Sarà in Italia a maggio, invitato da Frattini, il controverso nuovo ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Il premier israeliano Netanyahu lo ha voluto nel suo governo per suggellare l'allleanza con il partito nazionalista Israel Beitenu. Immigrato dalla ex Unione sovietica, con le sue opinioni politicamente scorrette sugli arabi e la sua posizione iconoclasta nei confronti dei tabù del processo di pace ha già suscitato la riprovazione delle cancellerie europee e dei mainstream media occidentali e arabi, che lo hanno definito di «estrema destra», «guerrafondaio», «razzista», «pericoloso» per Israele stesso.
Eppure, non gli si può dar torto quando dice che il processo di pace tra israeliani e palestinesi è «a un vicolo cieco» e che servono «nuove idee». Non sia mai! Lesa maestà! Le sue parole sono state interpretate come un attacco diretto alla soluzione "due popoli, due stati", sponsorizzata dalla comunità internazionale. Una formula che però con il tempo rischia di diventare vuota retorica, un tabù a cui nell'impasse diplomatico si aggrappano i membri del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) per far credere all'opinione pubblica che sono tutti impegnati per la pace.
«Il governo di Israele non ha mai ratificato Annapolis, né lo ha fatto la Knesset». La colpa di Lieberman è di affermare, ben poco diplomaticamente, verità note a tutti, ma anche scomode per tutti. Servirebbe, invece, un "reality check". Annapolis è morta quando l'anno scorso Mahmoud Abbas e Ahmed Qurei hanno rifiutato l'offerta di Olmert e della Livni: praticamente tutta la Cisgiordania. A seguito delle polemiche suscitate, Lieberman ha poi precisato che Israele si ritiene comunque tenuto a onorare l'itinerario di pace tracciato dal Quartetto. Infatti, nonostante tutto, il governo Netanyahu-Lieberman-Barak è impegnato per la creazione di uno Stato palestinese attraverso la "road map". Un risultato che però – pochi lo rammentano – la stessa "road map" condiziona alla fine della violenza e del terrorismo da parte palestinese. L'idea dei "due stati" va congelata fino a quel momento.
E' innegabile infatti che il principio "terra in cambio di pace", su cui si è fin qui basata la soluzione "due popoli, due stati", è stato screditato dai lanci di razzi di Hamas e dalla guerra con Hezbollah nel 2006. Visti con gli occhi degli israeliani, i ritiri unilaterali dal Sud del Libano e dalla Striscia di Gaza hanno prodotto più vulnerabilità incece di pace. Secondo Michael Oren, del Washington Institute for Near East Policy, «l'opinione pubblica israeliana è disillusa sul processo di pace, e sta realizzando che il conflitto non riguarda più il 1967, ma il 1948. In altre parole, non è più per le terre, ma per l'esistenza stessa di Israele». Le terre da cui gli israeliani si ritirano non vengono viste da organizzazioni come Hamas come presupposti per la costituzione del futuro stato palestinese, ma come avamposti più avanzati da cui far partire i razzi e le offensive contro Israele.
Secondo il Jerusalem Post, quindi, il nuovo esecutivo sarebbe alla ricerca di nuove strade: non più concessioni e ritiri, ma una controparte finalmente pronta ad abbandonare il terrorismo. Per questo Netanyahu sta pensando ad una "pace economica" e a come sviluppare istituzioni palestinesi in grado di contrastare efficacemente le organizzazioni terroristiche. Demarcare il confine tra Israele e la Cisgiordania, anche se per ora l'esercito israeliano dovrà rimanervi, potrebbe essere nel frattempo un'idea per porre fine all'ambiguità sugli insediamenti, definendo de facto quali territori faranno parte di Israele e quali di un futuro Stato palestinese. «Invece che preoccuparci di Lieberman – osserva Emanuele Ottolenghi – in Europa faremmo bene a chiederci su chi possiamo sperare a Ramallah e a Gaza».
Ad ostacolare il processo di pace c'è sempre il retropensiero, l'illusione coltivata dai palestinesi che un giorno la Siria, o più probabilmente l'Iran, possano cancellare in un sol colpo Israele dalla faccia della terra, risolvendo tutti i loro problemi. Ecco perché la minaccia atomica iraniana domina l'orizzonte politico israeliano. E' una delle poche cose su cui concordano tutti i principali attori politici israeliani, tanto che Netanyahu ha voluto il leader laburista Barak nel suo governo, proprio per avere un sostegno politico sufficientemente ampio, e per condividere la responsabilità di decisioni delicatissime, dai possibili esiti drammatici anche in caso di successo, in quella che si profila essere la più difficile sfida alla sopravvivenza di Israele almeno dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, se non dall'indipendenza del '48. America ed Europa non si facciano illusioni: Netanyahu e Barak condividono la stessa visione sull'Iran, la Siria e le istituzioni palestinesi.
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