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Wednesday, November 14, 2007

Se la libertà di licenziamento può essere anche di sinistra

Ieri Pietro Ichino, sul Corriere, è tornato efficacemente sul tema liberalismo e sinistra, spiegando che una sinistra moderna non può più fare a meno di «un mercato libero e ben funzionante, eliminandone distorsioni e asimmetrie», perché «finora non è stata inventata alcuna tecnica migliore di questa» e perché «dove non opera un vero mercato concorrenziale, le ingiustizie sono, mediamente, molto più diffuse e più gravi».

Tuttavia, siccome il mercato «non crea, ma evidenzia con grande precisione le differenze di capacità tra gli individui», rimane attuale «il mestiere tipico della sinistra». Una sinistra moderna e liberale dovrebbe sì garantire «in modo più efficace il sostegno ai "perdenti", la loro inclusione nel grande gioco a somma positiva», ma senza ricorrere ai vecchi metodi e alle vecchie politiche distorsive dei meccanismi di mercato, che «generano in realtà posizioni di rendita da un lato, esclusioni dall'altro», ma dando solo «una confortante illusione di uguaglianza tra i cittadini».

Ichino scende nel concreto: il mercato del lavoro, reso troppo ingessato, pieno di vincoli, nel tentativo «fallito» di favorire l'ugualianza dei trattamenti, non funziona e diffonde la percezione, «falsa», di «scarsità del lavoro». Il mercato del lavoro «ha bisogno di regole, ma non della giungla di regole che oggi lo rendono vischioso e inaccessibile». Ha bisogno di una deregulation, occorre permettere «un incontro più libero fra domanda e offerta». Sarebbe così «spazzata via l'attuale ingiusta divisione fra chi sta dentro e chi è escluso dalla cittadella fortificata del lavoro regolare». Certo, in questo modo «le differenze di trattamento fra i lavoratori regolari» aumenterebbero, «evidenziando le disuguaglianze di capacità tra gli individui».

Dunque, «una vera liberalizzazione del mercato del lavoro, con tutti i vantaggi che essa porta con sé in termini di mobilità sociale, pari opportunità e valorizzazione del merito», è politicamente opportuno che si accompagni a «un sistema capace di dare un sostegno forte ai più deboli».

L'esempio europeo che cita Ichino, come Giavazzi, è quello danese: «Grande libertà nei rapporti contrattuali fra imprese e lavoratori, compresa la libertà di licenziamento per motivi economici, ma al tempo stesso grande capacità del sistema di prendere per mano chi perde il posto, garantendogli continuità del reddito combinata con servizi efficienti di informazione e orientamento, formazione mirata alle possibilità di lavoro effettive...». Un sistema di cui è artefice una social-democrazia scandinava.

Ma ci sono altri strumenti per sostenere le fasce più deboli della società: potenziare l'istruzione, per «combattere la disparità» iniziali, l'esenzione fiscale totale per i redditi di lavoro bassi, sono gli esempi che ci sembrano più convincenti, tutti «propri dell'agenda di una sinistra moderna».

Questo, conclude Ichino, «non significa che solo la sinistra possa liberalizzare il mercato del lavoro. Significa che anche la destra, se vuole farlo davvero, deve imparare a fare almeno un po' il mestiere proprio della sinistra». E' l'unico passaggio in cui Ichino sembra distratto: per ora la destra è riuscita a muovere qualche passo, certamente ancora insufficiente, per una maggiore flessiblità del mercato del lavoro, mentre la sinistra, con il Governo Prodi, sta semmai cercando di introdurre controriforme.

1 comment:

Anonymous said...

Quello di Ichino è un testo ottimo.
Ma al termine va riconosciuto con chiarezza che nel nostro Paese questa trasformazione non è consentita perchè i sindacati storici non hanno alcun interesse a cambiare alcunché.
Tra i tanti nemici della riforma e della modernizzazione di questo Paese i sindacati sono ai primissimi posti.
E se la politica, anzi la casta, è tanto debole, la stessa cosa non può dirsi dei sindacati.
Anche perchè oltre alle ingenti ricchezze di cui dispongono fondano ancora la loro forza sulla permanenza reale dell'ideologia veterocomunista e veterosocialista. Ideologie che la realtà ha condannato, ma non le persone concrete che sono cresciute con loro.
E l'invecchiamento della popolazione non favorisce il ricambio ideale.