«La crisi dell'Egitto è, per i politologi, l'equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti». Lo scrive oggi Marta Dassù, su La Stampa, e ci pare una giusta riflessione. Ma non è la prima volta. Come all'epoca dell'Urss, in pochissimi sul finire degli anni '70 e all'inizio degli '80 ne prevedevano il crollo imminente. Anzi, la maggior parte degli analisti e dei commentatori erano persuasi che Mosca stesse prevalendo nella sfida con gli Usa o comunque che occorresse rassegnarsi a convivere con un potente blocco sovietico. Non mancava, però, chi - inascoltato - continuava a vederne la fragilità, e ad essere convinto che sarebbe bastata una spallata dall'esterno, o una scintilla dall'interno, a far crollare tutto. Ed è così che andò. Penso ai tanto vituperati neocon e a dissidenti come Sharansky, e a Reagan, che ha saputo fare tesoro delle idee e delle analisi giuste, sia pure minoritarie.
Così in questi anni c'è chi andava ripetendo che le dittature "laiche" del mondo arabo bisognava sostenerle in funzione anti-islamica, e che persino con gli ayatollah era il caso di mettersi d'accordo perché non avrebbero mai perso il potere in Iran. Ebbene, la realtà sembra invece dare ragione a quanti sostenevano che il cambiamento era alle porte, che quei regimi avevano le ore contate perché le società mediorientali, pur tra mille contraddizioni, non ne potevano più, e che l'Occidente avrebbe dovuto farsi carico di indirizzare, influenzare per il meglio questo processo anziché ritardarlo rischiando di esserne travolto. «Questa scarsa capacità di prevedere ha molto a che fare - scrive Dassù - con la nostra abitudine a studiare i regimi, più che i Paesi. Se decidessimo che anche i Paesi contano - la gente, non solo i potenti - le nostre analisi sarebbero migliori, probabilmente. E con loro, anche scelte di politica estera per troppi anni rivolte a sostenere regimi amici, ma nemici della loro gente».
In realtà, da una parte, mentre si perde tempo con la politica della «mano tesa», il potere degli ayatollah in Iran non è affatto così saldo e la società iraniana è tra le più pronte a sostituire la dittatura con qualcosa di simile alla democrazia; dall'altra, i «regimi amici» come quello di Mubarak si dimostravano sì preziosi alleati dell'Occidente, per esempio nelle crisi arabo-israeliane, ma lungi dal rappresentare un vero argine, con la loro oppressione e il loro malgoverno hanno gonfiato le file dell'estremismo islamico. Per l'Occidente, e l'America soprattutto, mostrarsi «amici» di costoro ha significato perdere la battaglia per le menti e i cuori della gente. E ad approfittarne sono stati proprio gli islamisti, che invece hanno saputo cavalcare il malcontento. Non solo sui ceti più popolari, ma anche sulla cosiddetta "borghesia", sugli imprenditori e i professionisti, come medici, avvocati, ingegneri, hanno più presa le organizzazioni integraliste islamiche come i Fratelli musulmani.
A questo punto, la via per Obama è obbligata - scaricare Mubarak - ma non facile, anche perché i preziosissimi alleati nella regione (come i sauditi) sono alla finestra per valutare il trattamento che l'America riserva ai suoi «amici». Purtroppo, però, l'accelerazione verso una transizione piena di opportunità, ma anche di incognite, rischia di essere un evento subìto dagli Usa piuttosto che favorito e, se non guidato, almeno in qualche modo bene indirizzato. Scarsa lungimiranza ed errori di prospettiva, come è già accaduto, lasciano Washington in balìa degli eventi (e dei suoi nemici). Parlare solo adesso di «transizione ordinata», «democrazia reale» e di «libere elezioni» suona come una toppa tardiva più che una strategia per la regione. L'errore di tutte le sinistre, a cui non fa eccezione quella americana, è credere che il conflitto israelo-palestinese sia la causa prima di tutti i mali del Medio Oriente, e quindi la sua soluzione la chiave di tutto. Al contrario, il problema vero sono i governi della regione: o spietate dittature islamiche e terroriste, o regimi autoritari la cui impopolarità favorisce l'estremismo islamico.
Anziché sostenere questi regimi, concentrarsi sul processo di "pace" tra israeliani e palestinesi - inevitabilmente in stallo da anni - occorreva preparare la trasformazione politica del Medio Oriente, favorire la crescita di nuove classi dirigenti, stringere legami con esse. Il risultato di questo errore di "visione" è che le classi sociali più preziose, quelle che dovrebbero essere il motore di un cambiamento in senso liberale e democratico, sono oggi lontane dall'Occidente, e la domanda di libertà, di modernità, pur maggioritaria, rischia di restare senza una guida, accende la protesta per esasperazione, ma senza avere un progetto di società, che invece gli islamisti hanno.
E' vero che il movimento che sta detronizzando Mubarak è per la stragrande maggioranza democratico, esprime un desiderio di libertà e buon governo, ma come quasi sempre accade ne fanno parte gruppi organizzati e fortemente ideologizzati che chiedono libertà oggi per negarla domani, se o piuttosto quando saliranno al potere. E questo rischio, cui scampammo in Italia nel dopoguerra grazie alla Guerra Fredda, oggi in Egitto è alto e a causa della miopia dell'Occidente non ci sono argini, se non gli egiziani stessi. Che vogliono modernità, social network, non uno Stato islamico. Eppure è proprio uno Stato islamico ciò che rischiano di ottenere. Oltre che un'associazione religiosa, i Fratelli musulmani sono l'unico partito politico di massa egiziano, l'unica forza organizzata e ramificata territorialmente, con una dirigenza indottrinata e combattiva, con forti legami all'estero.
Guai a fidarsi di quel ElBaradei troppo morbido con gli iraniani da direttore dell'Aiea, cui ora i Fratelli musulmani offrono il loro appoggio come «guida nel cammino verso il cambiamento». «Comprendiamo la sensibilità, specialmente in Occidente, nei confronti degli islamisti, e al momento non vogliamo essere in prima linea», dichiara uno dei leader egiziani del movimento. Sanno che un loro ruolo di primo piano in questo momento aiuterebbe Mubarak, ma sono pronti a prendere il potere e Teheran vede avvicinarsi un'insperata vittoria che potrebbe spalancargli la via verso l'egemonia incontrastata nella regione.
Monday, January 31, 2011
Friday, January 28, 2011
Grosso guaio al Cairo
Egitto messo a ferro e fuoco, la repressione sta fallendo. Se continua così Mubarak non arriva a lunedì. Tardive le parole della Clinton sulla necessità delle riforme e sul diritto degli egiziani a una società libera. Pressioni serie in questo senso gli Usa (e l'Europa) avrebbero dovuto esercitarle molto prima, ora sembrano solo retorica per blandire i manifestanti, mentre solo pochi giorni fa proprio la Clinton assicurava un po' altezzosa che il governo era solido. E tardivo potrebbe rivelarsi il discorso alla nazione che Mubarak si starebbe preparando a pronunciare, la promessa di un politico con una pistola puntata alla tempia. A Washington hanno sottovalutato la situazione e sopravvalutato la capacità di tenuta del regime.
Quella è la porta
Anche Corriere e Foglio invitano Fini a dimettersi
Non sono il solo a ritenere che si debba muovere Napolitano per risolvere almeno una delle tante crisi istituzionali che stanno facendo sanguinare la nostra democrazia e deprimere gli italiani, cioè per spingere Fini alle dimissioni. Non per la casa di Montecarlo, su cui saranno gli elettori a giudicare visto che la magistratura proprio non ne vuole sapere di fare un simile sgarbo ad un suo prezioso alleato. Ma per l'incompatibilità del suo ruolo politico con la carica di presidente della Camera, che richiede una terzietà di comportamenti che Fini ha dimostrato di non sapere né volere più garantire.
Con la diplomazia che gli appartiene, da ex ambasciatore, Sergio Romano gli indica la porta (e non è la prima volta che il Corriere la manda a dire a Fini), mentre Il Foglio invoca l'intervento del presidente Napolitano: «In una situazione delicata di questo tipo, probabilmente, avrebbe un effetto decisivo un intervento ovviamente riservato ma fermo del Quirinale, che rischia altrimenti di restare prigioniero di una situazione istituzionale ingestibile». Il quotidiano diretto da Ferrara osserva opportunamente, inoltre, che «non sta in piedi da un punto di vista logico insistere [da parte di Fini] sulla terzietà presidenziale per delegittimare come attacchi alle istituzioni le iniziative politiche che contrastano quelle messe in campo "a titolo personale" dallo stesso presidente» della Camera.
Due modi senz'altro più eleganti di quello scelto dal Giornale («Fini vattene»), ma la sostanza non cambia: Fini si dimetta.
Non sono il solo a ritenere che si debba muovere Napolitano per risolvere almeno una delle tante crisi istituzionali che stanno facendo sanguinare la nostra democrazia e deprimere gli italiani, cioè per spingere Fini alle dimissioni. Non per la casa di Montecarlo, su cui saranno gli elettori a giudicare visto che la magistratura proprio non ne vuole sapere di fare un simile sgarbo ad un suo prezioso alleato. Ma per l'incompatibilità del suo ruolo politico con la carica di presidente della Camera, che richiede una terzietà di comportamenti che Fini ha dimostrato di non sapere né volere più garantire.
Con la diplomazia che gli appartiene, da ex ambasciatore, Sergio Romano gli indica la porta (e non è la prima volta che il Corriere la manda a dire a Fini), mentre Il Foglio invoca l'intervento del presidente Napolitano: «In una situazione delicata di questo tipo, probabilmente, avrebbe un effetto decisivo un intervento ovviamente riservato ma fermo del Quirinale, che rischia altrimenti di restare prigioniero di una situazione istituzionale ingestibile». Il quotidiano diretto da Ferrara osserva opportunamente, inoltre, che «non sta in piedi da un punto di vista logico insistere [da parte di Fini] sulla terzietà presidenziale per delegittimare come attacchi alle istituzioni le iniziative politiche che contrastano quelle messe in campo "a titolo personale" dallo stesso presidente» della Camera.
Due modi senz'altro più eleganti di quello scelto dal Giornale («Fini vattene»), ma la sostanza non cambia: Fini si dimetta.
Scomode verità
Del malessere dei giovani in Italia, un Paese che «non cresce da due decenni e in cui tutto sembra fermo», bisognerebbe parlare senza nascondere verità scomode, come fa oggi Alberto Alesina in prima pagina sul Sole 24 Ore.
Prima verità scomoda:
Prima verità scomoda:
«Il problema del precariato dei figli è l'altra faccia della medaglia del posto fisso dei padri... Questo reddito da posto fisso prima, e pensione poi, genera l'assicurazione sociale per i figli, nel periodo in cui come precari attendono di entrare nel mondo del lavoro... Le imprese e lo stato possono quindi contare su un esercito di precari in attesa del posto fisso e mantenuti da chi il posto fisso l'ha».Seconda verità scomoda:
«Non tutti i giovani, e soprattutto quelli dei ceti medio alti, sono un modello di industriosità... L'università la pagano in larga parte i contribuenti, quindi agli utenti costa ben poco. Ritardare la laurea prolunga un periodo di vita assai piacevole, ed è a costo pressoché zero per l'utente».Terza verità scomoda:
«La meritocrazia non significa solo premiare i migliori. Significa anche punire (in senso economico, ovviamente) i peggiori... significa che un trentenne produttivo debba essere pagato di più di un cinquantenne che non produce nulla, in tutti i campi, dall'università all'impresa al settore pubblico».Conclusione:
«Se non si esce dalla retorica secondo cui tutti i giovani indistintamente sono vittime, e che posto fisso, università sotto casa gratuita per tutti gli studenti, meritocrazia sì, ma senza che nessuno ci rimetta siano diritti acquisti, allora non si farà molta strada per migliorare la vita dei giovani italiani».
Thursday, January 27, 2011
Sempre la solita banda Bassotti
Non potrebbero essere definiti meglio di come fa oggi Il Foglio: «Un coro di vecchie stelle della Prima Repubblica... coristi ex premier, uomini di impresa, sindacalisti, banchieri, esponenti dell'opposizione: sinistra dc, socialisti e post comunisti». Un coro si sta levando a favore della patrimoniale per ridurre il debito pubblico. E' stato Giuliano Amato - tristemente noto, da presidente del Consiglio, per il suo prelievo nottetempo sui conticorrente - a dare il "la". Rubare - perché questo è il termine che ci vuole - 30 mila euro ad un terzo degli italiani («magari in due anni», concede Sua grazia) per abbattare un terzo del debito pubblico, creato negli anni '70 e '80 da gente come Amato.
Qualcuno vicino al Terzo polo rilancia («imposta straordinaria sulle plusvalenze immobiliari», che non colpirebbe più di tanto i proprietari, ma chi aspira a diventarlo), mentre almeno Abete ha il pudore di inserire la patrimoniale in una proposta di riforma fiscale complessiva che prevede la riduzione delle aliquote. Veltroni si è subito accodato ad Amato: a carico del «10% più ricco della popolazione un contributo straordinario per tre anni per far scendere il debito pubblico all'80%»). Peccato che quel 10% non sia poi così ricco.
Non sorprende più di tanto - a ben vedere c'è una logica - che i sostenitori della patrimoniale - il cui effetto depressivo per l'economia è stranoto - siano gli stessi che si stracciano le vesti perché si sarebbe dovuto, e si dovrebbe, spendere di più per «stimolare» l'economia.
Tremonti finora ha smentito che il Tesoro stia pensando ad una patrimoniale, ma con uno come lui non si possono dormire sonni tranquilli, meglio levare subito gli scudi. Antonio Martino ricorda l'ovvio: «Meglio tagliare le spese, non solo quelle discrezionali, e puntare su privatizzazioni e liberalizzazioni». Francesco Forte ci va giù pesante: «Pazzi pericolosi», li definisce a ragione. E' chiaro anche che parte delle risorse così confiscate verrebbero subito spese dai politici in un «rigurgito di cultura pianificatoria». Al solo sentire e leggere di questi deliri, «i risparmiatori e le imprese si spaventano, nascondono i capitali, li portano all'estero, smettono di investire. Poi ci si lamenta che la ripresa è troppo lenta. Prima vendete il patrimonio pubblico e ricoverate questi matti - conclude Forte - poi il mercato ripartirà».
Qualcuno vicino al Terzo polo rilancia («imposta straordinaria sulle plusvalenze immobiliari», che non colpirebbe più di tanto i proprietari, ma chi aspira a diventarlo), mentre almeno Abete ha il pudore di inserire la patrimoniale in una proposta di riforma fiscale complessiva che prevede la riduzione delle aliquote. Veltroni si è subito accodato ad Amato: a carico del «10% più ricco della popolazione un contributo straordinario per tre anni per far scendere il debito pubblico all'80%»). Peccato che quel 10% non sia poi così ricco.
Non sorprende più di tanto - a ben vedere c'è una logica - che i sostenitori della patrimoniale - il cui effetto depressivo per l'economia è stranoto - siano gli stessi che si stracciano le vesti perché si sarebbe dovuto, e si dovrebbe, spendere di più per «stimolare» l'economia.
Tremonti finora ha smentito che il Tesoro stia pensando ad una patrimoniale, ma con uno come lui non si possono dormire sonni tranquilli, meglio levare subito gli scudi. Antonio Martino ricorda l'ovvio: «Meglio tagliare le spese, non solo quelle discrezionali, e puntare su privatizzazioni e liberalizzazioni». Francesco Forte ci va giù pesante: «Pazzi pericolosi», li definisce a ragione. E' chiaro anche che parte delle risorse così confiscate verrebbero subito spese dai politici in un «rigurgito di cultura pianificatoria». Al solo sentire e leggere di questi deliri, «i risparmiatori e le imprese si spaventano, nascondono i capitali, li portano all'estero, smettono di investire. Poi ci si lamenta che la ripresa è troppo lenta. Prima vendete il patrimonio pubblico e ricoverate questi matti - conclude Forte - poi il mercato ripartirà».
Caso Fini, è ora che Napolitano si muova
L'aspetto che dovrebbe far indignare non è che il centrodestra discuta in Senato il caso Fini, che è da parecchio tempo un caso istituzionale di cui finalmente pare essersi accorto persino il presidente Napolitano, ma che la Procura di Roma non abbia ritenuto né di inoltrare una rogatoria al governo di Saint Lucia, né di sentire non dico il presidente della Camera, ma almeno Giancarlo Tulliani, che per ammissione di Fini ha fatto da intermediatore nella compravendita dell'immobile al centro dell'indagine. E non mi si venga a dire che è irrilevante sapere chi è il vero proprietario dell'abitazione sulla cui vendita grava il sospetto di una truffa.
Eppure, le carte da Saint Lucia sono arrivate lo stesso, ovviamente tramite mani politicamente interessate, ma è davvero incredibile - e autorizza a nutrire più di un sospetto di un'alleanza tra Fini e le toghe - che non le abbia chieste la Procura. Procura che, riferiscono unanimi le cronache dei giornali, qualsiasi cosa dicano quelle carte non è disposta a spostarsi di una virgola dalla richiesta di archiviazione per Fini. Il punto è che, ravvisino o meno il reato i magistrati, gli italiani hanno capito da un pezzo che Fini ha svenduto una casa di lusso di proprietà del suo ex partito al cognato, probabilmente nell'ambito di un giro di immobili tutto in famiglia, così come sanno da tempo che Berlusconi ama organizzare nelle sue ville feste che terminano con spettacolini sexy e "ringraziare" le ragazze con aiuti e regali.
E' dall'aprile scorso che segnalo l'incompatibilità del ruolo politico di Fini con la sua carica istituzionale e puntualmente le scorrettezze predette si sono verificate, anche nella gestione dei lavori parlamentari e persino nella composizione del Copasir, alla faccia di chi alle richieste di dimissioni obiettava "quel che conta è che svolga in modo irreprensibile le sue funzioni". Ebbene, anche questo alibi è caduto e l'interrogativo che mesi fa sollevai (ma a che titolo salirebbe al Quirinale per le consultazioni? Come terza carica dello stato o leader di partito?) oggi si legge sui giornali. E' ora che si dimetta, se non per la promessa fatta agli italiani nel suo videomessaggio, perché non riesce più a garantire l'imparzialità della presidenza della Camera che sia la Costituzione che i regolamenti parlamentari prescrivono, o che Napolitano si decida ad esercitare la sua moral suasion.
Eppure, le carte da Saint Lucia sono arrivate lo stesso, ovviamente tramite mani politicamente interessate, ma è davvero incredibile - e autorizza a nutrire più di un sospetto di un'alleanza tra Fini e le toghe - che non le abbia chieste la Procura. Procura che, riferiscono unanimi le cronache dei giornali, qualsiasi cosa dicano quelle carte non è disposta a spostarsi di una virgola dalla richiesta di archiviazione per Fini. Il punto è che, ravvisino o meno il reato i magistrati, gli italiani hanno capito da un pezzo che Fini ha svenduto una casa di lusso di proprietà del suo ex partito al cognato, probabilmente nell'ambito di un giro di immobili tutto in famiglia, così come sanno da tempo che Berlusconi ama organizzare nelle sue ville feste che terminano con spettacolini sexy e "ringraziare" le ragazze con aiuti e regali.
E' dall'aprile scorso che segnalo l'incompatibilità del ruolo politico di Fini con la sua carica istituzionale e puntualmente le scorrettezze predette si sono verificate, anche nella gestione dei lavori parlamentari e persino nella composizione del Copasir, alla faccia di chi alle richieste di dimissioni obiettava "quel che conta è che svolga in modo irreprensibile le sue funzioni". Ebbene, anche questo alibi è caduto e l'interrogativo che mesi fa sollevai (ma a che titolo salirebbe al Quirinale per le consultazioni? Come terza carica dello stato o leader di partito?) oggi si legge sui giornali. E' ora che si dimetta, se non per la promessa fatta agli italiani nel suo videomessaggio, perché non riesce più a garantire l'imparzialità della presidenza della Camera che sia la Costituzione che i regolamenti parlamentari prescrivono, o che Napolitano si decida ad esercitare la sua moral suasion.
Un '48 arabo, tra insidie e opportunità
Su taccuinopolitico.it
Per la seconda volta in due anni le piazze mediorientali richiamano Obama alla realtà
E' davvero una «febbre contagiosa», ed è lo stesso virus, quello che dalla Tunisia sembra diffondersi anche all'Egitto? E' possibile che la repentina caduta di Ben Alì possa provocare un «effetto-domino democratico» sui regimi del mondo arabo? Di certo c'è che le "piazze arabe" non si sono ancora incendiate contro l'America o l'Occidente, per la guerra in Iraq o chissà cosa, ma come molti avevano predetto si stanno incendiando contro i loro dittatori, preoccupate per le loro condizioni di vita di cui incolpano non noi occidentali, ma i loro governanti. Certo, aumentano gli attacchi contro i cristiani, l'estremismo islamico è ben presente e operativo, e di tanto in tanto in piazza scendono folle indottrinate alla causa antisemita e/o antiamericana. Ma le vere "piazze arabe", quelle che protestano in massa in questi giorni, sono piene di giovani e persone normali che poco o niente hanno a che fare con i partiti e le ideologie, e che semplicemente sono stanche degli autocrati che da decenni opprimono e malgovernano i loro Paesi.
LEGGI TUTTO
Da Il Foglio:
Intanto, domani i partiti di opposizione egiziani (Fratelli musulmani, il "liberale" al-Ghad ed El Baradei) tenteranno di assumere la guida della protesta.
Per la seconda volta in due anni le piazze mediorientali richiamano Obama alla realtà
E' davvero una «febbre contagiosa», ed è lo stesso virus, quello che dalla Tunisia sembra diffondersi anche all'Egitto? E' possibile che la repentina caduta di Ben Alì possa provocare un «effetto-domino democratico» sui regimi del mondo arabo? Di certo c'è che le "piazze arabe" non si sono ancora incendiate contro l'America o l'Occidente, per la guerra in Iraq o chissà cosa, ma come molti avevano predetto si stanno incendiando contro i loro dittatori, preoccupate per le loro condizioni di vita di cui incolpano non noi occidentali, ma i loro governanti. Certo, aumentano gli attacchi contro i cristiani, l'estremismo islamico è ben presente e operativo, e di tanto in tanto in piazza scendono folle indottrinate alla causa antisemita e/o antiamericana. Ma le vere "piazze arabe", quelle che protestano in massa in questi giorni, sono piene di giovani e persone normali che poco o niente hanno a che fare con i partiti e le ideologie, e che semplicemente sono stanche degli autocrati che da decenni opprimono e malgovernano i loro Paesi.
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Da Il Foglio:
«Dal 1979 gli Stati Uniti versano in media due miliardi di dollari l'anno all'Egitto: il prezzo del pane - che oggi è una delle chiavi della protesta - è stato a lungo calmierato grazie a soldi americani; il mercato petrolifero funziona grazie alla partnership commerciale fra i due stati e 1'80 per cento delle spese militari dell'Egitto sono a carico di Washington. A parte Israele, nessun alleato al di fuori della Nato riceve una tale quantità di denaro. Soltanto le associazioni civili per la promozione della democrazia sono state tagliate fuori dal finanziamento a pioggia e la gente che al Cairo si batte contro il governo ha l'aria di una piccola nemesi per il realismo immobilista di Obama».Il problema è che Mubarak non ne ha per molto, che la successione del figlio Gamal appare sempre più improbabile - e comunque sarebbe una soluzione debole, senza le necessarie basi di consenso, neppure all'interno del regime - e Washington è in tremendo ritardo nell'elaborare una strategia per il dopo-Mubarak. Non può più difendere lo status quo, né può abbandonare dall'oggi al domani il regime, aprendo un vuoto che verrebbe riempito quasi certamente dall'islamismo. Imporre serie riforme politiche e favorire l'ascesa di una nuova classe dirigente "liberale", filoccidentale e legittimata democraticamente, sono impegni che richiedono molto tempo, e che avrebbero richiesto tutt'altra consapevolezza.
Intanto, domani i partiti di opposizione egiziani (Fratelli musulmani, il "liberale" al-Ghad ed El Baradei) tenteranno di assumere la guida della protesta.
Wednesday, January 26, 2011
Armi spuntate e boomerang della sinistra
Scandali e guai giudiziari che colpiscono il premier sono ormai armi politicamente spuntate, se non «a doppio taglio», per la sinistra. Ne è convinto Luca Ricolfi, che questa mattina, su La Stampa, nota come pur cavalcando l'onda del caso Ruby, il Pd non stia guadagnando consensi. «Accecati dal disprezzo per Berlusconi - scrive Ricolfi - i dirigenti della sinistra non sembrano rendersi conto che la loro scelta di cavalcare gli scandali sessuali per disarcionare il capo del governo è un'arma a doppio taglio». Il «prestigio» del premier è sì «in calo», tuttavia gli ultimi sondaggi dimostrano che «il consenso al Pd non solo non è aumentato, ma sembra in ulteriore flessione» e che «l'elettorato di centrodestra non si sta rifugiando nei partiti alleati, esenti dagli scandali (Lega Nord e Futuro e libertà), ma semmai sta rientrando nel Pdl, quasi a serrare le file». Ricolfi spiega in questo modo il «capolavoro» degli strateghi del Pd: «Quando il dispiegamento di mezzi ("l'ingente mole di strumenti di indagine", come l'ha definita il cardinal Bagnasco) supera una certa soglia, e l'uso politico della morale diventa troppo spregiudicato, nel pubblico scattano reazioni diverse da quelle ordinarie».
L'analisi di Ricolfi è piuttosto impietosa sia con l'attuale segretario del Pd, sia con il suo principale avversario interno, teorico della «vocazione maggioritaria»: «Né Veltroni né Bersani si mostrano capaci di resistere alla madre di tutte le tentazioni per un uomo politico: usare i guai extra-politici dell'avversario per "infilzarlo" politicamente». Ma così facendo, sottolinea, avvalorano la convinzione diffusa che «il maggior partito della sinistra non è in grado di battere politicamente Berlusconi, e perciò ci prova con le armi di sempre: magistratura e scandali. Senza avvedersi che, su questo, - osserva Ricolfi - l'elettorato è molto più avanti, molto più laico e maturo, del ceto politico». Non che sia «indifferente agli scandali, ma semplicemente evita di politicizzarli oltre un certo limite». Ma anche sul piano dei contenuti politici, per Ricolfi «il Pd di Bersani e quello di Veltroni si somigliano come due gocce d'acqua, e si somigliano per la semplice ragione che sono entrambi vecchi» e «stanchi», «appesantiti da un linguaggio che non se ne vuole andare, un linguaggio ormai logoro, fatto di formule generiche e messaggi in codice, così in codice che i due contendenti possono persino sembrare d'accordo su tutto». Anche «gli argomenti di cui si discute con più passione, come le primarie o la moralità del premier, hanno un inconfondibile sapore di strumentalità e di muffa».
Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, se la prende invece con quegli intellettuali organici alla sinistra che da quindici anni perpetuano «stancamente il rito dell'invettiva contro alcuni milioni di elettori considerati l'Italia peggiore, ripugnante, corrotta, sciocca, incolta, "barbara"», perché votano Berlusconi. E segnala l'ultima invettiva in ordine di tempo, quella di Andrea Camilleri, su MicroMega, «non contro Berlusconi, come sarebbe normale per chi lo avversa, ma contro chi lo vota», ribattezzato come «l'homo berlusconensis». «Disprezzare chi ha contratto il vizio morale di votare contro la tua parte - spiega Battista - ha un duplice, tonificante effetto. Gratifica l'Ego di chi si sente superiore e si considera titolare del diritto di far parte honoris causa dell'Italia dei "migliori"» e «consente di autoconsolarsi, attribuendo le ragioni della sconfitta non già ai propri errori, ma alla tara genetica degli italiani».
L'altra faccia della medaglia di questa «forma di superbia antropologica», tuttavia, è che una parte dell'elettorato, pur di non consegnarsi nella mani della casta dei "migliori", preferisce affidarsi a chi, almeno, non ne fa oggetto di disprezzo e di disgusto antropologico». Un «tic mentale» che Battista riconosce non appartenere ai leader politici della sinistra, i quali piuttosto si trovano costretti a «rincorrere» questo «disprezzo» per l'Italia che vota il «nemico», perché «molto spesso sono gli intellettuali a dettare il "tono" generale del discorso» pubblico. Un fenomeno, conclude Battista, che «oltre a essere una malattia culturale, rischia di diventare anche un permanente e invalidante handicap politico».
L'analisi di Ricolfi è piuttosto impietosa sia con l'attuale segretario del Pd, sia con il suo principale avversario interno, teorico della «vocazione maggioritaria»: «Né Veltroni né Bersani si mostrano capaci di resistere alla madre di tutte le tentazioni per un uomo politico: usare i guai extra-politici dell'avversario per "infilzarlo" politicamente». Ma così facendo, sottolinea, avvalorano la convinzione diffusa che «il maggior partito della sinistra non è in grado di battere politicamente Berlusconi, e perciò ci prova con le armi di sempre: magistratura e scandali. Senza avvedersi che, su questo, - osserva Ricolfi - l'elettorato è molto più avanti, molto più laico e maturo, del ceto politico». Non che sia «indifferente agli scandali, ma semplicemente evita di politicizzarli oltre un certo limite». Ma anche sul piano dei contenuti politici, per Ricolfi «il Pd di Bersani e quello di Veltroni si somigliano come due gocce d'acqua, e si somigliano per la semplice ragione che sono entrambi vecchi» e «stanchi», «appesantiti da un linguaggio che non se ne vuole andare, un linguaggio ormai logoro, fatto di formule generiche e messaggi in codice, così in codice che i due contendenti possono persino sembrare d'accordo su tutto». Anche «gli argomenti di cui si discute con più passione, come le primarie o la moralità del premier, hanno un inconfondibile sapore di strumentalità e di muffa».
Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, se la prende invece con quegli intellettuali organici alla sinistra che da quindici anni perpetuano «stancamente il rito dell'invettiva contro alcuni milioni di elettori considerati l'Italia peggiore, ripugnante, corrotta, sciocca, incolta, "barbara"», perché votano Berlusconi. E segnala l'ultima invettiva in ordine di tempo, quella di Andrea Camilleri, su MicroMega, «non contro Berlusconi, come sarebbe normale per chi lo avversa, ma contro chi lo vota», ribattezzato come «l'homo berlusconensis». «Disprezzare chi ha contratto il vizio morale di votare contro la tua parte - spiega Battista - ha un duplice, tonificante effetto. Gratifica l'Ego di chi si sente superiore e si considera titolare del diritto di far parte honoris causa dell'Italia dei "migliori"» e «consente di autoconsolarsi, attribuendo le ragioni della sconfitta non già ai propri errori, ma alla tara genetica degli italiani».
L'altra faccia della medaglia di questa «forma di superbia antropologica», tuttavia, è che una parte dell'elettorato, pur di non consegnarsi nella mani della casta dei "migliori", preferisce affidarsi a chi, almeno, non ne fa oggetto di disprezzo e di disgusto antropologico». Un «tic mentale» che Battista riconosce non appartenere ai leader politici della sinistra, i quali piuttosto si trovano costretti a «rincorrere» questo «disprezzo» per l'Italia che vota il «nemico», perché «molto spesso sono gli intellettuali a dettare il "tono" generale del discorso» pubblico. Un fenomeno, conclude Battista, che «oltre a essere una malattia culturale, rischia di diventare anche un permanente e invalidante handicap politico».
«Invece di conquistare il consenso e strapparlo all'avversario, perpetua una divisione insanabile con la parte maggioritaria, ma corrotta, dell'elettorato. E perciò consegna per sempre quella fetta del popolo tanto disprezzato all'egemonia berlusconiana tanto deplorata. Un boomerang micidiale, che prolungherà i suoi effetti anche alla fine di questa lunga stagione politica di bipolarismo primitivo e di guerra civile strisciante. Quando le due Italie, oggi divise da un muro di disprezzo e di ostilità, dovranno ricominciare a parlarsi».
Monday, January 24, 2011
Contro Blair l'odio di menti confuse
The Blair Hitch Project è il titolo di questo brillante articolo in cui Christopher Hitchens racconta il suo dibattito pubblico (sulla religione) con l'ex primo ministro britannico. A proposito di Blair, oggetto ormai più dello stesso Bush dell'odio di menti piuttosto confuse, ecco cosa ha da dire Hitch:
When Tony Blair took office, Slobodan Miloševic was cleansing and raping the republics of the former Yugoslavia. Mullah Omar was lending Osama bin Laden the hinterland of a failed and rogue state. Charles Taylor of Liberia was leading a hand-lopping militia of enslaved children across the frontier of Sierra Leone, threatening a blood-diamond version of Rwanda in West Africa. And the wealth and people of Iraq were the abused private property of Saddam Hussein and his crime family. Today, all of these Caligula figures are at least out of power, and at the best either dead or on trial. How can anybody with a sense of history not grant Blair some portion of credit for this? And how can anybody with a tincture of moral sense go into a paroxysm and yell that it is he who is the war criminal? It is as if all the civilians murdered by al-Qaeda and the Taliban in Iraq and Afghanistan are to be charged to his account. This is the chaotic mentality of Julian Assange and his groupies.
Tuesday, January 18, 2011
Guardando oltre Berlusconi
Berlusconi questa volta è davvero al «capolinea», come scrive Mauro su la Repubblica? O ad un «vicolo cieco», come scrive il Corriere? Non saprei, ma quel che si può dire è che non tanto la gravità delle accuse, non l'inconfutabilità delle prove - da estrarre a fatica da conversazioni telefoniche senza riscontri e tal volta contraddittorie (ancora manca il "preservativo fumante") - non quindi la sua posizione legale. Ma come si proponeva la Procura di Milano, a farlo vacillare non è la rilevanza penale, piuttosto l'immaginario mobilitato dai particolari che emergono o si possono desumere dalle intercettazioni. Niente di così trasgressivo, qualche palpeggiamento, ma per un politico il senso del ridicolo, del patetico di certe situazioni, è ancor più letale di accuse infamanti, dalle quali ti puoi almeno difendere.
Serviva un'inchiesta per dare in pasto all'opinione pubblica tutte queste intercettazioni. Tra qualche mese e anno nessuno ricorderà i reati ipotizzati, indimostrabili in un'aula di tribunale, l'eventuale processo o la sentenza, ma negli occhi conserveremo quell'immaginario desolante evocato dalle poche frasi pruriginose intercettate. Anzi, considerando il numero di persone coinvolte e l'enorme mole di intercettazioni, nonché il tenore delle conversazioni telefoniche di tutti noi, ci si sarebbe potuti aspettare di peggio. La più tipica character assassination, insomma.
In ogni caso, ciò che mi preme qui notare è che la metà di tutto questo basterebbe a costringere alle dimissioni chiunque, in qualunque Paese occidentale, e le opposizioni non fanno che ricordarcelo. Ma allora perché Berlusconi non si dimette? Non so se stavolta ce la farà, ma a questo punto c'è da chiedersi da dove derivi quella forza politica che gli permette, per ora, di resistere. Nonostante tutto, sembra avere ancora il sostegno di compagni e alleati, mentre è ancora presto per avere il polso degli elettori di centrodestra. Ebbene, se Berlusconi ha potuto resistere fino ad oggi, e forse anche domani, è perché è evidente sia ai partiti di maggioranza sia ai suoi elettori la palese malafede dei magistrati e dei giornali che lo accusano. Al di là del penalmente rilevante, a Berlusconi sembrano essere perdonati vizi e leggerezze che un decimo basterebbero a disarcionare un presidente Usa. Come è possibile?
Non è un fenomeno spiegabile con la sua faccia tosta o l'impazzimento della metà circa degli italiani. La spiegazione non può che essere politica. Certamente l'assenza di alternative di governo credibili, ma a prescindere dall'idea che si abbia del Cav. è innegabile come a tenerlo in piedi nel mezzo di questi scandali sia soprattutto la convinzione diffusa che nei suoi confronti sia in corso da 17 anni (solo da quando si è impegnato in politica) una persecuzione giudiziaria. L'uso politico della giustizia. E' questa la vera anomalia italiana, che permette a Berlusconi di resistere, perché per molti è percepita istintivamente come più pericolosa dei suoi vizi e delle sue inadeguatezze.
Da cittadini la nostra preoccupazione dovrebbe andare oltre Berlusconi. Tollerare che la magistratura possa adottare simili metodi (lo spionaggio e la schedatura a strascico) nei confronti di chicchessia, che possa esercitare il proprio ruolo con tale accanimento e invasività, significa accettare una democrazia sotto tutela. Chi può ritenersi non dico così onesto, ma così virtuoso, lontano da ogni vizio e debolezza privata, da poter resistere ad una tale potenza di fuoco senza che emerga la minima sbavatura? Se non ce la fa Berlusconi, con il suo carisma, la sua ricchezza e i suoi consensi, molto meno basterebbe a distruggere chiunque, sia un Fini o un Tremonti. L'impressione è che se possono far fuori Berlusconi in questo modo, certi magistrati in futuro possano far fuori chiunque avvertano come loro nemico politico. E scusate, ma questo è un problema di libertà e democrazia che va ben oltre Berlusconi, per quanto desolante possa apparire l'immagine del nostro Paese.
Serviva un'inchiesta per dare in pasto all'opinione pubblica tutte queste intercettazioni. Tra qualche mese e anno nessuno ricorderà i reati ipotizzati, indimostrabili in un'aula di tribunale, l'eventuale processo o la sentenza, ma negli occhi conserveremo quell'immaginario desolante evocato dalle poche frasi pruriginose intercettate. Anzi, considerando il numero di persone coinvolte e l'enorme mole di intercettazioni, nonché il tenore delle conversazioni telefoniche di tutti noi, ci si sarebbe potuti aspettare di peggio. La più tipica character assassination, insomma.
In ogni caso, ciò che mi preme qui notare è che la metà di tutto questo basterebbe a costringere alle dimissioni chiunque, in qualunque Paese occidentale, e le opposizioni non fanno che ricordarcelo. Ma allora perché Berlusconi non si dimette? Non so se stavolta ce la farà, ma a questo punto c'è da chiedersi da dove derivi quella forza politica che gli permette, per ora, di resistere. Nonostante tutto, sembra avere ancora il sostegno di compagni e alleati, mentre è ancora presto per avere il polso degli elettori di centrodestra. Ebbene, se Berlusconi ha potuto resistere fino ad oggi, e forse anche domani, è perché è evidente sia ai partiti di maggioranza sia ai suoi elettori la palese malafede dei magistrati e dei giornali che lo accusano. Al di là del penalmente rilevante, a Berlusconi sembrano essere perdonati vizi e leggerezze che un decimo basterebbero a disarcionare un presidente Usa. Come è possibile?
Non è un fenomeno spiegabile con la sua faccia tosta o l'impazzimento della metà circa degli italiani. La spiegazione non può che essere politica. Certamente l'assenza di alternative di governo credibili, ma a prescindere dall'idea che si abbia del Cav. è innegabile come a tenerlo in piedi nel mezzo di questi scandali sia soprattutto la convinzione diffusa che nei suoi confronti sia in corso da 17 anni (solo da quando si è impegnato in politica) una persecuzione giudiziaria. L'uso politico della giustizia. E' questa la vera anomalia italiana, che permette a Berlusconi di resistere, perché per molti è percepita istintivamente come più pericolosa dei suoi vizi e delle sue inadeguatezze.
Da cittadini la nostra preoccupazione dovrebbe andare oltre Berlusconi. Tollerare che la magistratura possa adottare simili metodi (lo spionaggio e la schedatura a strascico) nei confronti di chicchessia, che possa esercitare il proprio ruolo con tale accanimento e invasività, significa accettare una democrazia sotto tutela. Chi può ritenersi non dico così onesto, ma così virtuoso, lontano da ogni vizio e debolezza privata, da poter resistere ad una tale potenza di fuoco senza che emerga la minima sbavatura? Se non ce la fa Berlusconi, con il suo carisma, la sua ricchezza e i suoi consensi, molto meno basterebbe a distruggere chiunque, sia un Fini o un Tremonti. L'impressione è che se possono far fuori Berlusconi in questo modo, certi magistrati in futuro possano far fuori chiunque avvertano come loro nemico politico. E scusate, ma questo è un problema di libertà e democrazia che va ben oltre Berlusconi, per quanto desolante possa apparire l'immagine del nostro Paese.
Friday, January 14, 2011
Gli errori fatali di Walter
Riforma Gelmini e Mirafiori. Qui giacciono le velleità riformiste e le vocazioni maggioritarie del Pd. Senza riformismo e senza vocazione maggioritaria, infatti, il Pd non ha senso, perché non sarebbe che un triste Ulivo nella mesta condizione di tenere insieme una variopinta coalizione di partiti e partitini con nessuna o quasi cultura di governo. Un partito maggioritario, ma di fatto sotto ricatto e senza identità, esposto alle forze centrifughe esercitate da una parte dagli alleati di centro, e dall'altra alla sua sinistra, oltre che a perenne rimorchio della Cgil, dei magistrati e di Repubblica.
Se il Pd vuol essere in senso pieno maggioritario, non può pensare di appaltare la rappresentanza del centro dell'elettorato ad un polo centrista con il quale poi eventualmente allearsi, facendosi in ogni caso schiacciare e isolare a sinistra insieme ai manettari di Di Pietro e ai comunisti di Vendola. Dovrebbe puntare direttamente a conquistare l'elettorato di centro rinnovando i suoi contenuti e i suoi volti.
L'unico segretario tra quelli che si sono succeduti in questi tre anni che ha dimostrato di aver compreso tutto questo, e quindi di avere una concezione del Pd davvero innovativa rispetto ad una semplice operazione di cosmesi del Pci-Pds-Ds, e infatti predicava una «vocazione maggioritaria», è stato - bisogna dargliene atto - Veltroni. Il quale però ha commesso due errori fatali. Il primo, già prima delle elezioni del 2008, quando ha imbarcato Di Pietro annacquando lui per primo il suo progetto. Dal giorno dopo non solo l'Idv non ha aderito ai gruppi del Pd come promesso, ma come previsto ha trascinato il Pd nel vicolo cieco dell'antiberlusconismo e del giustizialismo.
Il secondo errore l'ha commesso subito dopo il voto. Quando non ha reagito alla prevedibile radicalizzazione, anzi l'ha in qualche modo assecondata, pensando di allontanare da sé il malcontento per la sconfitta. Avrebbe dovuto, invece, aprire subito un confronto costruttivo con Berlusconi sulle riforme, in modo da cristallizzare l'esito bipartitico uscito dalle urne, sulla base di un semplice e nobile compromesso: a Berlusconi permettere di governare senza gli assalti della magistratura; al Pd una legge elettorale, e regolamenti parlamentari, volti a consolidare l'assetto tendenzialmente bipartitico e il ruolo di partito unico dell'opposizione. Il tutto in una riforma costituzionale a prova di bomba referendaria: la diminuzione del numero dei parlamentari e il superamento del bicameralismo perfetto, nonché l'elezione diretta del presidente o del premier, incontrerebbero infatti nell'opinione pubblica un favore plebiscitario.
Il risultato di questi errori è che il Pd si trova non solo a mendicare alleanze al centro e a sinistra, che se anche dovessero concretizzarsi difficilmente apparirebbero credibili alternative di governo; ma si trova arroccato su posizioni fuori dalla storia su tutto: sul lavoro, sull'economia, sui servizi pubblici, sulla Costituzione. E solo l'antiberlusconismo come bussola che però punta inesorabilmente contro gli scogli.
Se il Pd vuol essere in senso pieno maggioritario, non può pensare di appaltare la rappresentanza del centro dell'elettorato ad un polo centrista con il quale poi eventualmente allearsi, facendosi in ogni caso schiacciare e isolare a sinistra insieme ai manettari di Di Pietro e ai comunisti di Vendola. Dovrebbe puntare direttamente a conquistare l'elettorato di centro rinnovando i suoi contenuti e i suoi volti.
L'unico segretario tra quelli che si sono succeduti in questi tre anni che ha dimostrato di aver compreso tutto questo, e quindi di avere una concezione del Pd davvero innovativa rispetto ad una semplice operazione di cosmesi del Pci-Pds-Ds, e infatti predicava una «vocazione maggioritaria», è stato - bisogna dargliene atto - Veltroni. Il quale però ha commesso due errori fatali. Il primo, già prima delle elezioni del 2008, quando ha imbarcato Di Pietro annacquando lui per primo il suo progetto. Dal giorno dopo non solo l'Idv non ha aderito ai gruppi del Pd come promesso, ma come previsto ha trascinato il Pd nel vicolo cieco dell'antiberlusconismo e del giustizialismo.
Il secondo errore l'ha commesso subito dopo il voto. Quando non ha reagito alla prevedibile radicalizzazione, anzi l'ha in qualche modo assecondata, pensando di allontanare da sé il malcontento per la sconfitta. Avrebbe dovuto, invece, aprire subito un confronto costruttivo con Berlusconi sulle riforme, in modo da cristallizzare l'esito bipartitico uscito dalle urne, sulla base di un semplice e nobile compromesso: a Berlusconi permettere di governare senza gli assalti della magistratura; al Pd una legge elettorale, e regolamenti parlamentari, volti a consolidare l'assetto tendenzialmente bipartitico e il ruolo di partito unico dell'opposizione. Il tutto in una riforma costituzionale a prova di bomba referendaria: la diminuzione del numero dei parlamentari e il superamento del bicameralismo perfetto, nonché l'elezione diretta del presidente o del premier, incontrerebbero infatti nell'opinione pubblica un favore plebiscitario.
Il risultato di questi errori è che il Pd si trova non solo a mendicare alleanze al centro e a sinistra, che se anche dovessero concretizzarsi difficilmente apparirebbero credibili alternative di governo; ma si trova arroccato su posizioni fuori dalla storia su tutto: sul lavoro, sull'economia, sui servizi pubblici, sulla Costituzione. E solo l'antiberlusconismo come bussola che però punta inesorabilmente contro gli scogli.
Il fondo del barile
Non era certo questa la sentenza dalla quale ci si poteva aspettare dalla Corte un contributo alla pacificazione politico-giudiziaria. Poteva esserlo semmai quella sul Lodo Alfano di un anno e mezzo fa, ma l'occasione fu gettata al vento. Allora la Corte avrebbe potuto decidere diversamente, non contraddicendo se stessa, ma per quanto riguarda questa sentenza, i motivi di illegittimità erano già espressi nelle motivazioni della precedente bocciatura del Lodo. La Corte aveva infatti escluso la possibilità di automatismi nel legittimo impedimento. Non può scattare in automatico ed essere continuativo, e ciò ha una sua logica. Berlusconi può consolarsi perché comunque, restando in piedi il comma 1, di fatto sarà molto più difficile per i giudici contestare i suoi impegni, ora estesi anche alla preparazione preliminare degli appuntamenti istituzionali.
Spero - anche se ne dubito - che nessuno tra quanti hanno ideato questo scudo si fosse illuso. A suggerire alla maggioranza la strada del legittimo impedimento fu l'Udc e l'esito della vicenda dovrebbe mettere in guardia quanti nel Pdl sono un po' troppo sprovveduti nel dare credito ai "casinisti".
Con mirabile tempismo, all'indomani della sentenza della Consulta, la Procura di Milano timbra puntuale il cartellino, ma come al solito rischia un doppio passo falso: innanzitutto, perché è come una firma sulla tesi della persecuzione politica denunciata dal premier; e poi perché rischia di avvicinare le elezioni anticipate. Va inoltre rilevato come ormai da qualche anno i reati che si contestano a Berlusconi hanno sempre più a che fare con i suoi vizi privati e meno con le sue attività economiche, segno che i magistrati stanno davvero raschiando il fondo del barile, dando il là a campagne sempre più di stampo moralistico.
Spero - anche se ne dubito - che nessuno tra quanti hanno ideato questo scudo si fosse illuso. A suggerire alla maggioranza la strada del legittimo impedimento fu l'Udc e l'esito della vicenda dovrebbe mettere in guardia quanti nel Pdl sono un po' troppo sprovveduti nel dare credito ai "casinisti".
Con mirabile tempismo, all'indomani della sentenza della Consulta, la Procura di Milano timbra puntuale il cartellino, ma come al solito rischia un doppio passo falso: innanzitutto, perché è come una firma sulla tesi della persecuzione politica denunciata dal premier; e poi perché rischia di avvicinare le elezioni anticipate. Va inoltre rilevato come ormai da qualche anno i reati che si contestano a Berlusconi hanno sempre più a che fare con i suoi vizi privati e meno con le sue attività economiche, segno che i magistrati stanno davvero raschiando il fondo del barile, dando il là a campagne sempre più di stampo moralistico.
Thursday, January 13, 2011
Rigore sì, ma nessun alibi
In un editoriale di qualche giorno fa Piero Ostellino ricordava al ministro Tremonti che «il controllo della spesa pubblica non è un fine in sé, ma il mezzo per liberare la crescita economica», e che «senza rigore non c'è sviluppo, ma senza sviluppo si piomba nella collettivizzazione della povertà». E al ministro suggeriva una lettura quanto mai appropriata, il Program for Economic Recovery del 1981 di Ronald Reagan: riduzione della spesa, della tassazione sul lavoro e sul capitale, e deregulation. Un miraggio qui da noi, soprattutto da quando con la crisi gli statalisti hanno potuto sfogare le loro frustrazioni contro il libero mercato e le politiche liberiste.
Nella sua risposta, comunque positiva, Tremonti ha abilmente dribblato il tema della riduzione della spesa e della tassazione, per concentrarsi sulla deregulation, che in un Paese come il nostro non sarebbe sufficiente ma sarebbe già tanto.
Il ministro parla di «bulimia giuridica», una «follia regolatoria ormai divenuta tanto soffocante da creare un nuovo Medioevo», che però a suo avviso non si può sciogliere per «abrogazione», «delegificazione», o «semplificazione», come è stato tentato in passato, ma «si taglia con un colpo di spada». Cioè, «con una norma che dia efficacia costituzionale e definitività al principio di responsabilità, all'autocertificazione, al controllo ex post, estendendoli con la sua forza obbligatoria a tutti i livelli dell'ordinamento, superando così i problemi del complicato riparto delle competenze legislative».
Ben venga una simile riforma, ma non serva come alibi per ritardare le tante che si possono - e si devono - fare nel frattempo. Tremonti non dimentichi una cosa: il suo immobilismo rigorista, pur prezioso e probabilmente sufficiente a farsi preferire agli arroccamenti antistorici del Pd e della sinistra, non basta però a rilanciare il nostro Paese e a "passare alla storia".
Oggi, sul Secolo, Fini interviene nella discussione tra Ostellino e Tremonti vestendo i panni del liberale e dicendo anche cose giuste. Peccato che il suo sia ormai un pulpito poco credibile. Quando si presentò, non molti anni fa, l'irripetibile occasione di realizzare la più importante riforma fiscale di sempre, fu proprio Fini infatti (insieme a Casini) a dare una spallata a Tremonti e a far sbagliare al governo di allora un calcio di rigore decisivo. Insomma, non mi pare che possa essere Fini ad alzare il ditino. Per giunta proprio adesso che, con l'intervista a la Repubblica di ieri, comincia la sua grama vita di doppione di Casini, costretto ormai a seguirne le mosse centriste come un'ombra. La sua critica alla politica economica del governo sembra impietosa: il Paese è fermo, sfiduciato, la ripresa non si vede. Ma ci va piano con Tremonti - nonostante il ministro venga additato un po' da tutte le parti come il vero freno alle riforme - non sia mai che possa decidere di smarcarsi da Berlusconi e quindi tornare utile.
Nella sua risposta, comunque positiva, Tremonti ha abilmente dribblato il tema della riduzione della spesa e della tassazione, per concentrarsi sulla deregulation, che in un Paese come il nostro non sarebbe sufficiente ma sarebbe già tanto.
Il ministro parla di «bulimia giuridica», una «follia regolatoria ormai divenuta tanto soffocante da creare un nuovo Medioevo», che però a suo avviso non si può sciogliere per «abrogazione», «delegificazione», o «semplificazione», come è stato tentato in passato, ma «si taglia con un colpo di spada». Cioè, «con una norma che dia efficacia costituzionale e definitività al principio di responsabilità, all'autocertificazione, al controllo ex post, estendendoli con la sua forza obbligatoria a tutti i livelli dell'ordinamento, superando così i problemi del complicato riparto delle competenze legislative».
Ben venga una simile riforma, ma non serva come alibi per ritardare le tante che si possono - e si devono - fare nel frattempo. Tremonti non dimentichi una cosa: il suo immobilismo rigorista, pur prezioso e probabilmente sufficiente a farsi preferire agli arroccamenti antistorici del Pd e della sinistra, non basta però a rilanciare il nostro Paese e a "passare alla storia".
Oggi, sul Secolo, Fini interviene nella discussione tra Ostellino e Tremonti vestendo i panni del liberale e dicendo anche cose giuste. Peccato che il suo sia ormai un pulpito poco credibile. Quando si presentò, non molti anni fa, l'irripetibile occasione di realizzare la più importante riforma fiscale di sempre, fu proprio Fini infatti (insieme a Casini) a dare una spallata a Tremonti e a far sbagliare al governo di allora un calcio di rigore decisivo. Insomma, non mi pare che possa essere Fini ad alzare il ditino. Per giunta proprio adesso che, con l'intervista a la Repubblica di ieri, comincia la sua grama vita di doppione di Casini, costretto ormai a seguirne le mosse centriste come un'ombra. La sua critica alla politica economica del governo sembra impietosa: il Paese è fermo, sfiduciato, la ripresa non si vede. Ma ci va piano con Tremonti - nonostante il ministro venga additato un po' da tutte le parti come il vero freno alle riforme - non sia mai che possa decidere di smarcarsi da Berlusconi e quindi tornare utile.
Wednesday, January 12, 2011
Quando il silenzio è d'oro
Berlusconi si schiera per l'accordo di Mirafiori e subito parte l'attacco congiunto Camusso-Bersani. Ha ricordato una cosa ovvia, che solo un cieco non vedrebbe: cioè che senza quell'accordo non ci sarebbero per la Fiat i presupposti per l'investimento nella fabbrica, e quindi neanche i posti di lavoro. Mentre su altri fronti è stato - ed è - deprecabile l'immobilismo del governo, al contrario di molti giudico positivamente che la più importante riforma nelle relazioni industriali da decenni stia avendo luogo tramite un accordo tra le parti, e il coinvolgimento dei lavoratori, mentre il governo, e più in generale la politica, restano sullo sfondo, relegati al ruolo di spettatori. E' uno di quegli ambiti della vita economica di un Paese dove un passo indietro della politica - non importa se consapevole e meditato o per debolezza - non può che far del bene, facilitando le cose sia alla Fiat (e alle altre aziende) che ai sindacati.
E' ovvio infatti che il governo non può non essere a favore dell'accordo, vitale per la competitività della nostra economia, ma essersi tenuto fuori dalle trattative, aver evitato i logori riti della "concertazione", ha permesso alle parti - o alla maggior parte di esse - di assumere un atteggiamento più costruttivo, di concentrarsi sugli aspetti concreti del problema, che altrimenti avrebbe corso il rischio, come in passato, di essere risucchiato in un vortice di logiche politiche più o meno incomprensibili che avrebbero portato molto lontano dalla soluzione. In queste ore, dopo che il premier ha rotto il silenzio, abbiamo avuto un assaggio di ciò che sarebbe potuto accadere se il governo avesse giocato un ruolo da protagonista nella vicenda.
Meglio così, dunque, meglio che sia rimasto in disparte, quasi mostrando disinteresse e pur suscitando critiche per la sua assenza. Tanto non avrebbe potuto fare di meglio di quanto stanno già facendo le parti interessate, almeno le più responsabili. Anzi, un suo intervento avrebbe potuto solo incancrenire la situazione.
La riforma Gelmini e gli accordi che Fiat sta perseguendo nelle sue fabbriche come condizioni sine qua non per investire in Italia sono due ottime cartine di tornasole della cifra riformista del Pd. E come volevasi dimostrare il Pd non ha superato il test. La forte opposizione alla Gelmini e la confusione, l'imbarazzo, quando non un mal celato fastidio nei confronti di Marchionne e un appiattimento sulle posizioni della Cgil, gettano la maschera di un partito profondamente conservatore, ancorato ad un'idea vecchia del lavoro e trincerato in difesa dell'indifendibile in campo economico-sociale. Un'arretratezza rispetto alla quale resta ancora preferibile l'immobilismo tremontiano.
E' ovvio infatti che il governo non può non essere a favore dell'accordo, vitale per la competitività della nostra economia, ma essersi tenuto fuori dalle trattative, aver evitato i logori riti della "concertazione", ha permesso alle parti - o alla maggior parte di esse - di assumere un atteggiamento più costruttivo, di concentrarsi sugli aspetti concreti del problema, che altrimenti avrebbe corso il rischio, come in passato, di essere risucchiato in un vortice di logiche politiche più o meno incomprensibili che avrebbero portato molto lontano dalla soluzione. In queste ore, dopo che il premier ha rotto il silenzio, abbiamo avuto un assaggio di ciò che sarebbe potuto accadere se il governo avesse giocato un ruolo da protagonista nella vicenda.
Meglio così, dunque, meglio che sia rimasto in disparte, quasi mostrando disinteresse e pur suscitando critiche per la sua assenza. Tanto non avrebbe potuto fare di meglio di quanto stanno già facendo le parti interessate, almeno le più responsabili. Anzi, un suo intervento avrebbe potuto solo incancrenire la situazione.
La riforma Gelmini e gli accordi che Fiat sta perseguendo nelle sue fabbriche come condizioni sine qua non per investire in Italia sono due ottime cartine di tornasole della cifra riformista del Pd. E come volevasi dimostrare il Pd non ha superato il test. La forte opposizione alla Gelmini e la confusione, l'imbarazzo, quando non un mal celato fastidio nei confronti di Marchionne e un appiattimento sulle posizioni della Cgil, gettano la maschera di un partito profondamente conservatore, ancorato ad un'idea vecchia del lavoro e trincerato in difesa dell'indifendibile in campo economico-sociale. Un'arretratezza rispetto alla quale resta ancora preferibile l'immobilismo tremontiano.
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