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Notapolitica
C'è un dato di finanza pubblica che ha fatto poco rumore in questi giorni di commenti e deliri sulla prima manovra del governo Monti. Mentre il premier ammetteva candidamente dinanzi alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato che i suoi primi sforzi si sono concentrati nell'«identificare strutturalmente nuova materia imponibile», anziché spesa da tagliare, nelle stesse aule parlamentari il presidente della Corte dei Conti spiegava come, a causa del forte sbilanciamento sul lato delle entrate delle ultime tre manovre (tremontiane e montiane), «il percorso di riequilibrio dei conti pubblici dal 2010 al 2014 si realizzerebbe, in Italia, in una prospettiva di ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico. In altri termini, la riduzione del disavanzo programmata nel periodo (circa 75 miliardi) sarebbe conseguita solo per l'aumento imponente delle entrate (circa 120 miliardi) e nonostante un ulteriore aumento del livello della spesa pubblica (più di 45 miliardi)».
Tradotto, vuol dire che il trend della spesa pubblica continua ad essere crescente. Insomma, mesi e mesi di allarmi default, di “fatepresto”, di demagogia e piagnistei contro i «tagli», più o meno lineari, e scopriamo che in effetti non è stata ridotta la spesa, ma solo rallentata la sua crescita. In Italia, e solo in Italia, il concetto di austerity si traduce solo con nuove tasse e non anche con tagli alla spesa. E' questo il grande illusionismo che i nostri governi, tecnici o politici, fiancheggiati dai mainstream media, stanno tentando: salvare l'Italia non nell'unico modo in cui può essere salvata, cioè imponendo allo Stato di dimagrire, ma salvando lo Stato – e quindi le quote di potere degli “incumbent” politici, economici e sociali – così com'è, con tutte, e di più, le sue spese e le sue entrate. E' un illusionismo molto rischioso, tuttavia, perché salvare uno Stato ipertrofico potrebbe non coincidere con il salvare l'Italia e gli italiani. E questo rischio i mercati l'hanno ben presente e continuano a “prezzarlo”.
Quanto tempo dovremo attendere prima di leggere sul Corriere della Sera o sul Sole24Ore che la manovra Monti è stata sostanzialmente bocciata dai mercati (lo spread btp-bund oscilla ancora tra i 470 e i 500 punti), mentre i soli annunci del nuovo premier spagnolo Rajoy sembrano aver calmierato i rendimenti sui titoli emessi da Madrid? Lo spread bonos-bund è a 311 (-155 rispetto al differenziale sui nostri titoli), ma soprattutto all'asta di ieri i rendimenti dei “bonos” a tre mesi sono crollati dal 5,11% dello scorso 22 novembre all'1,73%, quelli a sei mesi dal 5,22 al 2,43%. Ne sono stati collocati in tutto per 5,64 miliardi, con una richiesta che ha superato di ben quattro volte l'offerta. Forse gli analisti individueranno qualche causa “tecnica”, ma è un fatto che Rajoy nel suo discorso programmatico alla Camera dei deputati spagnola ha annunciato tagli strutturali per 16,5 miliardi di euro al bilancio delle amministrazioni pubbliche, a tutti i livelli e su tutte le voci di spesa, senza «nemmeno un euro in più di tasse»; tra le altre cose, la soppressione dei prepensionamenti e della «pratica abusiva» dei pensionamenti anticipati usati come sussidi di disoccupazione.
Da noi, invece, oltre ad una manovra per quasi il 90% di tasse nel 2012, si susseguono segnali inquietanti: il ministro Passera che esclude ulteriori manovre (quindi niente tagli alla spesa derivanti della spending review in corso?); il ministro dell'istruzione Profumo che annuncia concorsi per 12.500 nuovi insegnanti; e infine il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, che sta prendendo una piega assai pericolosa per le casse dello Stato. L'improcrastinabile esigenza di superare un'eccessiva rigidità in uscita, per favorire la crescita dimensionale delle imprese e quindi l'occupazione, sta lasciando la scena al cosiddetto “reddito minimo garantito”. Come spiega Oscar Giannino su Panorama, già il progetto Ichino ha i suoi difetti, se poi la base di partenza, come lasciano intendere alcune dichiarazioni governative, diventa il progetto Boeri-Nerozzi, allora rischiamo un esito paradossale: articolo 18 esteso di fatto a tutti; assenza di contratti a tempo; cassa integrazione universale, ossia salario garantito. Il che vorrebbe dire: Grecia, stiamo arrivando! In Italia l'assegno di disoccupazione non può essere generoso, soprattutto nella sua durata, come nei Paesi nordici, perché lavoro nero e truffe ci farebbero piangere per i prossimi 50 anni.
Se la speculazione finanziaria, come la fortuna, è cieca, i mercati nel loro insieme mostrano invece di vederci benissimo. Non guardano più solo ai saldi di bilancio, ma anche a come i governi li perseguono; non solo alla quantità ma alla qualità di una manovra. Certe misure vengono giustificate con la presunta impazienza dei mercati, che non sarebbero inclini ad aspettare i benefici di lungo termine di una riforma strutturale. Eppure, negli ultimi tempi gli investitori mostrano di non accontentarsi di una tenuta dei conti pubblici nel breve periodo. Al contrario, nella valutazione del rischio di un'obbligazione statale della durata di 5 o 10 anni è probabile che le loro analisi guardino quasi esclusivamente alla presenza o meno di riforme strutturali in grado di produrre effetti duraturi e di lungo termine. Delle manovre italiane hanno capito che non sarà così: se l'agognato azzeramento del deficit si realizzerà, come prevede la Corte dei Conti, solo per l'aumento delle tasse, allora con una spesa pubblica che continua a crescere e un Pil fermo (nella migliore delle ipotesi), il mantenimento del pareggio di bilancio potrà essere garantito solo al prezzo di un ulteriore aumento delle tasse, il che ci condannerebbe ad una spirale recessiva. Senza tagli alla spesa e senza crescita non c'è rientro dal debito sostenibile.
Ogni economista ed editorialista che si rispetti ha una sua ricetta anti-crisi. Va per la maggiore quella di trasformare la Bce in una Fed europea, con il ruolo cioè di prestatore di ultima istanza e stampatore di moneta facile (che per inciso ha portato la Fed americana a contribuire in modo decisivo all'esplosione della crisi dei subprime); c'è chi invoca un maxi-prestito del Fmi per rifinanziare a tassi accettabili parte del debito in scadenza nel 2012; c'è chi propone un deprezzamento dell'euro per aumentare l'export dei Paesi in deficit commerciale, in modo da concedere loro del tempo per realizzare quelle riforme necessarie per ridurre il gap di produttività nei confronti della Germania. Nessuno (o quasi) però nega che l'unica soluzione strutturale della crisi sia meno spesa pubblica e più produttività dei singoli Paesi. Non è che alla spasmodica ricerca di soluzioni “parafulmine” per guadagnare tempo, in realtà abbiamo solo perso del tempo prezioso (due anni ormai dall'esplosione della crisi greca) per fare quelle riforme che tutti ritengono ineluttabili? I tedeschi sembrano gli unici a rifiutare soluzioni tampone – le quali contemplano il rischio che l'euro, nato per dare all'Europa una moneta forte come il marco, possa fare la fine della liretta – e con sangue freddo sotto i colpi dei mercati a insistere per le riforme nei singoli Paesi.