani, eccetera. Per fortuna, il valore politico assunto dalla visita di Bush in Cina grazie alle le sue parole e ai suoi gesti dimostra che forse a Washington la pensano diversamente. Non per filantropia, si badi, ma per la semplice constatazione che le minacce alla pace e alla nostra sicurezza derivano ormai da quelle parti nel mondo in cui ancora mancano democrazia e rispetto dei diritti umani. Non si sfugge.

2 comments:

Anonymous said...

singolare che l'articolo di rocca che tu citi prenda spunto da un articolo ultrarealista di Condoleeza Rice per spiegare perchè clinton ha fallito.

O anche Rocca è diventato ultrarealista, oppure ultrarealista è sempre stata l'amministrazione americana (per me: la seconda).

(In quell'articolo che di intitola "Difendere gli interessi nazionali", la Rice se la prende anche con l'interventismo umanitario, tanto per capire il tono dell'articolo).

a presto, aa.

JimMomo said...

Non mi aspetto dalla Rice una posizione neocon, soprattutto non 9 mesi prima dell'11 settembre! Il suo articolo risale al gennaio 2000.

Comunque Clinton non ha fallito per aver messo tra le priorità della sua politica cinese la democrazia, ma per l'esatto contrario: per non averla messa, illudendosi che tanto l'apertura e lo sviluppo economico avrebbe portato anche a quella fino al punto di considerare la Cina un partner. Insomma anni persi, altro che interventismo democratico.

E Rocca nell'articolo ci racconta che da allora, dal 2000, 5 anni fa, l'amministrazione Bush ha constatato che anche il suo approccio con la Cina doveva essere rivisto. "Una volta eletto alla Casa Bianca, Bush ha annunciato che con la Cina avrebbe cercato una relazione costruttiva, cooperativa e franca. Cinque anni dopo le relazioni sino-americane non sono né costruttive né cooperative né franche e si ha la prova che le riforme economiche..."

E l'interventismo "umanitario", io preferisco dire demcoratico, può essere declinato alla neocon, o alla radicale, o alla clinton-veltroni. E non ho dubbi nello scegliere i primi due.