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Wednesday, April 01, 2009

G20, la crisi è una sfida al potere Usa. Ma anche al regime di Pechino

La maggior parte dei commentatori e degli analisti sono pessimisti riguardo l'esito del G20 che si apre domani a Londra. Il Times parla di «aspettative contenute» e Martin Wolf, sul Financial Times, prevede che «il G20 non affronterà la grande sfida». Si affronteranno due diversi approcci. Il presidente americano Barack Obama (con il premier britannico Brown) è concentrato sulla stabilizzazione del sistema bancario e chiede all'Europa di stimolare di più la crescita attraverso la spesa pubblica, mentre Francia e Germania ritengono di aver già fatto abbastanza e ora mirano a una regolamentazione più severa - da alcuni giudicata persino eccessivamente punitiva - della finanza globale, minacciando di far fallire il vertice.

Sebbene - osserva il Wall Street Journal - Obama ammetta le responsabilità degli Usa in questa crisi e l'inadeguatezza delle regole, e sebbene sembri aver rinunciato all'idea di convincere gli altri paesi ad approvare più ampi pacchetti di stimolo, tuttavia il presidente Usa avverte che «il resto del mondo non può contare esclusivamente sugli Stati Uniti e i suoi consumatori per rilanciare la crescita globale». Non possono essere solo gli Stati Uniti il «motore» della crescita, «tutti devono camminare di pari passo».

Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha spiegato la sua posizione sulle pagine del Washington Post. La priorità ora non è approvare nuove misure anti-crisi, ma «riformare il sistema finanziario internazionale e ricostruire, insieme, una forma meglio regolata di capitalismo, con un maggiore senso di moralità e solidarietà». A suo avviso è questa la «precondizione per mobilitare l'economia globale» e garantire una «crescita sostenibile». «Abbiamo già tenuto alla larga lo spettro del protezionismo», e molte nazioni hanno già provveduto a sostenere le loro economie con «ambiziosi pacchetti di stimolo, accrescendo in modo significativo la spesa per il welfare collegato alla crisi», spiega Sarkozy quasi rispondendo alle richieste dell'amministrazione Usa. Adesso «dobbiamo attribuire la stessa urgenza alla riforma della regolamentazione dei mercati finanziari» e «offrire molto più spazio alle nazioni emergenti» in tutti gli organismi internazionali, soprattutto nelle istituzioni finanziarie internazionali.

Secondo Alvaro Vargas Llosa, nel mezzo di questa crisi l'unica «voce di buon senso» è quella di Angela Merkel, di cui ammira (come alcune settimane fa il Wall Street Journal) la responsabilità fiscale. «Nel mezzo del panico di questi giorni, con i governi che creano, prestano e spendono soldi come marinai ubriachi, la cancelliera tedesca si è rivelata la coscienza critica del mondo sviluppato. Tra tutti i leader è l'unica ad averci ricordato l'origine dei problemi attuali e perché il rimedio preso da quasi tutti i governi è pericoloso: "Stavamo vivendo al di là le nostre possibilità... dopo la crisi asiatica e l'11 settembre, per sostenere la crescita i governi hanno incoraggiato l'assunzione di rischi eccessivi, riversando soldi sempre più a minor costo nel sistema finanziario"», scriveva la Merkel sul Financial Times. «In risposta alle pressioni dell'amministrazione Usa per aumentare la spesa pubblica, quindi, la Merkel ha fatto notare che "questa crisi non si è verificata perché abbiamo emesso troppo poco denaro, ma perché abbiamo creato crescita economica con troppo denaro, e non è stata una crescita sostenibile"».

Poi c'è chi, come Irwin Stelzer, sul Weekly Standard, ritiene che il vero problema non verrà affrontato dal G20, ma da un "G2" Usa-Cina. «La maggior parte delle nazioni respingeranno la richiesta di Obama di adeguarsi al suo pacchetto di stimolo. I britannici lo farebbero, ma Gordon Brown ha speso così tanto in welfare che le sue casse sono vuote». La cancelliera tedesca Angela Merkel non vuole rischiare di alimentare l'inflazione e «la Francia di Sarkozy intende usare misure protezionistiche per mitigare il declino del suo paese, non importa che furono misure simili ad aggravare e a prolungare la Grande Depressione».

I leader del G20, prevede Stelzer, «prometteranno ancora di evitare il protezionismo, daranno qualche aiuto ai paesi in via di sviluppo, aumentando i contributi al Fondo monetario internazionale, e diranno qualcosa sulla necessità che i regolatori finanziari cooperino di più tra di loro. Tuttavia, non concederanno a Obama più che una retorica annacquata circa la necessità che tutti i paesi contribuiscano alla ripresa dell'economia. Mentre Obama respingerà gli appelli franco-tedeschi per una regolamentazione oppressiva del sistema finanziario».

Per capire davvero cosa sta succedendo non bisogna guardare al G20, ma al G2: America e Cina. «La Cina è seduta su oltre mille miliardi di titoli di debito americani», che ha comprato con i dollari guadagnati grazie alle sue esportazioni. «Ora è preoccupata che Obama dovrà finanziare il suo ampio deficit riversando sul mercato altri Bot Usa sotto costo e che il governatore della Fed, Bernanke, ridurrà il valore della sua riserva di dollari quando manterrà la promessa di stamparne altri miliardi».

Ciò che davvero sta accadendo, quindi, osserva Stelzer, è «l'inizio di un accordo tra Cina e Stati Uniti per riequilibrare il sistema mondiale»: «La Cina ha bisogno di investire di più al suo interno per far sì che i suoi consumatori possano acquistare più nostri prodotti, e noi dobbiamo risparmiare e investire di più in modo da non mandare così tanti dollari in Cina. Perché quando i cinesi usano questi dollari per comprare i Buoni del Tesoro Usa, fanno scendere i tassi di interesse e incoraggiano quel tipo di indebitamento che ha portato alla rovina così tante nostre banche e così tanti consumatori». Se bisogna rilanciare l'economia mondiale, conclude Stelzer, «noi abbiamo bisogno della Cina e la Cina di noi». Il resto sono dettagli. «E la Cina non assumerà alcun ruolo finché non gli verrà riconosciuta la posizione che sente di meritare come superpotenza emergente».

Dunque, l'uscita dalla crisi passa inevitabilmente per una sfida all'egemonia americana e occidentale, alla centralità degli Usa nel sistema finanziario internazionale, ma a ben vedere getta le basi anche per una sfida all'autorità del Partito comunista cinese.

Per riequilibrare il sistema, infatti, Pechino dovrà fare qualcosa che guarda caso ha cercato fino ad oggi di ritardare, giocando quasi esclusivamente sull'export: espandere la sua domanda interna, adottare politiche che mettano i suoi cittadini nelle condizioni di acquistare più prodotti e servizi americani (e occidentali) e di godere di una maggiore libertà di piccola-media impresa, diffusa e rivolta al mercato interno. Ciò potrebbe determinare un'apertura senza precedenti, una vera apertura, della Cina al mondo (finora infatti la Cina si è "aperta" al mondo soprattutto tramite le sue esportazioni). Significherebbe l'ingresso nel mercato di una domanda che va ben oltre una relativamente stretta cerchia di uomini d'affari e di establishment che in un modo o nell'altro devono il loro benessere al regime.

Un'apertura che negli anni potrebbe cambiare gli stili di vita e la mentalità di decine, centinaia di milioni di cinesi. Ma soprattutto, assaporando la pluralità e la qualità di un mercato in cui si trovano finalmente nelle condizioni per poter giocare un ruolo da protagonisti, sia sul lato della domanda che dell'offerta, potrebbe mutare radicalmente la loro concezione del rapporto tra stato e cittadino. Il monopartitismo reggerà all'impatto? Saprà rispondere alla crescente domanda di libertà anche politiche? Può darsi, ma è certo che una sfida senza precedenti aspetta anche il regime di Pechino.

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