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Thursday, April 16, 2009

Tempi cupi, le aperture di Obama non basteranno

Tira una brutta aria, perché le aperture al dialogo di Obama in tutte - davvero in tutte - le direzioni sembrano suscitare un senso di sollievo e rilassamento, persino di entusiasmo, tra gli analisti, i commentatori e i media mainstream, oltre che nelle capitali occidentali. Quasi che l'ammorbidimento delle posizioni e dei toni Usa sia destinato di per sé a risolvere tutte le crisi e a migliorare ogni rapporto conflittuale. Peccato che a questo clima rilassato e vagamente ottimista non corrispondano fatti altrettanto tranquillizzanti. Le sfide sembrano aumentare e crescere di complessità; gli stati canaglia alzano la posta, per sfruttare il più possibile a loro vantaggio la nuova aria che spira a Washington.

L'Iran, innanzitutto. La prima conseguenza dell'apertura di Obama è che la sospensione dell'arricchimento dell'uranio non è più una precondizione per l'avvio dei negoziati. Teheran non chiedeva di meglio. Mentre si discute potrà continuare a portare avanti il suo programma, e magari in corsa riuscirà a ottenere persino qualche benefit. Come detto, spetta a Obama capire prima possibile le reali intenzioni di Teheran e tirare le somme del suo tentativo senza farsi impantanare in un dialogo il cui unico obiettivo da parte dell'Iran fosse quello di prendere tempo per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto dell'atomica sciita.

Intanto, il governo egiziano sembra aver capito che gli iraniani mirano a destabilizzare il paese, colpendo il turismo e il commercio, settori strategici per l'economia egiziana. L'Egitto è forse l'unico vero ostacolo rimasto tra Teheran e le sue ambizioni egemoniche sull'intera regione. Nei giorni scorsi sono stati arrestati 49 uomini accusati di essere vicini a Hezbollah e di progettare attentati nel Sinai contro mete turistiche frequentate da israeliani e contro infrastrutture egiziane, tra cui il canale di Suez. Sarebbero stati il Mossad e la Cia a fornire le informazioni agli egiziani.

Il ministro degli Esteri egiziano, Abul Gheit, è stato molto esplicito con il quotidiano Asharq al-Awsat, promettendo «grandi sorprese» quando saranno resi noti i particolari sulla cellula sciita operante nel Sinai: «Aspetto con ansia il momento in cui vedrò le facce di coloro che dentro e fuori l'Iran dettano le istruzioni... quando leggeranno il rapporto preparato dal procuratore di Stato. La questione Hezbollah dimostra che l'Iran vuole trasformare l'Egitto in un trampolino iraniano per chi vuole penetrare in Medio Oriente. Ma l'Egitto non fa da trampolino a nessuno». Secondo il quotidiano Haaretz quella egiziana è una vera e propria «rabbia» nei confronti di Teheran. Di poche settimane fa la rottura tra Marocco e Iran, dopo la scoperta dei tentativi di infiltrazione islamico-sciita nel regno sunnita retto da Maometto VI.

Ma se Obama si volta verso Israele, l'orizzonte non appare più sereno e le cose si fanno se possibile più complicate. Il ministro degli Esteri israeliano Lieberman ha spiegato all'inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, George Mitchell, che il governo Netanyahu non crede più nella politica delle concessioni e dei ritiri unilaterali (che hanno portato alla guerra con Hezbollah nel 2006 e al rafforzamento di Hamas), che non si riconosce in Annapolis, ma si sente vincolato solo al rispetto della "road map", che prevede (pochi se ne ricordano) la cessazione di ogni violenza e terrorismo tra le condizioni per la nascita di uno stato palestinese.

Lieberman ha chiesto «impegni senza equivoci» da parte di Washington sulla sicurezza di Israele e la sua natura di stato ebraico. Le parole di Lieberman sembrano confermare il cambio di rotta del nuovo governo israeliano: la priorità è l'Iran; nel frattempo, "pace economica" con i palestinesi: Israele è disponibile a tutto per migliorare le condizioni economiche dei palestinesi, ma «se vogliamo una soluzione stabile alla questione palestinese dobbiamo in primo luogo fermare l'intensificazione e l'espansione della minaccia iraniana». Al contrario di Bush, l'amministrazione Obama sembra sposare l'approccio più tradizionale che vede nel processo di pace e nella minaccia iraniana due problemi separati. Ciò costituirà un problema di non poco conto nei rapporti con Israele.

Nulla di buono neanche dalla Corea del Nord, che in una settimana ha effettuato un test missilistico (fallito), espulso gli ispettori delle Nazioni Unite, abbandonato i colloqui a sei e minacciato di riaccendere i reattori e proseguire nel programma nucleare, a dimostrazione di quanto fosse propagandistico il successo diplomatico sbandierato in "zona Cesarini" dall'amministrazione Bush. E' fin troppo evidente che il regime di Pyongyang è attratto dalla prospettiva di lucrare dalla nuova stagione di dialogo a 360° inaugurata dalla presidenza Obama. Spera di ricominciare con il solito tira e molla, ottenendo ulteriori concessioni. E, magari, di seguire l'esempio iraniano, costringendo Washington a colloqui diretti senza precondizioni.

Non meno gravi gli ultimi sviluppi in Afghanistan e Pakistan, dove la situazione sembra precipitare di giorno in giorno. Riguardo l'Afghanistan, Obama sembra aver capito che esiste un problema strettamente militare: la quantità di truppe impegnate sul terreno. Prosegue, però, la progressiva perdita di controllo del Pakistan. Un processo a dire il vero iniziato già con la precedente amministrazione, ma che pare accentuarsi con Obama, che mostra molte incertezze e nessuna strategia. Il fatto che il presidente pachistano Zardari abbia addirittura concesso l'introduzione della sharia in una zona del paese, lo Swat, per venire a patti con i talebani pakistani è davvero inquietante. In pratica una cessione di sovranità ai talebani dalle conseguenze potenzialmente disastrose per la stabilità del paese.

Sulle differenze tra Bush e Obama in politica estera avremo modo di tornare.

In questo scenario a tinte fosche, l'unica nota positiva potrebbe paradossalmente giungere da un'altra dittatura, quella cinese, che in questa fase sembra se non altro muoversi con un certo pragmatismo. La leadership di Pechino dimostra di saper trattare i suoi interessi con realismo. E' nazionalista, ma almeno il potere non sembra in mano a una setta di fanatici. Fa ben sperare la pubblicazione del primo "Piano di azione nazionale per i diritti umani in Cina", che indica gli obiettivi del prossimo biennio: una maggiore tutela fisica e morale dei detenuti. Il che vorrebbe dire bandire la tortura. Nel piano si afferma il diritto dei detenuti a presentare proteste scritte e a denunciare abusi. Viene ribadito il loro diritto a incontrarsi e a comunicare con l'avvocato, e il diritto del legale a poter svolgere nel miglior modo la difesa.

Pieno di omissioni e ambiguità; operazione d'immagine, sul piano sia internazionale che interno; e sappiamo che in gran parte resterà lettera morta. Ma quanto meno - osservano molti - è importante la sola ammissione, per la prima volta, che ci sono diritti umani fondamentali diversi dal diritto del popolo alla sussistenza, in nome del quale Pechino ha sempre giustificato i suoi più orrendi crimini.

3 comments:

andrea mollica said...

grazie, il tuo resoconto sui fallimenti della politica estera di Bush - finita da neanche 3 mesi e sonoramente bocciata dal popolo americana - non poteva essere più puntuale. Non so se era intenzionale, ma questo è un altro discrso

JimMomo said...

Eccetto aggiustare la situazione in Iraq, Bush negli ultimi 4 anni non ha fatto nulla, ha vivacchiato.

Anonymous said...

Complimenti per l'analisi. Thanks!

(ermes)