«Perché in Italia l’impiego pubblico è un intreccio di diritti acquisiti che nessuno riesce (e per la verità nessuno si propone) di ridimensionare? Perché in Italia gli ordini professionali sono una roccaforte di privilegi corporativi che né la destra né la sinistra hanno mai provato a smantellare? E perché nel nostro Paese quasi tutti coloro che non esercitano un lavoro manuale - dai commercianti ai tassisti - possono agevolmente proteggersi dietro un sistema di licenze, di concessioni e permessi, utili solo a far pagare più cari ai consumatori beni e servizi? In altre parole: perché gli interessi costituiti (tra i quali, dimenticavo, ci sono anche a uno dei primissimi posti le cosiddette pensioni di anzianità) da noi sono sempre vincenti? La risposta è scontata: perché essi ricevono una tutela costante da parte di tutti gli schieramenti politici e a tutti i livelli, dal più piccolo Comune fino allo Stato centrale. Nessun partito, infatti, è così sciocco da volersi alienare l’appoggio elettorale dei gruppi sociali che stanno dietro quegli interessi e, dunque, che esso sia al governo o all’opposizione, cerca di non inimicarseli.
Tutto ciò sembrerebbe la più beffarda smentita del suffragio universale, il quale, concepito per proteggere gli interessi potenzialmente di tutti, sembra tramutarsi in ottimo strumento per la tutela delle minoranze privilegiate (e organizzate). Ma non è così: in realtà, proprio il suffragio universale indica il rimedio. Proprio esso, infatti, consente a un attore politico paladino dell’interesse generale di compiere sulla propria battaglia, sulla propria capacità di convincere l’opinione pubblica, una grande puntata, e di riportare il massimo consenso. Certo, il rischio, nello staccarsi dal comodo approdo degli interessi costituiti, c’è: ma dove si può guadagnare molto è inevitabile che si debba anche rischiare.
Da almeno un paio di decenni, tuttavia, in Italia questo rischio nessuno lo vuol correre. Qui da noi la politica appare dominata dalla difesa e dalla mediazione continue degli interessi particolari, dalla più scialba routine compromissoria perfino quando si affrontano riforme costituzionali come quella federalista.
Il punto è che in una democrazia l’interesse generale può trovare spazio (e relativa attuazione programmatica) solo se a monte della politica c’è un’idea, cioè una visione generale del Paese, delle sue vicende e dei suoi problemi: se c’è un’ispirazione e il proposito vero di obbedirvi, insomma se c’è nel Paese, in specie nella classe politica, una cultura civica. È tutto questo, invece, che da molto tempo ci manca: dopo l’avvento della Repubblica quel poco che la storia ce ne aveva lasciato era stato potentemente integrato (e surrogato) per tre o quattro decenni dalle grandi visioni ideologiche della sinistra marxista e del centro cattolico. Ma una volta esauritesi queste, negli anni Ottanta, e nulla essendo venuto a sostituirle, la politica italiana - è giocoforza riconoscerlo anche per chi quell’esaurimento ha auspicato - si è trovata, e si trova ancora oggi, alle prese con un vuoto di idee e di prospettive unificanti che la rendono incapace, sia a destra che a sinistra, di produrre scelte decise a pro dell’interesse generale anziché continue mediazioni tra gli interessi costituiti. Nessun attore politico è più capace di operare una sintesi, di presentarsi al Paese con un’idea e un ideale coerente da tradurre in cose da fare. E così per l’Italia questo inizio millennio trascorre mentre tutto si sfilaccia, si contraddice, si perde in un declino che sembra inevitabile.»
Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera
Wednesday, August 25, 2004
L'interesse generale è smarrito
Questo ve lo somministro integrale, ché fa bene...
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