Pagine

Wednesday, November 30, 2005

Non è che il modello danese ci mette a sedere?

Io Giavazzi lo capisco, poveraccio. Come fare a non farsi impallinare alla prima uscita i suoi cinque punti specifici di politica economica liberale in un mondo di statalisti? Probabilmente ha creduto di togliere un pretesto mettendo da parte «l'odioso liberismo americano» e prendendo invece come esempio un modello europeo, quello danese. A nulla è servito: il saggio ha indicato la luna... e quelli guardano il dito. Vi pare operazione onesta intellettualmente quella di sottolineare le evidenti differenze tra Italia e Danimarca, che Giavazzi avrà sicuramente a mente, per affossare la «luna» del suo discorso, cioè il licenziamento libero e tutti gli altri quattro punti?
«Ciascuno finge di non vedere e passa oltre la provocazione contenuta nell'editoriale di Giavazzi. Che non è infilare di forza l'abito della ricca Danimarca alla nostra povera Italia, ma segnalare l'accoglimento del principio più licenziamenti, più riassunzioni...»
Come tutti i paesi scandinavi si parla di pochi milioni di abitanti abituati a ben altra efficienza e senso civico. Premesso questo, Tito Boeri si è dimostrato il più ricettivo: pur spaventato dai tremendi costi del welfare danese, ha tentato comunque di declinare quel modello in Italia e ha individuato il problema vero di qualsiasi riforma:
«... vi sono costi politici da pagare nello spalmare le protezioni su tutti, rendendole meno vantaggiose per le categorie maggiormente rappresentate. E vi sono anche costi fiscali, perché costruire un moderno sistema di ammortizzatori sociali costa».
Già, i costi. Un sussidio di disoccupazione che garantisce tre quarti del salario precedente anche tre anni dopo aver perso il lavoro (il 90% per quattro anni, secondo il Riformista) deve costare parecchio. Pressione fiscale al 60% e spesa per il welfare 7 volte la nostra. Pare inoltre che il modello danese abbia portato in vent'anni a un milione di persone in età lavorativa che vivono di sussidi pubblici, il 20% della popolazione. Il 61% degli adulti vive di trasferimenti o è occupato nel settore pubblico (e l'Istituto Bruno Leoni ha recentemente pubblicato un focus che demolisce il "glorioso" modello svedese). Proviamo a immaginare cosa accadrebbe in Italia. Che goduria, per tre o quattro anni con quasi tutto l'ultimo stipendio. E chi ci torna a lavoro? Vi vedo, tutti già seduti sulle vostre sdraio.

Meglio lasciar stare modelli che comunque li rigiri vengono impallinati e andare al sodo dell'"agenda Giavazzi". Cremaschi e Ferrero di Rifondazione, Bersani e Visco dei Ds, opporranno il loro corpo, mentre attendiamo con qualche speranza Treu e un Prodi che non si rimangi le parole di domenica. Almeno, prova a rilanciare Di vico, «la provocazione di Giavazzi ha animato il dibattito, mentre le bozze programmatiche fin qui uscite non hanno acceso alcuna passione». Il guaio è che «un pezzo consistente del centrosinistra finisce per indulgere al programmismo. Il programma per loro è la sommatoria delle domande sociali e la forma lessicale che prende è l'ossimoro... il tentativo di conciliare l'inconciliabile». E «guai a produrre indicazioni precise di governo per i primi cento giorni, guai a fare i conti con le contraddizioni in seno al popolo».

Da parte nostra pieno appoggio alla "linea Giavazzi", con qualche integrazione: 1) piena libertà di licenziamento (e quindi di assunzione) per le aziende sotto i cento dipendenti e nell'impiego pubblico; 2) sussidi di disoccupazione più generosi e per tutti, ma sul livello della mera sussistenza, legati alla formazione e con decadenza immediata alla prima occasione lavorativa; 3) scioperi politici perseguibili come violazioni contrattuali; 4) innalzamento dell'età minima per la pensione a 68 anni; 5) abolizione del sostituto d'imposta e delle trattenute sindacali; 6) abolizione del valore legale della laurea e degli ordini professionali; 7) abolizione dei contratti collettivi nazionali.

Il sistema centralizzato e concertativo delle relazioni industriali, dominato da un gruppo ristretto di sindacati e padronati non è più sostenibile al di fuori di quelle protezioni cadute con la competizione globale. Grazie al contratto collettivo nazionale i sindacati sono di fatto dei fornitori in monopolio di manodopera a particolari industrie. Si tratta della più grave forma di rigidità del mercato del lavoro, in violazione della basilare legge della domanda e dell'offerta. Sostenere i redditi più bassi è un compito del sistema fiscale e del welfare, non di un rigido sistema di stipendi regolati dall'alto.

Tuesday, November 29, 2005

La sinistra neorealista che brinda a Scowcroft e Nixon

Da il Riformista di domani - in evidente polemica con tre articoli neorealisti, dal tono "E ricordatevi che alla fine nel '68 vinse Nixon", apparsi oggi nell'inserto Diplomatique ("Ecco s'avanza l'America post", di Enrico Beltramini; "La rivincita del vecchio Scowcroft", di Stefano Cingolani; "Molti più Democrat faranno marcia indietro, e a ragione", di Bernard Gwertzman).

Caro direttore, come mai l'uomo che brindò con gli artefici del massacro di Tienanmen, che consigliò di non muovere un dito mentre Saddam reprimeva le rivolte del '91, che si definisce «cinico sulla natura umana» («alcuni popoli non vogliono essere liberi»), oggi seduce la sinistra? Se lo chiede Lawrence Kaplan su New Republic. Ogni volta che il kissingeriano Scowcroft apre bocca per criticare la guerra in Iraq, giornali e politici di sinistra applaudono e si compiacciono che tra i repubblicani si riaffermi il realismo. «Il cinismo alla Scowcroft è in voga nel partito che fu di Woodrow Wilson», che addirittura sembra essere diventato «il nemico numero uno». L'idealismo è visto con sospetto e una «cruda versione di realismo a buon mercato» s'impadronisce della sinistra. «Se l'idealismo ha fallito in Iraq, la soluzione è nei mezzi, non abbandonando l'idealismo, certamente non nel cinismo di Scowcroft». Al contribuente americano non importa degli abitanti di Baghdad, ma che i terroristi se ne stiano a casa loro? Però oggi la nostra sicurezza sempre più dipende dall'espansione della democrazia, e la libertà a casa nostra dalla libertà in casa altrui. Scambiando Wilson per Scowcroft, o Bush jr. per Nixon, non facciamo un buon affare.

Un quarto articolo della serie neorealista, quello di Fabio Nicolucci, è solo impreciso nel tentare un'improbabile lettura della scelta di Sharon come un distacco dal «modello neocon» (?). A parte che «il paradigma della sicurezza della destra israeliana e dei neocon» non si basa affatto sullo «scontro di civiltà» e che i neoconservatori non hanno una proposta politica univoca per Israele, i neocon non hanno nulla a che fare con l'estrema destra religiosa israeliana da cui «Sharon il pragmatico» si sta dividendo. E' probabile che i neocon seguiteranno ad appoggiare Sharon.

Per lo più ritengono che il problema israelo-palestinese non possa essere risolto se prima non cadranno le dittature che vorrebbero cancellare Israele dalle carte geografiche e che appoggiano il terrorismo palestinese. In questo la loro strategia per il Medio Oriente si differenzia da quella realista, sia in salsa repubblicana che clintoniana, per la quale invece la risoluzione del conflitto israelo-palestinese sarebbe prioritario e propedeutico rispetto agli altri problemi della regione.

Il liberalismo c'entra eccome con il caso Sofri

Adriano SofriQuando sarà lecito definire illiberali certe idee senza piagnistei e senza chiamare in causa il "patentismo"? Essere liberali non significa mangiarsi qualsiasi idiozia che viene detta o scritta per amore della tolleranza. Accettare che qualunque idea possa definirsi liberale è solo relativismo applicato alla nozione e al termine "liberale", che infatti sempre più scolora.

Bene ha fatto Camillo a bacchettare TocqueVille per le «idiozie» che alcuni, solo alcuni dei blog che ne fanno parte, hanno scritto sul caso di Adriano Sofri. Una critica da archiviare fra le critiche costruttive.

«Non sto dicendo che chi è contrario alla grazia a Sofri è illiberale», ha precisato Camillo. Precisazione utile, infatti non s'intende sostenere che "chi è per la grazia a Sofri è un liberale, chi invece è contrario non è liberale", come qualcuno ha cercato di banalizzare per proprio comodo dialettico. La contrarietà a un provvedimento di grazia per Sofri dovrebbe quanto meno fondarsi sulla sentenza, che pur discutibile sempre sentenza definitiva rimane, e sulla condotta del detenuto. Purtroppo ci è capitato di leggere ben altro. E di questo ben altro vogliamo discutere. Per esempio, Otimaster ha scritto:
«Condivido il parere di coloro che affermano che non è mai stato sufficientemente provato che egli sia stato effettivamente il mandante dell'omicidio, ma quel brindisi infame mai ammesso, ma nemmeno smentito e da molti confermato non lo posso perdonare... poco importa che sia stato lui o meno ad ingaggiare i sicari, certo è che ad armarne la mano contribuirono in modo determinante molti degli articoli infuocati di cui avallò la pubblicazione».
E' scandaloso definire illiberali idee simili?Otimaster sostiene che sia irrilevante che fosse o meno il mandante dell'omicidio Calabresi. Sofri dovrebbe comunque rimanere in carcere per le cose dette e scritte, per il presunto brindisi, per la vile campagna di Lotta Continua. Anzi, neanche c'è da crederci che fosse lui il mandante, ma non importa, a tenere Sofri in carcere dovrebbe essere l'indelebile macchia di una responsabilità morale e non penale. Un principio lontano anni luce dalla civiltà giuridica liberale. Della responsabilità morale si risponde alla propria coscienza e per chi ci crede a Dio.

Come lontana anni luce da quella civiltà giuridica è la pretesa di ottenere dal reo l'abiura, la confessione, o il pentimento. "Uno che non si pente non merita la grazia". Ma come faccio a pentirmi di un reato che non ho commesso? Di fronte al tema del pentimento lo stato liberale fa un passo indietro per non fare violenza alla coscienza individuale. Ammettendo che quella accertata in tribunale, per mezzo di una convenzione umanamente fallibile, rimane una verità processuale e non la Verità ontologica, il detenuto che si proclama innocente non può essere ritenuto un ribelle da penalizzare rispetto agli altri. Non potendo escludere che in carcere vi siano degli innocenti, la società non può pretendere il pentimento. Per questo il provvedimento di grazia per legge può essere esercitato motu proprio dal Capo dello Stato.

Quando sarà lecito definire illiberali idee simili senza piagnistei e senza essere tacciati di patentismo? Essere liberali non significa mangiarsi qualsiasi idiozia che viene detta o scritta per amore della tolleranza. Accettare che qualunque idea possa definirsi liberale è solo relativismo applicato alla nozione e al termine "liberale", che infatti sempre più scolora e perde di significato. Non si tratta di fare del patentismo ma di denunciare come profondamente illiberale, autoritaria e anzi intrinsecamente totalitaria la posizione di chi sostiene che qualcuno debba essere incarcerato per le sue responsabilità morali. Ritengo moralmente deprecabile la campagna denigratoria contro Bush, ma se fosse ucciso i milioni di persone che lo hanno riempito dei peggiori epiteti non dovrebbero finire in carcere.

Illiberale poi è il nostro sistema giudiziario nel suo complesso ed è questo l'unico motivo che mi porta a considerare l'amnistia oggi una misura di semplice buon governo, di riparazione nei confronti di chi oltre alla pena ha subito la scure di una giustizia illiberale e politicizzata. Ha ragione Phastidio, quando scrive che se anche qualcuno fosse stato in gioventù un Adriano Sofri qualsiasi, se poi viene stritolato da una «via giudiziaria all'eliminazione fisica» a me questo non rimane indifferente.

Sofri è stato certamente un "cattivo maestro", ma non è vero che non abbia riflettuto, anche pubblicamente, sulla sua esperienza. E se davvero crediamo che la pena non dev'essere solo punitiva allora possiamo affermare che con Sofri il sistema giudiziario ha già raggiunto il suo obiettivo. Sofri oggi, con il suo impegno civile e contro un pacifismo "senza se e senza ma", potrebbe con pieno titolo far parte di TocqueVille.

Le Guerre Civili ha sintetizzato bene:
«... condannato sulla base di un pentito; in carcere dopo più di 30 anni dai fatti, prigioniero che non chiede la grazia perché si proclama innocente. Mentre i brigatisti storici sono tutti sulle sedie a sdraio e sulle sciovie, Sofri è l'unico a languire perché così decisero a sinistra, per vendetta. La destra è rimasta impigliata nel carro di An, che ha trascinato nell'errore i garantisti liberali. Ora si pentono in parte, sbagliando di nuovo: la galera è per il criminale, non per il politico che sbaglia o che è all'opposizione».

Monday, November 28, 2005

Inchiodiamo Prodi alle sue parole: sì all'agenda Giavazzi

Ne sentiamo spesso di leader politici ripetere espressioni come «riforme profonde», «messaggio forte al paese», programma, innovazione, ricerca, sviluppo e così via. Quando poi si tratta di declinare questi concetti in proposte concrete si defilano tutti e ogni discorso resta appeso nell'ambiguità. C'è forse dibattito più vago e ambiguo di quello sui «programmi»? Proprio nel giorno in cui Di Vico teorizzava la malattia del «programmismo» - le migliori menti di questa generazione politica rinchiuse in improbabili "fabbriche", un po' per prendere tempo un po' per trovare sintesi al ribasso fra ricette del tutto contraddittorie - Fassino ne dava dimostrazione pratica dicendo che secondo lui l'Italia «ha bisogno contemporaneamente di più Stato e più mercato».

Ieri però, chiudendo il Big Talk della Margherita a Milano, Romano Prodi ha inserito nel suo discorso un passaggio inconsueto e stonato per i suoi discorsi così monotoni e generici. Si è detto d'accordo con le cinque «questioni specifiche» esposte da Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera (abolizione del valore legale della laurea; eliminazione degli albi professionali; decadenza immediata del Governatore della Banca d'Italia; scioglimento della Cassa depositi e prestiti e decurtazione del valore dell'Acquedotto pugliese dai trasferimenti di denaro alla Puglia; libertà di licenziamento a fronte di più generosi sussidi alla disoccupazione).
«Per volere bene all'Italia dobbiamo costruire un programma radicale, un programma di riforme forti, un programma di riforme profonde. Non possiamo più permetterci di fare una strategia elettorale e postelettorale in cui il punto fondamentale sia accontentare. Non è possibile accontentare. Per fare un esempio, certo che io rispondo sì alle domande di Giavazzi ieri sul Corriere. Sì, perché l'Italia così non va più avanti. L'Italia così è davvero nel declino che è maliziosamente descritto dall'Economist, in cui l'aspetto non condivisibile è che sia un declino fatale. In cui, qualsiasi sia la soluzione politica, non può andare bene. No, il declino c'è. Il declino è effettivo. Ma noi lo possiamo invertire. E' questo il compito che noi abbiamo».
Un «fatto politico di enorme importanza» per Pannella e Capezzone, che hanno subito battuto sul ferro caldo. Dall'ex ministro Bersani la solita reazione del dirigismo statalista, mentre almeno in parte l'economista Nicola Rossi è stato più possibilista anche se non avanti come Giavazzi. Di più su RadioRadicale.it

Abbiamo capito bene? Bertinotti avrà sentito? Nel programma di Prodi c'è dunque la libertà di licenziare? Non vorremmo essere presi in giro anche stavolta. E per far sì che a Prodi costi politicamente sempre di più rimangiarsi queste parole occorre ricordagliele spesso e alzare il livello della discussione.

Dall'Egitto un'altra prova dell'urgenza democratica

Renzo Guolo probabilmente non lo sa, ma il suo articolo di oggi su Repubblica dimostra la necessità e l'urgenza di attuare a ritmi serrati la strategia di democratizzazione del Medio Oriente sostenuta a Washington da quei neocon per i quali ha parole così stupidamente sprezzanti e in Italia dai radicali di Emma Bonino. L'affermazione dei Fratelli Musulmani alle elezioni egiziane dimostra che i regimi cosiddetti "laici" del Medio Oriente, quelli che avrebbero dovuto assicurare la stabilità, costituire argini efficaci contro l'integralismo, non solo hanno fallito ma sono venuti a patti con la piena che dovevano arginare per conservare il proprio potere. Quello egiziano è l'esempio emblematico.
«Il patto implicito che il regime ha stipulato con il gruppo dopo la dura repressione dell'era nasseriana si è retto su uno scambio silenzioso quanto inequivocabile: al presidente di turno Sadat o Mubarak che fosse, e al blocco sociale che li sosteneva, il potere politico; alla Fratellanza mano libera nella società».
Gli autocrati del mondo arabo come Mubarak usano politicamente gli integralisti, concedendo o negando loro ossigeno a seconda delle convenienze del momento per dimostrare all'"amico" americano quanto in realtà sia sconveniente la democrazia e quanto sia necessaria la repressione dei regimi al potere. Non va dimenticato che il sistema egiziano è ancora un sistema chiuso. L'affermazione dei Fratelli Musulmani è stata indotta in modo spregiudicato, forse con qualche errore di calcolo, dallo stesso Mubarak. Illegali ma tollerati, hanno avuto miglior trattamento di quello riservato ad Ayman Nour e al suo partito liberaldemocratico Al-Ghad, sui quali si sono concentrati gli atteggiamenti intimidatori del regime, come riportato dal Christian Science Monitor. Chiaro il messaggio di Mubarak all'occidente, e alla Casa Bianca in particolare: vedete? io li faccio votare, ma poi vincono gli integralisti islamici. Così la pensa anche il blog Bigpharaoh: «Sarà questa la frase che probabilmente pronuncerà Mubarak al telefono con Bush».

Non dobbiamo cadere in questa trappola retorica che ha il solo scopo di minare la nostra determinazione a promuovere la democrazia in Medio Oriente. Non è vero che quando i popoli arabi e musulmani sono messi in condizione di scegliere, essi scelgono l'integralismo. La verità è che ancora non hanno potuto scegliere liberamente. Insomma, non si è trattato di elezioni libere in cui gli egiziani hanno scelto di sostenere lo slogan integralista "l'Islam è la soluzione", ma di un'operazione messa su dal presidente Mubarak per scegliersi la controparte con la quale venire più facilmente a patti per conservare il potere.

Più delle irregolarità formali infatti a pesare sono state la totale assenza di campagna elettorale e di libertà d'espressione, con il controllo governativo su tutti i mezzi d'informazione, la mancanza di osservatori internazionali e l'opacità delle liste elettorali, quindi la bassa affluenza e il voto ancora interamente o quasi controllato dal partito del presidente. I Fratelli Musulmani sono gli unici che per il loro radicamento sociale sono riusciti a comunicare con l'elettorato. Finché non ci sarà libertà d'espressione, un «ambiente legale di competizione reale», commentava Emma Bonino a Radio Radicale, per altre forze politiche è difficile che ci sia spazio. E' ragionevole, ha aggiunto, che almeno una parte dei Fratelli Musulmani (ma guardando il caso concreto da paese a paese) sia fatta uscire «dal limbo» in cui si trova e si arrivi a «una legalizzazione con diritti e doveri». Un rischio ineluttabile nel dare una possibilità alla democrazia in Medio Oriente è anche quello di veder vincere componenti integraliste, ma non è da escludere che in una società aperta e in elezioni libere forze autenticamente liberali e democratiche possano dire la loro.

«Disgelo» in Medio Oriente

Articoli che faranno discutere. La «speciale devozione» dell'America per la libertà, di Charles Krauthammer (Washington Post). Sempre Charles Krauthammer, sul Weekly Standard, si getta impavido nella mischia del dibattito sulla tortura con le sue dure verità. James Wilson regala al presidente Bush il discorso che ci vuole sull'Iraq (Wall Street Journal): «Stiamo vincendo». La parola fine sul fosforo bianco l'ha scritta Scott Burgess (Tech Central Station). Jim Hoagland parla delle «sorprese» dal Medio Oriente (Washington Post) con le parole dell'attivista democratico egiziano Saad Eddin Ibrahim.

All'inizio contrario alla guerra in Iraq, ora riconosce che «ha scongelato il Medio Oriente, solo come la spedizione di Napoleone nel 1798 fece. Le elezioni in Iraq obbligano i regimi teocratici e autocratici a mettere la democrazia in agenda, anche se solo per combatterci. E' un Medio oriente in cui coloro che credono nella democrazia e nella società civile sono finalmente protagonisti, anche se ancora abbiamo di fronte ostacoli enormi».

Sunday, November 27, 2005

Blog Revolution anche in Cina

Dal New York Times, il caso del blog di Mu Mu, «a dance girl... a party member» da Shanghai. Un blog ironico e dissacrante si fa beffe del regime.

«I nuovi blogger stanno parlando alle spalle delle autorità, ma in modo umoristico», spiega Xiao Qiang, direttore del China Internet Project all'Università di Berkeley, in California.
«Hanno detto spesso che in Cina puoi dire quello che ti pare, intorno a un tavolo da pranzo, ma non in pubblico. Ora i blog sono diventati il tavolo da pranzo, questa è la novità. Il contenuto è spesso politico, ma non direttamente politico, nel senso che non sostieni nulla, ma allo stesso tempo stai minando le basi ideologiche del potere».
Potere sovversivo della satira, del divertimento, e della figa.

Scelta radicale su Israele

Non passi sotto silenzio la svolta, per ora personale, di Piero Fassino su Israele, scrive oggi Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. Superati due tabù: Israele non è più un «brutale stato militarista», ma l'«unica vera democrazia del Medio Oriente»; non si vuole uno «Stato palestinese qualsiasi ma una democrazia» e bisogna essere esigenti con i palestinesi.

Dunque non più "due popoli, due stati", ma "due popoli, due democrazie" dev'essere l'obiettivo.
«... una scelta impegnativa, quella che Fassino, con la formula delle due democrazie, ha indicato alla sinistra italiana. Una scelta, va detto per amor di verità, che è anche un successo dei radicali di Pannella, per tanti anni praticamente gli unici in Italia a difendere l'idea che la democrazia sia l'unica possibile "cura" del conflitto palestinese-israeliano (e per l'intero mondo arabo)».
La proposta Israele nell'Unione europea è il prossimo tabù che dovrebbe cadere.

Saturday, November 26, 2005

«Cinque impegni per i cento giorni»

Li chiede Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera a chi si candida al governo del paese alle prossime elezioni. I Radicali rispondono presente. E la Rosa nel Pugno?

Abolire il valore legale della laurea; eliminare gli albi professionali; concorrenza; privatizzare; libertà di licenziamento. E aggiungerei: innalzamento dell'età minima per la pensione a 68 anni; abolizione del sostituto d'imposta; abolizione del contratto collettivo nazionale; scioperi politici violazioni contrattuali; abolizione delle trattenute sindacali.

Scontri a Baku. Il regime perde la calma?

La polizia disperde a manganellate una manifestazione pacifica a Baku, capitale dell'Azerbaijan. Decine gli arresti e scontri ancora in corso, secondo quanto riferiscono i corrispondenti. In 10-20 mila erano scesi in piazza per protestare ancora contro i brogli del presidente Ilham Aliyev alle ultime elezioni parlamentari.

>> aggiornamenti
Fonte: Reuters

Buongiorno, sono Giuliano Ferrara

Ecco a voi chi è davvero Giuliano Ferrara. Il miglior ritratto possibile da Filippo Facci, conosciuto ieri.
Via Malvino

Friday, November 25, 2005

Puntata che vale la pena

Vi consiglio la puntata di Blogroll stasera, su Radio Radicale alle 23 circa (qui in mp3). Ne vado particolarmente fiero.

Vi segnalo i post sul mio taccuino oggi: Il Vaticano svende i cattolici in Cina (Oggettivista); In pezzi la cristalleria pontificia... scomunicato Bush (No Way); Anche i Cinesi, in fondo, vogliono solo un po' di figa (Lexi); Iran libero! Abbasso la teocrazia! (Malvino); Apriamo i consultori al movimento pro-life, ma a che pro? (francesconardi.it); Sweet Swift (Malvino); Perchè spesso ci vergogniamo di essere italiani (2twins); Crolla anche il mito della Svezia socialista (Le Guerre Civili); Tramonto zapateriano. Un capolavoro di Enzo Reale (1972); Russia ready to curb NGO activity (Publiuspundit); Otto e Mezzo on Falluja: riflessioni veloci (Wellington); Veltroneide. Un sobrio e minimalista ritratto del Sindaco Buono (La Zanzara).

Buona notte e buona fortuna.

Il paese che non ce la farà/2

Quando capiremo che ad oggi siamo i favoriti a vincere il premio "Il paese che non ce la farà"? Il rapporto dell'Economist è duro anche nei toni («la commedia è finita») e forse fa bene, se riesce a parlare al piccolo patriota che è ancora in noi. Proprio nel giorno in cui Di Vico teorizza la malattia del «programmismo» - le migliori menti di questa generazione politica del centrosinistra rinchiuse in improbabili "fabbriche", un po' per prendere tempo un po' per trovare sintesi al ribasso fra ricette del tutto contraddittorie - Fassino ne dà dimostrazione pratica dicendo che secondo lui l'Italia «ha bisogno contemporaneamente di più Stato e più mercato». Beh, se voleva essere una specie di slogan rassicurante, così i cittadini rischiano di non capirci più nulla. Prima o poi il momento di scelte chiare a tutti e irrevocabili arriva. L'Economist ci ha brutalmente avvertito che quel momento è arrivato. E' ora. Fino a quando faremo orecchie da mercante?

Orecchie da mercante le ha fatte oggi Enrico Boselli, facendo la sua demagogica comparsa al fianco degli inutili scioperanti. «E' una finanziaria solo fatta di tagli». E ce ne dovranno essere di tagli nel prossimo futuro, caro Boselli. Ben più corposi. «Quando si sciopera per difendere le condizioni di vita dei lavoratori e dei ceti socialmente deboli i socialisti e i partiti della sinistra non possono che essere al fianco dei lavoratori». E ce ne dovranno essere di scontri con i sindacati, caro Boselli. Ben più aspri. Anzi, è dal numero degli scioperi che subisce che si distingue un governo riformatore. Berlusconi lo ha capito, è un po' più furbo: «Noi siamo riformisti, i sindacati vogliono mantenere lo status quo». Su questo ha ragione, stare oggi con gli scioperanti vuol dire stare con lo status quo. Non si sfugge.

Te lo sei letto il survey sull'Italia dell'Economist? La Rosa nel Pugno non andrà lontano se cede alle prime sirene del vecchio sindacalismo. Gli scioperi di oggi offrivano una splendida occasione per rimarcare non un sostegno a una finanziaria pressoché inutile, ma una posizione critica nei confronti di un sindacalismo vecchio, becero e conservatore. Mettiamo le cose in chiaro, caro Enrico, perché così non andiamo lontano.

Prodi si sa, è solo l'"alternanza", ma è con il Boselli di oggi che dovremmo costruire l'"alternativa"? Vorremo saperlo.

I popoli oppressi l'arma più potente per la rivoluzione democratica

Michael LedeenHo tradotto per voi l'ultimo grande articolo di Michael Ledeen, «Engage!», uscito un paio di giorni fa su National Review. Buona lettura.

Se volete vincere il dibattito, vincete la guerra

Piaccia o no, siamo in una guerra regionale e non può essere condotta efficacemente all'interno di un ristretto confine nazionale. Non ci sarà mai una sicurezza decente in Iraq fino a che i tiranni a Teheran e Damasco rimangono al potere.

Più di tre anni fa, prima della liberazione dell'Iraq, lamentavo che il nostro grande dibattito nazionale sulla guerra contro il terrorismo fosse un dibattito sbagliato, perché era «sull'uso della nostra irresistibile potenza militare contro un singolo paese per deporre il suo leader, mentre dovremmo discutere l'uso di tutto il nostro ingegno politico, morale e militare per sostenere una vasta rivoluzione democratica per liberare i popoli del Medio Oriente dai loro governanti tirannici. Quella è la nostra missione reale, l'essenza della guerra in cui siamo coinvolti e l'argomento appropriato del nostro dibattito nazionale.»

Il dibattito appropriato non è stato ancora intrapreso e l'incapacità di condurlo da parte dell'amministrazione rivela una grave mancanza di visione strategica. La guerra è stata strettamente mirata contro il regime iracheno di Saddam Hussein. Ma, come il presidente Bush stesso ha detto dopo l'11 settembre, era davvero, dal punto di vista logico, una guerra sia contro i terroristi stessi sia contro i regimi che adottano, sostengono, armano, addestrano, indottrinano e guidano le legioni dei terroristi che stanno proclamando la nostra distruzione.

A seguito della sconfitta dei Talebani, rimanevano quattro regimi siffatti: L'Iran, Iraq, la Siria e l'Arabia Saudita. Erano questi i veri "signori del terrore" (Master of Terror), senza il cui sostegno attivo i gruppi terroristici non avrebbero potuto lanciare un jihad globale. Essi avevano - e i tre sopravvissuti ancora hanno - due denominatori comuni: tutti attivamente sostengono il terrorismo in un modo o nell'altro e tutti sono tirannici.

Al contrario di molto dell'odierno senso comune, non tutti si fondano sul fanatismo religioso: Saddam non aveva convinzioni religiose, essendo salito al potere come socialista secolare, e la dittatura della famiglia Assad ha origini simili. Non sono tutti arabi: gli iraniani (a parte una piccola minoranza nel sud), dovrebbero trattenere da quella errata identificazione. Tutti condividono un odio comune per il mondo occidentale e un malcelato disprezzo per la loro stessa gente, sapendo troppo bene che i loro cittadini oppressi costituiscono una minaccia al loro potere e alla loro autorità.

Non è casuale che i signori del terrore lavorino insieme, nonostante le differenze spesso esagerate fra arabi e persiani, sunniti e sciiti. Siriani e iraniani hanno lavorato spediti culo-e-camicia per anni, sostenendo Hezbollah e altri gruppi terroristici nel Libano occupato. Quasi una decade prima che fu rovesciato lo Shah dell'Iran, le fanatiche Guardie rivoluzionarie sciite dell'Ayatollah Khomeini venivano addestrate nel Libano dai terroristi sunniti di Al Fatah di Yasser Arafat. Stanno lavorando insieme oggi, per uccidere i soldati della coalizione e gli iracheni.

Il più pericoloso e paradossalmente il più vulnerabile dei signori del terrore era, e probabilmente ancora è, l'Iran. Quasi tutti concordano che l'Iran ha svolto un ruolo unico nella guerra del terrore che è stata intrapresa contro gli Stati Uniti da quasi un quarto di secolo. Secondo l'indagine annuale del Dipartimento di Stato, l'Iran è stato a lungo lo sponsor principale nel mondo del terrorismo internazionale. Sia Hezbollah che la Jihad islamica sono creazioni e clienti iraniani, il che spiega come mai Imad Mugniyah di Hezbollah e Aywan Al Zawahiri della Jihad islamica e di Al-Qaeda continuano a incontrarsi a Teheran, in compagnia di Abu Musab Al Zarqawi, il capo del jihad in Iraq che aveva lavorato fuori Teheran per molti anni. Non sorprende che la Commissione sull'11 settembre abbia trovato la pesante prova della collusione fra l'Iran e Al-Qaeda, risalente alla metà degli anni '90.

Nel 2002 ho sostenuto che la nostra prima azione contro i signori del terrore dovesse essere dare appoggio politico ed economico al popolo iraniano nei suoi sforzi per rovesciare il regime dei mullah. A quel tempo, le strade delle città principali del paese si riempivano di dimostranti quasi ogni settimana. Se l'opposizione democratica avesse ricevuto lo stesso genere di aiuto che abbiamo dato a Solidarnosc in Polonia, alle forze anti-Milosevic in Jugoslavia e al movimento anti-Marcos nelle Filippine, i mullah potevano essere buttati giù allora, rendendo così la guerra contro Saddam, gli Assad e le componenti terroriste della famiglia reale Saudita molto più facile, riducendo notevolmente la potenza militare necessaria. Una strategia di sostegno attivo alla rivoluzione democratica attraverso la regione era precisamente la cosa che il presidente Bush proponeva ed era storicamente sensata: facendo parte di quella sostanziale diffusione della libertà delle decadi recenti, inclusa la sconfitta dell'impero sovietico.

È stato obiettato che una missione così rivoluzionaria fosse troppo ambiziosa e che la prudenza richiedeva di muoverci con attenzione, un caso alla volta, nel frattempo tessendo le nostre difese diplomatiche con gli amici, gli alleati e gli indecisi. Ma, come accade spesso, la strategia "prudente" si dimostra la più pericolosa. Muoversi passo dopo passo - prima l'Iraq, poi vediamo - ha dato ai rimanenti signori del terrore il tempo necessario a organizzare il loro contrattacco prima che liberassimo l'Iraq e, come prevedevo, il tempo supplementare usato anche per sviluppare le armi di distruzione totale che logicamente ci preoccupano e mettono urgenza alla nostra causa.

Il lungo periodo d'ozio dopo la sconfitta dei Talebani, accompagnato al difetto di visione strategica che ci ha impedito di vedere la natura regionale della guerra, ha permesso ai signori del terrore di sviluppare una strategia collettiva, per la quale eravamo notoriamente impreparati. Tuttavia non c'era giustificazione perché lo fossimo, poiché, alla vigilia dell'operazione Iraqi Freedom, il dittatore siriano Bashar Assad annunciò pubblicamente che una guerra terroristica si sarebbe scagliata contro di noi all'interno dell'Iraq. E che la guerra terroristica si sarebbe basata sul modello della riuscita campagna contro le forze americane in Libano nella metà degli anni '80. E così fu, compresa l'alleanza siriano-iraniana (sunnita-sciita), usando spesso come volontari i jihadisti sauditi.

Piaccia o no, siamo in una guerra regionale e non può essere condotta efficacemente all'interno di un ristretto confine nazionale. Non ci sarà mai una sicurezza decente in Iraq fino a che i tiranni a Teheran e Damasco rimangono al potere. Sanno che la diffusione della libertà è una minaccia terribile per loro e che se avesse successo un Iraq democratico, il loro potere e la loro autorità sarebbero a rischio. Ecco perchè stanno intraprendendo una guerra di sopravvivenza contro di noi in Iraq.

È virtualmente impossibile leggere la stampa quotidiana senza trovare almeno qualche ulteriore prova del profondo coinvolgimento dei siriani e dei mullah nella guerra del terrore in Iraq e gli iraniani sono dentro fino al collo pure in Afghanistan. Il presidente afghano Hamid Karzai parecchie settimane fa ha dichiarato che giocare in difesa contro i terroristi nel suo paese non va granché bene. Karzai ha sottolineato che dobbiamo combattere quei paesi stranieri dove i terroristi vengono addestrati, il che certamente include l'Iran. Ci sono abbondanti informazioni sul sostegno congiunto iraniano/siriano ai terroristi in Iraq, comprese le fotografie scattate dopo la battaglia per Hilla l'anno scorso, che hanno mostrato i capi terroristi incontrarsi in Siria con i funzionari dei servizi segreti militari iraniani e siriani. Mi è stato confermato da un traduttore che ha lavorato per le forze speciali degli Stati Uniti durante e dopo la battaglia, che inoltre ha letto i documenti con informazioni simili sia a Hilla che a Fallujah.

La nostra arma più potente contro i signori del terrore è la rivoluzione, tuttavia siamo stranamente tiepidi nel sostenere le forze pro-democrazia in ciascun paese. Né c'è alcun segno di appoggio agli operai iraniani, che giusto il mese scorso hanno organizzato un breve sciopero nazionale. Gli operai hanno bisogno di fondi per starsene via dal lavoro e rimanersene a casa, una lezione imparata dall'Ayatollah Khomeini, che ha fatto arrivare sacchi di riso dappertutto nel paese nelle settimane dei grandi scioperi contro lo Shah nel 1979. I gruppi di opposizione hanno bisogno di buoni mezzi di comunicazione, da telefoni cellulari e satellitari a pc portatili e server. Non sarebbe molto difficile organizzare questo tipo di supporto; non fu quello il difficile negli anni '80, quando abbiamo fatto lo stesso per Solidarnosc e altre forze democratiche nell'impero sovietico.

Purtroppo non abbiamo una politica per sostenere il cambiamento di regime a Teheran o Damasco. Effettivamente, non c'è affatto una politica, dopo quattro lunghi anni dall'11 settembre. Un funzionario del Dipartimento di Stato recentemente mi ha assicurato che ci sono riunioni regolari sull'Iran, sebbene non ci sia ancora consenso su cosa fare. Se è per paralisi o per appeasement è difficile da dire, ma certamente non è un modo di intraprendere una guerra contro il terrore.

Se potessimo superare l'errore strategico di base - che si è riflesso nel dibattito nazionale come nel nostro comportamento sul campo in Iraq - potremmo ancora vedere che teniamo le carte vincenti. La libertà effettivamente si è diffusa attraverso la regione. Al contrario delle sicure previsioni di molti esperti, molti, forse la maggior parte, gli arabi ed i musulmani aspirano alla democrazia e sono disposti ad assumersi responsabilità enormi per ottenerla. La Siria ha ricevuto parecchi colpi devastanti alla sua egemonia un Libano come risultato di una rivolta popolare. Gli Egiziani e i Sauditi devono almeno fingere di tenere elezioni libere. Le persone in Iran vengono percosse, torturate e uccise come mai prima, ma quasi ogni settimana ci sono dimostrazioni di vasta portata, che coinvolgono anche le regioni petrolifere senza le quali il regime dei mullah sarebbe sull'orlo del crollo. E c'è un incoraggiante impulso di entusiasmo pro-democrazia nella stessa Siria. Queste persone sono i becchini del vecchio ordine tirannico in Medio Oriente e meritano il nostro aiuto.

Gli argomenti principali contro questa politica sono che i regimi repressivi a Damasco e Teheran hanno saldamente in mano il controllo; che ogni ingerenza che facciamo provoca un ritorno di fiamma, che conduce i potenziali democratici dalla parte dei regimi in uno spasmo di indignato nazionalismo; e che i movimenti democratici sono guidati male, quindi destinati a fallire. Le persone che stanno dicendo queste cose - nelle università, al Dipartimento di Stato, nel Consiglio di sicurezza nazionale e nella comunità dell'intelligence - dissero spesso le stesse cose del nostro sostegno alla rivoluzione democratica all'interno dell'impero sovietico poco prima del suo crollo. Hanno dimenticato la lezione del Machiavelli che la tirannia è la forma più instabile di governo e si sono dimenticati quanto il mondo cambia quando gli Stati Uniti agiscono contro i loro nemici. La maggior parte degli esperti pensò che Ronald Reagan fosse fuori di testa quando decise di buttare giù l'impero sovietico e difficilmente uno oggi poteva credere che una rivoluzione democratica avrebbe buttato giù i dittatori in Georgia, in Ucraina e in Serbia. Tutte queste dittature sono state rovesciate da una piccola percentuale attiva di popolazione; in Iran, secondo i sondaggi d'opinione pubblica del regime stesso, la stragrande maggioranza prova avversione per i mullah. Perché dovrebbe essere più difficile rimuovere la Guida suprema iraniana e il dittatore siriano di quanto lo fu mandare Mikhail Gorbachev in pensionamento anticipato?

Qual è l'alternativa? Se non ci impegniamo, presto ci ritroveremo ad affrontare un Iran nucleare certamente incoraggiato ad accrescere il suo appoggio ad Al-Qaeda, a Hezbollah, alla Jihad islamica, a Jamaah Islamiah e ad Hamas e a raddoppiare i suoi sforzi per far fallire il fragile esperimento democratico in Iraq. Qual è la politica più prudente? Prudentemente difendere l'Iraq solo, o sostenere i rivoluzionari contro i signori del terrore? L'appoggio attivo delle forze democratiche in Medio Oriente sarebbe la giusta politica, anche se non ci fosse una guerra del terrore e anche se l'Iran non fosse a un soffio dalle armi atomiche. È tutto ciò che l'America è.

E Camillo ci segnala che ora anche Timothy Garton Ash sul Guardian si è convertito al regime change e dice le stesse cose che Ledeen «predica da anni», anche se «con molte più parole e in modo molto più confuso e facendo mille premesse e aprendo cento parentesi e fornendo decine di excusatio non petite».

Thursday, November 24, 2005

La Guia radicale che non t'aspetti

Tutto si potrà dire della Guia Soncini, ma oggi ha dimostrato di saper essere una splendida editorialista. Ha saputo cogliere brutalmente in fallo il suo direttore. Una contraddizione non ricomponibile, che dimostra non tanto la strumentalità o l'opportunismo dell'operazione politico-editoriale di Ferrara, ma l'autoritarismo di fondo che contraddistingue le sue posizioni. A Matrix Ferrara sentenzia che «la salute della donna risiede nella sua capacità di generare» (frase già sprezzante perché sancisce la figura della donna-contenitore), mentre durante i dibattiti sulla procreazione assistita sosteneva che la sterilità non è una malattia che va curata, ma una condizione naturale da accettare come tale. In un modo o nell'altro, ogni giravolta, ogni scusa è buona per proibire.

Scusi lei, ha tendenze omosessuali?

Da oggi è finalmente noto il documento ufficiale con cui il Vaticano dice "no" all'ammissione di omosessuali nei seminari per l'Ordinazione sacerdotale. La Chiesa non ammette al sacerdozio chi «pratica» l'omosessualità. E fin qui nulla di nuovo, i preti non potrebbero praticare nemmeno l'eterosessualità. Non è ammesso nemmeno chi presenta «tendenze omosessuali profondamente radicate» o chi sostiene «la cosiddetta "cultura gay"». La domanda terribile che sorge spontanea è come verranno diagnosticate le «tendenze omosessuali profondamente radicate»; come sarà individuato chi, in coscienza, tende. Esame del sangue? Delle urine? Di qualcos'altro? Basterà una dichiarazione dell'esaminando o è già pronta una macchina per l'esame di coscienza? Perdonate l'ingerenza, ma sarei curioso di sapere in concreto come. Poco meno poco più di una "caccia alle streghe"?

Boccate di realtà

Christian Rocca, appena sbarcato in America, si gode la sua boccata di realtà.
«Sull'Iraq sono moderatamente ottimista. Abbiamo risolto un problema, Saddam, e sono convinto che alla fine vinceremo. Non vedo perché dovremmo fare autocritica. E se dovessi muoverne una al presidente George W. Bush è quella semmai di non essere abbastanza ambizioso: sulla democratizzazione dovremmo essere più pressanti, sia con i nostri alleati, Egitto e Arabia Saudita, sia con la Siria». William Kristol
Lawrence F. Kaplan, su New Republic, scrive delle curiose «tradizioni» avviate con questa guerra: i liberal «contro il liberalismo». Ogni volta che il kissingeriano Scowcroft apre bocca per criticare la guerra in Iraq, i Democratici, gli editorialisti liberal e i blogger di sinistra applaudono. «Il cinismo alla Scowcroft è in voga nel partito che fu di Woodrow Wilson», che addirittura sembra essere diventato «il nemico numero uno tra i liberal». Una «cruda versione di realismo a buon mercato» ha suggestionato la sinistra americana. «Se l'idealismo ha fallito in Iraq, la soluzione sta nei mezzi, non abbandonando l'idealismo, e certamente non nel cinismo di Brent Scowcroft», conclude Kaplan.
Sapesse che succede in Italia...

Solo chi guarda all'Iraq con le lenti del pregiudizio, scrive Max Boot sul Los Angeles Times, pensa che le cose in Iraq stanno andando male e che la guerra è stata un errore. I dati dicono il contrario.

Wednesday, November 23, 2005

Conoscere lo zapaterismo

«Questa è la cronaca di un disastro annunciato. È la storia di un'involuzione, di un ripiegamento su se stessi, di una fuga dalla realtà camuffata da progresso, la sintesi e la proiezione della crisi di un continente».
Inizia così l'atto di accusa di Enzo Reale (1972) contro lo zapaterismo sull'ultimo numero di Ideazione. Lettura consigliata. Mi pare che la sinistra spagnola che esce dal suo ritratto soffra della stessa malattia di quella italiana, di quel «complesso dei migliori» di cui ha di recente parlato Luca Ricolfi, il complesso di superiorità morale, l'arroganza di presumersi la parte sana del paese.
«... la deriva zapateriana si nutre di un'elevata dose di conformismo sociale e dell'assenza di una cultura critica alternativa al pensiero unico».
Sarebbe una distanza incolmabile dall'attuale sinistra britannica del New Labour di Tony Blair.

Oltre a «giocare con il fuoco» del terrorismo basco, ad apparire inquietante è tutta la politica estera di Zapatero. Abbiamo già criticato chi comunque, della scelta del ritiro immediato dall'Iraq deciso da Zapatero, ha voluto apprezzare il tener fede a una promessa elettorale, ma Reale ricorda un particolare non insignificante.
«In realtà Zapatero, sia durante la campagna elettorale che nelle dichiarazioni successive alla vittoria, aveva affermato che, nel caso l'Onu non si fosse fatta carico della situazione in Iraq entro il 30 giugno, avrebbe richiamato i soldati. Una volta giurato come presidente optò invece per il ritiro immediato. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1546 dell'8 giugno 2004 avrebbe ribadito l'appoggio al processo politico in corso in Iraq e alla presenza delle truppe della coalizione già espresso il 16 ottobre 2003 con la risoluzione 1511».
Dunque la promessa elettorale non era il ritiro subito, ma il ritiro entro il 30 giugno nel caso in cui eccetera eccetera...

Lo spinoso tema dei matrimoni gay. Ci pare che più che contestare la scelta di aver riconosciuto alle coppie gay gli stessi diritti e doveri che con il matrimonio contraggono gli eterosessuali, l'articolo contesti il metodo della depurazione linguistica:
«... per estendere un istituto giuridico ad uno specifico settore della società che fino a quel momento non vi poteva accedere, si è proceduto ad un capovolgimento della teoria liberale in materia di diritti civili: invece di riconoscere uguali diritti nella diversità, si è scelto di annullare la diversità in nome del riconoscimento di un preteso diritto... è stata sufficiente una semplice modifica lessicale: dove c'erano moglie e marito la neolingua ha previsto il termine di coniugi, dove padre e madre quello di genitori. Tutto rigorosamente neutro, tutto concettualmente depurato».
E' indubbio che il boom economico spagnolo sia sotto tutti gli aspetti merito di Aznar, ma almeno su questo sembra che Zapatero non voglia cancellare quanto fatto di buono dal suo predecessore, semmai proseguire: intanto abbassando di ben 5 punti percentuali le tasse sulle imprese. Ed è qualcosa che noi ci sogniamo con qualsiasi governo, o sbaglio Enzo?

Editti bulgari

«La decisione di sospendere il programma non ha nessuna ragione politica o di censura. Deriva esclusivamente dal comportamento del conduttore Michele Santoro lesivo dell'immagine della Rai, del Canale e del suo Direttore. La sospensione è stata decisa dal Direttore del Tg2, in attesa delle valutazioni in merito ai provvedimenti da prendere, da parte degli uffici Rai competenti, in seguito alle affermazioni calunniose, denigratorie e eticamente scorrette fatte dal conduttore in diretta in aperta violazione contrattuale. La sospensione del programma è finalizzata a impedire il ripetersi di un uso personale e di parte e gravemente lesivo per l'immagine dell'Azienda e del Canale, come, purtroppo, è già avvenuto in altre occasioni da parte del conduttore, nonostante i richiami della Direzione».
Ebbene, proviamo a vedere se sostituendo al nome di Michele Santoro quello di Pierluigi Diaco, e al "Direttore del Tg2" il "Direttore di Rainwes24" Roberto Morrione, la reazione della sinistra sarà la stessa indignazione che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni.

Non so cosa abbia fatto Diaco e non ho mai visto la sua trasmissione. Sono portato a dubitare che abbia fatto «uso personale e di parte» del programma, ma se così fosse non mi scandalizzerei per la chiusura della trasmissione e non parlerei di censura. Ecco, comunque, quello che dice l'interessato:
«Ho appena ricevuto una comunicazione dal capostruttura di Rainews 24 che mi invita a non presentarmi per la realizzazione della mia trasmissione, "21.15", che è stata irrevocabilmente sospesa. Fino a questo punto ho tentato di avere un dialogo con il mio direttore ma a questo punto parlo di censura».

Il paese che non ce la farà

L'impietoso quadro disegnato da Ferrucio De Bortoli sulla realtà economica italiana coincide non a caso con la nervosa vigilia della pubblicazione, giovedì, dell'inchiesta dell'Economist sullo stato del nostro paese, che si preannuncia drammatico. Non si tratta stavolta di definire unfit a governare Berlusconi o Prodi, ma unfit l'intero paese a stare nel mondo di oggi.
«Guardando alla qualità, risibile, del nostro confronto sui temi della concorrenza e della crescita viene il dubbio che qualunque sia il risultato delle prossime elezioni la situazione non cambi. O cambi poco. L'interrogativo è dunque se non vi siano ancora nel nostro paese troppe riserve sull'economia di mercato e se non sopravvivano molte tossine antindustriali delle due principali eredità politico-culturali del dopoguerra, quella socialista-comunista e quella cattolica. In altre parole, se la cultura prevalente non conservi una resistente riserva mentale sui valori dell'impresa e della imprenditorialità.
(...)
In un Paese come il nostro, nel quale le relazioni contano più dei risultati, le amicizie più del merito, le consorterie più delle scuole, l'impresa anziché essere al primo posto, protagonista dello sviluppo, si ritrova spesso nello scomodo ruolo dell'ospite».
Del «verdetto» dell'Economist ha cominciato a parlare Antonio Polito, osservando che l'antipatico direttore Bill Emmott su una cosa ha ragione:
«Le maggiori istituzioni della storia italiana recente non sono mai state a favore dei valori di mercato... a differenza della Gran Bretagna, la società italiana non possiede in sé nessuna istintiva affinità con valori come la competizione e il mercato».
Il Financial Times, quotidiano certo non di sinistra, osserva che le «priorità» di Berlusconi - come la ex Cirielli e la riforma elettorale, cioè «il ritorno al vecchio sistema proporzionale che ha prodotto governi cronicamente instabili per 45 anni» - «mettono in pericolo le riforme». Mentre le priorità dell'Italia sarebbero altre: stagnazione economica, perdita di competitività, regressione del reddito nazionale (fra cinque anni saremo superati dalla Spagna, sostiene l'Economist).

Berlusconi «ha sprecato una grande opportunità di riforme economiche» per inseguire «priorità troppo spesso di natura personale o di miope politica di partito», dice a il Riformista l'autore dello studio dell'Economist sull'Italia, John Peet.
«Ha promesso molto e fatto poco. Non ha affrontato quegli interessi costituiti, quelle lobbies, che frenano la trasformazione del paese in un'economia più moderna e dinamica. A me l'Italia è parsa immersa in guai seri. La crisi della sua economia appare strutturale, non solo condizionata da fattori contigenti. Diciamo che le grandi tendenze dell'economia globalizzata rischiano di mettere ai margini un paese che non ha fatto in tempo i mutamenti che erano necessari».
E Prodi? Naaaa. Non appare certo come un «natural believer» nelle teorie del free market, nei confronti delle quali appare anzi sospettoso. E poi c'è la coalizione, con ben due partiti che oltremanica non esitano a definire «unriformed communist».

Competitività delle imprese; costo dei servizi (banche ed energia); costo e rigidità del lavoro; contrazione della forza lavoro; crisi della previdenza e del debito pubblico. Sono tutti i punti critici del nostro sistema che richiedono un approccio liberale che Berlusconi ha disatteso e da cui il centrosinistra è ancora lontanissimo. Se siamo di meno a lavorare e lavoriamo meno ore come possiamo pretendere il benessere di chi lavora di più? Chi per cultura e per volontà potrebbe liberare il paese dal peso delle lobby, delle corporazioni, degli interessi protetti? Chi può attuare l'"agenda Giavazzi"?

Prendiamo la riforma della previdenza complementare. E' stata fatta la scelta illiberale di regalare il monopolio del tfr a sindacati e padronati senza tenere in nessun conto la volontà e il diritto a scegliere dei lavoratori, cui il tfr apparterrebbe. E' il liberalsocialista Giuliano Cazzola ad avvertire «l'esigenza di fare del lavoratore - come singolo - un soggetto capace di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori».
«L'esperienza, fino ad ora compiuta, sta a dimostrare, con i suoi limiti, che una maggiore concorrenza, nel contesto dell'offerta di un'effettiva articolazione di opportunità, renderebbe più efficiente ed esteso il sistema della previdenza complementare. Sbagliano, invece, le parti sociali a rivendicare un primato che non hanno la forza e la capacità organizzativa di gestire, in condizioni di sostanziale monopolio».
Non bisogna temere di chiamare le cose con il loro nome: dire che dalla casa e dalla previdenza dovrebbe ripartire il rilancio della nostra società come una società di proprietari e di servizi. Proprietà è sicurezza, stabilità, benessere, risorse da destinare ai non-proprietari e agli esclusi per far sì che lo siano temporaneamente. L'idea alla base del vasto programma di riforme "di sinistra" della presidenza Bush negli Stati Uniti. Che si coniuga bene con l'approccio liberale e blairiano dell'Enabling State. Lo Stato che "abilita": accresce le facoltà e le opportunità degli individui secondo l'inscindibile binomio libertà-responsabilità e rende i cittadini capaci di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori («Possiamo creare delle opportunità, ma non possiamo gestire le vite o gli affari delle persone»). Education, education, education e lotta dura contro i privilegi, contro tutti i privilegi, sono le vere questioni sociali (e radicali) di oggi.

Se solo la sinistra si liberasse della cultura catto-comunista che rischia di portare nel XXI secolo l'arretrato pregiudizio antimercato, e se i semi liberali venissero fatti germogliare senza timore da parte dei partiti di perdere posizioni acquisite, vi sarebbe almeno una chance di approdare a un sistema politico secondo uno schema destra conservatrice/sinistra liberale. Il nodo da sciogliere, che farà la differenza tra il fallire e il riuscire, lo ha indicato oggi Oscar Giannino su il Riformista: fare ministri i liberali. Altrimenti, saranno soltanto parole quando va bene, o grida contro la "macelleria sociale" quando va male.

«Per noi le libertà non possono essere distinte dalle responsabilità, i diritti non possono essere disgiunti dai doveri». (Emma Bonino)

Il «genio pastorale» dei fraticelli di Assisi

Avrete saputo del "commissariamento" delle attività dei frati francescani di Assisi. L'automia di cui godevano dal 1969, grazie a un Motu proprio di Paolo VI, è stata revocata e i fraticelli sono stati riportati sotto il controllo della diocesi, grazie a un Motu proprio di Benedetto XVI. La reazione dei francescani, che apprendiamo dal Corriere della Sera dell'altro ieri, sta tutta nelle parole di padre Vincenzo Coli, il Custode: «Il controllo del vescovo può diventare un intralcio se rallenta le procedure». Mai esempio poteva essere più emblematico dei motivi che potrebbero aver spinto il nuovo Pontefice alla revoca dell'autonomia: «Quando decidemmo di invitare Tarek Aziz bastò una riunione. Adesso chissà come andrebbe a finire».

Padre Pasquale Magro lamenta che «con il nuovo sistema vogliono mortificare la nostra libertà di genio pastorale». Sai che genialata pastorale, invitare Tareq Aziz in Basilica. «Chiunque arrivi da voi, amico o nemico, ladro o brigante, accoglietelo con bontà», è la regola del Santo. Però bisogna vedere come lo si accoglie un Tarek Aziz, se con tutti gli onori o come figliol prodigo penitente.

Cos'ha quel Bobo in testa?

Secondo la sua ultima giravolta Bohboh Craxi sarebbe pronto a «convergere» con radicali e Sdi. Ma solo qualche giorno fa, in un incontro con i socialisti di Treviso, sembrava di diverso avviso: «La nostra idea è quella di fare unità con i socialisti: di farla con Pannella non è nella nostra testa» (Il Gazzettino).

Tuesday, November 22, 2005

La pace democratica. Per molti lo schiaffo della realtà/2

«La realtà non è come appare». Inizia con queste parole un istruttivo articolo di Stefano Magni su ideazione.com. Da sempre più frequenti studi autorevoli, l'ultimo lo Human Security Report presentato alle Nazioni Unite, si evince che il mondo, dopo il collasso dell'Unione Sovietica, è diventato «un luogo più pacifico in cui vivere». Ne avevamo già parlato in altri post. Un mondo più pacifico è il risultato della diffusione della democrazia nel mondo.
«Anche se non ce ne vogliamo rendere conto, noi viviamo in un mondo più libero, più pacifico e più ordinato rispetto a quello "bipolare" di 15 anni fa. Da quando è crollata l'Unione Sovietica stiamo tutti meglio, sotto ogni punto di vista».
Tra gli sconfitti, ovviamente, i regimi comunisti, «i maggiori assassini del XX secolo», ma anche «i maggiori generatori di disordine internazionale e di conflitto». Tra gli sconfitti annoveriamo anche tutti i teorici, politici e studiosi, della stabilità. La minaccia reciproca fra Usa e Urss, la pretesa necessità di mantenere l'equilibrio tra le due superpotenze, non hanno reso il mondo più pacifico e più ordinato. Sconfitti pure i fautori della Ostpolitik e della "distensione" con l'Unione Sovietica, che legittimando Mosca e i suoi satelliti come interlocutori, di fatto ne hanno prolungato l'esistenza, non contribuendo alla pace né a riconquistare diritti a chi li aveva persi.

Chi sono quindi i vincitori, quelli che hanno avuto ragione? Tra i politici Reagan, che ha lavorato per destabilizzare quell'equilibrio. E i teorici della «dottrina della pace democratica ("le democrazie non si fanno guerra tra loro") che hanno suggerito una politica di esportazione della democrazia nel mondo per far diminuire la violenza interna e internazionale. Ed anche i sostenitori della "pace capitalista"», secondo i quali la globalizzazione, con la necessità di privatizzazioni e libero mercato, avrebbe «favorito relazioni più pacifiche fra gli Stati».

«Alla fine del secolo più sanguinoso della storia umana, - conclude Magni - i dati rivelano che tutti coloro che erano stati bollati come "idealisti" (Immanuel Kant, Benjamin Constant, Frederic Bastiat, Norman Angell, Ayn Rand) erano più realisti di coloro che si dichiaravano tali. Però questa realtà ci viene celata e viene da pensare che ci sia tutto l'interesse nel farlo».

«Assaliti» da questa realtà sono anche i «neoconservatori», raccontati, da ultimo, anche da Fabio Cintolesi su Notizie Radicali, folgorato dal recente segretissimo incontro con Richard Perle all'Università di Firenze. L'articolo ha il merito di sintetizzare l'approccio "idealista" e al contempo "realista" dei neoconservatori, che li distingue dall'idealismo progressista che ripone in organizzazioni internazionali ormai screditate le sue speranze.
«Non contano i trattati o gli organismi internazionali, ma, detto molto sinteticamente, solo i rapporti di forza esistenti tra i vari attori internazionali. Ciò in quanto non c'è alcuna autorità internazionale che abbia il monopolio legittimo dell'uso della forza e che possa, quindi, sanzionare atti e comportamenti contrari al diritto internazionale comunemente riconosciuto. Va da sé che questo stato di cose impedisce al diritto internazionale di diventare un diritto a pieno titolo, e non una serie di norme ed enunciazioni di principio.

A questa analisi quasi brutale, però, seguono una serie di considerazioni prettamente idealiste. La stabilità basata sulla mera "balance" dei poteri è di per sé illusoria, affermano i neoconservatori, in quanto l'unica reale stabilità del panorama internazionale potrà affermarsi solo parallelamente all'affermazione di ordinamenti democratici in tutti i soggetti della cosiddetta comunità internazionale, in primis gli Stati. Questo assunto prende vigore da una convinzione, tutta kantiana, sulla naturale indisponibilità delle democrazie a farsi guerra. Di qui la necessità che la forza economica, politica e non ultima militare degli Stati Uniti, venga usata per quella che è considerata la missione storica dell'America, cioè quella di espandere la democrazie e le libertà americane nel mondo».

Libertà religiosa? No grazie, Pechino val bene una messa

La Santa Sede infastidita per l'interessamento di Bush per la libertà religiosa in CinaLa strategia di Bush è la libertà per tutti, quella del Vaticano il privilegio per sé

Un aiuto non richiesto né gradito. Sono percepite così in Vaticano le parole pronunciate da Bush in Cina per la libertà religiosa e affinché i vertici del regime incontrino il Papa, ma anche il Dalai Lama. Avrà dato fastidio l'accostamento con la guida spirituale tibetana? Non sia mai, dovesse Bush riuscire ad aprire qualche varco per la libertà religiosa di tutte le fedi, certo con la fastidiosa controindicazione di intralciare i piani a breve termine della Curia.

«L'ente morale più influente del mondo si comporta come qualsiasi viscida diplomazia europea, pronta a sacrificare i suoi principi per acquisire vantaggi nel breve periodo». Non potremmo trovare parole più adatte a quelle di Oggettivista.

«Per noi sarebbe stato meglio non ci fosse mai stata»; «Se andremo a Pechino non sarà certo sul cavallo americano», spiegano in Curia a bassa voce e con una certa irritazione. «Sicuramente le autorità cinesi non ci concederanno maggiore libertà religiosa perché a chiederla è stato Bush», l'«elefante in una cristalleria». Già dal '99 la Santa Sede, per bocca del segretario di Stato Sodano, si è detta pronta (e non fa che ripeterlo) a scaricare Taiwan per la normalizzazione dei rapporti con Pechino. E se oltre alla rottura con Taiwan la seconda condizione posta dalla Cina popolare è la non intromissione negli affari interni del Paese? No problem, si può fare lo stesso. Alcuni esponenti vaticani di alto livello, tra cui il cardinale Roger Etchegaray, hanno effettuato viaggi in Cina, ma la libertà religiosa non è mai stata all'ordine del giorno dei loro colloqui con le autorità cinesi.

Quando capiremo, da liberali, che dopo la fine del comunismo in Europa sono il liberalismo, l'individualismo, la società dei consumi, e non le dittature e i regimi totalitari, i nemici in cima alla lista del Vaticano, l'unico Stato teocratico nel cuore dell'Europa?

UPDATE: Neanche ai giornali italiani i discorsi di Bush vanno bene. Quando troppo, e quando troppo poco. Lucia Annunziata confeziona un bell'articolo per criticare la sinistra troppo tenera con la Cina. Cioè, calma, solo indirettamente. S'inventa prima una critica a Bush, poi può rimproverare alla sinistra di non aver criticato Bush che in questa occasione si sarebbe dimostrato troppo tenero con la Cina.
«Il metodo, divenuto abituale nelle relazioni di tutti i Paesi occidentali con la Cina, di flebili appelli al rispetto dei diritti umani mentre si fa man bassa di contratti, accordi commerciali, spartizione di petrolio, aperture di boutique e sfilate di moda».
«Flebile»? Le parole rivolte ai leader cinesi sono state troppo «flebili» e la sinistra avrebbe perso un'occasione - ha avuto il pudore, diremmo noi - di non averlo sottolineato. Sarà, ma a me l'appello di Bush in Cina tanto flebile non è sembrato. E ammesso che le sue parole fossero flebili, come definire quelle europee? Fantasmi. Io non ne ricordo affatto, né da Chirac, né da Ciampi. La predica della Annunziata potrebbe valere semmai per l'ipocrisia europea.

Il Foglio inquadra la situazione:
«Bush non ha bombardato Pechino, l'ha visitata... Non ha rotto i rapporti diplomatici e commerciali... non ha insultato la millenaria civiltà cinese... Si è limitato a fare quel che non fanno Chirac, Ciampi e le numerose delegazioni industriali che si recano in quel paese».
Anche per il Washington Post Bush sarebbe stato troppo «debole» . Non solo occorre ricordare, come fa 1972, che «nessun presidente prima di lui si era rivolto alla Cina con altrettanta franchezza», ma che certamente non lo fece Clinton, che alla Cina pensava come partner.

«Il discorso del presidente è azzeccato», dice invece lo studioso Ilan Berman a Il Foglio.
«Dovremmo certamente pressare di più i cinesi per ottenere maggiori libertà religiose e, certo senza passare per un'azione di sponsorizzazione da parte del governo americano di una religione in particolare, dovremmo limitare l'oppressione dei fedeli cinesi di tutte le religioni. La domanda, ed è una domanda che è destinata a restare a lungo nell'aria, è fino quanto siamo disposti a condizionare e rischiare altre cose, per esempio gli scambi commerciali, con la libertà religiosa in Cina. Per ora non ci siamo ancora veramente mossi. Ma se il collasso dell'Unione sovietica ci ha insegnato qualcosa è che se esiste un meccanismo che può cambiare il modo in cui un regime oppressivo tratta la sua popolazione è proprio creare spazio politico per le riforme e i cambiamenti interni. La libertà religiosa, di conseguenza, è un principio chiave da avanzare»

Internet ancora sotto attacco: vigiliamo

Il compromesso raggiunto al Summit di Tunisi sulla Società dell'Informazione, per l'istituzione di un Forum internazionale dove discutere tutti gli aspetti e gli sviluppi legati alla governance di Internet, rappresenta solo un «cessate-il-fuoco», ha scritto Pete Du Pont sul Wall Street Journal: «La guerra dell'Onu contro la libertà di Internet non è ancora finita».

Leggere nei documenti ufficiali che "i governi dovrebbero intervenire... per massimizzare i benefici economici e sociali e promuovere le priorità nazionali", che la gestione della Rete dovrebbe avvenire "nel rispetto per le diversità linguistiche e culturali", intendendo "contenuti appropriati" a queste diversità, non lascia presagire nulla di buono. Cos'è un "contenuto culturalmente appropriato"? «Se la vostra è una società libera, una rete dai contenuti liberi e non regolati è una buona cosa. Per le dittature e le società controllate dallo Stato è una catastrofe, perché permettere ai cittadini il libero accesso all'informazione mette quei governi a rischio. Se state nel mezzo, sotto governi socialisti come in Francia e Germania, il controllo dell'Onu è una buona cosa perché il controllo del governo è sempre meglio di quello dei mercati senza regole».

Anche per il Washington Post Internet è «a rischio». L'argomento dei critici dell'attuale sistema è l'unilateralismo Usa nella gestione della Rete, «ma solo in un mondo ideale potrebbe essere evitato». In «un mondo imperfetto» la soluzione unilaterale è l'unica possibile. Un sistema multilaterale rimarrebbe imprigionato nelle differenti visioni dei suoi membri: da una parte le dittature e i regimi autoritari che vogliono restringere l'accesso a Internet; dall'altra le società aperte che vogliono abbassare le barriere. Helle Dale, della Heritage Foundation, avverte che «dovremo mantenere ancora un occhio vigile sugli atti di questo Forum, ha il potenziale di provocare guai seri lungo la strada».

Un messaggio che non è caduto nel vuoto

Il governo cinese ha fatto di tutto per oscurare il messaggio e la presenza del presidente americano Bush in Cina. Un atteggiamento da non trascurare quello del regime, perché rappresenta un vistoso passo indietro rispetto alla precedente visita di Bush tre anni fa. Nel 2002 Bush parlò direttamente agli studenti cinesi e tenne una conferenza stampa con l'allora presidente Jiang Zemin. Entrambi gli eventi furono trasmessi in diretta dalla televisione nazionale. Questa volta, neanche una conferenza stampa congiunta. La notizia della visita è apparsa al più mettendo in luce come la Cina popolare collabori con gli Usa per l'«armonia» nel mondo. «Appena qualche trafiletto nelle pagine interne di giornali e servizi tv senza immagini dal vivo». Eppure, secondo il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice «sarebbe un errore sottovalutare l'abilità del popolo cinese nel conoscere cosa avviene dalle loro parti». Insomma, il messaggio di Bush per una «maggiore libertà» era per lo più rivolto al popolo cinese e c'è da ritenere che sia giunto a destinazione. Ancor di più di quanto avveniva nell'Europa dell'Est prima del crollo dei regimi comunisti. C'è internet, oltre al porta-a-porta.

Ora ci pensano le donne

Due commenti, oggi, segno che forse una no, ma due rondini fanno primavera. Se le donne si risvegliano dal torpore. Maria Laura Rodotà sul Corriere parla dello «scisma sommerso», ma della versione "rosa".
«Il tifo pro Papa, il vecchio e il nuovo, spesso convive con convinzioni private disapprovate da ambedue. Sul sesso, le unioni non benedette dalla Chiesa, e l'aborto. Tanti son tornati a messa, ma non cambiano stile di vita, per niente... Molte donne molto cattoliche (una minoranza in Italia ormai, comunque) non abortirebbero mai. Ma se interrogate rispondono che non cancellerebbero la legge 194, magari la modificherebbero, magari però non la considerano tanto una priorità; visto che (non avendo abortito) hanno tre figli, un mutuo, e scuole di zona che funzionano sempre peggio».
E poi lancia un messaggio alla classe politica. «E' triste essere date per scontate, o fa arrabbiare o deprime». Il centrodestra non dia troppo per scontato il consenso delle donne cattoliche alla sua politica neoclericale. E il centrosinistra non dia troppo per scontato il consenso delle donne laiche alla sua timidezza sui temi della bioetica.

Anche Chiara Saraceno, su La Stampa, è una non ci sta:
«Dietro alle iniziative scomposte di questi giorni non c'è tanto il rispetto per la vita, quanto il mancato rispetto per le donne: la loro capacità di decidere su di sé, di comportarsi come soggetti morali e raziocinanti. Come già nel dibattito sulla fecondazione assistita, ciò che sembra preoccupare è la libertà delle donne rispetto al proprio corpo, sessualità, capacità riproduttiva. C'è la nostalgia per un corpo femminile puramente contenitore...»

Monday, November 21, 2005

Appropriazione indebita di politica irachena

Siamo, dispiace dirlo, all'appropriazione indebita. Su chi si accoda a chi ha scritto splendidamente Ispirati.

Ora, rileggendo i post, ho capito il trucco dei gemelli. Sia chiaro, per sana polemica, con stima e simpatia. A ogni politica che si dimostra efficace, appongono il timbro di "realista". Dunque, il realista è quello che ci azzecca, a posteriori of course. Se vi piace ragionare così a me sta bene, ma sul piano dottrinario il significato di realista viene totalmente svuotato e il termine torna al suo significato lessicale: "Persona con uno spiccato senso della concretezza e della praticità, che si ispira, nel comportamento e nel giudizio, più ai fatti e all'esperienza che non ai principi astratti e alle illusioni".

E' chiaro che individuare la politica efficace ai propri obiettivi, con i mezzi e la situazione dati, è solo questione di competenza e abilità. I valori, le scuole di pensiero e le dottrine, tutte cose che fanno parte di ogni decisione politica e che non sempre si riducono a ideologie, entrano in gioco nell'individuare gli obiettivi.

Dal 2001, e ancora oggi, Bush ha imposto una svolta alla politica estera americana, individuando nella democrazia e non più nella stabilità il valore e l'obiettivo principale, a cominciare dal Medio Oriente. E non per filantropia, o perché degli "interessi" non frega più niente a nessuno, ma perché s'è persuaso che l'interesse supremo, quello vitale, la sicurezza, viene meglio tutelato non costruendo e protraendo una stabilità "amica", ma espandendo la democrazia e la libertà. Che questo avvenga per passi graduali, per approssimazioni successive, senza immolarsi sulle trincee nemiche in modo sconsiderato, non significa che la strategia cade in contraddizione.

Ora a me risulta che questa sia la premessa dell'approccio neoconservatore (proprio in polemica con i realisti), fatta propria da Bush tra mille difficoltà e resistenze, mentre il concetto e il valore della stabilità in sé è più caro ai cosiddetti realisti (che per me non sono tali perchè si illudono che una partita a risiko possa risolvere tutto), per intenderci quelli della scuola kissingeriana.

Sento parlare di insorti. Certo, se ci sono insorti, cioè i sunniti che sentendosi esclusi dai giochi vogliono rientrarvi per tutelare i loro interessi, una politica di pacificazione nazionale è semplicemente una politica efficace e pragmatica a cui nessun "ideologo" neocon si opporrebbe e si è mai opposto. Ma non si tratta di una politica realista nel senso dottrinario del termine. Se l'obiettivo in Iraq rimane, come mi pare, la democrazia irachena (e con l'ambizione di avviare un effetto domino in Medio Oriente) non siamo nel contesto di una politica realista. Dunque chi si accoda a chi? Se mi si dice invece che l'obiettivo in Iraq non è più la democrazia, ma per esempio farsi amico un uomo forte a Baghdad e dargli le armi per stabilizzare il paese, o per esempio negoziare coi paesi confinanti (prendi Siria e Iran) una exit strategy onorevole, allora sarebbe certo una politica realista.

Il problema è capire lo scopo politico dei gruppi terroristici. Si tratta di sunniti che cercano di recuperare potere? Ne vogliono un po' per tutelare i loro interessi? Bene, rientrino nel processo politico. Lo rivogliono tutto? Male, vanno combattuti. Ma a me pare che l'approccio "oh, meno male, hanno capito i loro errori e ora tornano sui propri passi reintegrando i sunniti così la guerriglia finirà" non sia né realista né idealista, ma solo riduttivo. Se pensiamo che in Iraq il problema sia prevalementemente l'insorgenza sunnita, allora la chiave per spiegare tutto diventano gli errori politici del dopoguerra. Io invece ritengo che quello dell'insorgenza sunnita sia un aspetto tutto sommato marginale, certo da risolvere correggendo gli eventuali errori, ma che la chiave per spiegare quello che avviene sia una vera e propria guerra regionale che non ha rivendicazioni politiche trattabili come obiettivi. La fazione di Al Qaeda guidata da Al Zarqawi, e alcuni irriducibili baathisti, hanno tutta l'intenzione di proseguire la loro guerra terroristica qualsiasi cosa avvenga. Non c'è miglior toppa agli errori passati o trattativa che tenga. E penso che lo stesso discorso vada fatto per Iran e Siria che hanno in questa guerra regionale un ruolo fondamentale. Questo è il vero nodo e gli eventuali errori del dopoguerra appaiono marginali, anche se non per questo da trascurare.

Questa guerra regionale sarà vinta solo quando la democrazia attecchirà in Medio Oriente, a cominciare da quando cadranno Iran e Siria. E' possibile che accada senza interventi militari, ma occorre mettere in campo con determinazione e fermezza politiche coerenti, non calcoli geopolitici.

Sunday, November 20, 2005

Anche con Pechino la democrazia è l'unica politica realista

Pechino. E' il giorno degli incontri ufficiali con i vertici della Repubblica popolare cinese e il presidente Bush cosa ti fa? Va a messa di buon mattino. Anche così si difende e si afferma la libertà religiosa in quella Cina messa all'indice dal Dipartimento di Stato tra i paesi che non la rispettano. Un gesto altamente simbolico rivolto ai vertici del regime e ricambiato dall'accoglienza entusiasta e spontanea dei cinesi presenti alla funzione nella chiesa di Gangwashi, una delle cinque chiese protestanti della capitale. «Spero che il governo cinese non abbia paura di cristiani che si riuniscono per pregare», ha detto Bush, aggiungendo che «una società sana è una società che accoglie tutte le fedi e dà alla gente la possibilità di esprimersi nella preghiera dell'Onnipotente».

Il presidente e la first lady Laura hanno quindi ringraziato il pastore della Chiesa, il reverendo Du Fengying, una donna, per l'ospitalità. E sul registro degli ospiti Bush ha scritto: «Dio benedica i cristiani di Cina». Il sermone si basava su una lettera di Paolo ai Corinzi ed elaborava l'interrogativo "Che cos'è l'amore?". «Tolleranza, fiducia, perseveranza». Sui diritti umani e la libertà religiosa, il reverendo Du sapeva di parlare a un intelocutore ricettivo: «Dobbiamo perseverare fino alla vittoria finale».

Alle 08.30 l'essenziale politico della giornata sembrava già compiuto. E invece no. I diritti umani saranno oggetto di «un dialogo permanente» con Pechino, ha spiegato separatamente ai giornalisti il segretario di Stato Condoleezza Rice. «Abbiamo affrontato l'argomento con il governo cinese e l'affronteremo ancora con forza» in futuro. Gli Stati Uniti hanno manifestato la loro «inquietudine» per la sorte dei dissidenti, e intendono farlo ancora, «facendosi sentire». I progressi della Cina nel rispetto dei diritti dell'uomo «non sono rapidi come avremmo sperato». La Rice ha voluto far notare che però la risposta dell'attuale leadership cinese non è stata "badi ai fatti suoi" quando Bush ha toccato il problema del rispetto dei diritti dell'uomo e della democrazia.

Nel colloquio con il leader cinese Hu Jintao, gli impegni generici, le "buone" relazioni ostentate, la riforma monetaria per la flessibilità dello yuan, le relazioni commerciali e il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, la questione Taiwan. Non è mancato nulla del repertorio classico degli incontri ufficiali, ma Bush è andato molto oltre la provocazione d'inizio giornata. Ha chiesto esplicitamente al governo cinese di espandere la libertà politica, sociale e religiosa dei suoi cittadini, spunti non raccolti da Hu in pubblico, e persino di incontrare il Dalai Lama (Leggi).

Al termine dell'incontro separato con i giornalisti, dopo le dichiarazioni congiunte con Hu Jintao, il presidente ne ha combinata una delle sue. Uscendo dalla stanza ha sbagliato porta e se n'è trovata di fronte una chiusa, che ha cercato inutilmente di aprire tirando e spingendo. «Stavo cercando di scappare, ma non ha funzionato», ha commentato arrendendosi.

Dunque, la politica dell'amministrazione Bush sulla Cina sembra proprio quella descritta ieri dal Wall Street Journal, di cui avevamo parlato in questo post.

Il significato politico della visita di Bush è davvero un appello all'apertura democratica della società cinese. C'è la presa d'atto che 1) una Cina non democratica rappresenta una minaccia; 2) «le riforme economiche non portano necessariamente la democrazia»; 3) «non c'è nessuna speranza che la Cina si democratizzi da sola». Quindi, «anche in questo caso l'approccio più pragmatico, cioè affrontare il problema, sembra coincidere con la spinta a promuovere una società democratica». Alla faccia dei realisti che sempre più anche in TocqueVille pretendono di descriverci e prescriverci una politica estera in termini esclusivamente geopolitici. Dai loro "scenari", dalle loro pretese necessità, scompaiono le condizioni umane dei cinesi, degli iraniani, eccetera. Per fortuna, il valore politico assunto dalla visita di Bush in Cina grazie alle le sue parole e ai suoi gesti dimostra che forse a Washington la pensano diversamente. Non per filantropia, si badi, ma per la semplice constatazione che le minacce alla pace e alla nostra sicurezza derivano ormai da quelle parti nel mondo in cui ancora mancano democrazia e rispetto dei diritti umani. Non si sfugge.

Saturday, November 19, 2005

Bush ci fa aprire gli occhi sulla Cina

Mi sembra che l'editoriale di oggi sul Wall Street Journal riassuma in modo esauriente e preciso la strategia di Bush con la Cina. Gli Stati Uniti curano una nuova coalizione di volenterosi in Asia. Nessuna nuova Guerra Fredda, ma si tratta di rassicurare e organizzare gli alleati per contenere le ambizioni cinesi di divenire egemone nella regione. Occorre chiarire a Pechino che gli Stati Uniti hanno amici molto vicini nella regione e che non rinunciano a tutelare i propri interessi. Le parole pronunciate da Bush all'indirizzo della Cina da Kyoto (tradotte su Il Foglio), completano la strategia, indicando a Pechino la via da seguire per far cadere i sospetti dell'America, dei paesi asiatici e del resto della comunità internazionale.

«Noi incoraggiamo la Cina a continuare per la strada delle riforme e dell'apertura - perché quanto più la Cina sarà libera al suo interno, tanto più sarà benvenuta all'estero». Con questo facendo capire che tutti gli occhi degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Asia sono puntati su di essa. «Al crescere della prosperità del popolo della Cina, cresceranno anche le domande di libertà politica. Venendo incontro a quelle legittime domande dei suoi cittadini per libertà e apertura, i leader della Cina possono aiutare il loro paese a divenire una nazione moderna, prospera e sicura». Il messaggio è stato lanciato in modo esplicito alla Cina, con il mondo testimone:
Non guadagnerà la fiducia del mondo finché non farà i passi necessari a garantire ai suoi cittadini i loro diritti alla libera espressione e alla tutela della legge. La Cina sta reclamando in modo pressante il suo status di grande potenza, ma non sarà accettata dalle democrazie del mondo finché non farà riforme democratiche. Bush ha voluto chiaramente sottolineare che l'Asia ha solide democrazie che sono più inclini a stare dalla parte degli Stati Uniti che dalla parte della Cina in ogni confronto.
Anche se forse il titolo eccede in enfasi («Mister Hu, butta giù quella Muraglia»), l'articolo di Christian Rocca su Il Foglio spiega bene che quello di Bush è stato un «appello alla libertà del popolo cinese, all'apertura democratica della sua società e al modello di "Free China" rappresentato da Taiwan». Il passaggio in cui Bush loda lo sviluppo economico e democratico di Taiwan è senz'altro uno schiaffo in faccia a Pechino. E nel riferimento alla «free and democratic Chinese society» Bush senz'altro ha voluto intendere, come dice 1972, che «non esiste un'eccezione cinese». Eppure, definendo Taiwan una Chinese society ha utilizzato comunque un'espressione molto diplomatica, considerando quanto Pechino tiene a ribadire che Taiwan è Cina a tutti gli effetti.

Emerge con sempre maggiore evidenza quanto la fiducia riposta dai clintoniani nell'automatismo aperture economiche-riforme democratiche si stia rivelando sempre più un'illusione. Oggi «le relazioni sino-americane non sono né costruttive né cooperative né franche e si ha la prova che le riforme economiche non portano necessariamente la democrazia, non sono condizioni sufficienti per ottenere un miglioramento dei diritti politici e civili». Anzi, si registra un «peggioramento», con «situazioni molto critiche sul fronte della libertà religiosa e di espressione, sui diritti dei lavoratori, sulla pianificazione familiare, sullo stato di diritto e sulla società civile». In America sono sempre più persuasi che «non c'è nessuna speranza che la Cina si democratizzi da sola, senza la pressione morale e l'incoraggiamento tecnico delle democrazie mondiali».

Come sempre Rocca descrive con estrema chiarezza il dibattito che si svolge a Washington: da una parte «chi sostiene che rinviare la presa d'atto della minaccia cinese sia un errore», dall'altra «chi, come i clintoniani e i kissingeriani, crede sia meglio aiutarne la crescita e provare a farseli amici. Bush si barcamena, ma anche in questo caso l'approccio più pragmatico, cioè affrontare il problema, sembra coincidere con la spinta a promuovere una società democratica».

Il nodo di Taiwan verrebbe al pettine con un Anschluss degli anni duemila, ma il mix esplosivo che si sta preparando in Cina è fatto di sviluppo economico, nazionalismo, riarmo e imminente ingresso delle masse in politica. Nel secolo scorso un mix simile degenerò nel cuore dell'Europa. Sarà decisivo l'ultimo fattore: le masse faranno il loro ingresso in un sistema politico ideologico e nazionalista o minimamente aperto e democratico? Promuovere una società democratica in Cina non vuol dire minacciare di dichiararle guerra, ma mettere fin d'ora in campo politiche coerenti con l'obiettivo, senza illudersi che tutto verrà da sé.

La vera «utopia» oggi, sottolinea André Glucksmann a Il Foglio, «sta nella vecchia posizione del governo americano e in quella attuale dell'Unione Europea»: che poco importano i diritti umani, «quello che conta in Cina è la modernizzazione che col tempo porterà allo svilluppo della libertà». Finora ha prodotto solo schiavismo, di contadini e operai.

Il contributo dell'analisi di Glucksmann sta nel rivelare l'eccezionalismo del fenomeno cinese, non paragonabile ad altri casi in cui la liberalizzazione economica e lo sviluppo hanno portato anche le riforme democratiche. In Cina non è detto che avvenga e l'attuale leadership non è intenzionata a intraprendere questa strada. Sa che un'altra via, quella attuale, è percorribile. La via di un sistema che sa combinare una struttura schiavistica con i vantaggi della scienza e della tecnologia moderna e della finanza internazionale. Tutto questo messo al servizio dell'ideologia intrinsecamente nazionalista e militarista delle classi dirigenti cinesi.
«E' riuscita a essere uno Stato ipertecnologico, iperscientifico, ipermoderno, in grado di regolare perfettamente i flussi finanziari, rimanendo al tempo stesso uno Stato schiavistico di tipo faraonico. Da un lato, i grattacieli di Shangai salgono fino al cielo dall'altro i contadini che si sfiniscono a costruirli se solo osano mettersi a lottare vengono subito rispediti nelle loro province. Vivono senza diritti e nella miseria, in una condizione medievale, anzi da impero egizio dei faraoni, perché nel Medio Evo, malgrado tutto, esistevano restrizioni cristiane al martirio dei senza grado».
Sbagliato quindi ragionare secondo gli schemi del '900.
«Non possiamo lasciare sviluppare uno Stato faraonico con tutte le risorse di scienza, tecnica e finanza, senza allertare l'opinione mondiale... Meglio dire la verità».

403 buoni motivi

Cosa accadrebbe se le truppe americane si ritirassero ora dall'Iraq lo spiegano bene Robert Kagan e William Kristol, sul Weekly Standard al rappresentante repubblicano Jack Murtha. Bene hanno fatto i repubblicani a presentare subito la risoluzione per il ritiro senza tirarla per le lunghe e scoprendo così il bluff dei democratici: Il Congresso è unito, quasi all'unanimità (403 contro 3) ritiene che non è ancora il momento di lasciare gli iracheni. Anche Murtha, il più critico sulla presenza in Iraq, ha votato contro.

L'esito di questo voto dovrebbe dire molte cose anche alla politica italiana: 403 contro 3.
In 1946, George Orwell remarked that «the quickest way of ending a war is to lose it, and if one finds the prospect of a long war intolerable, it is natural to disbelieve in the possibility of victory.» Victory is in fact possible, though it will require a longer war than anyone would like, but not so long a war as to be intolerable.