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Monday, November 24, 2008

I rischi del primato della politica

Non mi hanno affatto convinto le argomentazioni, piuttosto deboli a mio avviso, del premio Nobel Paul Samuelson, sul Corriere di domenica. Quanto siano «intollerabili» le disuguaglianze prodotte dal libero mercato dipende dalla sensibilità di ciascuno, ma che insieme alle disuguaglianze il mercato non abbia prodotto anche «un progresso dinamico attraverso innovazioni tecnologiche» mi pare difficile sostenerlo, quando della nostra vita di tutti i giorni entrano a far parte innovazioni ad un ritmo impensabile senza la competizione globale.

Né Samuelson si degna di spiegare perché «le opinioni di Milton Friedman e di Friedrich Hayek» sarebbero «cattivi consigli» e i liberisti gente «tremendamente cinica». Il grande economista ci fa sapere che lui se ne sta al «centro», perché «la ragione e l'esperienza» lo hanno convinto, detto in poche parole, che in medio stat virtus. Eppure, quello «Stato Centrista Limitato» che vagheggia rischia di somigliare più a uno stato centralista molto difficilmente limitabile.

Chi invece diffida del «primato della politica» che molti invocano come risposta alla crisi è Angelo Panebianco, che ricorda come la «rivoluzione liberale» che prese avvio con le vittorie della Thatcher e di Reagan «fu una reazione alla crisi, economica e morale, degli anni Settanta», i cui benefici ci hanno regalato «una trentennale crescita economica mondiale e una spettacolare accelerazione della globalizzazione... capace di diffondere benessere e libertà in tanti luoghi che queste cose non conoscevano».

Panebianco ricorda a chi oggi rivendica il «primato della politica» e irride il liberismo «qualche insegnamento della storia»: anche dopo il '29 il liberalismo fu accantonato come un vecchio arnese ottocentesco, il primato della politica sfociò nel protezionismo e nello statalismo, e gli intellettuali europei si buttarono a inseguire i miti della «pianificazione», aderendo a nuovi modelli di organizzazione politica delle società che in alcuni casi finirono in tragedie di proporzioni enormi.

Il guaio, osserva Panebianco, è che alla fine «dalla politica tutti si aspettano la soluzione ai loro problemi e le attribuiscono ogni colpa delle mancate o cattive soluzioni». Tutti la invocano e stupisce «il fatto che non solo la gente comune ma anche gran parte delle élites fatichino ad accettare l'idea che non tutto ciò che accade sia il prodotto di decisioni politiche».
«Essi mostrano di non riconoscere che molti accadimenti sono semplicemente il frutto del reciproco adattamento spontaneo fra i comportamenti di milioni e, a volte, miliardi di persone, l'esito aggregato, per lo più imprevisto e imprevedibile, di un gran numero di azioni ispirate da altrettante menti singole. Nonostante la secolarizzazione, gente comune e élites continuano a credere che tutto si debba alla volontà degli Dei. La differenza è che questa idea di onnipotenza è stata trasferita, proiettata, su uomini in carne ed ossa, i cosiddetti potenti della Terra. I più, misconoscendo il ruolo fondamentale degli aggiustamenti spontanei, credono nella sola esistenza delle "mani visibili"».
E' un approccio più laico e umile nei confronti della realtà quello che ci vorrebbe, perché «l'onnipotenza della politica è solo un mito. Un mito lugubre, per di più. Con quanto più accanimento è stato perseguito tante più catastrofi si sono prodotte», mentre «solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società», perché «compito del governo non è darci "la felicità" ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità».

Qualcuno potrebbe obiettare che anche l'onnipotenza del mercato è un mito. Ebbene, è un mito solo se riponiamo su di esso aspettative sbagliate. Dal mercato non possiamo aspettarci che realizzi un qualche ideale di «bene comune», né che ci garantisca un benessere economico perpetuo, o che elimini le contraddizioni e le incertezze proprie della realtà umana.

Nell'emergenza, secondo Panebianco, è accettabile un maggiore intervento dello Stato, purché sia temporaneo e venga accolto «a malincuore», non con «entusiasmo». Perché il rischio, in Europa, e soprattutto in Italia, più che in America, non è tanto «il "ritorno dello Stato" della cui invadenza, in realtà, nonostante tanti sforzi, non ci siamo mai liberati. Il rischio è che quell'invadenza torni a godere di piena legittimazione culturale. Il rischio è dimenticare che quanto più la politica si impiccia, quanto più pretende di dispensarci la felicità, tanto più si riduce, col tempo, la libertà di ciascuno di noi».

1 comment:

Anonymous said...

C'è una riflessione che non vedo mai fare. L'idea liberale è un'anomalia, una stupenda anomalia, un'anomalia di cui sono profondamente innamorato, ma pur sempre un'anomalia. Tutta la Storia è un incessante predominio dell'illiberalità, sotto tuute le vesti possibili e immaginabili. Può darsi che abbiamo solo avuto la fortuna di assistere a un'epoca in cui questa fiammella ha potuto brillare qua e là per un pò, portando i suoi frutti meravigliosi, ma l'uomo sembra volersi sempre dannare. Urlatori, normalizzatori e profittatori avranno ragione un'altra volta. In nome della Democrazia, è chiaro. Cumino.