Anche su Notapolitica
Siamo proprio sicuri che gli interventi governativi volti a chiarire l'area di esenzione dall'Imu per le attività cosiddette "non commerciali" sciolgano una volta per tutte le ambiguità? Il rischio, purtroppo, è che le opacità di cui soprattutto la Chiesa è accusata di approfittarsi siano soltanto trasferite da una terminologia ad un'altra, e che le polemiche siano soltanto rinviate ad una fase di più conflittuale dialettica politica rispetto alla melassa che oggi circonda il governo Monti. Sbaglia chi riduce tutto ad una questione meramente fiscale. La soluzione individuata ha a che fare con la concezione che abbiamo di servizio pubblico, con il ruolo dell'iniziativa privata e del profitto nel nostro Paese.
Ci si è accorti che l'Imu metterebbe letteralmente in ginocchio un pilastro essenziale del nostro sistema educativo e di welfare, costituito da scuole e strutture sanitarie private, principalmente cattoliche, e più in generale il terzo settore, il cosiddetto no profit, la cui rilevanza sociale è riconosciuta dalla legge. Basti pensare che le strutture sanitarie e di assistenza appartenenti a enti ecclesiastici sono 4.712, di cui 1.853 ospedali e case di cura, 136 ambulatori, 121 medi o grandi ospedali; le scuole paritarie cattoliche sono 9.371, a cui sono iscritti 740 mila alunni (dati 2010/2011). Di queste, 6.228 materne, cui vanno aggiunti 399 nidi d'infanzia. Tutti abbiamo ben presente quale sia l'offerta pubblica gestita da enti statali (i cui immobili adibiti alle medesime funzioni sono ovviamente esenti dall'imposta), e dunque comprendiamo l'importanza che sia affiancata da realtà private. L'Imu minerebbe la loro stessa esistenza, o comunque ne limiterebbe di molto l'accessibilità da parte delle famiglie, ad ulteriore danno di un fattore di sviluppo cruciale come l'occupazione femminile, ma anche di libertà costituzionali come quella educativa e di cura.
Che fare? Il principio esposto ieri dal premier Mario Monti in Commissione Industria del Senato sembra abbastanza chiaro: chi fa profitto, paga l'Imu; chi non fa profitto, non lo paga. Magari fosse così semplice. L'imbarazzo è evidente: come giustificare agli occhi dell'opinione pubblica il fatto che l'Imu sia dovuta per la prima casa, quella nella quale si abita, da cui non si ricava alcun profitto e la cui funzione sociale è eclatante, indiscutibile, mentre vengono esentati enti che richiedono rette e conti da migliaia, e in alcuni casi decine di migliaia di euro, che ricevono finanziamenti regionali, investono soldi, danno lavoro, sono governati da consigli di amministrazione e dirigenti ben retribuiti, in poche parole che funzionano come un'impresa? L'idea è che per rendere socialmente accettabile l'esenzione dall'Imu di tali meritevoli attività basti etichettarle come «concretamente non commerciali», in poche parole no profit. Il criterio base ovviamente è il riconoscimento di rilevanza sociale e che eventuali avanzi di bilancio non rappresentino in alcun modo profitto, ma ulteriore sostegno all'attività, didattica o di assistenza.
Ma questa definizione può reggere, o al contrario apre la strada a ulteriori equivoci, fraintendimenti, e quindi contenziosi giuridici? Si può, nell'ambito di una stessa imposta, tassare alcuni soggetti sulla base del mero possesso di un bene, ed esentare altri sulla base della sua non redditività (all'atto pratico solo presunta)? E siamo sicuri che la rinuncia a qualsiasi forma di profitto non si riveli, alla lunga, un danno per gli stessi privati impegnati nel "sociale"?
Molte comunissime attività economiche possono rivendicare la loro valenza "sociale". Il nostro ordinamento riconosce il beneficio, in termini di reddito, ricchezza e progresso sociale, derivante da qualsiasi attività, purché non sia contraria alla legge e alla pubblica sanità e sicurezza. E tali attività possono trovarsi in pareggio o, peggio, in perdita, quindi in no profit, per semplice incapacità imprenditoriale a stare sul mercato. Non sono forse "servizio pubblico" e non hanno rilevanza sociale una farmacia, lo studio di un avvocato, o una ditta di trasporti? E se concludessero il loro anno in pareggio, o in perdita, non dovrebbero anch'essi venire esentati dall'Imu? Giustificando con l'assenza di profitto l'esenzione da un'imposta di natura patrimoniale, cioè sul possesso di un bene, si apre una evidente contraddizione.
L'impressione è che imporre l'etichetta no profit, non commerciale, per concedere a un privato che fa servizio pubblico un'esenzione fiscale, nasconda il perpetuarsi nella nostra società, e nella nostra classe di tecnici e di politici, di un pregiudizio sfavorevole alla libera iniziativa economica e al profitto. Continuiamo a pensare che un servizio è pubblico solo se direttamente gestito dallo Stato; un privato può farlo, a patto che si organizzi come un ente statale e rinunci al profitto. La legge 62 del 2000 sulla parità scolastica fissa standard non solo formativi e qualitativi, ma anche organizzativi, col rischio di riprodurre nel privato sprechi e inefficienze statali; ora alle scuole paritarie si chiede di rinunciare al profitto se non vogliono pagare l'Imu. Se poi qualche euro di profitto ci scappa, com'è fisiologico in una gestione efficiente, lo Stato è pronto a chiudere un occhio, purché non si dica, e l'ipocrisia no profit non sia smascherata. La cultura cattolica condivide lo stesso pregiudizio negativo nei confronti del "lucro" e ciò spiega almeno in parte perché in Italia siano prevalentemente enti ecclesiastici – più inclini al compromesso e più solidi economicamente – a operare nel settore educativo e nella sanità privati.
Nel futuro prossimo, se non altro per motivi demografici, lo Stato non avrà le risorse per provvedere ad una sempre più forte domanda di eccellenza educativa, di formazione permanente, e di assistenza alla popolazione anziana. I privati devono entrare nel settore educativo e del welfare. E costringerli a scegliere tra rinuncia al profitto e più tasse non è il miglior incentivo. Il profitto deve entrarci, perché il servizio pubblico, la funzione sociale espletati traggono ancora più forza da un'organizzazione economica che prevedendo il profitto tende alla propria sostenibilità finanziaria e imprenditoriale.
Riguardo gli immobili in cui si svolgono attività promiscue, sia commerciali che non commerciali, l'emendamento del governo rischia di non mettere fine alle opacità, laddove prevede che l'esenzione sia limitata alla sola «frazione» di unità nella quale si svolga l'attività di natura non commerciale, e cioè che si pagherà l'Imu solo sulla porzione utilizzata a fini commerciali. Ma come calcolare, e soprattutto chi dovrà calcolare le frazioni? Basterà un'auto-dichiarazione del proprietario, vincolata ad un meccanismo ministeriale di individuazione del rapporto proporzionale tra attività commerciali e non esercitate all'interno di uno stesso immobile. Il cui rispetto però dipenderà da controlli ex post. Le polemiche non finiranno qui.
Wednesday, February 29, 2012
Monday, February 27, 2012
I primi 100 di Monti, un successo di immagine
Anche su Notapolitica
A 100 giorni dal suo insediamento il bilancio dell'attività del governo Monti è positivo, se come metro di giudizio prendiamo l'operato dei governi precedenti. Del tutto insufficiente, invece, rispetto ai profondi cambiamenti di cui necessitano con urgenza la nostra finanza pubblica e il nostro modello economico e sociale. Promosso a pieni voti il premier nella capacità di mettere la sua autorevolezza personale al servizio del Paese, nel rappresentare cioè, agli occhi dei partner europei e non, delle istituzioni comunitarie e finanziarie, ben al di là di quanto dimostrino i fatti, l'immagine di un Paese impegnato nel risanamento e nelle riforme strutturali. E' bastato il netto scarto con la caduta verticale di credibilità e l'immobilismo dell'ultimo Berlusconi, e persino con la palese inadeguatezza nell'affrontare la crisi di leader europei del calibro di Merkel e Sarkozy, a decretare il successo di immagine di Monti, anche presso gli italiani, che stanno sopportando misure impopolari rassicurati se non altro nel vedere un governo che dà l'idea del "fare", di essere al timone del Paese. Particolarmente calzante il giudizio di Sergio Marchionne, nell'intervista di venerdì scorso al Corriere. Ricordando come a Washington abbia ricevuto «un'accoglienza straordinaria» e riscosso un «successo incredibile», l'ad di Fiat osserva che Monti «ha dato al mondo l'idea di un Paese che sta svoltando». L'idea, appunto, anche se poco altro al momento.
Va dato atto al premier di aver usato un intelligente mix tra serrata azione di governo, protagonismo sul fronte europeo, e messaggi al mondo finanziario, tutto al fine di calmierare gli interessi sul nostro debito pubblico. La sua moral suasion si è concentrata soprattutto sugli operatori della City e di Wall Street (nonché sui media di riferimento delle due principali piazze finanziarie mondiali), per convincerli a tornare a comprare i nostri titoli di Stato. Le cronache riferiscono che la serietà e la sobrietà del nuovo premier hanno fatto breccia, sono molto apprezzate, ma anche che gli investitori aspettano più fatti concreti rispetto a quanto portato a casa nei primi 100 giorni di governo: articolo 18, tagli alla spesa, privatizzazioni e meno tasse.
In soli tre mesi il governo Monti può vantare una seria riforma delle pensioni, che praticamente avvia ad esaurimento quelle di anzianità; il ritorno della tassazione sulla prima casa; il divieto di doppi incarichi nei consigli di amministrazione di banche e assicurazioni concorrenti; la decisione di separare Snam rete gas da Eni, anche se i criteri devono ancora essere fissati e la procedura occuperà quasi tutto il 2013; l'impegno, da verificare nei prossimi mesi, ad aprire il mercato dei servizi pubblici locali; un'ambiziosa riforma della spesa militare. Giudizio controverso sulla lenzuolata di liberalizzazioni: alcune troppo timide, altre rimandate, altre ancora finte e contraddette da colpi di dirigismo.
Il cosiddetto dl "semplificazioni fiscali", varato venerdì scorso, non sembra volto a semplificare la vita ai cittadini nei loro adempimenti tributari, quanto piuttosto a semplificare allo Stato gli strumenti per tartassarli. Micro-interventi di manutenzione, alcuni dei quali mitigano qualche aspetto troppo punitivo e irragionevole persino per l'amministrazione, ma siamo ancora lontani da qualcosa che appaia come un nuovo approccio nel rapporto tra Fisco e contribuenti, nulla che possa risparmiare a imprese e partite Iva qualcuno dei 36 giorni lavorativi l'anno che ad oggi sono costrette a dedicare alla burocrazia fiscale. Anzi, lo Stato torna a chiedere loro la trasmissione una volta l'anno dell'elenco clienti e fornitori, senza tralasciare la minima prestazione. Saltato, invece, il fondo dove far confluire i proventi della lotta all'evasione 2012-2013 in vista di una loro molto parziale (al massimo la metà) restituzione ai contribuenti "onesti" sotto forma di detrazioni fiscali, "una tantum" e nel 2014, cioè nella prossima legislatura, sempre a condizione di pareggio di bilancio. Un sussulto di serietà che evita la farsa di una promessa scritta sull'acqua solo per farci credere che la lotta all'evasione serva a pagare meno tasse e non a coprire sempre nuovi buchi di bilancio. Anche perché, nonostante tutti gli aumenti di imposte, il fabbisogno della pubblica amministrazione per il 2012 straborderebbe dalle previsioni di circa 20 miliardi.
Molta della propria credibilità il governo se la gioca sul mercato del lavoro: punterà su una riforma incisiva anche senza accordo con le parti sociali, togliendo il freno dell'articolo 18 e ammodernando gli ammortizzatori sociali per favorire una più rapida ristrutturazione delle imprese, o accetterà un compromesso al ribasso per non rompere con i sindacati e non mettere in difficoltà il Pd?
E' soprattutto nelle politiche di finanza pubblica però che il governo Monti delude, esprimendo un'eccessiva continuità con i governi del passato. L'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 viene conseguito a suon di tasse anziché di tagli alla spesa. Quel tipo di austerità che nell'intervista di giovedì scorso al Wall Street Journal il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha definito «cattiva». C'è modo e modo, ha spiegato, di consolidare i bilanci pubblici. Un «buon» consolidamento di bilancio è «quello in cui le tasse sono più basse» e si taglia la spesa pubblica. Ma «il cattivo consolidamento è più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri anche alzando le tasse», ed è «più facile da fare che tagliare la spesa corrente».
In Italia la pressione fiscale, al netto del sommerso, e l'intermediazione dello Stato, quindi della politica, nell'economia superano abbondantemente il 50% del Pil. Eppure, con la complicità dei mainstream media, il governo Monti è riuscito ad additare negli italiani, nella loro propensione ad evadere le tasse, e non nella spesa, il vero problema di finanza pubblica. Di tagli alla spesa nemmeno si parla più, se si escludono le sforbiciate, sacrosante ma un po' demagogiche, agli stipendi dei parlamentari e dei top manager pubblici. E sarebbe comico se la spending review in cui sono impegnati Giarda e Vieri Ceriani partorisse tagli, come si legge, per 5-10 miliardi di euro, lo 0,3-0,5% del Pil, mentre ne servirebbero almeno nell'ordine di 5-6 punti di Pil e nel Regno Unito il governo lavora ad una riduzione della spesa di 80 miliardi di sterline in 4 anni.
Se Monti può «salvare l'Europa», come sostiene il settimanale Time, la nostra è ancora l'economia «più pericolosa del mondo» e non ha ancora iniziato quel processo di trasformazione necessario perché possa tornare a crescere ad un ritmo sostenuto. A far calare in modo sensibile lo spread in questi tre mesi è stata soprattutto l'azione incisiva della Bce di Mario Draghi, che ha inondato di liquidità le banche, e in misura minore hanno aiutato i progressi compiuti in sede Ue su fiscal compact ed ESM e il nuovo pacchetto di aiuti concesso alla Grecia. Fattori esterni, dunque, e il successo di immagine di Monti, più che riforme strutturali.
A 100 giorni dal suo insediamento il bilancio dell'attività del governo Monti è positivo, se come metro di giudizio prendiamo l'operato dei governi precedenti. Del tutto insufficiente, invece, rispetto ai profondi cambiamenti di cui necessitano con urgenza la nostra finanza pubblica e il nostro modello economico e sociale. Promosso a pieni voti il premier nella capacità di mettere la sua autorevolezza personale al servizio del Paese, nel rappresentare cioè, agli occhi dei partner europei e non, delle istituzioni comunitarie e finanziarie, ben al di là di quanto dimostrino i fatti, l'immagine di un Paese impegnato nel risanamento e nelle riforme strutturali. E' bastato il netto scarto con la caduta verticale di credibilità e l'immobilismo dell'ultimo Berlusconi, e persino con la palese inadeguatezza nell'affrontare la crisi di leader europei del calibro di Merkel e Sarkozy, a decretare il successo di immagine di Monti, anche presso gli italiani, che stanno sopportando misure impopolari rassicurati se non altro nel vedere un governo che dà l'idea del "fare", di essere al timone del Paese. Particolarmente calzante il giudizio di Sergio Marchionne, nell'intervista di venerdì scorso al Corriere. Ricordando come a Washington abbia ricevuto «un'accoglienza straordinaria» e riscosso un «successo incredibile», l'ad di Fiat osserva che Monti «ha dato al mondo l'idea di un Paese che sta svoltando». L'idea, appunto, anche se poco altro al momento.
Va dato atto al premier di aver usato un intelligente mix tra serrata azione di governo, protagonismo sul fronte europeo, e messaggi al mondo finanziario, tutto al fine di calmierare gli interessi sul nostro debito pubblico. La sua moral suasion si è concentrata soprattutto sugli operatori della City e di Wall Street (nonché sui media di riferimento delle due principali piazze finanziarie mondiali), per convincerli a tornare a comprare i nostri titoli di Stato. Le cronache riferiscono che la serietà e la sobrietà del nuovo premier hanno fatto breccia, sono molto apprezzate, ma anche che gli investitori aspettano più fatti concreti rispetto a quanto portato a casa nei primi 100 giorni di governo: articolo 18, tagli alla spesa, privatizzazioni e meno tasse.
In soli tre mesi il governo Monti può vantare una seria riforma delle pensioni, che praticamente avvia ad esaurimento quelle di anzianità; il ritorno della tassazione sulla prima casa; il divieto di doppi incarichi nei consigli di amministrazione di banche e assicurazioni concorrenti; la decisione di separare Snam rete gas da Eni, anche se i criteri devono ancora essere fissati e la procedura occuperà quasi tutto il 2013; l'impegno, da verificare nei prossimi mesi, ad aprire il mercato dei servizi pubblici locali; un'ambiziosa riforma della spesa militare. Giudizio controverso sulla lenzuolata di liberalizzazioni: alcune troppo timide, altre rimandate, altre ancora finte e contraddette da colpi di dirigismo.
Il cosiddetto dl "semplificazioni fiscali", varato venerdì scorso, non sembra volto a semplificare la vita ai cittadini nei loro adempimenti tributari, quanto piuttosto a semplificare allo Stato gli strumenti per tartassarli. Micro-interventi di manutenzione, alcuni dei quali mitigano qualche aspetto troppo punitivo e irragionevole persino per l'amministrazione, ma siamo ancora lontani da qualcosa che appaia come un nuovo approccio nel rapporto tra Fisco e contribuenti, nulla che possa risparmiare a imprese e partite Iva qualcuno dei 36 giorni lavorativi l'anno che ad oggi sono costrette a dedicare alla burocrazia fiscale. Anzi, lo Stato torna a chiedere loro la trasmissione una volta l'anno dell'elenco clienti e fornitori, senza tralasciare la minima prestazione. Saltato, invece, il fondo dove far confluire i proventi della lotta all'evasione 2012-2013 in vista di una loro molto parziale (al massimo la metà) restituzione ai contribuenti "onesti" sotto forma di detrazioni fiscali, "una tantum" e nel 2014, cioè nella prossima legislatura, sempre a condizione di pareggio di bilancio. Un sussulto di serietà che evita la farsa di una promessa scritta sull'acqua solo per farci credere che la lotta all'evasione serva a pagare meno tasse e non a coprire sempre nuovi buchi di bilancio. Anche perché, nonostante tutti gli aumenti di imposte, il fabbisogno della pubblica amministrazione per il 2012 straborderebbe dalle previsioni di circa 20 miliardi.
Molta della propria credibilità il governo se la gioca sul mercato del lavoro: punterà su una riforma incisiva anche senza accordo con le parti sociali, togliendo il freno dell'articolo 18 e ammodernando gli ammortizzatori sociali per favorire una più rapida ristrutturazione delle imprese, o accetterà un compromesso al ribasso per non rompere con i sindacati e non mettere in difficoltà il Pd?
E' soprattutto nelle politiche di finanza pubblica però che il governo Monti delude, esprimendo un'eccessiva continuità con i governi del passato. L'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 viene conseguito a suon di tasse anziché di tagli alla spesa. Quel tipo di austerità che nell'intervista di giovedì scorso al Wall Street Journal il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha definito «cattiva». C'è modo e modo, ha spiegato, di consolidare i bilanci pubblici. Un «buon» consolidamento di bilancio è «quello in cui le tasse sono più basse» e si taglia la spesa pubblica. Ma «il cattivo consolidamento è più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri anche alzando le tasse», ed è «più facile da fare che tagliare la spesa corrente».
In Italia la pressione fiscale, al netto del sommerso, e l'intermediazione dello Stato, quindi della politica, nell'economia superano abbondantemente il 50% del Pil. Eppure, con la complicità dei mainstream media, il governo Monti è riuscito ad additare negli italiani, nella loro propensione ad evadere le tasse, e non nella spesa, il vero problema di finanza pubblica. Di tagli alla spesa nemmeno si parla più, se si escludono le sforbiciate, sacrosante ma un po' demagogiche, agli stipendi dei parlamentari e dei top manager pubblici. E sarebbe comico se la spending review in cui sono impegnati Giarda e Vieri Ceriani partorisse tagli, come si legge, per 5-10 miliardi di euro, lo 0,3-0,5% del Pil, mentre ne servirebbero almeno nell'ordine di 5-6 punti di Pil e nel Regno Unito il governo lavora ad una riduzione della spesa di 80 miliardi di sterline in 4 anni.
Se Monti può «salvare l'Europa», come sostiene il settimanale Time, la nostra è ancora l'economia «più pericolosa del mondo» e non ha ancora iniziato quel processo di trasformazione necessario perché possa tornare a crescere ad un ritmo sostenuto. A far calare in modo sensibile lo spread in questi tre mesi è stata soprattutto l'azione incisiva della Bce di Mario Draghi, che ha inondato di liquidità le banche, e in misura minore hanno aiutato i progressi compiuti in sede Ue su fiscal compact ed ESM e il nuovo pacchetto di aiuti concesso alla Grecia. Fattori esterni, dunque, e il successo di immagine di Monti, più che riforme strutturali.
Thursday, February 23, 2012
Yeah, it's gone gone gone
Il tanto decantato modello sociale europeo è «andato», superato, morto, finito. E' questa l'affermazione che farà più rumore, almeno in Italia, dell'intervista del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, al Wall Street Journal. Ad una precisa domanda («Pensa che l'Europa farà a meno del modello sociale che l'ha contraddistinta?»), ha risposto che «il modello sociale europeo è già andato, quando vediamo i tassi di disoccupazione giovanile in alcuni Paesi».
Il posto fisso; permettersi di «pagare tutti per non lavorare» (come l'economista Dornbusch usava dire degli europei); spesa in deficit ed elevati debiti pubblici. Questo modello di Europa è finito. «Non possiamo - spiega Draghi - avere un sistema in cui tu spendi quanto vuoi, e poi chiedi di emettere debito insieme. Non puoi avere un sistema in cui tu spendi e io pago per te. Prima di andare verso l'unione fiscale, dobbiamo avere un sistema in cui i Paesi possono mostrare di stare in piedi da soli. Questo è il prerequisito per cui i Paesi si fidino l'uno dell'altro».
«Non c'è alternativa al consolidamento fiscale», avverte quindi Draghi nell'intervista, aggiungendo che «la contrazione dell'economia nel breve termine» provocata dalle politiche di austerità «sarà seguita da una crescita sostenibile nel lungo termine solo se verranno messe in atto le riforme strutturali» per la crescita. Secondo il presidente della Banca centrale europea, servono innanzitutto riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e una riforma del mercato del lavoro, per renderlo «più flessibile e più giusto», superando il «dualismo» tra contratti troppo precari per i giovani e lavoratori iper-protetti. Oggi il mercato del lavoro è «iniquo», proprio perché «tutto il peso della flessibilità grava sulla parte giovane della popolazione».
Ma c'è modo e modo di consolidare i bilanci pubblici, c'è un'austerità "buona" e una "cattiva". Un «buon» consolidamento di bilancio, osserva Draghi, è «quello in cui le tasse sono più basse» e si taglia la spesa pubblica. Ma «in effetti il cattivo consolidamento è più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri alzando le tasse e tagliando la spesa per investimenti, che è più facile da fare che tagliare la spesa corrente. In un certo senso è la via più facile, ma non la migliore, perché deprime il potenziale di crescita». E il governo Monti, quale delle due austerità, quella buona o quella cattiva, sta perseguendo?
Il posto fisso; permettersi di «pagare tutti per non lavorare» (come l'economista Dornbusch usava dire degli europei); spesa in deficit ed elevati debiti pubblici. Questo modello di Europa è finito. «Non possiamo - spiega Draghi - avere un sistema in cui tu spendi quanto vuoi, e poi chiedi di emettere debito insieme. Non puoi avere un sistema in cui tu spendi e io pago per te. Prima di andare verso l'unione fiscale, dobbiamo avere un sistema in cui i Paesi possono mostrare di stare in piedi da soli. Questo è il prerequisito per cui i Paesi si fidino l'uno dell'altro».
«Non c'è alternativa al consolidamento fiscale», avverte quindi Draghi nell'intervista, aggiungendo che «la contrazione dell'economia nel breve termine» provocata dalle politiche di austerità «sarà seguita da una crescita sostenibile nel lungo termine solo se verranno messe in atto le riforme strutturali» per la crescita. Secondo il presidente della Banca centrale europea, servono innanzitutto riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e una riforma del mercato del lavoro, per renderlo «più flessibile e più giusto», superando il «dualismo» tra contratti troppo precari per i giovani e lavoratori iper-protetti. Oggi il mercato del lavoro è «iniquo», proprio perché «tutto il peso della flessibilità grava sulla parte giovane della popolazione».
Ma c'è modo e modo di consolidare i bilanci pubblici, c'è un'austerità "buona" e una "cattiva". Un «buon» consolidamento di bilancio, osserva Draghi, è «quello in cui le tasse sono più basse» e si taglia la spesa pubblica. Ma «in effetti il cattivo consolidamento è più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri alzando le tasse e tagliando la spesa per investimenti, che è più facile da fare che tagliare la spesa corrente. In un certo senso è la via più facile, ma non la migliore, perché deprime il potenziale di crescita». E il governo Monti, quale delle due austerità, quella buona o quella cattiva, sta perseguendo?
Wednesday, February 22, 2012
Pasticcio diplomatico
Si stanno impegnando, «ogni minuto» e con il «massimo sforzo», usando tutti i «canali» a disposizione. Lo ha assicurato oggi il premier Monti, come ieri il ministro Terzi alle Commissioni Affari esteri di Camera e Senato. Nessuno può dubitarne e per non turbare i delicati negoziati in corso ha certamente senso l'appello al riserbo, alla riservatezza, a moderare i toni e a non dividerci in polemiche che servirebbero ben poco a riportare a casa i nostri due marò imprigionati in India.
Il governo quindi non ha riferito alle Camere, né il ministro degli Esteri ha offerto una ricostruzione dei fatti alle commissioni competenti. E i parlamentari hanno tutti rispettato la consegna del silenzio. Ok, silenzio. Oggi niente polemiche perché la priorità è «riportare a casa i nostri ragazzi». Quando saranno tornati - speriamo presto - porre certe scomode domande non avrà più senso e il caso verrà archiviato tra le lacrime delle famiglie che potranno riabbracciarli e i complimenti per il successo della nostra diplomazia (dietro riscatto economico, come al solito).
Non sapremo mai, insomma, quale autorità italiana ha ordinato ai nostri militari di scendere dalla Enrica Lexie e di consegnarsi alle autorità indiane; se qualche autorità italiana ha caldeggiato la decisione del comandante della petroliera di uscire dalle acque internazionali, contro il parere della Marina militare; né a quale livello governativo queste decisioni sono state condivise. Il caso viene trattato mediaticamente come un qualsiasi caso di sequestro, con tanto di gigantografie in Campidoglio; i politici cercano di fare bella figura con ansiosi e patriottici comunicati pieni di ovvietà sull'imperativo di «riportare a casa i nostri ragazzi».
Tutti sembrano aver già perso il bandolo della matassa. L'amara realtà è che questo caso non può essere rubricato alla voce nostri connazionali caduti nelle mani dei pirati somali o di organizzazioni terroristiche, ma alla voce sono proprio tonti questi italiani. Primo, i nostri due militari sono stati consegnati alle autorità indiane, un fatto, credo, senza precedenti nella storia militare recente, e come sia stato possibile non è dato saperlo, nessuno lo dice e nessuno lo chiede; secondo, l'India è un Paese amico, cui vengono riconosciuti dalla comunità internazionale gli standard della democrazia e dello stato di diritto. Insomma, alla base non c'è l'atto criminale di un'entità nemica, ma un nostro «atto di imbecillità».
Uno dei riflessi condizionati della politica in questi casi è di andare alla ricerca della legge sbagliata, che non funziona. Serve una nuova legge, è la risposta istintiva di un "sistema" che sa ragionare solo in termini burocratici. Non ci si chiede nemmeno se il difetto sta davvero nelle norme o se per caso qualcuno ha semplicemente agito male, con leggerezza. Mentre politici e commentatori cominciano a mettere in discussione la legge che regola la presenza di militari a bordo delle navi mercantili con funzioni di scorta anti-pirateria (i pirati ringraziano), nessuno pone un paio di domande elementari: il comandante della Lexie ha preso in assoluta solitudine la decisione di entrare in acque territoriali indiane? E una volta dentro, chi ha ordinato ai militari italiani di consegnarsi? Già il fatto che siano due e non tutti quelli presenti a bordo fa supporre l'esistenza di una trattativa della primissima ora con le autorità indiane. Condotta da chi?
In assenza di ricostruzioni ufficiali dei fatti, ripropongo la mia ipotesi: qualche nostro diplomatico annoiato ha voluto farsi bello sulla pelle dei nostri marò, convinto che sarebbe stato in grado di risolvere la grana diplomatica in poche ore, ricavandone molti onori, in patria e agli occhi degli amici indiani. E a Roma la Farnesina deve aver avallato tale soluzione apparendo così saggia e amichevole. D'altronde, sul modo in cui viene selezionato il nostro corpo diplomatico è lecito sollevare più di qualche dubbio dopo il caso del console fascio-rock Vattani. No, meglio non fare troppe domane. Potremmo scoprire che le vite dei nostri militari all'estero sono nelle mani di qualche console raccomandato.
Il governo quindi non ha riferito alle Camere, né il ministro degli Esteri ha offerto una ricostruzione dei fatti alle commissioni competenti. E i parlamentari hanno tutti rispettato la consegna del silenzio. Ok, silenzio. Oggi niente polemiche perché la priorità è «riportare a casa i nostri ragazzi». Quando saranno tornati - speriamo presto - porre certe scomode domande non avrà più senso e il caso verrà archiviato tra le lacrime delle famiglie che potranno riabbracciarli e i complimenti per il successo della nostra diplomazia (dietro riscatto economico, come al solito).
Non sapremo mai, insomma, quale autorità italiana ha ordinato ai nostri militari di scendere dalla Enrica Lexie e di consegnarsi alle autorità indiane; se qualche autorità italiana ha caldeggiato la decisione del comandante della petroliera di uscire dalle acque internazionali, contro il parere della Marina militare; né a quale livello governativo queste decisioni sono state condivise. Il caso viene trattato mediaticamente come un qualsiasi caso di sequestro, con tanto di gigantografie in Campidoglio; i politici cercano di fare bella figura con ansiosi e patriottici comunicati pieni di ovvietà sull'imperativo di «riportare a casa i nostri ragazzi».
Tutti sembrano aver già perso il bandolo della matassa. L'amara realtà è che questo caso non può essere rubricato alla voce nostri connazionali caduti nelle mani dei pirati somali o di organizzazioni terroristiche, ma alla voce sono proprio tonti questi italiani. Primo, i nostri due militari sono stati consegnati alle autorità indiane, un fatto, credo, senza precedenti nella storia militare recente, e come sia stato possibile non è dato saperlo, nessuno lo dice e nessuno lo chiede; secondo, l'India è un Paese amico, cui vengono riconosciuti dalla comunità internazionale gli standard della democrazia e dello stato di diritto. Insomma, alla base non c'è l'atto criminale di un'entità nemica, ma un nostro «atto di imbecillità».
Uno dei riflessi condizionati della politica in questi casi è di andare alla ricerca della legge sbagliata, che non funziona. Serve una nuova legge, è la risposta istintiva di un "sistema" che sa ragionare solo in termini burocratici. Non ci si chiede nemmeno se il difetto sta davvero nelle norme o se per caso qualcuno ha semplicemente agito male, con leggerezza. Mentre politici e commentatori cominciano a mettere in discussione la legge che regola la presenza di militari a bordo delle navi mercantili con funzioni di scorta anti-pirateria (i pirati ringraziano), nessuno pone un paio di domande elementari: il comandante della Lexie ha preso in assoluta solitudine la decisione di entrare in acque territoriali indiane? E una volta dentro, chi ha ordinato ai militari italiani di consegnarsi? Già il fatto che siano due e non tutti quelli presenti a bordo fa supporre l'esistenza di una trattativa della primissima ora con le autorità indiane. Condotta da chi?
In assenza di ricostruzioni ufficiali dei fatti, ripropongo la mia ipotesi: qualche nostro diplomatico annoiato ha voluto farsi bello sulla pelle dei nostri marò, convinto che sarebbe stato in grado di risolvere la grana diplomatica in poche ore, ricavandone molti onori, in patria e agli occhi degli amici indiani. E a Roma la Farnesina deve aver avallato tale soluzione apparendo così saggia e amichevole. D'altronde, sul modo in cui viene selezionato il nostro corpo diplomatico è lecito sollevare più di qualche dubbio dopo il caso del console fascio-rock Vattani. No, meglio non fare troppe domane. Potremmo scoprire che le vite dei nostri militari all'estero sono nelle mani di qualche console raccomandato.
Tuesday, February 21, 2012
Le promesse molto berlusconiane di Monti
Ah, l'avesse fatto un governo politico di promettere sgravi fiscali per la legislatura successiva. Qualche giornale nei giorni scorsi ha voluto far passare la notizia - smentita oggi - che i proventi della lotta all'evasione sarebbero stati restituiti ai contribuenti sotto forma di un taglio dell'aliquota Irpef minima dal 23 al 20%. Oggi Monti ha smentito: non ci sarà alcuna riduzione delle tasse. Nel decreto fiscale che il governo è in procinto di varare ci saranno solo «semplificazioni». Per carità, importanti anche quelle, ma niente riduzioni.
Il premier ritiene che i «robusti benefici» previsti dalla lotta all'evasione debbano «rifluire in beneficio per la collettività». Ma per «beneficio» intende innanzitutto una finanza pubblica «più sicura e solida», e solo «in parte» un «beneficio quantitativo» per i contribuenti «onesti». Un «beneficio quantitativo» per i contribuenti privati e le imprese è già quello di «un sistema fiscale più semplice». E su questo dovrebbe intervenire il decreto di venerdì. Per quanto riguarda invece «un ristoro e un ristorno quantitativo dei benefici dall'evasione bisogna aspettare un momento».
Per il momento, annuncia Monti, «potremmo, forse, venerdì nel prossimo Consiglio dei ministri, istituire un fondo dove far confluire i ricavi dalla lotta all'evasione, in attesa di verificare la loro entità e la loro destinazione». Un fondo con i proventi anti-evasione del 2012 e del 2013 (a proposito, dove sono finiti gli 11 miliardi recuperati nel 2011?) da usare, eventualmente, a partire dal 2014, ma comunque solo in parte, per sgravi fiscali. Sull'entità d'accordo, ma perché non si può stabilire sin d'ora - che siano un miliardo o 20 miliardi - che vengano tutti destinati a pagare meno tasse? Semplicemente perché lo Stato vuole riservarsi il diritto di usarli per coprire ulteriori buchi di bilancio o nuove spese. Inoltre, si tratterebbe di detrazioni fiscali una tantum, e non potrebbe essere altrimenti, perché sarebbe rischioso mettere a bilancio un recupero di evasione che l'anno successivo potrebbe non verificarsi, e quindi su introiti incerti prevedere un taglio strutturale. Inutile dire che qualche detrazione una tantum non avrebbe alcun effetto in termini di crescita, proprio per la sua natura occasionale e non strutturale.
Insomma, per farla breve: al netto delle semplificazioni Monti ci sta promettendo che forse, ma solo forse, dal 2014 sarà possibile destinare (non automaticamente, ma se il governo così deciderà) «parte» dei proventi della lotta all'evasione 2012-2013 in detrazioni una tantum. Considerando che gli 11 miliardi raccolti nel 2011 sono già spariti, ora chiedetevi se risponde al vero l'affermazione secondo cui la lotta all'evasione serve a pagare meno tasse.
Il premier ritiene che i «robusti benefici» previsti dalla lotta all'evasione debbano «rifluire in beneficio per la collettività». Ma per «beneficio» intende innanzitutto una finanza pubblica «più sicura e solida», e solo «in parte» un «beneficio quantitativo» per i contribuenti «onesti». Un «beneficio quantitativo» per i contribuenti privati e le imprese è già quello di «un sistema fiscale più semplice». E su questo dovrebbe intervenire il decreto di venerdì. Per quanto riguarda invece «un ristoro e un ristorno quantitativo dei benefici dall'evasione bisogna aspettare un momento».
Per il momento, annuncia Monti, «potremmo, forse, venerdì nel prossimo Consiglio dei ministri, istituire un fondo dove far confluire i ricavi dalla lotta all'evasione, in attesa di verificare la loro entità e la loro destinazione». Un fondo con i proventi anti-evasione del 2012 e del 2013 (a proposito, dove sono finiti gli 11 miliardi recuperati nel 2011?) da usare, eventualmente, a partire dal 2014, ma comunque solo in parte, per sgravi fiscali. Sull'entità d'accordo, ma perché non si può stabilire sin d'ora - che siano un miliardo o 20 miliardi - che vengano tutti destinati a pagare meno tasse? Semplicemente perché lo Stato vuole riservarsi il diritto di usarli per coprire ulteriori buchi di bilancio o nuove spese. Inoltre, si tratterebbe di detrazioni fiscali una tantum, e non potrebbe essere altrimenti, perché sarebbe rischioso mettere a bilancio un recupero di evasione che l'anno successivo potrebbe non verificarsi, e quindi su introiti incerti prevedere un taglio strutturale. Inutile dire che qualche detrazione una tantum non avrebbe alcun effetto in termini di crescita, proprio per la sua natura occasionale e non strutturale.
Insomma, per farla breve: al netto delle semplificazioni Monti ci sta promettendo che forse, ma solo forse, dal 2014 sarà possibile destinare (non automaticamente, ma se il governo così deciderà) «parte» dei proventi della lotta all'evasione 2012-2013 in detrazioni una tantum. Considerando che gli 11 miliardi raccolti nel 2011 sono già spariti, ora chiedetevi se risponde al vero l'affermazione secondo cui la lotta all'evasione serve a pagare meno tasse.
La malafede indiana e l'indecenza della Farnesina
Una vicenda, quella dei due marò fatti prigionieri in India, che più che «ingarbugliata», come commenta il presidente Napolitano, appare scandalosa, ed emblematica dello scarso rispetto delle istituzioni per la vita dei nostri militari, giocata come carta diplomatica. Scandalosi innanzitutto il comportamento pusillanime e la reticenza delle autorità italiane e della stampa nazionale. Ci fosse stato Frattini a capo della Farnesina, sarebbe stato letteralmente bersagliato di accuse e domande, mentre il ministro Terzi gode dell'innamoramento dei grandi giornali per il governo dei tecnici. Non è pensabile che i due militari italiani abbiano deciso di testa propria, dunque quale autorità italiana ha ordinato loro di scendere a terra e consegnarsi? Quale autorità italiana ha caldeggiato la decisione del comandante della petroliera Enrica Lexie di entrare nel porto di Kochi, contro il parere della Marina militare? E a quale livello governativo queste decisioni sono state condivise?
La Farnesina parla di «azioni unilaterali» della polizia indiana. Cosa significa? La polizia indiana è salita a bordo della Lexie per prelevarli, o i due marò sono scesi a terra e si sono consegnati? Non è stata la stessa Farnesina, in precedenza, a definire la nostra collaborazione un «semplice atto di cortesia» nei confronti del governo indiano? Domande inevase fino ad oggi e addirittua mai poste dalla stampa mainstream, ma solo da Notapolitca e Il Foglio. In assenza di una ricostruzione precisa e ufficiale degli eventi da parte della Farnesina, e nel totale - e molto sospetto - rifiuto delle autorità indiane di esibire persino le prove più basilari, non ci rimane che pensar male.
Primo: più che un «atto di cortesia» si è trattato di un «atto di imbecillità». Qualche nostro diplomatico annoiato ha voluto farsi bello con l'India sulla pelle dei nostri marò, convinto che sarebbe stato in grado di risolvere la grana diplomatica in poche ore, ricavandone molti onori. Difficilmente la decisione di collaborare con le autorità indiane, e quindi di consegnare i militari, apparentemente così saggia e amichevole, non è stata avallata anche da Roma, dalla Farnesina, in contrasto con la Difesa.
Secondo: se le autorità indiane si rifiutano di esibire il peschereccio bucherellato di colpi, i cadaveri dei pescatori, l'esito dell'autopsia e i proiettili, è d'obbligo dubitare dell'intera versione. Dunque, dove sono questi presunti "pescatori"? Possibile che anche le nostre autorità e la nostra stampa invece di attenersi alla versione dei nostri militari insistano a parlare di «pescatori indiani» di cui finora non s'è vista nemmeno l'ombra? Per quanto ci riguarda, e fino a prova contraria, c'è stato un tentato atto di pirateria ai danni di un'imbarcazione battente bandiera italiana. E gli autori potrebbero essere gli stessi che poche ore dopo hanno tentato di attaccare un cargo greco. Insomma, qui di sicuro ci sono solo due attacchi di pirateria, altro che pescatori. E chi ci dice che non siano proprio loro i pirati? D'altra parte, è sufficiente gettare le armi in mare per trasformarsi da pirati in innocui pescatori.
Dunque, la questione andrebbe posta in altri termini con l'India: com'è possibile che i pirati operino indisturbati a 20 miglia dalle coste indiane? Godono per caso di qualche copertura da parte delle autorità costiere? Non è forse che con l'arresto dei due marò le autorità indiane stanno cercando di insabbiare il fatto che al largo delle loro coste si verificano attacchi di pirateria? O peggio: non riesco proprio a pensare a nessun altro incidente che i pirati, in combutta con le autorità costiere, potrebbero escogitare per dissuadere gli Stati dall'assegnare forze militari a protezione delle navi mercantili.
La Farnesina parla di «azioni unilaterali» della polizia indiana. Cosa significa? La polizia indiana è salita a bordo della Lexie per prelevarli, o i due marò sono scesi a terra e si sono consegnati? Non è stata la stessa Farnesina, in precedenza, a definire la nostra collaborazione un «semplice atto di cortesia» nei confronti del governo indiano? Domande inevase fino ad oggi e addirittua mai poste dalla stampa mainstream, ma solo da Notapolitca e Il Foglio. In assenza di una ricostruzione precisa e ufficiale degli eventi da parte della Farnesina, e nel totale - e molto sospetto - rifiuto delle autorità indiane di esibire persino le prove più basilari, non ci rimane che pensar male.
Primo: più che un «atto di cortesia» si è trattato di un «atto di imbecillità». Qualche nostro diplomatico annoiato ha voluto farsi bello con l'India sulla pelle dei nostri marò, convinto che sarebbe stato in grado di risolvere la grana diplomatica in poche ore, ricavandone molti onori. Difficilmente la decisione di collaborare con le autorità indiane, e quindi di consegnare i militari, apparentemente così saggia e amichevole, non è stata avallata anche da Roma, dalla Farnesina, in contrasto con la Difesa.
Secondo: se le autorità indiane si rifiutano di esibire il peschereccio bucherellato di colpi, i cadaveri dei pescatori, l'esito dell'autopsia e i proiettili, è d'obbligo dubitare dell'intera versione. Dunque, dove sono questi presunti "pescatori"? Possibile che anche le nostre autorità e la nostra stampa invece di attenersi alla versione dei nostri militari insistano a parlare di «pescatori indiani» di cui finora non s'è vista nemmeno l'ombra? Per quanto ci riguarda, e fino a prova contraria, c'è stato un tentato atto di pirateria ai danni di un'imbarcazione battente bandiera italiana. E gli autori potrebbero essere gli stessi che poche ore dopo hanno tentato di attaccare un cargo greco. Insomma, qui di sicuro ci sono solo due attacchi di pirateria, altro che pescatori. E chi ci dice che non siano proprio loro i pirati? D'altra parte, è sufficiente gettare le armi in mare per trasformarsi da pirati in innocui pescatori.
Dunque, la questione andrebbe posta in altri termini con l'India: com'è possibile che i pirati operino indisturbati a 20 miglia dalle coste indiane? Godono per caso di qualche copertura da parte delle autorità costiere? Non è forse che con l'arresto dei due marò le autorità indiane stanno cercando di insabbiare il fatto che al largo delle loro coste si verificano attacchi di pirateria? O peggio: non riesco proprio a pensare a nessun altro incidente che i pirati, in combutta con le autorità costiere, potrebbero escogitare per dissuadere gli Stati dall'assegnare forze militari a protezione delle navi mercantili.
Monday, February 20, 2012
Monti seguirà la rivoluzione spagnola?
Anche su Notapolitica
Oggi governo e parti sociali tornano ad incontrarsi, per la quarta volta ufficialmente, sulla riforma del lavoro. Il tempo stringe, la fine di marzo è la deadline per il varo della riforma su cui il governo si è impegnato, anche in sede europea. Il «massimo consenso» delle parti sociali è auspicato, ma la riforma s'ha da fare, con o senza accordo (o solo parziale), e «nel volgere di poche settimane». Il nodo resta quello dell'articolo 18, con Cisl e Uil più aperte ad ipotesi di «manutenzione» e Cgil nettamente contraria, anche se non fino al punto di interrompere la trattativa sugli altri temi. Mentre il «dialogo» prosegue, il mondo intorno a noi, che già non conosceva l'anomalia tutta italiana dell'articolo 18, è già cambiato o sta velocemente cambiando. Abbiamo scelto gli esempi di Germania e Spagna. I tedeschi perché sono i nostri principali competitor nell'export e rappresentano la best practice di riferimento in termini di produttività, gli spagnoli perché condividono con noi cultura e vocazione mediterranea, ma anche la prima linea nell'attuale crisi del debito.
SPAGNA – In soli due mesi il governo spagnolo di Mariano Rajoy ha varato la sua riforma del lavoro (e forse di questo Monti parlerà con il collega di Madrid quando giovedì verrà a Roma) per combattere una disoccupazione che sfiora il 23% e aumentare la mobilità in un mercato che pur non conoscendo l'obbligo di reintegro soffre di un dualismo comunque eccessivo tra lavoratori "iper protetti" e "iper precari".
La flessibilità in uscita quindi è stata ulteriormente accentuata, abbassando il costo dei licenziamenti. Le indennità di licenziamento senza giusta causa per i contratti ordinari a tempo indeterminato sono state tagliate da 45 a 33 giorni per ogni anno d'impiego, fino a un massimo di 24 mesi anziché di 42. Più facili i licenziamenti per causa oggettiva, cosiddetti "low cost", cioè per problemi economici. Le aziende potranno farvi ricorso qualora registrino perdite, «cadute delle entrate o vendite», durante tre trimestri consecutivi e dovranno corrispondere al lavoratore un'indennità di 20 giorni per anno lavorato fino a un massimo di 12 mensilità. L'obiettivo, in un momento di crisi, è agevolare i processi di ristrutturazione delle imprese, secondo la logica che un ridimensionamento e una riorganizzazione sono preferibili alla chiusura di un'attività. Per questo la riforma favorisce anche la contrattazione aziendale a scapito di quella nazionale o regionale. Le imprese in crisi, infatti, potranno letteralmente sganciarsi dai contratti collettivi di settore, ricontrattando con i propri dipendenti tempi di lavoro, funzioni e retribuzioni.
La riforma non ha risparmiato il pubblico impiego. Enti, organizzazioni o entità della pubblica amministrazione, infatti, qualora per nove mesi si trovino in deficit di bilancio potranno licenziare i dipendenti privi della qualifica di «funzionario» senza filtro giudiziale, ma corrispondendo loro un'indennità uguale a quella che spetta ai dipendenti del settore privato. Una norma che interessa 685 mila lavoratori sul totale dei dipendenti pubblici spagnoli, che sono 3,1 milioni. Di fatto, in realtà, di questi 685 mila solo una minima parte, circa 100 mila, ha un contratto a tempo indeterminato, mentre gli altri avendo un contratto a termine o precario erano già licenziabili. Dunque, la norma ha più che altro un valore simbolico, infrange il tabù dell'intangibilità del posto di lavoro pubblico, ora a rischio non solo per motivi disciplinari ma anche per motivi economici e organizzativi delle amministrazioni pubbliche.
GERMANIA – Se in Spagna la legislazione del lavoro sta rapidamente cambiando, in Germania le riforme Hartz (ex capo del personale Volkswagen) hanno ristrutturato mercato del lavoro e welfare nel 2002-2003 e, insieme ad un abbattimento di spesa pubblica e tasse di oltre 6 punti di Pil, hanno già prodotto i loro frutti. Da una disoccupazione record del 10% (con punte del 18% nella ex Germania Est) si è passati al 5,5% del gennaio di quest'anno. In Germania di fronte ai licenziamenti senza giusta causa, laddove il lavoratore ricorra alla tutela giudiziale, il reintegro è solo un'opzione, non un obbligo per i giudici, che infatti optano per l'indennizzo. Il lavoratore che rinuncia subito al ricorso riceve un risarcimento pari alla metà dello stipendio mensile per ogni anno di lavoro svolto. In Italia a spaventare le imprese non c'è solo la mancanza di un'alternativa al reintegro, ma soprattutto l'assenza di un tetto all'eventuale risarcimento del danno, per cui il datore non può prevedere il rischio massimo in caso di sconfitta in giudizio, data la durata incerta delle cause.
Tornando alle riforme Hartz, il sussidio di disoccupazione, a carico per lo più delle imprese, è stato ridotto da 32 mesi ad un range da un minimo di 12 ad un massimo di 18 mesi, in base all'anzianità lavorativa, per un importo pari al 60% del salario (67% con figli a carico). Il diritto al sussidio decade se il lavoratore rifiuta una nuova occupazione e non è più cumulabile, come in precedenza, con l'assegno sociale di indigenza, a carico della fiscalità generale. Per ridurre la precarietà i tedeschi non hanno abolito i contratti atipici istituendo un contratto unico a tutele crescenti, come alcuni vorrebbero in Italia, né hanno elevato il loro costo fiscale e contributivo per renderli svantaggiosi, perché ciò avrebbe semplicemente fatto perdere quei posti di lavoro, o li avrebbe costretti a sopravvivere in nero. E' stata invece innalzata fino a 400 euro la quota di salario completamente defiscalizzata, mentre fino a 800 euro l'aliquota fiscale e contribuitiva è del 10%.
ITALIA – Per l'Italia, che si accinge ora a riformare il mercato del lavoro e il welfare, seguire questi esempi non è una questione di principio – siccome lo fanno gli altri è giusto che ci adeguiamo anche noi – ma di necessità economica: se il nostro sistema rimarrà anche solo di poco più rigido rispetto a quello dei nostri competitor più vicini a noi, culturalmente (gli spagnoli) o per capacità di export (i tedeschi), gli investimenti tenderanno a confluire da loro. Persino le imprese italiane potrebbero ritenere più conveniente spostare le loro produzioni in Spagna.
L'impressione è che ormai l'articolo 18 – la cui modifica è una delle richieste avanzate esplicitamente dalla comunità finanziaria americana a Monti – subirà una qualche forma di «manutenzione». Ma il rischio è che l'esigenza politica del governo di riuscirci se non con l'accordo, almeno senza umiliare i sindacati e il Pd, produca un compromesso al ribasso. Per esempio, la mera sospensione in via sperimentale, e limitata alle nuove assunzioni, dell'obbligo di reintegro nei casi di licenziamento per motivi economici; l'introduzione, in cambio, di un contratto unico a tempo indeterminato, invece di limitarsi a semplificare la selva di contratti atipici; un sussidio di disoccupazione troppo generoso per costo e durata.
Oggi governo e parti sociali tornano ad incontrarsi, per la quarta volta ufficialmente, sulla riforma del lavoro. Il tempo stringe, la fine di marzo è la deadline per il varo della riforma su cui il governo si è impegnato, anche in sede europea. Il «massimo consenso» delle parti sociali è auspicato, ma la riforma s'ha da fare, con o senza accordo (o solo parziale), e «nel volgere di poche settimane». Il nodo resta quello dell'articolo 18, con Cisl e Uil più aperte ad ipotesi di «manutenzione» e Cgil nettamente contraria, anche se non fino al punto di interrompere la trattativa sugli altri temi. Mentre il «dialogo» prosegue, il mondo intorno a noi, che già non conosceva l'anomalia tutta italiana dell'articolo 18, è già cambiato o sta velocemente cambiando. Abbiamo scelto gli esempi di Germania e Spagna. I tedeschi perché sono i nostri principali competitor nell'export e rappresentano la best practice di riferimento in termini di produttività, gli spagnoli perché condividono con noi cultura e vocazione mediterranea, ma anche la prima linea nell'attuale crisi del debito.
SPAGNA – In soli due mesi il governo spagnolo di Mariano Rajoy ha varato la sua riforma del lavoro (e forse di questo Monti parlerà con il collega di Madrid quando giovedì verrà a Roma) per combattere una disoccupazione che sfiora il 23% e aumentare la mobilità in un mercato che pur non conoscendo l'obbligo di reintegro soffre di un dualismo comunque eccessivo tra lavoratori "iper protetti" e "iper precari".
La flessibilità in uscita quindi è stata ulteriormente accentuata, abbassando il costo dei licenziamenti. Le indennità di licenziamento senza giusta causa per i contratti ordinari a tempo indeterminato sono state tagliate da 45 a 33 giorni per ogni anno d'impiego, fino a un massimo di 24 mesi anziché di 42. Più facili i licenziamenti per causa oggettiva, cosiddetti "low cost", cioè per problemi economici. Le aziende potranno farvi ricorso qualora registrino perdite, «cadute delle entrate o vendite», durante tre trimestri consecutivi e dovranno corrispondere al lavoratore un'indennità di 20 giorni per anno lavorato fino a un massimo di 12 mensilità. L'obiettivo, in un momento di crisi, è agevolare i processi di ristrutturazione delle imprese, secondo la logica che un ridimensionamento e una riorganizzazione sono preferibili alla chiusura di un'attività. Per questo la riforma favorisce anche la contrattazione aziendale a scapito di quella nazionale o regionale. Le imprese in crisi, infatti, potranno letteralmente sganciarsi dai contratti collettivi di settore, ricontrattando con i propri dipendenti tempi di lavoro, funzioni e retribuzioni.
La riforma non ha risparmiato il pubblico impiego. Enti, organizzazioni o entità della pubblica amministrazione, infatti, qualora per nove mesi si trovino in deficit di bilancio potranno licenziare i dipendenti privi della qualifica di «funzionario» senza filtro giudiziale, ma corrispondendo loro un'indennità uguale a quella che spetta ai dipendenti del settore privato. Una norma che interessa 685 mila lavoratori sul totale dei dipendenti pubblici spagnoli, che sono 3,1 milioni. Di fatto, in realtà, di questi 685 mila solo una minima parte, circa 100 mila, ha un contratto a tempo indeterminato, mentre gli altri avendo un contratto a termine o precario erano già licenziabili. Dunque, la norma ha più che altro un valore simbolico, infrange il tabù dell'intangibilità del posto di lavoro pubblico, ora a rischio non solo per motivi disciplinari ma anche per motivi economici e organizzativi delle amministrazioni pubbliche.
GERMANIA – Se in Spagna la legislazione del lavoro sta rapidamente cambiando, in Germania le riforme Hartz (ex capo del personale Volkswagen) hanno ristrutturato mercato del lavoro e welfare nel 2002-2003 e, insieme ad un abbattimento di spesa pubblica e tasse di oltre 6 punti di Pil, hanno già prodotto i loro frutti. Da una disoccupazione record del 10% (con punte del 18% nella ex Germania Est) si è passati al 5,5% del gennaio di quest'anno. In Germania di fronte ai licenziamenti senza giusta causa, laddove il lavoratore ricorra alla tutela giudiziale, il reintegro è solo un'opzione, non un obbligo per i giudici, che infatti optano per l'indennizzo. Il lavoratore che rinuncia subito al ricorso riceve un risarcimento pari alla metà dello stipendio mensile per ogni anno di lavoro svolto. In Italia a spaventare le imprese non c'è solo la mancanza di un'alternativa al reintegro, ma soprattutto l'assenza di un tetto all'eventuale risarcimento del danno, per cui il datore non può prevedere il rischio massimo in caso di sconfitta in giudizio, data la durata incerta delle cause.
Tornando alle riforme Hartz, il sussidio di disoccupazione, a carico per lo più delle imprese, è stato ridotto da 32 mesi ad un range da un minimo di 12 ad un massimo di 18 mesi, in base all'anzianità lavorativa, per un importo pari al 60% del salario (67% con figli a carico). Il diritto al sussidio decade se il lavoratore rifiuta una nuova occupazione e non è più cumulabile, come in precedenza, con l'assegno sociale di indigenza, a carico della fiscalità generale. Per ridurre la precarietà i tedeschi non hanno abolito i contratti atipici istituendo un contratto unico a tutele crescenti, come alcuni vorrebbero in Italia, né hanno elevato il loro costo fiscale e contributivo per renderli svantaggiosi, perché ciò avrebbe semplicemente fatto perdere quei posti di lavoro, o li avrebbe costretti a sopravvivere in nero. E' stata invece innalzata fino a 400 euro la quota di salario completamente defiscalizzata, mentre fino a 800 euro l'aliquota fiscale e contribuitiva è del 10%.
ITALIA – Per l'Italia, che si accinge ora a riformare il mercato del lavoro e il welfare, seguire questi esempi non è una questione di principio – siccome lo fanno gli altri è giusto che ci adeguiamo anche noi – ma di necessità economica: se il nostro sistema rimarrà anche solo di poco più rigido rispetto a quello dei nostri competitor più vicini a noi, culturalmente (gli spagnoli) o per capacità di export (i tedeschi), gli investimenti tenderanno a confluire da loro. Persino le imprese italiane potrebbero ritenere più conveniente spostare le loro produzioni in Spagna.
L'impressione è che ormai l'articolo 18 – la cui modifica è una delle richieste avanzate esplicitamente dalla comunità finanziaria americana a Monti – subirà una qualche forma di «manutenzione». Ma il rischio è che l'esigenza politica del governo di riuscirci se non con l'accordo, almeno senza umiliare i sindacati e il Pd, produca un compromesso al ribasso. Per esempio, la mera sospensione in via sperimentale, e limitata alle nuove assunzioni, dell'obbligo di reintegro nei casi di licenziamento per motivi economici; l'introduzione, in cambio, di un contratto unico a tempo indeterminato, invece di limitarsi a semplificare la selva di contratti atipici; un sussidio di disoccupazione troppo generoso per costo e durata.
Friday, February 17, 2012
Nazionalismo alle vongole
La dice lunga sulla cultura giustizialista ormai straripante in Italia, e sul nostro provincialismo furbetto, il modo in cui sulla rete e sui social network sono state accolte le dimissioni del presidente tedesco Christian Wulff. Travolti anche coloro che fino a poche settimane fa facevano professione di garantismo, purché si trattasse di Berlusconi. Ecco, i tedeschi che fanno la morale agli altri popoli non sono affatto migliori di noi, è il tenore dei commenti. Ci sentiamo rinfrancati, illudendoci - come fa anche il direttore del Corriere De Bortoli sul suo profilo twitter - che la Germania «oggi è un po' più italiana». Alé! Italiana de che? Si sono forse dimessi il presidente Scalfaro e Berlusconi?
Ovviamente neanche prendiamo in considerazione che Wulff possa essersi dimesso per senso di responsabilità ma che sia innocente. L'ex presidente tedesco ammette di aver commesso degli errori «in buona fede», ma dichiara di non aver commesso illeciti e si dice sicuro di poterlo dimostrare. Noi italiani ormai assuefatti alle derive di casa nostra scambiamo le dimissioni per un'ammissione di colpevolezza, e tanto ci basta per goderci la nostra misera, provinciale rivalsa anti-tedesca.
Ma andiamoci piano con il motto "tutto il mondo è Paese", perché la Germania non è infettata da una corruzione sistemica come la nostra e la magistratura non è screditata dai suoi errori in mondovisione (do you remember Amanda Knox?) e dal suo fervore ideologico e politico. Dai noi si contano a centinaia le inchieste scoppiate come bolle di sapone, condotte con metodi discutibili e spesso contro una sola parte al solo scopo di difendere i privilegi e il potere di condizionamento della magistratura sulla politica. E' per questo corto circuito - malcostume politico diffuso e magistratura screditata - che difficilmente in Italia vedremo mai un politico dimettersi sulla base di un sospetto.
Però in queste ore il caso Wulff sembra avere l'effetto di un'amnistia di massa sui nostri peccati e di un grande colpo di spugna sui nostri debiti. Ma davvero può farci sentire in diritto di pensare che la Germania non è poi così diversa dall'Italia quanto a corruzione? Oppure che i tedeschi non abbiano titoli per pretendere politiche di austerità e di rientro dal nostro debito? Fortuna che ci siamo noi, in questa Europa di crucchi corrotti e di insulari molto superficiali. Eh sì, anche noi qualche volta ci ricordiamo dell'orgoglio patrio, peccato sia quasi sempre nazionalismo alle vongole. Massì, godiamocela questa misera rivalsa, perché durerà 5 minuti, poi torneremo alla realtà.
Ovviamente neanche prendiamo in considerazione che Wulff possa essersi dimesso per senso di responsabilità ma che sia innocente. L'ex presidente tedesco ammette di aver commesso degli errori «in buona fede», ma dichiara di non aver commesso illeciti e si dice sicuro di poterlo dimostrare. Noi italiani ormai assuefatti alle derive di casa nostra scambiamo le dimissioni per un'ammissione di colpevolezza, e tanto ci basta per goderci la nostra misera, provinciale rivalsa anti-tedesca.
Ma andiamoci piano con il motto "tutto il mondo è Paese", perché la Germania non è infettata da una corruzione sistemica come la nostra e la magistratura non è screditata dai suoi errori in mondovisione (do you remember Amanda Knox?) e dal suo fervore ideologico e politico. Dai noi si contano a centinaia le inchieste scoppiate come bolle di sapone, condotte con metodi discutibili e spesso contro una sola parte al solo scopo di difendere i privilegi e il potere di condizionamento della magistratura sulla politica. E' per questo corto circuito - malcostume politico diffuso e magistratura screditata - che difficilmente in Italia vedremo mai un politico dimettersi sulla base di un sospetto.
Però in queste ore il caso Wulff sembra avere l'effetto di un'amnistia di massa sui nostri peccati e di un grande colpo di spugna sui nostri debiti. Ma davvero può farci sentire in diritto di pensare che la Germania non è poi così diversa dall'Italia quanto a corruzione? Oppure che i tedeschi non abbiano titoli per pretendere politiche di austerità e di rientro dal nostro debito? Fortuna che ci siamo noi, in questa Europa di crucchi corrotti e di insulari molto superficiali. Eh sì, anche noi qualche volta ci ricordiamo dell'orgoglio patrio, peccato sia quasi sempre nazionalismo alle vongole. Massì, godiamocela questa misera rivalsa, perché durerà 5 minuti, poi torneremo alla realtà.
Riforma Di Paola un modello per la PA
Le polemiche su Sanremo e Celentano scaldano di più, ma in questi giorni è stata annunciata una seria riforma dello strumento militare, forse la prima riforma strutturale della spesa di questo governo. Un intervento di razionalizzazione come non se ne vedevano da anni e i cui principi guida - incredibile! - per una volta sono quelli giusti e, anzi, andrebbero estesi a tutto il resto della pubblica amministrazione: meno personale, più operatività e investimenti (quindi tecnologia). E' noto infatti come le nostre amministrazioni pubbliche a tutti i livelli assorbano troppe risorse per il personale - che spesso eccede le reali esigenze dell'ufficio, è pressoché inamovibile e sottoutilizzato - rimanendo invece carenti nelle loro funzionalità e negli investimenti.
Non fa eccezione la Difesa, che anzi ha un'aggravante: troppi generali e ufficiali, poca truppa. Intervenendo dinanzi alle Commissioni Difesa di Camera e Senato il ministro Giampaolo Di Paola ha innanzitutto riportato le reali grandezze del bilancio della difesa. La sua «incidenza» sul bilancio dello Stato è calata del 30% in dieci anni. La media europea di spesa per la «funzione difesa» rispetto al Pil è stata nel 2010 dell'1,61%, mentre in Italia dello 0,9%. E' prevista nei prossimi anni un'ulteriore contrazione del bilancio, ma a far soffrire il nostro strumento militare è soprattutto il suo strutturale sbilanciamento. Il ministro ha parlato di «ipertrofia dimensionale e ipotrofia funzionale». Se la spesa per il personale assorbe in media nei Paesi europei il 51% del bilancio della difesa, in Italia se ne porta via il 70%. Se in media si spendono 26 mila euro per militare, in Italia solo 16 mila. Qualsiasi struttura organizzativa che distribuisce in questo modo la propria spesa è «destinata a sprecare risorse senza produrre output», avverte il ministro e ammiraglio Di Paola. L'obiettivo quindi è arrivare gradualmente, in una decina d'anni, ad una distribuzione ritenuta ottimale del bilancio della difesa: il 50% destinato al personale, il 25% all'operatività e un altro 25% agli investimenti.
Ecco che il ministro Di Paola promette quindi di intervenire con il bisturi. Sia pure spalmate in dieci anni, le riduzioni di personale previste sono considerevoli: meno 33mila militari (da 183mila a 150mila) e meno 10mila impiegati civili (da 30mila a 20mila). Una riduzione pari a circa il 20% del personale totale, cui si arriva tagliando gli ingressi del 30%, ma anche attraverso le uscite. E i tagli riguarderanno in misura maggiore generali e ammiragli (-30%). Previsto anche il taglio del 20-30% delle strutture in 5-6 anni: dismissioni di caserme e basi militari e riduzione delle unità, seguendo la logica meno mezzi ma più tecnologici e rapidamente impiegabili.
Ciò che sembra contraddire le linee guida illustrate dal ministro (più investimenti e tecnologia) è il ridimensionamento di 1/3 del programma dei caccia multiruolo F-35. Qualcuno l'avrebbe voluto cancellare del tutto, senza considerare non solo che l'Italia è in prima fila nel progetto a livello industriale e quindi occupazionale, ma anche che questi aerei non andrebbero ad aggiungersi a quelli esistenti nella stessa classe, quella cioè dei cacciabombardieri, bensì a sostituirli perché obsoleti. Nell'arco dei prossimi anni infatti Tornado e Amx andranno in pensione e cancellare il programma degli F-35 avrebbe significato non sostituirli affatto, quindi rinuciare completamente alla componente aero-tattica, essenziale per qualsiasi struttura di difesa. Qui il ministro però ha concesso qualcosa alla demagogia e tagliato di circa il 30% il programma: verranno acquistati 90 caccia F-35 invece di 131 come previsto inizialmente. La spesa complessiva di 15 miliardi fino al 2026 si ridurrà così di 5 miliardi.
Gli altri settori e livelli della pubblica amministrazione non sono dotati degli stessi strumenti normativi per intervenire così incisivamente sul personale, ma ciò non toglie che lo schema 50-25-25 per distribuire la spesa tra personale, funzionalità e investimenti possa rappresentare anche per essi un modello ottimale verso cui tendere.
Non fa eccezione la Difesa, che anzi ha un'aggravante: troppi generali e ufficiali, poca truppa. Intervenendo dinanzi alle Commissioni Difesa di Camera e Senato il ministro Giampaolo Di Paola ha innanzitutto riportato le reali grandezze del bilancio della difesa. La sua «incidenza» sul bilancio dello Stato è calata del 30% in dieci anni. La media europea di spesa per la «funzione difesa» rispetto al Pil è stata nel 2010 dell'1,61%, mentre in Italia dello 0,9%. E' prevista nei prossimi anni un'ulteriore contrazione del bilancio, ma a far soffrire il nostro strumento militare è soprattutto il suo strutturale sbilanciamento. Il ministro ha parlato di «ipertrofia dimensionale e ipotrofia funzionale». Se la spesa per il personale assorbe in media nei Paesi europei il 51% del bilancio della difesa, in Italia se ne porta via il 70%. Se in media si spendono 26 mila euro per militare, in Italia solo 16 mila. Qualsiasi struttura organizzativa che distribuisce in questo modo la propria spesa è «destinata a sprecare risorse senza produrre output», avverte il ministro e ammiraglio Di Paola. L'obiettivo quindi è arrivare gradualmente, in una decina d'anni, ad una distribuzione ritenuta ottimale del bilancio della difesa: il 50% destinato al personale, il 25% all'operatività e un altro 25% agli investimenti.
Ecco che il ministro Di Paola promette quindi di intervenire con il bisturi. Sia pure spalmate in dieci anni, le riduzioni di personale previste sono considerevoli: meno 33mila militari (da 183mila a 150mila) e meno 10mila impiegati civili (da 30mila a 20mila). Una riduzione pari a circa il 20% del personale totale, cui si arriva tagliando gli ingressi del 30%, ma anche attraverso le uscite. E i tagli riguarderanno in misura maggiore generali e ammiragli (-30%). Previsto anche il taglio del 20-30% delle strutture in 5-6 anni: dismissioni di caserme e basi militari e riduzione delle unità, seguendo la logica meno mezzi ma più tecnologici e rapidamente impiegabili.
Ciò che sembra contraddire le linee guida illustrate dal ministro (più investimenti e tecnologia) è il ridimensionamento di 1/3 del programma dei caccia multiruolo F-35. Qualcuno l'avrebbe voluto cancellare del tutto, senza considerare non solo che l'Italia è in prima fila nel progetto a livello industriale e quindi occupazionale, ma anche che questi aerei non andrebbero ad aggiungersi a quelli esistenti nella stessa classe, quella cioè dei cacciabombardieri, bensì a sostituirli perché obsoleti. Nell'arco dei prossimi anni infatti Tornado e Amx andranno in pensione e cancellare il programma degli F-35 avrebbe significato non sostituirli affatto, quindi rinuciare completamente alla componente aero-tattica, essenziale per qualsiasi struttura di difesa. Qui il ministro però ha concesso qualcosa alla demagogia e tagliato di circa il 30% il programma: verranno acquistati 90 caccia F-35 invece di 131 come previsto inizialmente. La spesa complessiva di 15 miliardi fino al 2026 si ridurrà così di 5 miliardi.
Gli altri settori e livelli della pubblica amministrazione non sono dotati degli stessi strumenti normativi per intervenire così incisivamente sul personale, ma ciò non toglie che lo schema 50-25-25 per distribuire la spesa tra personale, funzionalità e investimenti possa rappresentare anche per essi un modello ottimale verso cui tendere.
Thursday, February 16, 2012
Esenzioni Imu, ambiguità rientrano dalla finestra?
Il governo ha annunciato un emendamento per chiarire, si spera una volta per tutte, l'area di esenzione dall'Imu riservata a tutti gli enti non commerciali, una questione che si tende a ridurre alle attività e ai privilegi della Chiesa ma che in realtà riguarda anche sindacati, partiti e in generale il settore no-profit. E' senz'altro un passo nella direzione giusta, che si deve anche alla disponibilità della Chiesa in un contesto economico che ha richiesto sacrifici da parte di tutti gli italiani, ma che forse dimostra anche come negli anni scorsi siano mancati interventi chiarificatori più per la sudditanza dei politici, ansiosi di accreditarsi oltretevere, che per l'intransigenza delle gerarchie ecclesiastiche nel rifiutare di affrontare il problema.
Detto questo, siccome pare che a Monti le cose basti annunciarle e tutti le danno per fatte, mi sono chiesto: i criteri indicati consentono davvero di risolvere in modo definitivo la questione? Sarò prevenuto, ma l'ambiguità rischia solo di spostarsi dall'infelice dizione di «attività non esclusivamente commerciale» al «rapporto proporzionale» che dovrà essere individuato tra attività commerciali e non all'interno di uno stesso immobile. Il comunicato del governo specifica che «l'esenzione fa riferimento agli immobili nei quali si svolge in modo esclusivo un'attività non commerciale», dunque stabilisce «l'abrogazione di norme che prevedono l'esenzione per immobili dove l'attività non commerciale non sia esclusiva, ma solo prevalente». E fin qui sarebbe perfetto: l'attività non commerciale dev'essere esclusiva per godere dell'esenzione sull'immobile. Se non fosse che si introducono altri due criteri che rischiano di contraddire i primi e di far rientrare dalla finestra la suddetta ambiguità. E cioè che se nello stesso immobile si svolgono attività sia commerciali che non, l'esenzione è «limitata alla sola frazione di unità nella quale si svolga l'attività di natura non commerciale». Dunque, si rende necessario un meccanismo di «individuazione del rapporto proporzionale tra attività commerciali e non commerciali esercitate all'interno di uno stesso immobile».
Poniamo il caso di un immobile di 100 mq dove si svolgano sia attività commerciali che non. Ebbene, si pagherà l'Imu solo sulla porzione utilizzata a fini commerciali. Ma come verrà calcolata, e soprattutto chi dovrà calcolarla? Mi pare che nel comunicato si parli di una «dichiarazione» del proprietario «vincolata a direttive rigorose stabilite dal Ministero dell'economia e delle finanze». Aspettiamo quindi di leggere il testo dell'emendamento.
Detto questo, siccome pare che a Monti le cose basti annunciarle e tutti le danno per fatte, mi sono chiesto: i criteri indicati consentono davvero di risolvere in modo definitivo la questione? Sarò prevenuto, ma l'ambiguità rischia solo di spostarsi dall'infelice dizione di «attività non esclusivamente commerciale» al «rapporto proporzionale» che dovrà essere individuato tra attività commerciali e non all'interno di uno stesso immobile. Il comunicato del governo specifica che «l'esenzione fa riferimento agli immobili nei quali si svolge in modo esclusivo un'attività non commerciale», dunque stabilisce «l'abrogazione di norme che prevedono l'esenzione per immobili dove l'attività non commerciale non sia esclusiva, ma solo prevalente». E fin qui sarebbe perfetto: l'attività non commerciale dev'essere esclusiva per godere dell'esenzione sull'immobile. Se non fosse che si introducono altri due criteri che rischiano di contraddire i primi e di far rientrare dalla finestra la suddetta ambiguità. E cioè che se nello stesso immobile si svolgono attività sia commerciali che non, l'esenzione è «limitata alla sola frazione di unità nella quale si svolga l'attività di natura non commerciale». Dunque, si rende necessario un meccanismo di «individuazione del rapporto proporzionale tra attività commerciali e non commerciali esercitate all'interno di uno stesso immobile».
Poniamo il caso di un immobile di 100 mq dove si svolgano sia attività commerciali che non. Ebbene, si pagherà l'Imu solo sulla porzione utilizzata a fini commerciali. Ma come verrà calcolata, e soprattutto chi dovrà calcolarla? Mi pare che nel comunicato si parli di una «dichiarazione» del proprietario «vincolata a direttive rigorose stabilite dal Ministero dell'economia e delle finanze». Aspettiamo quindi di leggere il testo dell'emendamento.
Un no senza disfattismi né moralismi
Su Notapolitica
Non mi sono mai iscritto, e non mi iscrivo neanche in questa occasione al partito dei disfattisti e degli anti-italiani, per i quali non siamo in grado di organizzare questo tipo di eventi, mioddio la corruzione, le cricche e via dicendo. Se la decisione del governo di non sostenere Roma2020 viene acclamata con simili demagogie, a ben vedere non sono certo queste le ragioni del no di Monti. Il problema cantieri, appalti, tangenti è del tutto secondario. Anzi, per quanto mi riguarda si può persino mettere nel conto un 30-40% di "cresta" sulle opere, quando c'è da costruire utili infrastrutture e da rilanciare l'immagine dell'Italia nel mondo. E' anche vero infatti che le Olimpiadi possono rappresentare una grande opportunità per una città e un Paese. Ma dietro le opportunità l'esperienza ci insegna che si annidano anche molti rischi. E ammettiamolo, obiettivamente in questo momento per l'Italia i rischi sono maggiori delle opportunità. Rischi che non possono essere archiviati alle voci disfattismo e pessimismo.
LEGGI TUTTO
Non mi sono mai iscritto, e non mi iscrivo neanche in questa occasione al partito dei disfattisti e degli anti-italiani, per i quali non siamo in grado di organizzare questo tipo di eventi, mioddio la corruzione, le cricche e via dicendo. Se la decisione del governo di non sostenere Roma2020 viene acclamata con simili demagogie, a ben vedere non sono certo queste le ragioni del no di Monti. Il problema cantieri, appalti, tangenti è del tutto secondario. Anzi, per quanto mi riguarda si può persino mettere nel conto un 30-40% di "cresta" sulle opere, quando c'è da costruire utili infrastrutture e da rilanciare l'immagine dell'Italia nel mondo. E' anche vero infatti che le Olimpiadi possono rappresentare una grande opportunità per una città e un Paese. Ma dietro le opportunità l'esperienza ci insegna che si annidano anche molti rischi. E ammettiamolo, obiettivamente in questo momento per l'Italia i rischi sono maggiori delle opportunità. Rischi che non possono essere archiviati alle voci disfattismo e pessimismo.
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Wednesday, February 15, 2012
Se Monti stramaledice gli inglesi
«Penso che sia estremamente possibile conciliare democrazia e integrazione, solamente una cultura insulare molto superficiale può ritenere ingenuamente che integrazione significhi un super Stato».Naturalmente nessuno dei "tutti pazzi per Mario" ha trovato questa battuta di Monti al Parlamento europeo (qui il video) lievemente irrispettosa nei riguardi degli eurodeputati britannici. Ha solleticato l'orgoglio franco-italo-tedesco, certo, ma in fatto di democrazia da quella «cultura insulare molto superficiale» abbiamo solo da imparare!
L'argomento democrazia e integrazione, e la preoccupazione di molti, non solo britannici, riscontrando il deficit di democrazia della governance Ue, di ritrovarci sudditi di un super Stato europeo non possono essere liquidate da una battuta infelice come questa, che per altro prende di mira non una cultura qualsiasi, ma la culla della democrazia in Europa, che può dare lezioni a tutti. Se un deputato britannico è allarmato dalla deriva superstatalista europea, per di più a guida franco-(italo)-tedesca, be' chiunque conosca un po' di storia tenderebbe a prendere molto sul serio l'allarme, o quanto meno a comprendere le ragioni di quel deputato.
Una gaffe davvero infelice, più o meno la stessa che fece Berlusconi dando del kapò a Schulz, oggi presidente del Parlamento europeo e allora capogruppo PSE, quindi di circa metà dell'assemblea. Solo che stavolta non si tratta di Berlusconi e il 90% degli europarlamentari ha acclamato e riso di gusto per lo sberleffo agli inglesi.
Tuesday, February 14, 2012
Un no all'Italia, non a Roma
Non ho pregiudizi contro l'organizzazione delle Olimpiadi o di altri mega-eventi del genere a Roma o in Italia, ma allo stesso tempo non mi scandalizza il no di Monti a Roma2020. Ha molte buone ragioni. Che segnale daremmo ai mercati, e ai partner europei cui stiamo chiedendo di rafforzare i firewalls finanziari comunitari, cioè in pratica di mettere soldi a garanzia del nostro debito pubblico, se investissimo miliardi di euro che non abbiamo letteralmente in "giochi"? Oltre tutto con il precedente di Atene dietro l'angolo? E' triste, ma in questo momento no. E non è un no ad Alemanno (che comunque ne esce distrutto), o a Roma, o al progetto in sé (anche se il comitato promotore è da brividi, con i soliti parrucconi e persino già i costruttori), ma all'Italia, che in questo momento non può permettersi, né ha la credibilità per organizzare questo tipo di eventi. La candidatura implicherebbe un impegno finanziario per il futuro imprevedibile oggi e ricordiamoci che nei prossimi anni ci aspetta un rientro dal debito al ritmo di 1/20 di Pil l'anno.
Il problema cantieri, appalti, tangenti è secondario. Ci fossero delle opere le pagheremmo a caro prezzo, certo, il 30-40% in più per consentire un po' a tutti di mangiarci sopra, ma almeno ci ritroveremmo qualcosa di utile. Il problema vero invece è che l'affare, per tutti quelli che girano intorno a Roma2020, sta nella candidatura in sé. A molti di coloro che oggi la sostengono non importa l'organizzazione dell'evento, ma la candidatura, perché è lì che inizia il magna-magna. Progetti, marketing, promozione, delegazioni in viaggio, tutto un circo che se, come probabile, non si trasformasse nell'assegnazione dell'evento, sarebbe puro spreco. Cosa ci ritroveremmo? Zero infrastrutture, ma in tanti ci avranno guadagnato sopra ugualmente, anche solo di immagine.
Ed è fin troppo lampante come la candidatura sia l'estremo espediente del sindaco Alemanno per tentare di raddrizzare la sua immagine, dopo la figuraccia annunciata con il Gran Premio di Formula 1 e la deludente gestione della città. Da annotare però anche l'ipocrisia del Pd e delle altre opposizioni romane, che considerano disastrosa l'amministrazione Alemanno, lo accusano di non aver saputo gestire l'emergenza neve, ma sono pronti ad affidargli chiavi in mano la gestione della candidatura della città davanti al Cio. Ovvio, una volta subentrati all'attuale giunta ci sarebbero ottimi affari anche per loro. Roma e l'Italia non hanno bisogno di Olimpiadi, di eventi eccezionali, per rilanciarsi. La bellezza del Paese è tale che non ha bisogno dei riflettori per attirare turisti. L'importante è riformare la nostra economia ed essere ben governati.
Il problema cantieri, appalti, tangenti è secondario. Ci fossero delle opere le pagheremmo a caro prezzo, certo, il 30-40% in più per consentire un po' a tutti di mangiarci sopra, ma almeno ci ritroveremmo qualcosa di utile. Il problema vero invece è che l'affare, per tutti quelli che girano intorno a Roma2020, sta nella candidatura in sé. A molti di coloro che oggi la sostengono non importa l'organizzazione dell'evento, ma la candidatura, perché è lì che inizia il magna-magna. Progetti, marketing, promozione, delegazioni in viaggio, tutto un circo che se, come probabile, non si trasformasse nell'assegnazione dell'evento, sarebbe puro spreco. Cosa ci ritroveremmo? Zero infrastrutture, ma in tanti ci avranno guadagnato sopra ugualmente, anche solo di immagine.
Ed è fin troppo lampante come la candidatura sia l'estremo espediente del sindaco Alemanno per tentare di raddrizzare la sua immagine, dopo la figuraccia annunciata con il Gran Premio di Formula 1 e la deludente gestione della città. Da annotare però anche l'ipocrisia del Pd e delle altre opposizioni romane, che considerano disastrosa l'amministrazione Alemanno, lo accusano di non aver saputo gestire l'emergenza neve, ma sono pronti ad affidargli chiavi in mano la gestione della candidatura della città davanti al Cio. Ovvio, una volta subentrati all'attuale giunta ci sarebbero ottimi affari anche per loro. Roma e l'Italia non hanno bisogno di Olimpiadi, di eventi eccezionali, per rilanciarsi. La bellezza del Paese è tale che non ha bisogno dei riflettori per attirare turisti. L'importante è riformare la nostra economia ed essere ben governati.
Partiti, si cambia o si muore
Anche su Notapolitica
E' questa la fine dei partiti come li abbiamo conosciuti? A giudicare dalle cronache politiche si direbbe che i partiti della seconda Repubblica, soprattutto i due maggiori, Pd e Pdl, stiano procedendo a gambe levate verso la loro autodistruzione e che si stia sempre più aprendo lo spazio per una nuova offerta politica, centrista e tecnocratica, in grado di scomporre e ricomporre il sistema partitico. Molto dipenderà dal successo o meno del governo Monti nel tenere l'Italia lontano dall'occhio del ciclone e dalle mosse dei partiti stessi. Tutti sono in entrati in questa nuova fase in crisi profonda, esposti alle sferzate dell'antipolitica, nessuno in grado di dare risposte credibili alla paralisi italiana. I frequenti ringraziamenti di Monti per il loro responsabile e leale sostegno - molto più convinto di quello che dimostrano in pubblico, precisa il professore; il dispiacere più volte espresso dal presidente del Consiglio per la pessima considerazione di cui godono presso i cittadini; e l'accenno, anch'esso frequente, alla «continuità» della sua azione di risanamento con quella del governo Berlusconi, suonano beffardi. Non cavalca certo l'antipolitica, anzi auspica che il "disarmo" tra i partiti favorito dal suo governo possa ridare smalto alle istituzioni parlamentari, ma si può registrare una punta di sobria perfidia in Monti, che quanto più i partiti appaiono annaspare, tanto più ha nei loro confronti parole di apprezzamento che rasentano la commiserazione. Al di là di come il premier si vede nel 2013, se in corsa per Palazzo Chigi, o per il Quirinale, o invece di ritorno alla sua vita lontana dai riflettori della politica, i partiti non sono ancora riusciti ad arrestare la loro caduta libera.
Intendiamoci: è fisiologico che ai tempi del governo tecnico Pd e Pdl appaiano subalterni, che si trovino in difficoltà con le proprie constituency elettorali, cui devono far ingoiare scelte impopolari, e che siano oscurati, quando non maltrattanti, dai mainstream media, quasi tutti "pazzi per Mario". Detto questo, però, ci stanno mettendo del loro. Il Pd continua ad autoflagellarsi e a perdere primarie su primarie e il Pdl è impantanato nelle sabbia mobili, tra congressi al veleno e tessere fasulle che hanno tutto il sapore della vecchia politica. Entrambi non sanno mettere sul tavolo una proposta una che sia comprensibile, chiara, netta, sul fronte delle riforme istituzionali, tanto meno una visione di politica economica coerente e adeguata ai tempi che viviamo.
Bersani continua a impersonare la tragicomica figura di un segretario che finge di poter essere il leader del futuro ma sa di non poterlo più essere; ed è quindi intento da una parte a respingere con livore gli attacchi degli aspiranti leader e rottamatori vari, dall'altra a difendere i ruderi di una dottrina economica sicuramente prevalente nel suo partito ma altrettanto incompatibile con le ricette per far uscire l'Italia dalla crisi. Dal canto suo Alfano, delfino designato di Berlusconi, si sta "bersanianizzando", da volto giovane la sua immagine si sta rapidamente ingrigendo. Anche lui più che altro preoccupato di azzoppare sul nascere possibili pretendenti alla leadership del Pdl, le sue dichiarazioni sempre più paludate e "democristiane", mentre il partito, cedendo alle giustificate richieste di democrazia interna, è stato risucchiato nei vecchi schemi, ha perso qualsiasi identità e riconoscibilità sul piano della politica economica, e anche la scelta del bipolarismo sembra ormai offuscata. Al contrario, sarebbe questo il momento di scelte nette: per una forma partito leggera, all'americana (niente tessere e congressi, solo primarie); per il presidenzialismo e il maggioritario; per una politica di liberazione fiscale, passando però attraverso un poderoso mea culpa per le derive stataliste della precedente esperienza di governo.
Meno degli altri, ma anche Casini è in difficoltà. Si aspettava probabilmente un ruolo più di primo piano nell'esperienza del governo tecnico, essendo da sempre il suo più fervido sostenitore in Parlamento. Casini e Fini intuiscono che il futuro è al centro, ma che il ceto chiamato a giocare la partita potrebbe non essere quello politico, e tentano il rilancio: si aggrappano a Monti candidandolo alla guida di una grande coalizione di moderati anche per la prossima legislatura.
Tutti i partiti hanno capito che le riforme istituzionali e la legge elettorale, temi che non appassionano l'elettorato, possono tuttavia rappresentare la loro trincea difensiva e il loro parziale riscatto. Solo che tutte le bozze che circolano rischiano di annacquare se non di seppellire il bipolarismo. Di sistemi che hanno dato prova di funzionare ce ne sono, ma siamo sempre alla ricerca dell'ibrido, a volte di un ibrido dell'ibrido, invenzioni cervellotiche prive della prima caratteristica che in una democrazia dovrebbe avere il sistema elettorale: semplicità e trasparenza. L'elettore deve capire intuitivamente l'effetto che produce il suo voto in termini di rappresentanza e governo. Invece si tratta di testi in cui anche gli osservatori più attenti rischiano di perdersi entro le prime cinque righe. La bozza Violante-Bressa è sostanzialmente un modello tedesco corretto all'italiana, con soglia di sbarramento bassa (4-5%) e un piccolo premio di maggioranza alle coalizioni che superano il 10%. L'effetto è sostanzialmente proporzionale, difficilmente una delle coalizioni sarebbe in grado di governare autonomamente, dovrebbe essere definita una nuova alleanza in Parlamento, con i centristi ago della bilancia. L'ibrido ispano-tedesco di Ceccanti e Vassallo ha sì il vantaggio di produrre un sicuro effetto maggioritario, favorendo i due partiti più grandi senza penalizzare troppo i medi, ma con lo sgradevolissimo difetto dell'elezione di candidati che si sono piazzati terzi o quarti nei collegi uninominali, un'autentica aberrazione.
La sorte degli attuali partiti dipenderà però anche dall'esito dell'esperimento dei tecnici. Se il governo avrà successo e non sapranno adeguarsi al nuovo standard, verranno spazzati via. Consapevole che, al di là delle riforme interne, i fattori esterni (crisi greca, Bce e firewalls europei, fiducia degli investitori) pesano in modo decisivo sul costo del nostro debito, e di non poter risolvere i problemi dell'economia italiana in un anno, Monti si è limitato al minimo indispensabile - che è comunque più di quanto siano riusciti a fare i governi precedenti - per convincere i partner europei e gli operatori finanziari che l'Italia è finalmente sulla strada giusta. Un'operazione di persuasione che ricorda molto quella di Ciampi che negli anni '90 ha permesso all'Italia di entrare nell'euro. Insomma, autorevolezza personale più che riforme radicali. Basterà questa volta? Non è affatto scontato. Il 15 febbraio l'Istat dovrebbe rendere nota la stima preliminare del Pil nel IV trimestre del 2011, e potremmo scoprire che la recessione si è già mangiata tutto il +0,5% su base annua dei primi tre. Nelle settimane successive i dati sui conti nazionali e sul Pil riferiti ai primi mesi del 2012 potrebbero rendere evidente che l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 non è alla portata. E senza crescita, né dismissioni, non si vede come il Paese potrebbe sopportare manovre di riduzione del debito al ritmo di 1/20 di Pil l'anno. L'appuntamento chiave per misurare lo stato di salute dei partiti, invece, sono le ormai prossime elezioni amministrative. Il governo Monti ha nascosto i partiti sotto una spessa coltre di neve, non è detto che riappariranno tali e quali con il disgelo primaverile.
Monday, February 13, 2012
Operazione simpatia
Gavin Jones, dell'agenzia Reuters, è ancora più severo del mio precedente post nel descrivere l'operazione che sta conducendo Monti. Più che puntare al cambiamento in profondità del Paese (non ne avrebbe probabilmente nemmeno il tempo), sta cercando di calmierare il costo del nostro debito agendo sui fattori esterni che lo determinano, quindi spingendo per una migliore governance europea (ammorbidimento della linea di rigore tedesca; firewalls salva-Stati, ruolo Bce e in futuro condivisione del debito) e spendendo la propria autorevolezza personale per restaurare la fiducia dei mercati. Con il minimo indispensabile di interventi cerca di convincere partner europei e operatori finanziari che l'Italia è finalmente sulla strada giusta, quindi di piazzare i nostri titoli di Stato, i cui rendimenti dovrebbero in questo modo scendere. Da qui il mio Monti che prova a fare il broker.
Chiamatela "operazione fiducia", Jones nel suo articolo - tradotto da Internazionale - la chiama "operazione simpatia". L'entusiasmo che circonda Monti è «eccessivo», perché «non ha ancora avuto il tempo di affrontare seriamente i problemi italiani, tanto meno di risolverli. Eppure è acclamato dai leader mondiali e dalla stampa internazionale, che lo trattano come il salvatore dell'Italia e dell'eurozona». Certo, «la sua formazione economica e i suoi modi sobri e diretti suscitano ammirazione, e il contrasto con il suo tanto criticato predecessore, Silvio Berlusconi, è evidentissimo», ma «i difetti dell'Italia rimangono quelli di sempre e le prospettive economiche del Paese sono perfino peggiorate».
«L'operazione simpatia lanciata da Monti e dal suo governo per corteggiare mercati e opinion leader» ricorda molto quella che negli anni '90 ha permesso all'Italia di entrare nell'euro. Allora come oggi, ricorda Jones, «un gruppo di alti funzionari che parlavano bene l'inglese fece visita alla City di Londra e organizzò conferenze stampa con i giornali stranieri per illustrare le riforme e dissipare le preoccupazioni». Al posto di Monti, Prodi e l'allora ministro del Tesoro Ciampi, con Draghi direttore generale. «Allora come oggi l'obiettivo era ridurre il costo del debito e convincere la Germania». L'operazione riuscì, ma come dimostrano le vicende dei nostri giorni «i problemi di fondo sulla competitività del Paese non erano stati risolti». «Quando l'Italia è nei guai - conclude l'analista Reuters - fa ricorso ai tecnici. E avendo a disposizione uomini competenti e cosmopoliti, come Monti, Draghi e Ciampi, puntualmente il mondo ci casca. Ma i problemi italiani sono di sostanza e non di forma, e ci vorranno anni prima che chi è chiamato a guidare il Paese quando la crisi si fa più acuta riesca a risolverli».
Chiamatela "operazione fiducia", Jones nel suo articolo - tradotto da Internazionale - la chiama "operazione simpatia". L'entusiasmo che circonda Monti è «eccessivo», perché «non ha ancora avuto il tempo di affrontare seriamente i problemi italiani, tanto meno di risolverli. Eppure è acclamato dai leader mondiali e dalla stampa internazionale, che lo trattano come il salvatore dell'Italia e dell'eurozona». Certo, «la sua formazione economica e i suoi modi sobri e diretti suscitano ammirazione, e il contrasto con il suo tanto criticato predecessore, Silvio Berlusconi, è evidentissimo», ma «i difetti dell'Italia rimangono quelli di sempre e le prospettive economiche del Paese sono perfino peggiorate».
«L'operazione simpatia lanciata da Monti e dal suo governo per corteggiare mercati e opinion leader» ricorda molto quella che negli anni '90 ha permesso all'Italia di entrare nell'euro. Allora come oggi, ricorda Jones, «un gruppo di alti funzionari che parlavano bene l'inglese fece visita alla City di Londra e organizzò conferenze stampa con i giornali stranieri per illustrare le riforme e dissipare le preoccupazioni». Al posto di Monti, Prodi e l'allora ministro del Tesoro Ciampi, con Draghi direttore generale. «Allora come oggi l'obiettivo era ridurre il costo del debito e convincere la Germania». L'operazione riuscì, ma come dimostrano le vicende dei nostri giorni «i problemi di fondo sulla competitività del Paese non erano stati risolti». «Quando l'Italia è nei guai - conclude l'analista Reuters - fa ricorso ai tecnici. E avendo a disposizione uomini competenti e cosmopoliti, come Monti, Draghi e Ciampi, puntualmente il mondo ci casca. Ma i problemi italiani sono di sostanza e non di forma, e ci vorranno anni prima che chi è chiamato a guidare il Paese quando la crisi si fa più acuta riesca a risolverli».
Friday, February 10, 2012
Se Monti prova a fare il broker
L'attenzione mediatica è giustamente concentrata sulla calorosa accoglienza riservata a Mario Monti a Washington dal presidente Obama, che evidentemente punta sull'autorevolezza del nostro premier sia per non vedere l'Italia fare la fine della Grecia, uno scenario catastrofico per tutti, sia aspettandosi che sia in grado di mediare con Berlino per ammorbidire le politiche di austerity che i tedeschi stanno imponendo ai membri Ue. Per la visione economica prevalente alla Casa Bianca, infatti, il rigore fiscale provoca di per sé recessione, mentre la spesa alimenta la crescita, e in un anno elettorale Obama non può permettersi una recessione troppo accentuata in Europa, perché danneggerebbe anche la ripresa Usa, compromettendo le sua probabilità di rielezione. E' ovvio che rispetto agli ultimi mesi di Berlusconi, in totale crisi di credibilità e paralisi dell'attività di governo, Monti sembra in grado sia di introdurre importanti riforme sul fronte interno, sia di temperare carenze ed eccessi della politica europea.
Ma gli elogi unanimi sono ancora un'apertura di credito piuttosto che un giudizio sull'efficacia del suo operato di governo. «Impressionanti» non sono i progressi, direi timidi, compiuti dal governo dei tecnici, semmai i debiti della pubblica amministrazione, che ammontano a 70-100 miliardi, secondo alcune stime, ma che non sono contabilizzati nel debito pubblico nazionale. E' come se lo Stato italiano fosse già fallito e avesse arbitrariamente deciso a quali creditori far pagare il suo fallimento: le imprese che hanno lavorato per lui (alle quali però chiede di pagare le tasse per le fatture che non ha onorato).
Poi ci sono le semplificazioni giornalistiche, come quella del Time, che per la copertina della sua edizione europea sceglie proprio Monti, come «l'uomo che può salvare l'Europa». Ma com'è possibile che l'uomo alla guida dell'economia definita solo tre mesi fa «la più pericolosa del mondo» oggi sia in grado addirittura di «salvare l'Europa»? Ammesso, e non concesso, che in queste settimane il governo abbia davvero fatto passi da gigante, di tutta evidenza l'economia italiana non ha ancora iniziato quel processo di trasformazione necessario perché possa tornare a crescere ad un ritmo sostenuto. La buona stampa e la buona fama di cui sta godendo il nostro premier si deve in parte allo scarto che si percepisce con la caduta verticale di credibilità e l'immobilismo che ha contraddistinto l'ultimo Berlusconi, in parte all'impellente bisogno che si avverte in tutta Europa, e non solo, di nuovi leader capaci di prendere in mano le redini della situazione, avendo Merkel e Sarkozy così profondamente deluso le aspettative degli osservatori.
Insomma, più che sui fatti, sulle riforme (che speriamo arrivino presto), l'Italia si sta tenendo in piedi grazie all'autorevolezza personale di Monti, alla sua capacità di muoversi in Europa e dialogare con il mondo finanziario, all'azione incisiva della Bce di Mario Draghi, ai progressi fatti in sede Ue su fiscal compact ed ESM e ai timidi spiragli di soluzione della crisi greca. A ciò si devono i circa 100 punti di spread in meno rispetto alle scorse settimane.
Va dato atto a Monti di aver saputo in queste settimane dosare sapientemente le armi a sua disposizione per rappresentare nel migliore dei modi le chance dell'Italia di farcela. Non potendo in poco tempo (né probabilmente volendo) rivoluzionare davvero la baracca Italia, ha usato un mix tra serrata azione di governo, protagonismo sul fronte europeo, e messaggi al mondo finanziario, tutto al fine di calmierare gli interessi sul nostro debito pubblico, in attesa – speriamo – di implementare le vere riforme. Lo scopo principale del suo viaggio in Usa, infatti, come quello a Londra, non è tanto piacere a Obama, ma convincere la City e Wall Street (nonché i media di riferimento delle due principali piazze finanziarie mondiali) a comprare i nostri titoli, a prestare fiducia al "rischio Italia", a investire nel nostro Paese. I tassi sono ancora alti e offrono ampi margini di guadagno, considerando che il sistema è "solido"; l'economia si sta aprendo e offre buoni affari (pensiamo solo allo scorporo di Snam rete gas da Eni).
Basta fare attenzione all'agenda delle visite. Prima, giovedì, gli incontri del viceministro del Tesoro Grilli con la comunità finanziaria Usa; poi l'analisi economica di Monti al PIIE sullo stato dell'Europa, dell'euro, e dell'Italia. E per concludere il board editoriale del New York Times, Bloomberg, la CBNC, ma soprattutto il New York Stock Exchange. Simili le tappe a Londra: prima la London School of Economics, poi la London Stock Exchange. E a coronamento dell'"operazione fiducia" le interviste a Financial Times e Wall Street Journal. Più che un premier, più che un riformatore, forse abbiamo trovato un buon broker per i nostri titoli di Stato.
Thursday, February 09, 2012
Halftime Italia, il governo corre ai ripari
Mentre è ormai di gran moda, fa molto twit-star, sbeffeggiare con battute più o meno sceme Alemanno e Roma per qualsiasi decisione, senza nemmeno preoccuparsi di una minima attinenza ai fatti, qualcuno si è accorto del decreto firmato ieri in tutta fretta da Monti? Qualcuno si è accorto che i temi veri dell'emergenza sono diventati la "non operatività" della Protezione civile e i gestori - pubblici - dei servizi pubblici?
Qui non si vuole entrare nel merito delle inefficienze che sicuramente ci sono state, né della decisione del sindaco di Roma e del prefetto, sentita la Protezione civile, di chiudere nuovamente scuole e uffici pubblici, ma prima di abbandonarsi all'ilarità bisognerebbe accertarsi delle previsioni meteo. Non quelle dei siti internet, ma quelle che ha in mano Alemanno, che possono sempre rivelarsi errate ma che hanno il carattere dell'ufficialità, tanto da essere state citate stamani dal ministro degli interni in Senato e confermate dalla Protezione civile in un comunicato. Previsioni che parlano di «diffuse nevicate» e «significativi accumuli di neve al suolo» sulla capitale tra domani e dopodomani, cioè di un evento pari o superiore a quello di venerdì-sabato scorsi. E va considerato che una città come Roma è strutturalmente impreparata ad eventi del genere, che altrove possono far sorridere. Città impreparata vuol dire primi fra tutti i cittadini.
Ma no, continuiamo a ironizzare su Roma, per qualche ingorgo in più del normale, mentre nessuno si è accorto del decreto firmato ieri da Monti, nel quale implicitamente si riconoscono le gravi mancanze, e quindi responsabilità, a livello governativo e centrale per quanto accaduto su tutto il territorio del centro Italia, e si tenta di porre un primo rimedio alla «non operatività» della Protezione civile denunciata da Gabrielli in Commissione Lavori pubblici del Senato. Considerando «che le previsioni meteorologiche prospettano una situazione di ulteriore aggravamento con la ripetizione di nevicate di forte intensità...», il decreto attribuisce al capo del Dipartimento della Protezione civile «il coordinamento degli interventi e di tutte le iniziative per fronteggiare la situazione emergenziale» e «l'adozione di ogni indispensabile provvedimento su tutto il territorio nazionale interessato dalle eccezionali avversità atmosferiche per assicurare ogni forma di assistenza e di tutela degli interessi pubblici primari delle popolazioni interessate, nonché di ogni misura idonea per la salvaguardia delle vite umane, allo scopo autorizzando le Regioni al reperimento di beni, mezzi e materiali pubblici e privati necessari, anche attraverso i sindaci, ovvero attraverso i centri di coordinamento e soccorso istituiti a livello provinciale». Se c'è stato bisogno di un decreto, bisogna supporre che prima questo ruolo non era previsto, o non era chiaramente definito.
Non solo il decreto. A tal punto il governo si è accorto della «non operatività» della Protezione civile, che al termine di un vertice con gli enti locali «ha confermato l'intenzione di riesaminare la legge 10 del 2011» che l'ha rovinata, «al fine di rafforzarne l'efficacia per quanto riguarda l'operatività dell'intervento emergenziale». Un vertice tra governo ed enti locali che forse sarebbe stato utile anche alla vigilia della prima ondata di maltempo, la scorsa settimana. Di Protezione civile, di gas e di gestori dei servizi pubblici, si è parlato infine alla Camera, durante l'informativa del governo sull'emergenza maltempo, mentre sui romani e Alemanno si è esibito solo qualche pittoresco deputato leghista. Il Parlamento per una volta meno banale dei social network, dove troppo spesso i tentativi di ragionamento vengono travolti dal flusso del conformismo.
L'impreparazione di Roma e l'inefficienza di Alemanno sono una miniera d'oro dal punto di vista comunicativo, cioè per garantirsi accessi e facili retwitt, ma questo non ha nulla a che fare con l'informazione, è satira. Ci vuole anche quella, basta che poi non si finisca per credere alle proprie battute e iperboli.
Qui non si vuole entrare nel merito delle inefficienze che sicuramente ci sono state, né della decisione del sindaco di Roma e del prefetto, sentita la Protezione civile, di chiudere nuovamente scuole e uffici pubblici, ma prima di abbandonarsi all'ilarità bisognerebbe accertarsi delle previsioni meteo. Non quelle dei siti internet, ma quelle che ha in mano Alemanno, che possono sempre rivelarsi errate ma che hanno il carattere dell'ufficialità, tanto da essere state citate stamani dal ministro degli interni in Senato e confermate dalla Protezione civile in un comunicato. Previsioni che parlano di «diffuse nevicate» e «significativi accumuli di neve al suolo» sulla capitale tra domani e dopodomani, cioè di un evento pari o superiore a quello di venerdì-sabato scorsi. E va considerato che una città come Roma è strutturalmente impreparata ad eventi del genere, che altrove possono far sorridere. Città impreparata vuol dire primi fra tutti i cittadini.
Ma no, continuiamo a ironizzare su Roma, per qualche ingorgo in più del normale, mentre nessuno si è accorto del decreto firmato ieri da Monti, nel quale implicitamente si riconoscono le gravi mancanze, e quindi responsabilità, a livello governativo e centrale per quanto accaduto su tutto il territorio del centro Italia, e si tenta di porre un primo rimedio alla «non operatività» della Protezione civile denunciata da Gabrielli in Commissione Lavori pubblici del Senato. Considerando «che le previsioni meteorologiche prospettano una situazione di ulteriore aggravamento con la ripetizione di nevicate di forte intensità...», il decreto attribuisce al capo del Dipartimento della Protezione civile «il coordinamento degli interventi e di tutte le iniziative per fronteggiare la situazione emergenziale» e «l'adozione di ogni indispensabile provvedimento su tutto il territorio nazionale interessato dalle eccezionali avversità atmosferiche per assicurare ogni forma di assistenza e di tutela degli interessi pubblici primari delle popolazioni interessate, nonché di ogni misura idonea per la salvaguardia delle vite umane, allo scopo autorizzando le Regioni al reperimento di beni, mezzi e materiali pubblici e privati necessari, anche attraverso i sindaci, ovvero attraverso i centri di coordinamento e soccorso istituiti a livello provinciale». Se c'è stato bisogno di un decreto, bisogna supporre che prima questo ruolo non era previsto, o non era chiaramente definito.
Non solo il decreto. A tal punto il governo si è accorto della «non operatività» della Protezione civile, che al termine di un vertice con gli enti locali «ha confermato l'intenzione di riesaminare la legge 10 del 2011» che l'ha rovinata, «al fine di rafforzarne l'efficacia per quanto riguarda l'operatività dell'intervento emergenziale». Un vertice tra governo ed enti locali che forse sarebbe stato utile anche alla vigilia della prima ondata di maltempo, la scorsa settimana. Di Protezione civile, di gas e di gestori dei servizi pubblici, si è parlato infine alla Camera, durante l'informativa del governo sull'emergenza maltempo, mentre sui romani e Alemanno si è esibito solo qualche pittoresco deputato leghista. Il Parlamento per una volta meno banale dei social network, dove troppo spesso i tentativi di ragionamento vengono travolti dal flusso del conformismo.
L'impreparazione di Roma e l'inefficienza di Alemanno sono una miniera d'oro dal punto di vista comunicativo, cioè per garantirsi accessi e facili retwitt, ma questo non ha nulla a che fare con l'informazione, è satira. Ci vuole anche quella, basta che poi non si finisca per credere alle proprie battute e iperboli.
Wednesday, February 08, 2012
Halftime Italia, faremo meglio nel secondo tempo?
Anche su Notapolitica
Sembra che il generale Inverno voglia concederci una seconda chance per dimostrare di essere in grado di far funzionare almeno qualcosa, dopo la debàcle complessiva delle reti (elettrica, ferroviaria e autostradale), l'impreparazione delle istituzioni locali, l'assenza del governo e la totale inoperatività della Protezione civile, di fronte alla prima ondata di gelo. E lo spot Chrysler durante l'intervallo del Superbowl offre un'immagine molto emblematica anche per l'Italia alle prese con la sfida maltempo: "It's halftime Italy. And, our second half is about to begin". Faremo meglio nel secondo tempo?
Tanto per cominciare, sembra voler scendere in campo il governo Monti, rimasto comodamente in panchina durante il disastroso primo tempo, anche se stampa e pubblico non se ne sono nemmeno accorti. Ieri il premier ha voluto fare un punto della situazione con il capo della Protezione civile e poi con i suoi ministri in Cdm, informandoli, come recita il comunicato ufficiale, «sulle misure emergenziali adottate e su quelle ancora da intraprendere, così come sulle azioni di carattere preventivo necessarie per fronteggiare la nuova perturbazione attesa per la fine di questa settimana», e «sensibilizzando tutti i ministri competenti ad assicurare l'impegno più incisivo da parte di tutte le strutture del governo del territorio e delle imprese di gestione dei pubblici servizi al fine di tutelare la pubblica e privata incolumità, nel quadro del coordinamento esercitato dal Dipartimento della Protezione civile». Laddove i soggetti richiamati alle proprie responsabilità sono i ministri, le istituzioni di governo del territorio, le imprese di gestione (pubbliche) dei servizi pubblici, la Protezione civile.
Siccome non ci risulta che qualcosa di simile sia stato discusso e sottolineato nei Cdm precedenti la prima ondata di maltempo, bisogna concludere che il Paese ha affrontato la buriana dello scorso fine settimana senza nessuno al volante, o quanto meno era parecchio distratto. Ma di un vero e proprio miracolo il governo dei tecnici è comunque artefice: mai come questa volta, credo, nella storia d'Italia, un governo è stato del tutto esente da critiche per la gestione di un'emergenza evidentemente di carattere nazionale. Non poche critiche, non deboli, ma zero critiche. Non si tratta della solita luna di miele dei media con il nuovo governo, ma di un vero e proprio accecamento volontario.
Ma la cosa più stupefacente passata quasi completamente inosservata è che dopo giorni di accuse (e di varie ilarità) all'indirizzo del sindaco di Roma Alemanno, che in preda a sindrome da accerchiamento ha osato polemizzare con la Protezione civile, ebbene in un'audizione al Senato è proprio il capo della Protezione civile Gabrielli a dare ragione, nel merito, ad Alemanno. Il quale aveva denunciato che la Protezione civile è ormai ridotta ad un ruolo meramente burocratico, da «passacarte». Apriti cielo! Ebbene, ieri Gabrielli ha spiegato alla Commissione che ha dovuto difendere l'onore dell'istituzione e dei suoi meteorologi, ma nel merito ha detto la stessa identica cosa: «Il 26 febbraio del 2011, la legge n. 10 ha reso di fatto, oggi, non operativa la Protezione Civile». Una sentenza senz'appello: oggi la Protezione civile non è operativa. E ha fornito un esempio «delle tante perversioni di questa legge»: «I governatori delle regioni interessate (Emilia Romagna, Abruzzo, Lazio, Molise, Marche) non hanno chiesto lo stato d'emergenza, non perché è Gabrielli che li consiglia di non farlo perché non si vuole prendere l'onere della gestione, ma perché sanno perfettamente che la richiesta dello stato d'emergenza equivarrebbe all'innalzamento delle accise regionali sulla benzina».
Gabrielli si è detto quindi «preoccupato che questa istituzione sia rimessa nella condizione di operare», perché «oggi questa operatività non c'è». Non è la prima volta che lancia l'allarme, è dal febbraio scorso, con il precedente governo, che segnala le criticità della nuova legislazione, che si sono puntualmente verificate.
Altrettanto allarmanti le preoccupazioni espresse riguardo le operazioni di recupero del carburante e del relitto della nave Costa Concordia naufragata sulle coste dell'Isola del Giglio: «La capacità di intervento della Protezione civile - ammette Gabrielli - sono di pura astrazione. Mi sto augurando che Costa non fallisca, perché qualora avesse questa malaugurata vicenda, avremmo qualche problema. Dovrei fare le gare comunitarie, dovrei avere il concerto del Ministero dell'Economia per avere la disponibilità di somme che sono nell'ordine di centinaia di milioni, dovrei avere il visto preventivo della Corte dei Conti, i Tar che fanno le varie cose, quindi auguriamoci tutti che la procedura privata posta in essere, al meglio dell'interlocuzione possibile, si consolidi e si concluda». Ecco la vera privatizzazione della Protezione civile: auguriamoci che i privati ce la facciano.
Il sindaco di Roma ci ha messo senz'altro del suo nell'offrirsi come capro espiatorio di una gestione dell'emergenza a dir poco fallimentare a tutti i livelli, dei gestori – tutti pubblici – delle reti, degli enti locali e delle regioni, del governo e della Protezione civile. In molti però, politici e giornalisti, l'hanno usato come «parafulmine» ben sapendo di coprire in questo modo responsabilità ben più vaste e gravi, con la cassa di risonanza gentilmente offerta dalle varie twitt-star e dal gregge dei social network.
Onestà intellettuale vorrebbe di ammettere che, forse non nei modi, ma nel merito Alemanno aveva ragione a porre la questione della Protezione civile. Svuotata di qualsiasi operatività solo per fare un dispetto a Bertolaso e Berlusconi, che oggi tra l'altro non sono nemmeno più al comando. Bastava ridurre il campo di intervento in modo da escludere i cosiddetti "grandi eventi", e invece l'effetto della guerra senza quartiere che si è scatenata, da fuori ma anche all'interno della stessa compagine governativa di centrodestra, contro Bertolaso, è aver ridotto la Protezione civile a «passacarte».
Sembra che il generale Inverno voglia concederci una seconda chance per dimostrare di essere in grado di far funzionare almeno qualcosa, dopo la debàcle complessiva delle reti (elettrica, ferroviaria e autostradale), l'impreparazione delle istituzioni locali, l'assenza del governo e la totale inoperatività della Protezione civile, di fronte alla prima ondata di gelo. E lo spot Chrysler durante l'intervallo del Superbowl offre un'immagine molto emblematica anche per l'Italia alle prese con la sfida maltempo: "It's halftime Italy. And, our second half is about to begin". Faremo meglio nel secondo tempo?
Tanto per cominciare, sembra voler scendere in campo il governo Monti, rimasto comodamente in panchina durante il disastroso primo tempo, anche se stampa e pubblico non se ne sono nemmeno accorti. Ieri il premier ha voluto fare un punto della situazione con il capo della Protezione civile e poi con i suoi ministri in Cdm, informandoli, come recita il comunicato ufficiale, «sulle misure emergenziali adottate e su quelle ancora da intraprendere, così come sulle azioni di carattere preventivo necessarie per fronteggiare la nuova perturbazione attesa per la fine di questa settimana», e «sensibilizzando tutti i ministri competenti ad assicurare l'impegno più incisivo da parte di tutte le strutture del governo del territorio e delle imprese di gestione dei pubblici servizi al fine di tutelare la pubblica e privata incolumità, nel quadro del coordinamento esercitato dal Dipartimento della Protezione civile». Laddove i soggetti richiamati alle proprie responsabilità sono i ministri, le istituzioni di governo del territorio, le imprese di gestione (pubbliche) dei servizi pubblici, la Protezione civile.
Siccome non ci risulta che qualcosa di simile sia stato discusso e sottolineato nei Cdm precedenti la prima ondata di maltempo, bisogna concludere che il Paese ha affrontato la buriana dello scorso fine settimana senza nessuno al volante, o quanto meno era parecchio distratto. Ma di un vero e proprio miracolo il governo dei tecnici è comunque artefice: mai come questa volta, credo, nella storia d'Italia, un governo è stato del tutto esente da critiche per la gestione di un'emergenza evidentemente di carattere nazionale. Non poche critiche, non deboli, ma zero critiche. Non si tratta della solita luna di miele dei media con il nuovo governo, ma di un vero e proprio accecamento volontario.
Ma la cosa più stupefacente passata quasi completamente inosservata è che dopo giorni di accuse (e di varie ilarità) all'indirizzo del sindaco di Roma Alemanno, che in preda a sindrome da accerchiamento ha osato polemizzare con la Protezione civile, ebbene in un'audizione al Senato è proprio il capo della Protezione civile Gabrielli a dare ragione, nel merito, ad Alemanno. Il quale aveva denunciato che la Protezione civile è ormai ridotta ad un ruolo meramente burocratico, da «passacarte». Apriti cielo! Ebbene, ieri Gabrielli ha spiegato alla Commissione che ha dovuto difendere l'onore dell'istituzione e dei suoi meteorologi, ma nel merito ha detto la stessa identica cosa: «Il 26 febbraio del 2011, la legge n. 10 ha reso di fatto, oggi, non operativa la Protezione Civile». Una sentenza senz'appello: oggi la Protezione civile non è operativa. E ha fornito un esempio «delle tante perversioni di questa legge»: «I governatori delle regioni interessate (Emilia Romagna, Abruzzo, Lazio, Molise, Marche) non hanno chiesto lo stato d'emergenza, non perché è Gabrielli che li consiglia di non farlo perché non si vuole prendere l'onere della gestione, ma perché sanno perfettamente che la richiesta dello stato d'emergenza equivarrebbe all'innalzamento delle accise regionali sulla benzina».
Gabrielli si è detto quindi «preoccupato che questa istituzione sia rimessa nella condizione di operare», perché «oggi questa operatività non c'è». Non è la prima volta che lancia l'allarme, è dal febbraio scorso, con il precedente governo, che segnala le criticità della nuova legislazione, che si sono puntualmente verificate.
Altrettanto allarmanti le preoccupazioni espresse riguardo le operazioni di recupero del carburante e del relitto della nave Costa Concordia naufragata sulle coste dell'Isola del Giglio: «La capacità di intervento della Protezione civile - ammette Gabrielli - sono di pura astrazione. Mi sto augurando che Costa non fallisca, perché qualora avesse questa malaugurata vicenda, avremmo qualche problema. Dovrei fare le gare comunitarie, dovrei avere il concerto del Ministero dell'Economia per avere la disponibilità di somme che sono nell'ordine di centinaia di milioni, dovrei avere il visto preventivo della Corte dei Conti, i Tar che fanno le varie cose, quindi auguriamoci tutti che la procedura privata posta in essere, al meglio dell'interlocuzione possibile, si consolidi e si concluda». Ecco la vera privatizzazione della Protezione civile: auguriamoci che i privati ce la facciano.
Il sindaco di Roma ci ha messo senz'altro del suo nell'offrirsi come capro espiatorio di una gestione dell'emergenza a dir poco fallimentare a tutti i livelli, dei gestori – tutti pubblici – delle reti, degli enti locali e delle regioni, del governo e della Protezione civile. In molti però, politici e giornalisti, l'hanno usato come «parafulmine» ben sapendo di coprire in questo modo responsabilità ben più vaste e gravi, con la cassa di risonanza gentilmente offerta dalle varie twitt-star e dal gregge dei social network.
Onestà intellettuale vorrebbe di ammettere che, forse non nei modi, ma nel merito Alemanno aveva ragione a porre la questione della Protezione civile. Svuotata di qualsiasi operatività solo per fare un dispetto a Bertolaso e Berlusconi, che oggi tra l'altro non sono nemmeno più al comando. Bastava ridurre il campo di intervento in modo da escludere i cosiddetti "grandi eventi", e invece l'effetto della guerra senza quartiere che si è scatenata, da fuori ma anche all'interno della stessa compagine governativa di centrodestra, contro Bertolaso, è aver ridotto la Protezione civile a «passacarte».
Tuesday, February 07, 2012
L'importante è che sia retwittable
Mentre media e politici erano affaccendati a spalare neve addosso ad Alemanno, continuavano a giungere storie di morti assiderati, comuni ancora isolati, pendolari intrappolati. Non a Roma. In provincia, nel Lazio, e nel resto del centro Italia. Tanto che il direttore di Europa, su twitter, verso le 19, ammetteva: «Se Alemanno non si fosse offerto come parafulmine ce ne sarebbero di responsabilità da chiarire». «Parafulmine» è la parola usata anche da un noto blogger di centrodestra, come Daw-blog, per giustificare l'attenzione mediatica su Roma e il suo sindaco. «Ce ne sarebbero»? Ma siccome Alemanno, certo anche per la sua incapacità, in questo caso soprattutto comunicativa, s'è offerto come «parafulmine», allora è giusto chiudere gli occhi, rinunciare a chiarire ed evidenziare le molte altre responsabilità nella cattiva gestione dell'emergenza neve in tutto il centro Italia?
Probabilmente Alemanno sta perdendo la sua occasione di governare bene Roma e l'ho più volte sottolineato, per esempio quando la città è andata in tilt per le prime piogge autunnali, al contrario della neve un evento annuale e puntuale a Roma. E tra i primi ho segnalato la sua tendenza ad apparire troppo sui temi e dibattiti politici nazionali piuttosto che sui problemi della città. Penso si sia capito che non muoio dalla voglia di difendere Alemanno, che sento molto distante da me politicamente, ma per amore di verità ritengo che crocifiggerlo per l'emergenza neve sia sproporzionato, sia rispetto a quanto accaduto a Roma, sia considerando che non ci si poteva aspettare di meglio, dal momento che la città e suoi abitanti sono strutturalmente impreparati alla neve. Ed è fisiologico che sia così, perché non si può spendere come Milano o Torino per un fenomeno che si verifica si e no ogni trent'anni.
Sparare su Roma e su Alemanno, che non poteva fare molto di più stavolta, e che preso dall'ansia da prestazione insieme al suo staff ha solo comunicato male come al solito, era troppo facile. La città è andata in tilt, nella provincia e nel Lazio è ancora peggio, e ora da parte di tutti gli amministratori, scottati - anzi, raggelati - dagli eventi c'è un eccesso di prudenza. Oggi scuole ancora chiuse, nonostante l'ultimo bollettino prevedesse al massimo nevicate «deboli» (ma anche quello per venerdì prevedeva "pioggia misto neve", eppure sappiamo com'è andata). E giù altra ilarità, a colpi di hashtag, dai social network, quando sarebbe forse più utile parlare di responsabilità ben più gravi, come quelle di Enel, Anas e Trenitalia. A Roma per fortuna alla fine non è accaduto nulla di grave, ma vogliamo parlare dei gestori - pubblici - delle reti, veri responsabili del collasso? Ancora morti e comuni isolati, ma possibile che nessun sindaco abbia chiesto aiuto alla Protezione civile, che tutti #nonhobisognodinulla come Alemanno? O vogliamo dirlo che al di là di Roma, che non ne aveva nemmeno bisogno, la Protezione civile de-bertolasizzata ha fatto cilecca totale e che è quanto meno fondato supporre che per paura ora si sia burocratizzata?!
No, non si può, perché il brutto dei social network è che la battuta va di moda più dell'analisi, e tanto più se fa da cassa di risonanza, non da controinformazione, al flusso dei mainstream media. Intendiamoci, le battute ben vengano, il problema è quando si finisce per crederci e a farne uno strumento di lettura della realtà. Nessuno si pone nemmeno il dubbio che aprire un profilo falso di qualcuno per sbeffeggiarlo, per di più nel bel mezzo di un'emergenza, sia un abuso deplorevole, un furto di identità. Tutti a ridere e a rilanciarne le sciocchezze, una tira l'altra. Né più né meno che nella vita reale anche in quella virtuale è l'istinto a farsi gregge a prevalere. L'importante è coniare l'hashtag più cool. Non è importante ciò che si dice, l'importante è che sia retwittable.
Probabilmente Alemanno sta perdendo la sua occasione di governare bene Roma e l'ho più volte sottolineato, per esempio quando la città è andata in tilt per le prime piogge autunnali, al contrario della neve un evento annuale e puntuale a Roma. E tra i primi ho segnalato la sua tendenza ad apparire troppo sui temi e dibattiti politici nazionali piuttosto che sui problemi della città. Penso si sia capito che non muoio dalla voglia di difendere Alemanno, che sento molto distante da me politicamente, ma per amore di verità ritengo che crocifiggerlo per l'emergenza neve sia sproporzionato, sia rispetto a quanto accaduto a Roma, sia considerando che non ci si poteva aspettare di meglio, dal momento che la città e suoi abitanti sono strutturalmente impreparati alla neve. Ed è fisiologico che sia così, perché non si può spendere come Milano o Torino per un fenomeno che si verifica si e no ogni trent'anni.
Sparare su Roma e su Alemanno, che non poteva fare molto di più stavolta, e che preso dall'ansia da prestazione insieme al suo staff ha solo comunicato male come al solito, era troppo facile. La città è andata in tilt, nella provincia e nel Lazio è ancora peggio, e ora da parte di tutti gli amministratori, scottati - anzi, raggelati - dagli eventi c'è un eccesso di prudenza. Oggi scuole ancora chiuse, nonostante l'ultimo bollettino prevedesse al massimo nevicate «deboli» (ma anche quello per venerdì prevedeva "pioggia misto neve", eppure sappiamo com'è andata). E giù altra ilarità, a colpi di hashtag, dai social network, quando sarebbe forse più utile parlare di responsabilità ben più gravi, come quelle di Enel, Anas e Trenitalia. A Roma per fortuna alla fine non è accaduto nulla di grave, ma vogliamo parlare dei gestori - pubblici - delle reti, veri responsabili del collasso? Ancora morti e comuni isolati, ma possibile che nessun sindaco abbia chiesto aiuto alla Protezione civile, che tutti #nonhobisognodinulla come Alemanno? O vogliamo dirlo che al di là di Roma, che non ne aveva nemmeno bisogno, la Protezione civile de-bertolasizzata ha fatto cilecca totale e che è quanto meno fondato supporre che per paura ora si sia burocratizzata?!
No, non si può, perché il brutto dei social network è che la battuta va di moda più dell'analisi, e tanto più se fa da cassa di risonanza, non da controinformazione, al flusso dei mainstream media. Intendiamoci, le battute ben vengano, il problema è quando si finisce per crederci e a farne uno strumento di lettura della realtà. Nessuno si pone nemmeno il dubbio che aprire un profilo falso di qualcuno per sbeffeggiarlo, per di più nel bel mezzo di un'emergenza, sia un abuso deplorevole, un furto di identità. Tutti a ridere e a rilanciarne le sciocchezze, una tira l'altra. Né più né meno che nella vita reale anche in quella virtuale è l'istinto a farsi gregge a prevalere. L'importante è coniare l'hashtag più cool. Non è importante ciò che si dice, l'importante è che sia retwittable.
Eppur qualcosa si muove
Anche su Notapolitica
A quanto pare si tratta ormai di capire non se l'articolo 18 verrà superato, ma come, e soprattutto in che termini farlo senza che i sindacati e il Pd ne escano umiliati. Il governo non ha intenzione di «esasperare alcunché, in particolare in una materia così sensibile e socialmente cruciale come il mercato del lavoro», ha assicurato il premier Mario Monti, ma certamente ha impresso un'accelerazione ad un dialogo partito con il freno a mano tirato. Prima il ragionamento di Monti sul posto fisso «monotono», poi il ministro Fornero, che al tavolo della scorsa settimana con le parti sociali ha chiarito le intenzioni del governo sulla riforma del lavoro: dialogo sì, ma la riforma s'ha da fare, anche senza l'accordo con sindacati e Confindustria, e «nel volgere di poche settimane». Con gli industriali a dare ragione al ministro, aprendo alle modifiche sull'articolo 18 (sì all'indennizzo in caso di licenziamento non discriminatorio, no al reintegro, ha ribadito la presidente Marcegaglia), e i sindacati attenti a non aizzare lo scontro.
Ieri il ministro degli interni, Anna Maria Cancellieri, ha rincarato la dose sul «posto fisso nella stessa città, di fianco a mamma e papà», e il ministro Fornero sui tempi: «Tergiversare, aspettare, non può essere la soluzione. Il governo ha il dovere di agire». Ed evidentemente articolo 18 e ammortizzatori sociali sono due temi, per usare le parole di Monti, che possono «dare un contributo alla crescita e aggredire la disoccupazione giovanile».
L'obiettivo è «spalmare le tutele su tutti, non dare a tutti un posto fisso a vita», perché «chi oggi promette un posto fisso a vita promette facili illusioni», avverte la Fornero. Dal Pd continuano ad arrivare reazioni irritate alle dichiarazioni del governo su posto fisso e articolo 18. L'ex ministro Damiano e il responsabile economico della segreteria, Fassina, le bollano come tesi «infondate». «Non si può votare a scatola chiusa quello che propone Monti», avverte il primo, mentre il secondo denuncia nelle parole dei membri dell'esecutivo il «lessico tipico della destra».
Ma sul fronte sindacale qualcosa comincia a muoversi. Il segretario della Cisl Bonanni parla di una «robusta manutenzione», parola che non piace alla Cgil («non è giusta e nemmeno necessaria») ma anche il segretario della Uil Angeletti si dice «disposto a dire sì ad una legge che dica esplicitamente – fatte salve le ragioni discriminatorie – quando il licenziamento è consentito per motivi economici». Certo, con molti se e molti ma. Insomma, la situazione è molto fluida ma l'impressione è che il governo voglia accelerare, che articolo 18 e ammortizzatori siano sul tavolo, e che i sindacati, almeno Cisl e Uil, siano disposti a concedere qualcosa, magari con una formula che consenta loro di salvare la faccia, per esempio una sospensione sperimentale, della durata di 3 anni, dell'art. 18 per i licenziamenti di natura economica. E si sa, le dighe difficilmente reggono con una breccia aperta.
A quanto pare si tratta ormai di capire non se l'articolo 18 verrà superato, ma come, e soprattutto in che termini farlo senza che i sindacati e il Pd ne escano umiliati. Il governo non ha intenzione di «esasperare alcunché, in particolare in una materia così sensibile e socialmente cruciale come il mercato del lavoro», ha assicurato il premier Mario Monti, ma certamente ha impresso un'accelerazione ad un dialogo partito con il freno a mano tirato. Prima il ragionamento di Monti sul posto fisso «monotono», poi il ministro Fornero, che al tavolo della scorsa settimana con le parti sociali ha chiarito le intenzioni del governo sulla riforma del lavoro: dialogo sì, ma la riforma s'ha da fare, anche senza l'accordo con sindacati e Confindustria, e «nel volgere di poche settimane». Con gli industriali a dare ragione al ministro, aprendo alle modifiche sull'articolo 18 (sì all'indennizzo in caso di licenziamento non discriminatorio, no al reintegro, ha ribadito la presidente Marcegaglia), e i sindacati attenti a non aizzare lo scontro.
Ieri il ministro degli interni, Anna Maria Cancellieri, ha rincarato la dose sul «posto fisso nella stessa città, di fianco a mamma e papà», e il ministro Fornero sui tempi: «Tergiversare, aspettare, non può essere la soluzione. Il governo ha il dovere di agire». Ed evidentemente articolo 18 e ammortizzatori sociali sono due temi, per usare le parole di Monti, che possono «dare un contributo alla crescita e aggredire la disoccupazione giovanile».
L'obiettivo è «spalmare le tutele su tutti, non dare a tutti un posto fisso a vita», perché «chi oggi promette un posto fisso a vita promette facili illusioni», avverte la Fornero. Dal Pd continuano ad arrivare reazioni irritate alle dichiarazioni del governo su posto fisso e articolo 18. L'ex ministro Damiano e il responsabile economico della segreteria, Fassina, le bollano come tesi «infondate». «Non si può votare a scatola chiusa quello che propone Monti», avverte il primo, mentre il secondo denuncia nelle parole dei membri dell'esecutivo il «lessico tipico della destra».
Ma sul fronte sindacale qualcosa comincia a muoversi. Il segretario della Cisl Bonanni parla di una «robusta manutenzione», parola che non piace alla Cgil («non è giusta e nemmeno necessaria») ma anche il segretario della Uil Angeletti si dice «disposto a dire sì ad una legge che dica esplicitamente – fatte salve le ragioni discriminatorie – quando il licenziamento è consentito per motivi economici». Certo, con molti se e molti ma. Insomma, la situazione è molto fluida ma l'impressione è che il governo voglia accelerare, che articolo 18 e ammortizzatori siano sul tavolo, e che i sindacati, almeno Cisl e Uil, siano disposti a concedere qualcosa, magari con una formula che consenta loro di salvare la faccia, per esempio una sospensione sperimentale, della durata di 3 anni, dell'art. 18 per i licenziamenti di natura economica. E si sa, le dighe difficilmente reggono con una breccia aperta.
Monday, February 06, 2012
Non sparate su Alemanno (stavolta)
Anche su Notapolitica
I romani hanno molti validi motivi per cui dolersi dell'amministrazione Alemanno: dall'inefficienza degli uffici allo scandalo assunzioni all'Atac, per non parlare degli infortuni comunicativi. Ma soprattutto per la tendenza del sindaco ad apparire sui temi e nei dibattiti politici nazionali piuttosto che concentrato sui problemi della città. In generale, della sua gestione si può dire quanto si poteva dire di quelle Rutelli e Veltroni: l'ansia di vivere il Campidoglio come trampolino di lancio per la politica nazionale. Il fallimento più clamoroso di Alemanno, come dei suoi predecessori, sta nei pesanti disservizi causati da un evento che, al contrario della neve, nella capitale si presenta puntuale all'appello ogni anno: le prime forti piogge autunnali. Nel caso delle nevicate di venerdì e sabato, invece, Alemanno è stato oggetto di una valanga di biasimo e accuse davvero sproporzionata rispetto ai disagi, molto più pericolosi per la vita stessa dei cittadini, che si stanno verificando altrove nel Paese, al di là del grande raccordo anulare e in altre Regioni del centro.
Lasciando da parte Roma, dove stando alla vulgata il sindaco avrebbe rifiutato l'aiuto della Protezione civile, non saprei dire di chi sia la responsabilità, ma le decine di comuni e frazioni rimasti isolati, le decine di migliaia di utenze senza elettricità, gli automobilisti bloccati nelle autostrade e i passeggeri sui treni, non hanno certo ricevuto soccorsi e assistenza rapidi ed efficienti. Al contrario, dalle immagini dei telegiornali si ha la netta sensazione del totale abbandono. Non mi sento quindi di crocifiggere Alemanno più dell'Anas, dell'Enel, di Trenitalia e della stessa Protezione civile, né più di altre amministrazioni (in provincia e nel Lazio la situazione è anche peggiore, ma critiche a Zingaretti e Polverini non pervenute). E il governo dei tecnici? Nonostante un'emergenza di carattere evidentemente nazionale, è rimasto al calduccio, se si esclude un generico commento di Monti sulla necessità di una maggiore «prevenzione» e un appello del ministro degli interni a «non uscire» di casa, entrambi a cose fatte, nel tardo pomeriggio di sabato.
L'impressione, insomma, è che si sia concentrata su Roma l'attenzione mediatica, anche perché era più comodo per tutti i media verificare la situazione, ma è stata la debàcle complessiva delle reti (elettrica, ferroviaria e autostradale) a metterci in ginocchio – rilanciando il tema dell'efficienza dei gestori, per lo più pubblici – mentre persino la Protezione civile, in passato modello di efficienza, questa volta sembra aver fatto cilecca.
L'impreparazione di Roma alla neve, nonostante le previsioni indicassero l'alta probabilità di un evento straordinario, è in larga misura fisiologica per una città mediterranea dove così tanta se ne vede ogni trent'anni (ma forse nemmeno nell'85 il fenomeno fu di tali proporzioni). C'è da chiedersi innanzitutto se a Roma convenga, sia ragionevole in termini di costi/benefici, essere preparata come Torino e Milano per un paio di giorni di mobilità ridotta (e di passeggiate in centro a scattare foto) ogni trent'anni. Che cosa, concretamente, si può rimproverare al sindaco? Sicuramente si poteva far meglio nella mobilità di superficie. Ma ammesso che gli autobus fossero dotati tutti di gomme invernali, quanti autisti sarebbero in grado di raggiungere il posto di lavoro con i treni regionali bloccati, il raccordo bloccato (che si blocca tutto l'anno anche per un tamponamento) e non dotati a loro volta di gomme e catene sui mezzi propri? Sarebbero state comunque troppo poche le linee attive. E altrettanto si potrebbe dire degli altri servizi pubblici. Ciò per dire che l'impreparazione del Comune alla neve è l'impreparazione dei romani stessi, in pochi sufficientemente equipaggiati e abituati a guidare in simili condizioni.
Roma è una città enorme, forse gli altri italiani non si rendono conto della sua estensione territoriale. Il Municipio XII, per capirci quello dell'Eur, è un territorio vasto quasi quanto Milano, ed è solo la zona più a sud della capitale. Con una tale estensione non si possono certo pretendere spalatori e salatori capillari, spetta ad ogni condominio e/o esercizio commerciale pulire il tratto di propria competenza. Inoltre, meteorologicamente parlando le città a Roma sono almeno 3/4. Per esperienza diretta a Roma sud e in centro già sabato a pranzo si poteva circolare tranquillamente nelle vie principali, senza alcun bisogno di catene o gomme invernali, e molti dei rami abbattuti sotto il peso della neve si erano staccati da alberi regolarmente potati. Molto diversa la situazione nella periferia nord ed est della città, e nell'interland, spesso collinare, dove sono caduti ben più di 35 centimetri di neve. Il blocco dei treni regionali, essenziali per la mobilità dei pendolari che giungono nella capitale dai comuni limitrofi, ma anche dei romani stessi, e il blocco del raccordo anulare e delle vie consolari hanno mandato in tilt la città, ma in questi casi le responsabilità maggiori sono di Ferrovie e Anas, cui spettano sia la manutenzione che i soccorsi.
Non mi stupirei se gli accanimenti politici e mediatici di queste settimane contro Formigoni e Alemanno (il quale è stato pure vittima di un deplorevole furto di identità su twitter) fossero condizionati dalla volontà di alcuni di frenare le loro chance di succedere a Berlusconi nella leadership del centrodestra.
I romani hanno molti validi motivi per cui dolersi dell'amministrazione Alemanno: dall'inefficienza degli uffici allo scandalo assunzioni all'Atac, per non parlare degli infortuni comunicativi. Ma soprattutto per la tendenza del sindaco ad apparire sui temi e nei dibattiti politici nazionali piuttosto che concentrato sui problemi della città. In generale, della sua gestione si può dire quanto si poteva dire di quelle Rutelli e Veltroni: l'ansia di vivere il Campidoglio come trampolino di lancio per la politica nazionale. Il fallimento più clamoroso di Alemanno, come dei suoi predecessori, sta nei pesanti disservizi causati da un evento che, al contrario della neve, nella capitale si presenta puntuale all'appello ogni anno: le prime forti piogge autunnali. Nel caso delle nevicate di venerdì e sabato, invece, Alemanno è stato oggetto di una valanga di biasimo e accuse davvero sproporzionata rispetto ai disagi, molto più pericolosi per la vita stessa dei cittadini, che si stanno verificando altrove nel Paese, al di là del grande raccordo anulare e in altre Regioni del centro.
Lasciando da parte Roma, dove stando alla vulgata il sindaco avrebbe rifiutato l'aiuto della Protezione civile, non saprei dire di chi sia la responsabilità, ma le decine di comuni e frazioni rimasti isolati, le decine di migliaia di utenze senza elettricità, gli automobilisti bloccati nelle autostrade e i passeggeri sui treni, non hanno certo ricevuto soccorsi e assistenza rapidi ed efficienti. Al contrario, dalle immagini dei telegiornali si ha la netta sensazione del totale abbandono. Non mi sento quindi di crocifiggere Alemanno più dell'Anas, dell'Enel, di Trenitalia e della stessa Protezione civile, né più di altre amministrazioni (in provincia e nel Lazio la situazione è anche peggiore, ma critiche a Zingaretti e Polverini non pervenute). E il governo dei tecnici? Nonostante un'emergenza di carattere evidentemente nazionale, è rimasto al calduccio, se si esclude un generico commento di Monti sulla necessità di una maggiore «prevenzione» e un appello del ministro degli interni a «non uscire» di casa, entrambi a cose fatte, nel tardo pomeriggio di sabato.
L'impressione, insomma, è che si sia concentrata su Roma l'attenzione mediatica, anche perché era più comodo per tutti i media verificare la situazione, ma è stata la debàcle complessiva delle reti (elettrica, ferroviaria e autostradale) a metterci in ginocchio – rilanciando il tema dell'efficienza dei gestori, per lo più pubblici – mentre persino la Protezione civile, in passato modello di efficienza, questa volta sembra aver fatto cilecca.
L'impreparazione di Roma alla neve, nonostante le previsioni indicassero l'alta probabilità di un evento straordinario, è in larga misura fisiologica per una città mediterranea dove così tanta se ne vede ogni trent'anni (ma forse nemmeno nell'85 il fenomeno fu di tali proporzioni). C'è da chiedersi innanzitutto se a Roma convenga, sia ragionevole in termini di costi/benefici, essere preparata come Torino e Milano per un paio di giorni di mobilità ridotta (e di passeggiate in centro a scattare foto) ogni trent'anni. Che cosa, concretamente, si può rimproverare al sindaco? Sicuramente si poteva far meglio nella mobilità di superficie. Ma ammesso che gli autobus fossero dotati tutti di gomme invernali, quanti autisti sarebbero in grado di raggiungere il posto di lavoro con i treni regionali bloccati, il raccordo bloccato (che si blocca tutto l'anno anche per un tamponamento) e non dotati a loro volta di gomme e catene sui mezzi propri? Sarebbero state comunque troppo poche le linee attive. E altrettanto si potrebbe dire degli altri servizi pubblici. Ciò per dire che l'impreparazione del Comune alla neve è l'impreparazione dei romani stessi, in pochi sufficientemente equipaggiati e abituati a guidare in simili condizioni.
Roma è una città enorme, forse gli altri italiani non si rendono conto della sua estensione territoriale. Il Municipio XII, per capirci quello dell'Eur, è un territorio vasto quasi quanto Milano, ed è solo la zona più a sud della capitale. Con una tale estensione non si possono certo pretendere spalatori e salatori capillari, spetta ad ogni condominio e/o esercizio commerciale pulire il tratto di propria competenza. Inoltre, meteorologicamente parlando le città a Roma sono almeno 3/4. Per esperienza diretta a Roma sud e in centro già sabato a pranzo si poteva circolare tranquillamente nelle vie principali, senza alcun bisogno di catene o gomme invernali, e molti dei rami abbattuti sotto il peso della neve si erano staccati da alberi regolarmente potati. Molto diversa la situazione nella periferia nord ed est della città, e nell'interland, spesso collinare, dove sono caduti ben più di 35 centimetri di neve. Il blocco dei treni regionali, essenziali per la mobilità dei pendolari che giungono nella capitale dai comuni limitrofi, ma anche dei romani stessi, e il blocco del raccordo anulare e delle vie consolari hanno mandato in tilt la città, ma in questi casi le responsabilità maggiori sono di Ferrovie e Anas, cui spettano sia la manutenzione che i soccorsi.
Non mi stupirei se gli accanimenti politici e mediatici di queste settimane contro Formigoni e Alemanno (il quale è stato pure vittima di un deplorevole furto di identità su twitter) fossero condizionati dalla volontà di alcuni di frenare le loro chance di succedere a Berlusconi nella leadership del centrodestra.
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