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Tuesday, August 30, 2005

«Una guerra di cui essere orgogliosi». Con se e ma

E' il titolo di sfida lanciato dall'intellettuale di sinistra Christopher Hitchens in questo articolo sul primo numero di settembre del settimanale neoconservatore Weekly Standard. Sostenitore della prima ora della cacciata di Saddam Hussein, convinto della possibilità e della necessità di esportare la democrazia in Iraq, sfida i suoi critici fin dalle prime righe su uno dei più controversi aspetti dell'occupazione americana: la Abu Ghraib gestita dagli yankee rappresenta un netto miglioramento rispetto alla gestione precedente.
«Prison conditions at Abu Ghraib have improved markedly and dramatically since the arrival of Coalition troops in Baghdad. I could undertake to defend that statement against any member of Human Rights Watch or Amnesty International, and I know in advance that none of them could challenge it, let alone negate it. Before March 2003, Abu Ghraib was an abattoir, a torture chamber, and a concentration camp. Now, and not without reason, it is an international byword for Yankee imperialism and sadism. Yet the improvement is still, unarguably, the difference between night and day. How is it possible that the advocates of a post-Saddam Iraq have been placed on the defensive in this manner? And where should one begin?»
Già, è questa la domanda a cui Hitchens tenta di dare una risposta: perché i sostenitori del regime change sembrano starsene sulla difensiva? Perché la Casa Bianca ha taciuto molti degli argomenti più validi per sostenere la decisione della guerra? Eppure, ricorda Hitchens, nel caso iracheno le condizioni di fronte alle quali il principio di sovranità statuale cede al diritto/dovere di ingerenza erano scattate.
«For anyone with eyes to see, there was only one other state that combined the latent and the blatant definitions of both "rogue" and "failed." This state - Saddam's ruined and tortured and collapsing Iraq - had also met all the conditions under which a country may be deemed to have sacrificed its own legal sovereignty».
E ricapitolando:
«It had invaded its neighbors, committed genocide on its own soil, harbored and nurtured international thugs and killers, and flouted every provision of the Non-Proliferation Treaty. The United Nations, in this crisis, faced with regular insult to its own resolutions and its own character, had managed to set up a system of sanctions-based mutual corruption. In May 2003, had things gone on as they had been going, Saddam Hussein would have been due to fill Iraq's slot as chair of the U.N. Conference on Disarmament. Meanwhile, every species of gangster from the hero of the Achille Lauro hijacking to Abu Musab al Zarqawi was finding hospitality under Saddam's crumbling roof».
Hitchens conclude ricordando un discorso pronunciato dal primo ministro britannico Tony Blair nel 1999, dopo la fine della guerra in Kosovo, discorso forte per il solo fatto di affermare l'ovvio. «La coesistenza con regimi aggressivi, o espansionisti, o teocratici, ideologie totalitarie, non è possibile».
«One should welcome this conclusion for the additional reason that such coexistence is not desirable, either. If the great effort to remake Iraq as a demilitarized federal and secular democracy should fail or be defeated, I shall lose sleep for the rest of my life in reproaching myself for doing too little. But at least I shall have the comfort of not having offered, so far as I can recall, any word or deed that contributed to a defeat».
Oggi l'amministrazione Bush si trova di fronte a un compito difficile. L'opinione pubblica americana è sempre più stanca di una guerra che avverte di non poter vincere. Nonostante tutti i progressi compiuti dal processo politico, in altri campi i progressi non sono così apprezzabili, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza e il contrasto della guerriglia. E' un dato oggettivo che rende insicura e mette sulla difensiva la Casa Bianca.

Anche perché si torna a parlare della strategia militare fallimentare adottata dal Pentagono e lo fa uno dei maggiori critici, da posizioni favorevoli alla guerra in Iraq, David Brooks, sul New York Times. L'opinione pubblica americana non ritira il proprio sostegno alla guerra perché non condivide l'obiettivo di far avanzare la libertà, ma perché ha l'impressione che la guerra non può essere vinta. Se il presidente Bush vuole riguadagnare il sostegno alla guerra, dovrebbe «spiegare specificamente come può essere vinta, e per questo ha bisogno di una strategia». A fornirgliene una è lo stratega militare Andy Krepinevich, con questo saggio pubblicato su Foreign Affairs.

Nulla di rivoluzionario, ma una strategia che si trova già negli annali di storia, suggerita in passato dai neocon Tom Donnelly e Gary Schmitt, e dall'analista clintoniano Kenneth Pollack. «Quale delle diverse strategie per combattere gli insorti state usando in Iraq? Quali i parametri per misurare i vostri progressi?» A queste domande non c'è risposta: nessuna chiara strategia, nessun chiaro parametro. La guerra non si può vincere dando la caccia agli insorti e uccidendoli. Altri combattenti li sostituiranno con l'effetto di dover ripetere pesanti raid sulle medesime città alienandosi così l'appoggio della popolazione, vitale per il successo.

Invece di uccidere gli insorti, «è più importante proteggere i civili» con la strategia a "macchia d'olio". Selezionare poche città chiave, prenderne il controllo ed espandere lentamente le zone sicure. Appena rese sicure le città, «buttare dentro tutte le risorse economiche e politiche per farle crescere», così che i locali vedano la convenienza di collaborare. Purtroppo gli Stati Uniti non hanno adottato questa strategia perché contraddiceva le nozioni chiave dell'idea di forze armate del 21esimo secolo sostenuta dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Per una strategia simile ci sarebbe voluta una presenza pesante e non leggera di truppe; non tanto superiorità tecnologica, ma d'intelligence; pensare a lunga scadenza e non con un occhio alle tappe del processo politico.

Ad agire con assoluta determinazione contro il terrorismo, dopo gli attentati di Londra del 7 luglio scorso, è il premier britannico Tony Blair, che ha deciso che era il momento di cambiare le regole del gioco. Rivendica il carattere tollerante e multiculturale della società britannica: «If a goal of these attacks was to turn our citizens against each other, they failed».

Tuttavia, è consapevole che «non possiamo continuare a permettere agli estremisti di abusare delle nostre libertà e della tolleranza della nostra società per sostenere, incoraggiare, giustificare o glorificare il terrorismo... le regole del gioco sono cambiate e dobbiamo rispondere». Nulla che rinneghi il carattere tollerante e multiculturale della società o le libertà fondamentali dei cittadini, ma misure molte delle quali sembra sorprendente che non siano già state prese.
«Venire in Gran Bretagna non è un diritto, e anche quando la gente è arrivata qui, stare qui porta con sé un dovere. Quel dovere è di condividere e sostenere i valori di libertà e tolleranza alla base del nostro comune modello di vita. Per coloro che infrangono quel dovere e tentano di incitare all'odio o commettono violenze contro il nostro paese e la sua gente non c'è posto qui. Su questo principio le persone di ogni fede in Gran Bretagna concordano. E il mio lavoro è realizzarlo».

1 comment:

Anonymous said...

Volevo leggere questo articolo, ma mi sono fermata alla prima riga, dove definisci Christopher Hitchens di sinistra. Beh, oggi Hitchens è di sinistra più o come da noi lo è Ferrara. Vedi qui, o prova fare una ricerca in qualche blog di sinistra americano per sapere cosa si dice di lui...